lunedì 24 maggio 2010

Un oggetto comune e prezioso.





Un mozzicone di matita in un angolo, rimasto lì chissà quanto tempo. Angi si volta, vede il mozzicone, cerca di rammentarsi in quale occasione possa essergli caduto per andare ad infilarsi là dentro. Ma la memoria non sembra aiutarlo, e tra l’altro gli pare, guardandolo meglio, un tipo di m...atita che in genere non ha mai adoperato. Forse sarà caduta a qualcuno dei ragazzi l’ultima volta che sono venuti a fare i compiti da lui, pensa, ma gli pare un po’ strano che qualcuno di loro abbia perso qualcosa e non si sia preso la briga di tornare a cercarlo. Lo strano è anche che l’ultima volta quando i ragazzi sono stati nella stanza di Angi a fare i compiti, era non meno di due o tre settimane prima, e in tutto quel tempo a lui o alla sua mamma doveva essere saltata agli occhi per forza quella matita. Non è neanche nascosta, sta lì, quasi in bella mostra, proprio per farsi vedere. Angi chiede notizie a sua mamma, ma quella non ne sa proprio niente e poi ricomincia con la solfa del disordine e cose del genere. Nella sua stanza il disordine c’è, è innegabile; però non ci possono essere strane matite che scappano fuori dal niente. Angi esce di casa, però si sente un po’ inquieto, è come se qualcuno avesse messo lì l’unico oggetto che stona col resto, e proprio per questo adesso non riesce a pensare a nient’altro. E’ quasi un affronto, lui non si è mai fatto carico di problemi del genere, ma adesso qualcuno si permette di far rotolare uno stupido mozzicone di matita in un angolo e poi resta lì, da qualche parte, a sogghignare nell’ombra. Prende la sua bicicletta Angi, ed esce da solo sulla strada deserta per farsi un giretto, ma passa davanti alla casa di Leo, e subito pensa che forse è stato lui a gettare quella roba nell’angolo, giusto per fargli uno scherzo. Però è strano, Leo avrebbe messo lì uno scarafaggio, una lucertola morta, non certo una matita, e poi avrebbe dovuto restarsene da solo nella sua stanza per fare una cosa del genere, e questo non è proprio successo, ne è più che sicuro, perché di Leo non si è mai fidato. Così la giornata va avanti, arriva fino a casa di Bizio, scende dalla sua bicicletta e suona il campanello, tanto per fare qualcosa. Sua madre gli dice di entrare, Angi entra e raggiunge subito Bizio che sta studiando qualcosa nella sua stanza. Non dicono niente, solo stupidaggini, ma Angi guarda negli angoli, non riesce più a farne a meno: non ci sono matite là dentro, solo angoli vuoti, smorti come Bizio che non riesce a far altro che star lì a studiare e ad usare matite diverse da quel mozzicone, così anche lui resta escluso. Tutto il quartiere adesso gli pare pieno di angoli che nascondono matite identiche a quella che lui ha trovato nella sua stanza, e forse anche ogni angolo di tutta la casa ne ha una, pensa, come se non potesse esistere alcun angolo senza la sua brava matita di appartenenza. Molla la bicicletta accostandola al marciapiede e rientra nella sua abitazione, guarda sul campanello se ancora ci sono riportati là sopra i nomi di suo padre e sua madre, poi va in cucina e beve dell’acqua. Si sente confuso, tutto gli sembra leggermente diverso, come se qualcosa si fosse spostato o avesse cambiato colore. In corridoio Angi incontra sua madre che sta per uscire, gli chiede di restarsene in casa almeno per quell’ora che lei si deve assentare, poi se ne va. Silenzio. Uno strano silenzio carico di tensione. Qualcosa scricchiola da qualche parte, e lui torna in camera sua, lentamente, seguendo un semplice sospiro dell’aria: non c’è più quel maledetto mozzicone di matita nell’angolo, non c’è più niente in quell’angolo vuoto, lo sapeva, lo aveva capito, la realtà è un caleidoscopio di cose che esistono, che restano lì attorno a noi, questo è certo, ma tutto è così solo se siamo consapevoli del fatto che anche noi almeno un po’ lo vogliamo.

domenica 23 maggio 2010

L’enigma dell’evidenza


L’enigma dell’evidenza.
“Sono soltanto sciocchezze”, aveva detto lui con indifferenza e senza guardarla. Stava cercando di pensare a quale abbigliamento sistemare dentro alla valigia, ma, pur non dandole importanza, aveva anche appena finito di ascoltare una serie di sottili accuse di indifferenza da parte di sua moglie..., da lei notate, così almeno aveva sostenuto, da diversi mesi a questa parte. Lui aveva cercato di decifrare al massimo quelle parole proprio per arrivare a capire se lei stesse covando anche un sospetto di adulterio oppure no, cercando così di essere subito pronto a difendersi, ma in questo modo, pur mostrandosi in apparenza quasi disinteressato, di fatto aveva già sbagliato diverse volte colore di calzini e di camicie. Poi si era seduto, come per dare improvvisa importanza a tutto quello che era stato appena detto e forse anche a ciò che era stato solo supposto, e scrollando la testa come chi cerca la chiarezza dentro la nebbia, aveva ricominciato sorridendo: “Ma a che proposito avrei messo assieme questa piccola vacanza se non fosse proprio per ritrovare quell’intesa che tra me e te si è forse un po’ appannata? Vorrai almeno darmi atto del tentativo, visto che ancora non siamo neppure partiti…”. Lei sviluppò uno strano sorriso a queste parole, come aspettandosi una mossa tattica del genere, misurando l’atteggiamento di chi cerca di recuperare con una settimana di vacanza tutto ciò che è andato perso in mesi e mesi di comportamento sfuggente, quasi da estraneo. Parve riflettere tra sé mentre controllava qualcosa dentro al beauty case, poi con voce bassa, come di chi forse ha già capito ma non vuole ammettere la verità per non sentirsi delusa dal rapporto della sua vita, disse soltanto: “Va bene, hai ragione, godiamoci questa vacanza senza mettere altro in mezzo; sempre che tu sia d’accordo…”. “Certo…”, disse lui con la sensazione di aver vinto la partita troppo facilmente; “Non vedo niente che possa ostacolare questo proposito”. In fondo, pensava, sono riuscito persino a chiudere questa valigia, non vedo perché non possa riuscire a fare il buon marito almeno per tutta questa intera settimana.

