domenica 31 gennaio 2010

Il vincitore

Un campo di calci


Quando entrai nel campo sportivo così piatto e liscio d’erba rasata, forse appena troppo alta ai margini, ma rada e quasi inesistente nelle zone più calpestate, mi parve subito troppo grande per me, per quei miei piedi piccoli, serrati nelle scarpe troppo nuove, da calcio, appena comperate per l’occasione, soltanto un numero più grandi in considerazione della mia crescita veloce. Gli altri ragazzi correvano, scaldavano i muscoli, ognuno nel suo gruppo contraddistinto da un colore di maglietta, e soffiavano forte l’aria del pomeriggio autunnale, umido, mentre qualcuno qua e là rideva forte, parlando a voce alta di qualcosa. Avrei voluto andarmene subito, ma capivo che sarebbe stato peggio. L’allenatore disse qualcosa con le mani, e noi, i più piccoli di tutti, iniziammo a correre lentamente, lungo la striscia bianca. Ero minuto e fragile di corporatura, un po’ di sport mi avrebbe fatto bene, dicevano i miei, ma io mi sentivo ancora più piccolo e fragile in quella situazione; sentivo la fronte imperlarsi di sudore e anch’io sbuffavo aria come tutti, ma con un senso di fastidio crescente. Mio padre, assieme ad altra gente, sicuramente mi stava osservando fuori dalla recinzione del campo sportivo, anche se non riuscivo ad individuarlo, e probabilmente si sentiva orgoglioso di me, dei miei progressi, come li chiamava lui, e del mio farmi grande. Poi arrivarono i palloni e tutti iniziarono a scambiarsi grandi passaggi con vistose destrezze di piede. Io mi misi assieme ad un altro che conoscevo, e mentre lui si allontanava arretrando per permettermi di fargli un passaggio, calciai il pallone in malo modo, con molta più forza di ciò che sarebbe servita, proiettandolo verso altri ragazzi lontano. Continuai così per un po’, senza neppure ottenere migliori risultati, ma divertendomi a calciare delle pallonate esagerate, e a stare tanto distante dall’altro da dovergli urlare, fino a quando l’allenatore ci fermò, in malo modo. Mi piaceva aver fatto subito qualcosa di diverso da tutti, era un po’ come aver detto a voce alta che quel gioco era una sciocchezza, e chi ci credeva era un tonto. Poi venne intavolata una partita vera e propria, mescolando dentro alle due squadre elementi di ogni colore di maglietta. Terzino destro fu il ruolo a cui fui assegnato, e dopo il fischio mi parve tutto divertente visto che si limitavano tutti a piccole scaramucce al centrocampo dalle quali risultavo praticamente estraneo. Fu solo quando in due vennero correndo forte verso di me che tutto mi parve sprofondare. Feci il possibile, mirando il pallone che si muoveva troppo rapidamente tra quei piedi scalcianti e veloci, e mi difesi in qualche modo da quei corpi sudati smanettanti e sgradevoli, ma finii a terra quasi subito con una forte sensazione di dolore frammisto al sapore forte della terra umida. Si andò avanti per parecchio tempo alla stessa maniera, e tutta quella faccenda di correre dietro ad una palla sfuggente mi pareva sempre più idiota, fino a che, liberatoriamente, l’allenatore fischiò che era ora di smetterla e di andare agli spogliatoi. Uscii lentamente dal campo, con sollievo, mentre gli altri ragazzi urlavano tra loro cose incomprensibili continuando a farsi degli scherzi e correndo avanti e indietro, quasi a mostrare che avrebbero potuto continuare a giocare per ore senza neanche durare fatica. Negli spogliatoi arrivai tra gli ultimi, e la puzza di sudore era fortissima. Gli scherzi e le risate erano continue, e i più violenti e aggressivi si schizzavano, nudi come vermi, sotto alle docce fumanti e rumorose. Naturalmente mi limitai al cambio delle scarpe, che riposi in una piccola sacca azzurra che avevo lasciata appesa ad un attaccapanni, e senza salutare nessuno uscii per primo e me ne andai. Ovviamente non tornai mai più in quel campo di gioco e in quegli spogliatoi, ma lo strascico della vicenda fu lungo e doloroso. Mio padre conosceva l’allenatore, ed ambedue incontrandosi qualche volta nei giorni seguenti e ancora dopo, avevano continuato ad insistere, cercando soluzioni alla mia timidezza per farmi continuare con quegli allenamenti. Alla scuola elementare, già la settimana successiva, qualcuno aveva notato che non ero andato alla lezione di calcio, e più che domandarmene il motivo mi era stata fatta qualche battuta frizzante. Capivo bene che chi rifiutava come me un‘opportunità di quel genere, e cioè imparare lo sport nazionale, doveva essere deficiente o pressappoco, così non mi rimase altro che fortificarmi su un comportamento da “diverso da tutti”, come diceva adesso anche mio padre, e cercare di interessarmi di cose strampalate. Abolii le figurine dei giocatori di calcio pur continuando a piacermi come prima, e smisi del tutto di dichiararmi tifoso di una qualche squadra, cosa praticamente impensabile in quegli anni; e quando mio padre una domenica mi portò a vedere una partita di pallone nel solito campo degli allenamenti dove giocava la squadra del paese, io mi limitai a cogliere un mazzolino di fiori di campo che crescevano spontaneamente ai margini dello spiazzo, e fui contento solo quando l’arbitro fischiò la fine e si andò via.

