venerdì 19 marzo 2010

Il coraggio di una soluzione


La vicenda era ordinaria. Un innamoramento giovanile in un paesino campano: un ragazzo e una ragazza che si giurano amore eterno salvo perdersi pochi anni dopo, risucchiati da altre cose, da altre vicende, per poi rincontrarsi dopo molto tempo, ambedue sposati, lei trasferita a Roma, lui rimasto lì ma sempre in giro, a lavorare come rappresentante di commercio, e scoprire di essere stati frettolosi, di aver compiuto uno sbaglio clamoroso. E così il seguito è scontato, l’inizio di una relazione assurda respirata per mezza giornata ogni due mesi, quel vedersi quasi da ladri, durante incontri clandestini complicatissimi, veicolati su numeri di telefono segreti, fingendo indifferenza rispetto alla fatica di intrattenere una cosa di quel genere, giusto per continuare a giurarsi amore eterno nonostante figli e coniugi. E poi quel giorno strano, quando i pensieri dentro alla testa sembrano diversi, per lui che torna da una delle volte in cui è riuscito a vederla, solo per due ore, e quel ragazzo per strada che chiede un passaggio perché c’è uno sciopero dei mezzi pubblici: a Mario piace la sua faccia simpatica, lo fa salire sulla sua auto, forse ha già in mente di parlare con lui, di fargli ascoltare la vicenda della sua vita, perché non si conoscono, può dire la verità su tutto, finalmente può sfogarsi. Il ragazzo si chiama Antonio e lo ascolta volentieri, senza interrompere, senza fare espressioni di commento. Ha la faccia intelligente quel ragazzo, tra pochi esami sarà ingegnere, lo dice all’inizio con orgoglio perché è la cosa migliore che ha fatto in vita sua, anche se una vita vera ancora non ce l’ha, ma ascolta Mario con attenzione, capisce di essere vicino a qualcosa di vivo e di vibrante ed elabora a modo suo, poco per volta, dentro la sua testa piena di formule e teorie, tutta la vicenda. Mario entra nei dettagli, spiega la sua vita assurda, quel vivere collegato ad un numero di telefono segreto che ogni tanto tira fuori, come un talismano, ed a volte accarezza come fosse una persona. Gli spiega e si spiega e mentre parla dipana la sua vita anche a se stesso mentre guida, dando una concretezza alle cose che forse non ha mai avuto; a tratti si interrompe, è come se toccasse con mano per la prima volta le cose che cerca di spiegare, è come se non ci avesse mai pensato in quella maniera, la maniera che adesso gli suggerisce la logica dell’ingegnere, quel ragazzo dalla faccia intelligente che gli siede a fianco, e intanto cerca di interpretare anche il suo pensiero, il suo modo distaccato di ascoltare quei discorsi, e si sforza di incarnarsi in lui, di essere lui, in modo da avere un parere diverso dal proprio, più obiettivo. Si fermano a mangiare, non c’è problema, paga tutto Mario, gli interessa troppo entrare nei dettagli della sua vicenda, fargli ascoltare al ragazzo fino all’ultimo particolare delle sue cose, fargli comprendere il motivo per cui si è ridotto così, a fare il commesso viaggiatore dei propri sentimenti. Mangiano, prendono un caffè, una grappa, ci vuole proprio, e poi via, di nuovo sulla strada, e Mario che parla, parla ancora di sé, di quello che ha pensato quando è stato prima e di ciò che è diventato adesso, di lei, quello che ha detto e fatto, e di lui, e di ciò che si dovrebbe, o si potrebbe, oppure che sarebbe stato. Poi arrivano, finalmente, e Antonio ringrazia di tutto, deve scendere, deve proprio andare, resta in aria una pausa improvvisa che niente può riempire, e Mario ferma l’auto con le doppie frecce, si volta verso il ragazzo, lo implora mentalmente di dargli la sua benedizione, ma tutto è tirato come un arco teso nello sforzo massimo. Antonio lo guarda, pronto con la sua opinione che ha trattenuto tutto il tempo, sa che è importante ciò che deve dire, sa che non può sbagliare il suo giudizio, quel parere non richiesto, e conserva ancora la sua faccia intelligente, ha ancora gli occhi svegli, l’espressione fresca, non può dire una cosa qualsiasi ma solo quello che ha pensato davvero, ciò che ha sentito dentro di sé, e dall’alto di tutto questo gli dice solamente: “Secondo me è ora di dire basta…”, poi stringe la mano a Mario, apre lo sportello e se ne va.