Bruno Magnolfi



Una lettera senza importanza


Accanto alla panchina nei giardinetti dove il signor Calamassi era solito andarsi a leggere il giornale per far trascorrere almeno un’ora della sua interminabile mattinata, un piccolo foglio di carta piegato in due era rimasto sull’erba, come smarrito o dimenticato da qualcuno che oramai sicuramente era lontano. Il signor Calamassi lo aveva notato, mentre raggiungeva il suo luogo di lettura, ma in un primo tempo non si era preoccupato affatto di raccoglierlo, non gli sembrava assolutamente un compito suo interessarsi dei fatti degli altri, ma in seguito una certa curiosità gli era iniziata a venire, non foss’altro perché nel lato interno del foglio, osservandolo meglio, si intravedeva una pagina scritta con inchiostro blu, il suo preferito, in modo fitto e ordinato.
Non gli piaceva certo al signor Calamassi, dall’alto della sua posizione di docente universitario in pensione, fare la figura di quello che non tiene sott’occhio la realtà, e non si accorge neppure di un elemento, magari importante, che gli resta vicino, a portata di mano, quasi come se tutti quegli anni trascorsi dietro una cattedra non gli avessero insegnato che è solo da piccoli e nascosti particolari, uno sguardo, un passaggio di appunti, un bisbiglio all’orecchio, che si arguisce il livello di comprensione degli studenti nei confronti della materia spiegata. Quindi, a seguito di queste considerazioni, stava per alzarsi dalla panchina, la sua preferita di tutto il giardino, e andare a raccogliere il foglio, quando da un lato arrivò una giovane donna camminando malferma sui tacchi per via della ghiaia, passò di lato alla panchina dove era seduto il signor Calamassi, e non mancando di guardarsi un po’ attorno proseguì in silenzio la sua passeggiata.
Forse era lei la proprietaria del foglio di carta, pensò il signor Calamassi, forse un abbozzo di lettera d’amore scritta proprio su quella panchina e poi dimenticata là sopra, tanto che un minimo colpo di vento l’aveva in seguito appoggiata sull’erba in una zona meno visibile. Ed era certo che la signorina, tornata indietro a cercarla, non l’aveva adesso potuta vedere, perché coperta proprio dalla sagoma del signor Calamassi, che a questo punto diventava quasi complice di una situazione, correo di avere impedito il felice ritrovamento di quelle parole.
Si imponevano due scelte, almeno alla sua sensibilità battagliera: se fosse passata di nuovo la signorina il signor Calamassi doveva chiederle direttamente se era di sua appartenenza la lettera, tanto più che trovandosi ancora sull’erba non era possibile che lui ne avesse sbirciato il contenuto, sfuggendo così a qualsiasi timidezza; oppure, se questo non fosse accaduto ma nel foglio, per fortunata eventualità, fosse stato indicato l’indirizzo del destinatario, lui l’avrebbe raccolta, piegata con cura e infilata dentro a una busta per spedirla senz’altro.
La giovane donna non tornò sui suoi passi, e in compenso una mamma con il suo passeggino era venuta poco dopo a sedersi proprio sul lato libero della panchina del signor Calamassi, tanto che lui aveva quasi pensato di andarsene e lasciar campo libero. Ma poi, si era chiesto, la lettera? Non poteva abbassarsi e prenderla adesso, davanti a dei testimoni, dopo che era rimasto seduto su quella panchina per metà della mattinata, indifferente a tutti i fogli di carta del mondo. E la signorina di prima sembrava svanita, persa anche lei nella ricerca di quanto aveva smarrito.
La tensione si era fatta elevata, il signor Calamassi osservò il suo orologio e si accorse che era arrivato il momento in cui ogni giorno passava dal forno, acquistava del pane, e con quello rientrava, soddisfatto di una piccola azione a cui teneva moltissimo. Un attimo, un pensiero improvviso, e la decisione pur dolorosa infine era presa, così il signor Calamassi si alzò da quella panchina, quasi con un moto di fretta improvvisa, piegò accuratamente il giornale, salutò di sfuggita la mamma con un debole sorriso, e se ne andò per i fatti suoi, lasciando la lettera ad altri.

Bruno Magnolfi

La sorgente miracolosa




Il paese era sito ai piedi di una collina verdeggiante, ed ogni estate in tanti vi salivano seguendo i sentieri tra la vegetazione per goderne l’aria fresca. C’era un gruppo di rocce polverose ai piedi di quel monte, poco distante dalle ultime case del paese, e qualcuno a luglio notò che nonostante il sole e il secco di quei giorni, quelle pietre erano diventate sempre più umide. Passò un po’ di tempo e l’umidità continuava, tanto da incuriosire diverse persone, e quando arrivò la fine di quel mese e il giorno di Santa Marta, patrona del paese, dalla roccia improvvisa sgorgò l’acqua.

Metà della popolazione si recò subito nel luogo in un pellegrinaggio spontaneo inginocchiandosi e pregando, altri tolsero la grande statua di gesso dalla Chiesa e la portarono nei pressi della roccia, costruendo velocemente una base di cemento che la sostenesse. Nei giorni seguenti altri si industriarono a costruire una protezione di vetro che custodisse quella statua che in quel modo rimase lì, accanto alla sorgente, e si cominciò a venerare la Santa in ogni giorno della settimana, specialmente la domenica, tanto che numerosi gruppi di persone arrivarono anche da fuori fermandosi nei pressi della roccia e trascorrendoci spesso molte ore.

