venerdì 26 febbraio 2010

Niente sarà più come prima

Per anni ho continuato a scrivere poesie, e ancora ne ho voglia. Ma io non voglio dire ciò che dicono le parole. Cioè, non voglio dire solo quello: si tratta di lasciare che qualcos’altro scorra in mezzo alle frasi. La costruzione del pensiero spesso avviene in maniera autonoma: certo, è necessario uno strato minimo di concentrazione su qualcosa, come un canovaccio da seguire, ma il resto a volte può prendere vita autonoma e snodarsi lentamente dipanando un proprio senso in maniera indipendente da tutto, indifferente al pensiero iniziale o ai progetti elaborati. Il senso che ne scaturisce può sorprendere, ma va a collegarsi in modo stretto con ciò che abbiamo dentro, quello che non riusciamo a spiegare neanche a noi stessi. Si possono utilizzare altre buone parole per spiegare ciò che ha origine in questo modo: intuizione, creatività, fantasia, ma non è questo il senso. C’è qualcosa che non sappiamo e che certe volte fuoriesce da noi, che lo vogliamo o meno. Il controllo sul mondo è solo un bisogno, la verità è che i significati più importanti ci sfuggono. Come quando si pensa al proprio corpo e ci pare impossibile che possa resistere a tutti i maltrattamenti a cui lo sottoponiamo. E soprattutto, lui vive, cresce, si muove, indipendentemente dalla nostra volontà, quasi facendoci rabbia, certe volte. Poi, l’improvvisa sensazione che si stia aprendo uno squarcio all’interno del nostro organismo si fa avanti: come una parte del corpo che all’improvviso smetta di funzionare e si rompa, e un’emorragia di sangue e tessuti molli invada ogni interstizio dentro di noi, e che tutto all’improvviso si offuschi perché privato del complesso sistema che coordina tutto l’insieme; ecco, la paura che tutto ciò avvenga, adesso, in questo preciso momento, ci paralizza. Ci paralizza in piedi, fermi in una posizione non di riposo, l’unica in cui abbiamo quasi tutti i muscoli tesi, e siamo certi di non provare dolore, siamo convinti di poter ancora resistere; l’immobilità e la solitudine sono le uniche cose che ci permettono di credere di poter ancora essere come eravamo, come siamo sempre stati, e di non cedere al nostro umano sconvolgimento, lasciarci convinti che ancora siamo, viviamo, possiamo permetterci di stare ancora bene. Nessuno ci ha visti, nessuno è a conoscenza di quello che stiamo provando, quindi ciò che accade non è proprio vero, è solo una nostra costruzione mentale: un piccolo sforzo e tutto è passato, possiamo aspirare ancora a muoverci, pensare, scrivere poesie, anche se forse abbiamo perso un po’ di quel senso di invulnerabilità che ci sosteneva e ci lasciava strafottenti, egoisti, pieni di noi. I minuti passano, la strana rivoluzione dentro di noi è ancora lì, ci preoccupa sempre di più. Allora guardiamo attorno, cerchiamo negli altri l’aiuto necessario, quel sostegno di cui, fino soltanto a un momento prima, eravamo sicuri di poter fare a meno. Adesso ci serve, cerchiamo qualcuno, attiriamo l’attenzione con una smorfia, un’espressione di dolore, uno sguardo pietoso, un grido. Ci soccorrono, due, cinque, dieci persone si fermano, osservano in noi ciò che non vorrebbero mai accadesse anche a loro, ci parlano addosso, ci fanno domande, si informano su noi, chi siamo, cosa siamo, e infine riassumono in una sola espressione: siamo un corpo, un corpo qualsiasi, malato di chissà cosa, possiamo essere lasciati in mano ai professionisti, persone che si occupano solo di quello, non importa se la nostra era solo sofferenza di vita, dolore esistenziale, malattia da incomprensione. C’è una cura per tutto, non dobbiamo preoccuparci. Così possiamo rassegnarci ad essere, e basta. Penso questo e mi giro nel letto, nel buio della mia stanza fredda e silenziosa di una notte qualsiasi. Adesso ho capito, niente sarà più uguale per me, da domani.