Bruno Magnolfi

giovedì 21 gennaio 2010

Solitudine

Senza pretese


Senza pretese

Angelica da sola camminava lungo la strada rischiarata dai lampioni installati sul marciapiede. Pareva non ci fosse nessuno in giro a quell’ora, forse il freddo pungente di quella serata aveva richiamato tutti dentro alle case o nei caffè. Due fidanzati, più indietro, si erano baciati, mentre passava, poi ridendo erano entrati dentro a un portone. L’uomo all’angolo l’aveva osservata, aveva detto qualcosa con voce appena percettibile, senza cambiare espressione, e lei aveva sorriso, senza guardarlo. Infine, poco più avanti, c’era il locale dove Angelica era diretta, con tanto di insegna intermittente e luci gialle fuori dai vetri della porta d’ingresso, insieme alla scia di un interno di voci e di musica che si riversava fin sulla strada. Un posto senza pretese, poco più di una birreria, ma lei ci cantava là dentro, in genere due volte la settimana, accompagnata da un chitarrista, direttamente in mezzo alle sedie e tra i tavoli, come si faceva una volta. Le canzoni erano sue, le componeva al mattino, nella sua stanza, e forse erano un po’ malinconiche, quasi tristi, ed era difficile ottenere il silenzio e cantarne di fila più di due o tre. Ogni sera trovava qualcuno con apprezzamenti sfacciati, che diceva che lei era bravissima e li faceva sognare, ma Angelica era pratica, sapeva che gli argomenti di quelle canzoni non l’avrebbero mai portata fuori da lì, per quanto quelle cinquanta persone che aspettavano ogni volta la sua esibizione rimanessero sempre contente. Ci metteva l’anima dentro a quei testi, solo lei riusciva a interpretarli nella maniera migliore, o almeno di questo era convinta, era questione di sentire le parole dentro di sé, forse di sensibilità. Chi veniva spesso dentro al locale le canzoni più orecchiabili le aveva imparate, ma nessuno si era mai permesso di cantarle con lei: la sua voce era unica, e sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di leggermente diverso, che metteva in risalto ora una parola, ora una frase. Ma in quella sera più fredda di altre, qualcuno, senza sillabare alcunché, ad un tratto aveva iniziato a giocare con un controcanto leggero sotto ad una delle sue canzoni migliori, intonando perfettamente la musica con un risultato notevole. Era partito un applauso spontaneo ma subito trattenuto, ed il ragazzo si era sentito costretto ad alzarsi dal tavolo e avvicinarsi. Angelica lo aveva guardato solo un momento, e avevano terminato quella canzone cantandola insieme in quella maniera, poi, alla fine, tutto quel pubblico era parso in delirio. Allora avevano fatto un’interruzione, e lui si era presentato e scusato per essersi permesso di darle una mano in quel modo con quella canzone. Era un cantante anche lui, di un gruppo rock abbastanza famoso, disse che gli sarebbe piaciuto collaborare con lei, con Angelica, le sue canzoni le trovava straordinarie, magari, se lei era d’accordo, avrebbero potuto cantare assieme un paio dei suoi pezzi al prossimo concerto della sua band, la settimana seguente, e lei gli sorrise, come sempre faceva quando non sapeva che dire. Poi si sedettero e brindarono a quella serata, e Angelica quasi si commosse: le pareva impossibile che qualcuno l’avesse notata, che avesse ascoltato davvero i suoi testi; forse era già quello il miracolo vero, quello più grande, che in una serata qualsiasi, solo più fredda di altre, era riuscito a scaldare anche le cose di sempre.