L’acqua continuava a sgorgare dalla roccia e aveva formato a terra un rigagnolo che serpeggiava tra le piante andando a gettarsi, cento metri dopo, in un fosso preesistente. Qualcuno, considerato il caldo torrido di quel mese di agosto, pensò bene di scavare una pozza di raccolta di quell’acqua, e una volta effettuata tutti iniziarono a bagnarsi le mani e i piedi in quel laghetto, sostenendo che fosse un’attività senz’altro curativa per l’artrite, i dolori muscolari e altre cose di quel genere. Tanti gridavano al miracolo, qualcuno restava in ginocchio sopra la radura di terra battuta per più ore, chiedendo il perdono, o altri miracoli, guarigioni varie e la fine di ogni avversità.

La sorgente continuava a gettare allegra la sua acqua, e anche la metà del paese che aveva alzato le spalle fin dall’inizio, mostrando disinteresse o incredulità sul coinvolgimento del soprannaturale per quanto era accaduto, dovette piegarsi alla situazione e andare a vedere coi propri occhi il luogo Santo. Intanto la pozza d’acqua era stata allargata, considerato l’afflusso di persone che desiderava immergere là dentro piedi e mani, e le autorità avevano iniziato a progettare un parcheggio attrezzato poco distante e l’asfaltatura di tutta la radura. Spuntarono furgoni che vendevano panini imbottiti e oggetti sacri, e nel mese di settembre l’afflusso di persone arrivò a punte estreme, fino a quando l’acqua d’improvviso calò di intensità, fino a smettere quasi del tutto di scaturire dalle rocce, e si dovette ricorrere velocemente a delle autobotti che si recavano sul fianco della collina poco sopra al luogo Santo, ben nascoste dalla vegetazione, per rilasciare l’acqua sufficiente a sopperire al fabbisogno della sorgente. Nessuno si lamentò di niente, gli affari giravano bene per tutti, e Santa Marta vegliava con le mani giunte su tutti quanti si recavano fin lì.

Accadde di notte, fortunatamente, quando non c’era nessuno nei pressi, forse per l’acqua eccessiva sversata dalle autobotti, che alcune rocce in alto si staccarono, precipitando sul luogo del miracolo e devastando tutto quanto era stato messo in piedi, compresa la statua di gesso e gli inginocchiatoi di pietra costruiti in fretta e furia. Dovettero smettere anche con le autobotti, naturalmente, e tanta fu la sorpresa e il dispiacere per quei nuovi eventi, che tutti dal paese andarono a vedere di persona, ma l’idea di qualcuno di gridare al miracolo per non aver fatto accadere una catastrofe di morti se la frana fosse successa di giorno fu vincente, e tutto in poco tempo ricominciò quasi come prima, appena ricostruita la statua di gesso della Santa che aveva vegliato sui suoi devoti, proprio nello stesso punto dov’era prima, e ricolmato d’acqua, non più alimentato, il laghetto lì vicino. Non c’era più la sorgente, ma alcuni sostenevano di averla vista, di averne notato una lucentezza straordinaria, quasi come di liquidi diamanti, costruendone velocemente una leggenda; e anche gli altri che erano sempre rimasti scettici, ora dicevano a tutti che era vero, e poi si sa, le cose a volte cambiano.

Bruno Magnolfi

Accadimenti irripetibili


Il piccolo ufficio d’angolo al primo piano di quel palazzo, era in disordine come sempre. Fuori dalla finestra che dava su una delle piazze più frequentate, la gente sui larghi marciapiedi circolava copiosa nell’ora di punta, come ogni giorno. Lui aveva socchiuso i vetri per far entrare un po’ d’aria, poi aveva dato un’occhiata alla posta e alle cose più urgenti da sbrigare. Si era acceso una delle sue sigarette con tutta la calma svogliata che gli procurava l’inizio di un’altra giornata di lavoro sicuramente pesante, poi aveva spalancato del tutto quell’unica finestra della stanza ed era rimasto lì immobile, accanto al davanzale assolato, ad osservare la città che nevroticamente svolgeva il suo ruolo.

Un uomo fermandosi aveva iniziato ad osservarlo dal marciapiede, poi si era affiancata un’altra persona che aveva sollevato il suo naso ed era rimasta lì, anche quella, ferma a guardare. Altri si erano aggiunti, come se qualcosa richiamasse magneticamente l’attenzione verso la finestra dove lui si era affacciato. Molti continuavano a fermarsi e a guardarlo, e lui in un primo momento era rimasto paralizzato per la stranezza di quello che stava accadendo, ma in seguito la situazione gli era apparsa così innaturale da renderlo persino incapace di pensare qualcosa. Restava lì, a quel davanzale, a farsi osservare da tutti, quasi con il fiato sospeso, impossibilitato a qualsiasi movimento, tanto che la sua sigaretta continuava a fumare da sola nel posacenere della sua scrivania, e intanto lui cercava di capire che cosa si fosse verificato per attrarre tutta quell’attenzione.

Le cose andavano avanti, le persone arrivavano, si accalcavano agli altri e si fermavano con lo sguardo rivolto all’insù, verso di lui. Il sole gli faceva scottare la faccia e lui con gli occhi ridotti a due fessure per via della luce non riusciva neanche a guardare qualcuno o qualcosa; infine si accorse che del sangue gli era colato dal naso, come altre volte era accaduto per una normale allergia di stagione, e lui non volendo e non accorgendosi di niente si era impiastricciato con la mano quasi tutta la faccia. Chiuse velocemente i vetri e si allontanò dalla finestra, ma ormai era tardi, tutti avevano preso a salire lungo le scale, a bussare alla porta del suo piccolo ufficio, ad assediarlo, curiosi, bramosi, con l’ansia di assistere di persona a ciò che stava accadendo là dentro. In seguito la giornata si svolse proprio come ogni altra.