Bruno Magnolfi

mercoledì 10 febbraio 2010

Studenti fuori sede.( Testo di Bruno Magnolfi)


Certe volte si passeggiava a caso, senza uno scopo. Si andava incontro a qualcosa del quale non si era certi di voler davvero conoscere, ma di cui senza dubbio eravamo curiosi. Quasi ci perdevamo, ogni volta, attorno alla descrizione di un minuto dettaglio, o rapiti dalla invadenza di un particolare che funzionava da fulcro. Si piangeva ridendo, dentro noi stessi, pensando e immaginando la storia che aveva consumato le strade, le case, le facce, le espressioni di persone che a mani nude avevano plasmato le idee. Ci meravigliavamo di tutto, quasi sempre, e ci sentivamo migliori ogni volta che le parole soffuse parevano adatte a descrivere le nostre emozioni. Poi si trovava migliori anche coloro che al bar della stazione ci servivano un caffè impersonale, che dentro a luci al neon spietate continuavano con il proprio lavoro nelle tarde ore serali come se tutto fosse ordinario, consueto, niente che sostituisse la norma. Ci salutavamo a notte inoltrata, quando tutto tendeva al silenzio, con la certezza di proseguire ogni gesto, ogni pensiero, ogni emozione, bastava ritrovare la sera giusta, e ritornare ancora a passeggiare a caso, senza uno scopo. Poi arrivavano le giornate peggiori, quelle che ci facevano sentire incapaci, inconcludenti, inutili per gli altri e persino a noi stessi. Allora ci si rimboccava le maniche, ci facevamo forza sul filo di qualche telefonata e si cominciava a far girare il cervello; si ritornava in facoltà, si prendevano appunti su orari, lezioni, assistenti, si prendevano in prestito i libri in biblioteca o si trovava da qualcuno le benedette dispense, poi lo studio stritolava ogni altro pensiero. Non erano gli esami a spingerci avanti, era quel benedetto senso di colpa, quell’incapacità latente che avevamo di costruire il futuro sulla base di elementi riconosciuti dagli altri, che non fossero soltanto un’accozzaglia di sogni e fantasie che non avrebbero mai trovato seguito, per i quali forse ci torturavamo inutilmente. Una ragazza mi disse: “Sei qui per sostenere l’esame?”; ed io, che non avevo neanche un vestito decente e i miei capelli erano sicuramente in disordine, risposi soltanto: “No, sono l’assistente, ho solo fatto un po’ tardi…”.Bruno Magnolfi.

Senza parole..


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Rivoluzione Creativa


Rivoluzione Creativa nasce per fare convergere artisti, scrittori, poeti, musicisti, fotografi e saltimbanchi di qualsiasi espressione del corpo e della mente, che fanno quello che fanno solamente perché lo amano. Per fare parte questo gruppo bisogna distaccarsi dalle regole di mercato e di percezione dell’arte come le abbiamo intese fino ad ora. I cambiamenti tecnologici hanno sempre stravolto il pensiero delle società, e oggi è in corso un grande cambiamento. C’e una battaglia ideologica che si sta combattendo in questi anni, anche se i media ne parlano unilateralmente. La cultura del file-sharing, se non verrà bandita dalle leggi che si moltiplicano ogni giorno, trasformerà la percezione del prodotto mediatico. Se nessuno pagherà più un centesimo per godere di un’opera, non sarà la fine delle correnti creative anzi, sarà l’inizio di una grande rivoluzione artistica. Cadranno i miti, i simboli di facciata costruiti dalle industrie dell’intrattenimento, e con tutta probabilità (in realtà sta già succedendo), il ciclo di fruizione dell’opera sottostarà a nuovi modi. Diventeremo fan di noi stessi, oppure dei nostri amici, o delle persone che faranno parte della nostra community. Questa decentralizzazione dell’immagine potrà fomentare nuove correnti, migliaia di nuove correnti, e si riscoprirà il vero significato dell’arte, che è fine al creare. Il processo creativo é terapeutico. Gli altri potranno attingere da noi, copiare, stravolgere, riscrivere la storia cento altre volte. Slegati dalle catene del mercato, liberi dal cerchio che imprigiona la grande “C” del copyright, saremo finalmente liberi di conoscere noi stessi e non temeremo più di farci conoscere agli altri.
La community italiana di artisti, scrittori, poeti, musicisti, fotografi e saltimbanchi di qualsiasi espressione del corpo e della mente. G.M.Willo.