Bruno Magnolfi

domenica 17 gennaio 2010

Forse ora .O forse mai

l'uomo di potere

La favola dei libri

Il ragazzo e la strada

Le giostre andavano avanti come sempre avevano fatto. C’era stato un periodo di crisi negli ultimi due anni, ma con qualche rinnovamento alle attrezzature le cose adesso sembravano avere ripreso. La vita dietro alle quinte del mio Luna Park era sempre la stessa. Si viveva con la gente, in mezzo alla gente, si cercava ogni giorno di capirne le voglie, di interpretarne le idee, di immedesimarsi nel bisogno di tutti di tornare bambini. Quel ragazzo era arrivato dal nulla, aveva chiesto se poteva lavorare con noi, ed io gli avevo risposto che si poteva fare un periodo di prova. Era sveglio, imparava le cose alla svelta, sembrava non avere un passato; e poi parlava poco ed era italiano, l’ingrediente più strano di tutti. “Ehi, ragazzo”, a volte dicevo; e lui scattava in piedi e faceva subito quello che gli si chiedeva di fare. Al mattino si faceva la manutenzione ai meccanismi, e lui con le mani piene di grasso faceva la sua bella figura, perché si vedeva che aveva fatto il meccanico, e se ne intendeva di ferri e motori. Altro non si riusciva a strappargli di bocca: certo, in galera non c’era mai stato, questo lo avevo saputo da subito, e poi non sembrava uno che scappasse da qualcosa o qualcuno, piuttosto era come se avesse di dentro una febbre, un ingrediente diverso da tutti, che ne faceva quasi un estraneo, uno che non sarebbe mai stato dei nostri, neanche fossero passati cent’anni. Per il pomeriggio, quando le giostre erano in funzione, gli avevo trovato un compito di tutto rispetto, e lui lo svolgeva senza distrarsi, con tutto l’impegno che ci voleva. A volte era simpatico, aveva quasi l’età dei miei tre figlioli, ma era migliore di loro, mi sarebbe piaciuto che si fosse fermato con noi ad insegnarci qualcosa nelle serate di magra, quando c’era più tempo per parlare e ascoltarci. Invece, com’era arrivato, andò via. Mi incontrò quasi per caso, tra i corridoi che formavano i baracconi del tiro al bersaglio, e mi disse soltanto: “devo smettere, vado a raggiungere un amico”, non ricordo più in quale città. Non era vero niente, naturalmente, ed io pur lisciandomi i baffi quanto potevo, non riuscivo per nulla a capire perché andava via proprio adesso, ora che aveva imparato quel che c’era da sapere, che si era guadagnato il rispetto di tutti, che qualcuno, quasi senza saperlo, aveva iniziato a volergli anche bene. Probabilmente la sua strada era quella, lui lo sapeva, aveva qualcosa di dentro che lo trascinava da qualche parte, qualcosa che non avrebbe mai rivelato a nessuno. Gli detti i suoi soldi, anche qualcosa di più, lo abbracciai, come si fa sempre tra noi, e non gli chiesi più niente, era inutile; e invece lui disse che mi avrebbe spedito una lettera. Non ci credetti, naturalmente, ma dopo un po’ iniziai a chiedere, a volte, se era arrivata posta per me, come se ci sperassi davvero. Non mi passava di mente, speravo che dopo un periodo di tempo ritornasse da noi, che riprendesse a lavorare alle giostre. Dopo un anno invece arrivò la sua lettera. Poche righe, un solo foglio piegato, lo lessi d’un fiato e non capii niente, così lo rilessi da capo. Non diceva un bel niente, non chiedeva un bel niente, però tra le righe si capiva che era lui che scriveva, che mi voleva dare qualcosa di sé. Rilessi di nuovo tutto da capo, e infine capii. Parlava di un sogno che aveva sempre avuto, ma neanche lui sapeva cos’era. Diceva di un percorso che aveva iniziato, tutto dentro ai suoi sentimenti, alla sua testa. “Forse sono un po’ matto”, spiegava; “però devo seguire la strada che sento, non sarei una persona se non facessi così”. Poi passava ai saluti, e mi diceva che era contento di avermi conosciuto, perché gli avevo dato molto di più di quello che io avevo creduto di dargli; e poi concludeva: "non preoccuparti per me, le risposte ad ogni domanda che ti poni sono li, sopra ai tuoi baffi..."

Racconto di Bruno Magnolfi - illustrazione di Tesoro Giulia.