Bruno Magnolfi

sabato 22 maggio 2010

Lo sciopero immorale




Gli uomini si erano raccolti tutti da una parte, in silenzio ma come confabulando tra di loro, seduti svogliatamente sulle grosse pietre al sole e al vento. Le donne invece erano rimaste in piedi, vicino alla scalinata della Chiesa, in attesa di qualcosa sulla piazza del loro minuscolo villaggio. Invece niente era accaduto, e per parecchio tempo, solo a un certo punto era arrivato di corsa un ragazzo con i calzoni corti. Si era fermato nella polvere in mezzo ai due gruppi, i capelli spettinati dal vento, la faccia seria. Aveva preso fiato, poi aveva detto a voce alta che al padrone non gli interessava niente del loro sciopero; invece di un giorno potevano restarsene a casa per tutta quella settimana intera, così aveva detto, a lui non interessava affatto, e che lui i soldi ce li aveva, erano loro ad essere pezzenti, e per questo avevano bisogno di lui e di lavorare. Se lo mettessero in testa, diceva ancora il ragazzo, sarete voi a rimetterci, e nessun’altro.

Bruno Magnolfi

mercoledì 19 maggio 2010

Il disegno per la copertina di un libro


La lampada illumina il piano dello scrittorio in modo implacabile, con la sua luce decisa, definita. Osservo i pochi oggetti là sopra, le carte disordinate, le matite, i piccoli abbozzi di disegno che ho già tentato più volte. Non so, non riesco a capire: è come se le idee per questo soggetto che vorrei disegnare fossero tutte fuggite, e niente di me fosse in grado di richiamarle, di renderle presenti davanti ai miei occhi. Poi prendo tempo, mi muovo, spengo la lampada, torno a riaccenderla. Ecco che dietro al mio sguardo nasce qualcosa, come una nostalgia verso un evento che non ho mai vissuto, ma infine anche questo barlume si attenua e sparisce del tutto. Suona alla porta il ragazzo del bar sotto casa: mi ha portato due sandwich, una birra, le solite cose, prendo il sacchetto di carta, cerco i soldi che lui attende di avere. Prima di lasciarlo andar via gli rivolgo una domanda, così, senza avvisarlo. Lui risponde con un semplice sorriso, lo sa che sono uno strano, c’è da aspettarsele da uno come me delle uscite un po’ insolite. Ma prima di andarsene giù per le scale, si ferma un momento, si volta, mi guarda, dice soltanto: “Il mare; si, il mare è la cosa più difficile da disegnare”, e poi se ne va. Ha ragione, penso, è questa la risposta più giusta. Il senso del mare è impossibile da cogliere in un solo disegno; si può fermarne un aspetto, un’onda, la riva, l’orizzonte, ma non l’idea complessiva del mare. Torno alla mia lampada e al piano dello scrittoio: adesso lo so quale sarà il tema da disegnare stasera, qualcosa che non sarò mai capace di completare, e siccome non riuscirò ad esaurirlo, il mio disegno rimarrà aperto, da concludere, soggetto a variazioni infinite.

Bruno Magnolfi

venerdì 14 maggio 2010

Il mondo insopportabile.





Mi siedo, nel sole quasi estivo, su di una panca di legno davanti casa mia. Penso che niente valga quanto questa luce, quest’aria tiepida che mi scalda. I miei familiari mi controllano da casa, non vogliono che faccia qualche altra stupidaggine, ma io non ne ho alcuna intenzione. Sto seduto nel ...sole, mi sento bene, forse mi annoio, ma che importa. Mi guardano ogni tanto, non può accadere niente. Certe volte quando sono solo come adesso penso di essere soltanto un peso, e mi viene da piangere, ma dura poco, subito mi passa, e in poco tempo va via anche la tristezza. Sto bene qui, adesso, in questo sole, osservo il mio vicino di casa dall’altra parte della strada che sta tagliando l’erba del suo prato, e non penso niente. Lui mi vede, non mi saluta, lo sa che non rispondo. Però anche lui mi guarda, mi controlla, nessuno vuole che succedono cose sgradevoli, neppure il mio vicino. Sul marciapiede poi arriva una vecchia, guarda avanti a sé, non si interessa di niente e di nessuno. Mastico qualcosa di incomprensibile quando mi passa vicino, lei si ferma, si volta a guardarmi. Con un gesto le chiedo di avvicinarsi ancora, lei si è accorta che io non sono normale, così si accosta cauta: le lancio uno sputo, brutta vecchia stupida.



mercoledì 12 maggio 2010

Cambierà questa vita

Cammino in mezzo agli altri e immagino sia evidente la mia solitudine. La pulizia e l’accuratezza dei miei vestiti e del mio corpo che fino a ieri per me erano un vanto, hanno lasciato spazio oggi ad una trascuratezza e ad una indifferenza per tutto ciò che riguarda elementi voluttuari del genere. ...Si tratta di cambiare, questo è l’imperativo che mi sono posto. Ho studiato a fondo alcune cose fino a rendermi conto che nessuno cambia mai. Tutti stretti alle proprie abitudini, ai modi di essere scelti una volta per tutte, ad una maniera ormai definita e assodata di vivere. Cammino con gli altri, ma so di avere con me un elemento nuovo, qualcosa che si rinnova ogni giorno, e ogni giorno mi fa sentire diverso. Incontro per strada sia chi mi conosce, sia chi non sa assolutamente chi io sono, e le due classi di persone appaiono identiche ai miei occhi. Io stesso, se riuscissi ad osservarmi, forse neppure mi riconoscerei. Sono un’altra persona ogni volta che penso me stesso, cambio in modo continuo, fino a spersonalizzarmi, ad assumere sembianze e identità che non avrei mai immaginato. Poi rido, in un modo liberatorio, rido di me stesso, del mondo che non mi capisce, di coloro che mi guardano e ridono di me, e rido del fatto che ancora non so proprio cosa sarò diventato fra un anno o fra un mese; non so neppure come mi sveglierò e chi sarò domattina. Sarò differente, questo è sicuro.