Bruno Magnolfi

mercoledì 17 marzo 2010

Soltanto un paio di scarpe

Stridore di freni di un treno lontano. E’ mattina, Franco si muove dall’angolo dove ha passato la notte. Ha freddo adesso, ma il sole che sorge tra un po’ sarà caldo, lui siederà sopra una panchina e starà subito meglio. Dentro il suo zaino non ce n’è più niente, neanche una briciola di quel pezzo di pane che ha sbocconcellato per tutta la sera. Non importa, a mezzogiorno andrà a mangiare alla mensa. Si sente libero prima di andare fin lì. Poi, mentre paziente sta in fila, sente di essere uno come gli altri. A volte gli viene da ridere per quella vita stupida, trascinata da un angolo all’altro, tutta al presente, senza alcuna prospettiva. La gente fa la carità per conservarti così come sei, pensa Franco, e togliersi un piccolo peso dalla coscienza. A volte ripensa a ciò che è successo. E’ stato veloce il percorso, è bastato che a sua moglie fosse intestata la casa, dopo la causa del divorzio, che lui perdesse il lavoro, subito dopo, e il gioco era fatto. Ho perso, a volte dice tra sé, come per ricordarsi della sua condizione, del suo stato. Ma la giornata davanti è ancora lunga, intera, possono accadere tantissime cose. Lui non ha più cercato nessuno, parenti lontani, amici, ex vicini di casa. Che importa, si sente bene mentre ciondola con il suo bagaglio di niente, non ha bisogno degli altri. Poi si siede su un muro di pietra: si è accorto che alla scarpa sinistra si è aperta la suola. E’ un guaio, se diventa difficile camminare tutto è estremamente più complicato. Poi lui è sempre stato un perfezionista, non riesce ad accettare quella scarpa sfondata. Mentre è lì che armeggia cercando di sistemare alla meglio le cose con un pezzo di spago che aveva nello zaino, un’auto passa vicino al muro di pietra rallentando, si ferma, scende una donna. Si avvicina, lo guarda, è sua moglie. Gli chiede cosa sia successo, qualcuno le aveva detto qualcosa nei giorni passati, lo stava cercando. E’ incredula, le pare impossibile che si sia ridotto così, gli chiede di andare in un bar, mangiare qualcosa, giusto per togliersi il freddo di dosso, ma Franco guarda per terra, non ha bisogno di niente, gli resta quel minimo di orgoglio che gli fa sollevare la testa e restare in silenzio, indifferente. Le mostra la sua scarpa, l’unico vero problema che adesso lo affligge, lei allora gli chiede di salire sulla sua macchina, per favore, di farsi aiutare, le viene da piangere. Lui pensa alle favole di quando era bambino, alla piccola fiammiferaia, a cose del genere, e forse avrebbe voglia di ridere, ma resta fermo, anche se non sa cosa fare. Poi sua moglie lo convince a salire sopra l’auto, gli dice che non avrebbe mai immaginato una cosa del genere, che adesso cambierà tutto per lui, starà a casa sua, insieme a lei, fino a che non avrà ritrovato un altro lavoro, che tutto si sarà sistemato. “Anch’io sono da sola, Franco”, gli dice; poi si ferma davanti a un caffè per comprargli qualcosa. Lui aspetta solo che lei sia entrata dentro al locale, apre con calma lo sportello, si guarda per un attimo attorno, poi se ne va. Ha solo bisogno di un altro paio di scarpe, e di nient’altro.

Bruno Magnolfi- Disegno di Tesoro Giulia.

Pannocchie umide