domenica 7 febbraio 2010

Pomeriggio da disperati


La mamma li aveva lasciati nel giardino di casa a giocare; era dovuta uscire per un impegno improvviso, “Una mezz’ora, un’ora al massimo”, aveva detto, e si era raccomandata più di una volta specialmente con Teresa, la figlia più grande che aveva già nove anni, di comportarsi per bene e ad ambedue di fare il più possibile i bravi. Sandrino invece, appena rimasto da solo con la sorella, si era subito messo a correre avanti e indietro, lungo tutti i vialetti e intorno alle aiuole, saltando dai gradini della porta del retro e facendo il diavolo. Teresa lo aveva ripreso, “Ti viene la tosse”, aveva detto, ma non era riuscita a fermarlo. Quando Sandrino poi era caduto, le sue mani erano andate ad infilarsi dentro a una siepe, e per fortuna non si era neanche poi fatto male, a parte un graffietto, se non fosse stato per l’ape che ronzando sui fiori proprio in quel punto, ebbe l’idea di pungerlo su una delle sue guance morbide. La sorella lo portò subito in casa, per non far sentire gli urli ai vicini, poi cercò di curarlo, ma quando si rese conto che il viso di Sandro era gonfio e che il dolore doveva essere forte davvero, le venne da piangere anche a lei, sentendosi persa, impossibilitata a sistemare le cose. Rientrò la mamma e li trovò così, disperati, coscienti di non essere riusciti a cavarsela.
Bruno Magnolfi

mercoledì 3 febbraio 2010

Zeus


I ragazzi della compagnia si erano abbondantemente annoiati anche quella sera, restandosene lì seduti in maniera scomposta sulle solite panchine del giardinetto nel loro quartiere. Qualcuno aveva anche portato due piccoli diffusori per ascoltare la musica, e per un po’ si era parlato animatamente delle solite cose, ma alla fine nessuno di loro aveva più saputo che dire, così tutti avevano finito per ascoltare quelle canzoni in silenzio, senza fare nient’altro. Ad un tratto, mentre qualcuno già pensava di andarsene a casa, era arrivata una ragazza col cane, una persona mai vista che teneva al guinzaglio un grosso mastino, uno di quelli che è bene tenere alla larga. Lei sembrava tranquilla, ma il cane continuava a tirarla da una parte e dall’altra, e dopo un po’, con uno strattone appena più forte, si era liberato dalla debole presa, iniziando a correre da solo lungo quel marciapiede. La ragazza si era subito disperata, e aveva chiesto aiuto, così tutti loro della compagnia si erano sentiti in dovere di correre dietro a quel cane con il guinzaglio ancora attaccato. “Zeus”, diceva lei a voce spiegata, “Fermati, dai”, ma il cane continuava a scappare come giocando a farsi rincorrere da tutti i ragazzi. Due o tre macchine inchiodarono le ruote quando Zeus decise di attraversare la strada, ma non successero guai, e la corsa continuò senza che niente sembrasse arrestarla. A un certo punto la ragazza si fermò ormai sfinita, e i primi due o tre della compagnia che erano rimasti fino a quel momento dietro di lei si fermarono anch’essi, come per cercare di raccogliere le idee e fare il punto della situazione. Zeus naturalmente era immediatamente sparito dietro ad un angolo, e la ragazza ansimando aveva cominciato a spiegare che il cane non era neanche suo e lei era soltanto una dog-sitter. Così venne deciso di formare due gruppi, uno che continuava ad andare dietro al cane, e l’altro che girava attorno al gruppo di case e cercava di intercettarlo dall’altra parte. Infine, percorsi qualche altro centinaio di metri, ci si accorse che un uomo, con molta perspicacia, appena Zeus gli era passato vicino, aveva sveltamente infilato il guinzaglio dentro ad una sbarra di un’inferriata, bloccando il cane e salvando la situazione. La ragazza era felice, ovviamente, e il resto della compagnia lo era per lei. Vennero fatte le presentazioni e scambiate battute di spirito, fino a darsi appuntamento al pomeriggio seguente, per ingaggiare un’altra bella corsa, e per ringraziarlo del suo metodo contro la noia tutti allora si avvicinarono a Zeus, giusto per scoprire che era soltanto un grosso cagnone simpatico in vena di scherzi, ben felice di ricominciare davvero la gara alla prima occasione.

Bruno Magnolfi