Bruno Magnolfi

domenica 9 maggio 2010

La lezione per diventare normali


Il gruppo degli uomini, rimasti seduti al margine del ballo estivo all’aperto in fondo al paese, aveva continuato a ridere e a sorridere bevendo e guardando le coppie impegnate a danzare, ma alla fine sembrava che quelli lo facessero, anche se inconsapevolmente, più di loro stessi che di quanti si stavano impegnando a fondo sopra quella pista un po’ improvvisata, cercando peraltro di rendere la festa riuscita e piacevole. Laura e Lorenzo avevano iniziato a ballare sin da quando era partita la musica, come sempre facevano in occasioni del genere, e continuavano a girare e a divertirsi davanti alla gente di tutto il paese, tanto che qualcuno, come sempre accadeva in quei casi, aveva già avuto modo di notarli e di dire qualcosa su loro. Ad alcune donne piaceva quella coppia, era evidente, era già stato chiesto in giro il motivo per cui loro due non stessero insieme a fare sul serio, come coppia vera e propria cioè, visto che apparivano così ben assortiti, belli, sempre pronti con quell’intesa che mostravano di avere. Forse c’era anche una punta di invidia da parte di più d’una persona, ma soprattutto faceva rabbia che quei due in certe occasioni quasi non avessero occhi e interessi che per loro stessi.

Si diceva sottovoce che Lorenzo non fosse del tutto attirato da rapporti più stretti con Laura, addirittura che non gli piacessero proprio le donne, e ciò nonostante fosse un suo grande amico, tanto che Laura con lui si sentisse più tranquilla che con altri, pur sapendo di non doversi aspettare da lui niente di più che quella amicizia. Stavano sempre insieme, si passavano a prendere a casa l’un l’altra, dicevano, e poi se ne andavano da tutte le parti, però tra loro mai un gesto d’affetto o qualcosa del genere. Qualcuno con cattiveria assicurava che era come se fossero due vere amiche. In ogni caso quelle, per altri, erano soltanto voci maligne, come sempre messe in piedi solo per dare discredito, indifferenti al fatto che ci fossero ragazzi che sapessero divertirsi alla faccia di tutti.

“Chissà cosa staranno dicendo di noi…”, diceva Laura continuando a volteggiare tra le braccia del suo Lorenzo. “Le solite cose…”, rispondeva Lorenzo; “Che io sono un effeminato e che ti sto solo facendo perdere tempo, quello che dicono sempre in questi casi. Poi nei prossimi giorni mi fermeranno per strada, come capita spesso: -Ma perché non fai un po’ sul serio con quella ragazza?, mi chiederanno; e poi giù con le loro risate, come a sentirsi più furbi di tutti”. “Per forza, nel loro mondo non esiste l’amicizia, soltanto l’aspirazione gretta al sesso scontato e alle sue regole rigide…”. “Chissà se sapessero che abbiamo già provato ad avere dei rapporti sessuali tra noi, ma che non ci hanno appagato in modo esauriente, e i nostri gusti sono diversi, sarebbe incredibile, non lo capirebbero mai…”. Poi si fermavano per prendere un po’ di respiro, andavano al chiosco delle bibite lì accanto e si lasciavano servire da bere, però sempre insieme, sempre ridendo, rispondendo bonariamente a tutti quanti dicevano loro qualcosa.

Avevano la medesima età loro due, e oltre che legati da amicizia sincera, la complicità che avevano trovato era lo straordinario elemento che li faceva sentire più avanti, oltre le dicerie del paese. Al mattino prendevano l’autobus per andare in città, a frequentare il liceo, e anche se non erano nella medesima classe, ugualmente si aiutavano con i compiti e soprattutto si spalleggiavano con le rispettive amicizie, in modo da mettersi sempre in buona luce l’un l’altra e riuscire a conoscere le persone che maggiormente interessavano lei oppure lui.

Fu quella stessa sera che qualcuno, forse ubriaco, volle mostrare che non era d’accordo con quel tipo di cose. Li aspettarono in cinque vicino casa di Laura, era ormai molto tardi, attesero il momento opportuno e poi uscirono dall’ombra con dei cappucci sul viso. Li bastonarono a sangue, li picchiarono in modo selvaggio, se ne andarono solo quando loro due erano ormai a terra, doloranti, con addosso tutti i segni di una lezione che non avrebbero dimenticato facilmente. Perché era così che dovevano andare le cose, essere diversi non era possibile, dovevano tutti metterselo in testa, almeno non lì, in quel loro paese.

Bruno Magnolfi

sabato 8 maggio 2010

Certe fotografie in bianco e nero


La sera della festa erano in sei, Antonio ricordava tutto perfettamente. Per loro non era un’occasione precisa, avevano soltanto deciso che quel sabato era il giorno giusto, c’era gente in giro, potevano mescolarsi agli altri e senza cattiveria ridere di loro. Fulvio era giunto per primo a casa di Loris, e loro due avevano deciso che sarebbero andati in un certo locale, un caffè in centro, un posto elegante con musica ovattata e persone serie sedute nei tavoli. Carlo e Federico, gli eterni inseparabili, erano arrivati assieme, come sempre. Alessandro si era fatto vivo per ultimo. Una volta al completo erano usciti di casa, si erano stretti dentro una macchina, e in tre avevano preso una discussione semiseria sulle questioni fondamentali del calcio, mentre gli altri sbuffavano. Federico aveva chiesto di smetterla, e così Loris si era messo a raccontare delle storielle. Poi erano giunti al locale, erano entrati, avevano bevuto qualcosa, avevano fatto una gran confusione fingendo disaccordi improbabili, tanto da farsi riprendere dal cameriere. Infine Fulvio aveva dichiarato di essere stufo di star lì, e appoggiato da Alessandro avevano deciso che era meglio andarsene a fare un bel giro, senza una meta precisa.

La serata era andata avanti così, con Antonio e Federico pronti a parlare a voce alta di tutto e a prendersi in giro; gli altri ridevano e a tratti dicevano di smetterla, senza volerlo davvero. Più tardi, quando la notte aveva iniziato ad imporre maggiore rispetto, avevano proseguito con argomenti più personali, seduti nelle panchine di un giardinetto, quasi cercando con la serietà ritrovata di farsi perdonare le leggerezze precedenti. Era stato allora che Carlo aveva detto a tutti che da pochi giorni gli era stato diagnosticato un tumore, e che forse quella era l’ultima volta in cui lo avrebbero visto così. In un primo tempo questa cosa aveva lasciato gli altri perplessi, quasi senza parole. Erano amici da sempre, una batosta del genere era pesante. Poi Alessandro, con timidezza, aveva detto che forse era il caso di farsi un bel brindisi, piuttosto che lasciarsi andare a una tristezza fuori luogo, e così avevano fatto, raggiungendo un posto poco distante aperto per tutta la notte.

Antonio si era portato una vecchia fotocamera tascabile con la pellicola in bianco e nero ed il flash, e con quella si erano fatti delle istantanee con le facce più buffe che erano riusciti a inventare, e infine, mentre albeggiava, quando si erano lasciati per andarsene ognuno a dormire nella propria casa, si erano abbracciati quasi piangendo, come se ognuno di loro portasse sopra di sé quasi un peso per quel cancro che intanto devastava il corpo di Carlo. All’improvviso non si erano mai sentiti così vicini, così attaccati alla vita come a un filo sottile del quale non restava che ringraziare per momenti del genere. Si sentivano patetici, ed avrebbero forse voluto evitare di essere così, ma non c’era altro modo di sentirsi, e quella sensazione che avevano sempre avuto di potersi permettere tutto in qualsiasi momento, risultava inevitabilmente incrinata da quella sera in avanti.

Negli anni seguenti la vita fece il suo corso: ognuno di loro andò avanti per la sua strada, si videro ancora, naturalmente, si scambiarono ancora informazioni e pensieri, seguirono tutti il percorso medico di Carlo, ma alla fine di quel lungo periodo che seguì rimase soltanto quel gruppo di fotografie in bianco e nero, testimoni di qualcosa che era stato perduto, e che se anche da sole, quelle istantanee, non dicevano molto, alla fine però erano il segno tangibile di qualcosa che c’era stato davvero, e come non ricordarlo, incarnavano perfettamente il senso di una serata qualsiasi, un po’ assurda, quale ne possiamo trascorrere mille, ma che solo quella volta è speciale, perché non ce ne saranno altre così.

Bruno Magnolfi

venerdì 7 maggio 2010

Una calma artificiale


L’uomo camminava per strada insieme a tutti i pensieri che gli giravano nella testa, ed i suoi passi cercavano di scansare i piccoli accumuli d’acqua che si erano formati sui marciapiedi, dopo la pioggia insistente di quel pomeriggio. In giro si vedevano poche persone, la maggior parte dei negozi aveva già chiuso, le strade lucide portavano via le ultime auto. L’uomo teneva le mani sprofondate dentro alle tasche, il cappello antiquato calato sugli occhi, lo sguardo immobile, qualche metro davanti alle scarpe. La sua depressione negli ultimi tempi pareva non aver progredito, quella passeggiata che affrontava ogni giorno riusciva a fargli distendere i nervi, a renderlo tranquillo per quasi tutta la notte.

In fondo alla strada, oltre l’angolo, qualcuno aveva fatto un cenno con modi furtivi. L’uomo si era avvicinato proseguendo comunque il suo itinerario, e una vecchia, mezza nascosta dentro un portone, gli aveva chiesto qualcosa di incomprensibile. L’uomo immaginò che stesse chiedendo dei soldi, così soffermandosi appena un momento tirò fuori dalla tasca alcune monete, ma la vecchia con un gesto gli fece capire che non era quello che le interessava. Lo invitò a seguirla dentro al portone, gli indicò con un dito la scala di pietra che portava fino a quel primo piano, dove la porta di un appartamento era socchiusa. L’uomo seguiva quei gesti conservando, insieme ad una certa curiosità, la voglia profonda di tornarsene alla sua passeggiata ed ai suoi pensieri, ma la vecchia pareva dovergli mostrare qualcosa di importante, qualcosa che teneva lì, in quella casa, e che pareva in fondo a quel corridoio.

La luce era scarsa là dentro, il corridoio pareva più lungo di quello che si sarebbe pensato, lui scrutava quel muro pensando a cosa poteva trovare. Quell’ingresso poi girava ad angolo retto, e tutte le porte che si vedeva erano chiuse. Ad un tratto si accorse che era rimasto da solo, la vecchia sembrava sparita, forse si era infilata dietro una delle porte, pensò, e in un moto di razionalità tornò sui suoi passi, verso l’uscita. Ma con grande sorpresa, là dove si aspettava di trovare il portone, vide che non c’era più, e al posto dove avrebbe dovuto trovarsi adesso c’era il muro, come se la parete si fosse ricostituita alle sue spalle. Pensò che forse stava sbagliando, che forse aveva perso l’orientamento in quel corridoio, che quell’appartamento così grande e così stravagante poteva avergli giocato uno scherzo. Percorse avanti e indietro più di una volta tutto l’ingresso, scoprendolo sempre più contorto, più buio, più complicato ad ogni suo passo, fino a quando decise di aprire a caso una di quelle tante porte che c’erano.

La stanza in cui entrò era vuota, solo un letto disadorno vicino ad una parete, nient’altro. Osservò la finestra dai vetri opachi, si tolse il cappello, il soprabito, e appoggiò le sue cose sopra una sedia lì accanto. Si sentì improvvisamente stanchissimo e si sdraiò sopra quel materasso, assaporando il silenzio e la piacevole oscurità della stanza. Passò un po’ di tempo senza che niente accadesse, forse un’ora, forse anche due, poi, senza preavviso, arrivò l’infermiere della clinica insieme ad un’altra persona col camice bianco per fargli la solita iniezione calmante. “Eccomi”, disse il medico della clinica psichiatrica, mentre l’infermiere lo aiutava a tenere l’uomo fermo sul letto; “Con questa almeno stiamo buoni per quasi tutta la notte”.

Bruno Magnolfi

Impossibilità quotidiane



a mattina dietro le tende appare livida, proprio come ieri. Ho trent’anni, mi sento già vecchia, senza entusiasmo, indosso qualcosa e giro per casa cercando gli oggetti che mi rassicurano. Il mio turno di lavoro al negozio è al pomeriggio, avrei tutta la mattina per me, ma non riesco a far niente. Inizio con fatica a riordinare la cucina, tanto per prendere tempo, poi decido di uscire. Fuori è anche peggio, mi gira la testa, sento in bocca il sapore del niente di ieri che mi attira verso di sé. Entro nel bar più vicino e prendo un caffè, un signore sfoglia un giornale sopra ad un tavolo. Mentre risalgo le scale del mio palazzo mi sembra che gli sforzi che faccio non servano a nulla: lascio passare le ore come se quella fosse l’unica cosa possibile. Poi squilla il telefono, lo osservo per un attimo mentre continua a suonare e immagino le due o tre persone che potrebbero chiamarmi. Ho un attimo di incertezza, infine dico pronto, con una svogliatezza neutrale. Non mi sbagliavo, è la prima persona che avevo immaginato, e mi dice subito le cose che avevo creduto mi dicesse. Rispondo va bene, seguirò i tuoi consigli, non preoccuparti, adesso ho da fare un sacco di cose, sono quasi in ritardo. Riattacco. In fondo lo so che ci sono persone che mi vogliono bene. Sono io che non voglio più bene a nessuno, neppure a me stessa. Oscillo tra le ore del giorno compiendo le operazioni di rito, senza entusiasmo, come un dovere, celebrando il normale processo del vivere, rinviando qualsiasi decisione. Alla fine mi trucco senza neppure guardarmi allo specchio, indosso lo stesso vestito di ieri, metto le scarpe col tacco e sono pronta: affronterò la giornata anche oggi, decido, forse sarà l’ultima volta in cui mi è apparso tutto così buio. Oppure no, ma che importa, non ci posso proprio far niente.

mercoledì 5 maggio 2010

La propria convinta solitudine









Il signor Bonelli dalla sua finestra osservava immobile e in silenzio il traffico lungo la strada cittadina davanti casa sua. Poteva passare per combinazione qualcuno che conosceva, e lui sarebbe stato pronto a salutarlo; altri avrebbero potuto fargli un cenno dalla strada per raggiungerl...i, per invitarlo a prendersi un caffè nel locale all’angolo, e lui li avrebbe seguiti volentieri. Ma al momento rimaneva lì, come spesso faceva, e non scorgeva nessuno che avesse visto almeno un’altra volta, solo poca gente che se ne andava tranquillamente per i fatti propri. Non c’era niente che lo trattenesse in casa, al signor Bonelli, lui lo sapeva, ne era cosciente, ma non riusciva a trovare neppure un buon motivo per uscire; così restava dentro la sua stanza, ad osservare lo scorrere di persone ignote fuori dai vetri, covando il desiderio di essere con gli altri, lungo il marciapiede, incapace però di raggiungerli senza un motivo. Ed era inutile lo sprofondarsi dentro ai propri pensieri, certe volte lo faceva, ma era una posa, un mostrarsi occupato significativamente. In realtà si sentiva racchiuso in uno stallo tra due elementi contrapposti, come spesso gli era capitato: impossibilitato a decidersi ad uscire, però sofferente di non poterlo fare. Non riusciva neppure a spiegarlo a se stesso, ma quell’indecisione che spesso si manifestava, secondo lui, era un problema per tutti, il male maggiore del mondo. Nel modo di pensare del signor Bonelli tutto restava sospeso alla ricerca di una scelta che non c’era, non era realistica, che torturava chi ne era soggetto, lasciando i più alla mercé di qualcosa che era addirittura peggiore del non avere alcuna possibilità. La realtà era strana, spesso se ne rendeva perfettamente conto. La scelta continua tra le cose, a suo parere, rendeva le popolazioni prive di forza, annientate da un combattimento interno che non si mostrava neanche come tale, e pur tuttavia riusciva a togliere ad ogni cittadino il vigore di affrontare in modo solerte e convinto la realtà. Sua moglie, da quando il signor Bonelli era in pensione, spesso gli chiedeva dal di fuori della porta chiusa del suo studio, se andasse tutto bene, se sentiva il bisogno di qualcosa, ma lui rispondeva sempre che era tutto a posto. Qualche volta lei gli aveva suggerito di uscire, di andare a farsi quattro passi, tanto per prendere una boccata d’aria, ma a questa domanda lui restava ogni volta nel silenzio più profondo: non poteva rispondere perché non riusciva a prendere una decisione di quel genere, perché quella decisone necessitava di un motivo forte per essere presa, e lui non l’aveva, non aveva mai avuto un buon motivo per andarsene fuori a passeggiare. Così restava tutto il giorno da solo dietro alla finestra, accarezzato dalla tenda, e a nulla valeva cercare di sedersi per leggere un libro o un giornale: poco dopo tornava lì, ad aspettare come minimo che qualcuno lo invitasse fuori. Infine, durante un giorno come gli altri, notò un uomo che si era soffermato ad osservare quella sua finestra. Lo guardò con espressione seria, ne studiò l’espressione, si rese conto che doveva avere più o meno la sua età. Si osservarono per lunghi minuti, quei due uomini simili, divisi soltanto tra un dentro e un fuori inconciliabile. Il signor Bonelli pensò subito che l’uomo sulla strada fosse felice di aver trovato un buon motivo per poter guardare lui che era dentro la sua casa, ma poi non trovò le ragioni per questa spiegazione. Rimase indeciso, anche in quel caso, e pur sperando con tutte le sue forze che quell’uomo lo invitasse a raggiungerlo, non fece niente per fargli capire quanto lo desiderasse, fino a che il traffico e la strada risucchiarono anche quell’unica persona che gli aveva fatto nascere quella disperata speranza. Così quell’uomo poco dopo se ne andò, lasciandolo dietro alla sua finestra, quasi senza speranza, in una solitudine terribile.

Bruno Magnolfi


Una parte di normalità


L’uomo aveva osservato il traffico di persone lungo il marciapiede, rimanendosene affacciato per un po’ alla sua finestra. Non ci trovava niente di anomalo in quella giornata, anche se non sapeva spiegarsi a chi doveva servire quella normalità di cui spesso si parlava. Le auto si fermavano ad un semaforo poco distante, i pedoni attraversavano la strada, tutto pareva come sempre. Il colpo di stato dei militari, la settimana precedente, era fallito, e a parte qualche recrudescenza le cose nel paese erano rimaste le medesime. I giornali negli ultimi tempi avevano detto che la corruzione dilagava, che diventava sempre più un fatto ordinario, ormai non meravigliava più nessuno, però tutti erano chiamati ad aprire gli occhi, anche se sembrava una raccomandazione blanda, quasi insensata. Certo era sempre più difficile pensare che il governo del paese fosse l’espressione della gente. Ma la gente camminava silenziosa, non si interessava di politica, forse non riusciva neanche a distinguere un esponente politico dall’altro.

L’uomo indossò la sua giacca e scese nella strada. Aveva un appuntamento di lavoro, doveva vendere un appartamento, o almeno farlo vedere a una persona che poi avrebbe deciso se acquistarlo o meno. Salì sulla sua auto e si mosse nel traffico con la radio che trasmetteva le ultime notizie. Qualche scontro a fuoco c’era stato nel paese, soprattutto nelle zone di campagna, ma niente di importante. Lì nella capitale la polizia pattugliava ogni centimetro di strada, era difficile pensare alla possibilità di atti di violenza. In ogni caso tenere una piccola pistola carica sotto alla giacca dava all’uomo una certa sicurezza. Trovò un parcheggio con una certa fatica in quella strada centrale, poi spense il motore ed uscì dall’auto. L’agenzia per la compravendita di immobili di cui l’uomo era il direttore, praticamente aveva chiuso, visto il mercato ormai fermo di quegli ultimi tempi. Restava qualche appartamento di lusso da piazzare, certo abbassando i prezzi all’osso in modo da renderli appetibili, e ci pensava lui, rimasto da solo a mandare avanti tutta l’attività. Giunse davanti al grande portone di legno del palazzo ottocentesco mentre dalla parte opposta arrivava un uomo ben vestito, con mezza faccia coperta dal cappello e dagli occhiali scuri. Si presentarono, e quello disse di essere il ministro degli interni. L’uomo sentiva un tremore nelle gambe, il ministro era venuto senza scorta, forse per dare meno nell’occhio, pensò.

Salirono fino al primo piano, l’appartamento era immenso, dieci stanze con mobili di pregio, tutte grandi; il ministro osservava in silenzio, con modi freddi. Parlarono del prezzo, pareva troppo alto. Discussero in maniera nervosa, andando subito al sodo ad evitare parole commerciali e frasi di circostanza. Poi il ministro disse senza mezze misure che facendogli risparmiare un dieci per cento sulla cifra, lui gli avrebbe procurato un lavoro di usciere al palazzo del governo, per se stesso o per un suo familiare: “Avrà pure un figlio da sistemare…”, disse con un sorriso odioso. L’uomo in silenzio rifletteva sul fatto di non avere una famiglia, e in quel momento questa sicurezza lo faceva sentire bene, quasi come fosse un vantaggio. Poi quel lavoro di vendere gli appartamenti a lui piaceva, non aveva mai pensato di cambiarlo, nonostante le cose non andassero certo bene ultimamente. Disse di no, in maniera secca, senza repliche. Il ministro si accigliò, disse parole sconvenienti, chiuse sgarbatamente una porta come a mostrare che quella casa non valeva i soldi chiesti.

L’uomo tirò fuori la pistola, con calma, senza farsi sopraffare dall’emozione. In fondo lui era un uomo qualsiasi, uno di quelli normali di cui parlava tanto la radio. Un’occasione come quella non sarebbe mai più capitata ad uno come lui. Il ministro cambiò completamente atteggiamento, disse che non c’erano problemi, avrebbe preso l’appartamento alla cifra stabilita, ma l’uomo gli disse di rimanersene in silenzio. Lo fece spostare dentro una stanza che fungeva da dispensa, dietro alla grande cucina, lo fece voltare e poi sparò, un colpo solo, mortale, coperto dai rumori della strada che giungevano dalle finestre spalancate. Chiuse la porta a chiave, ripose l’arma, poi serrò tutte le imposte e le finestre, infine uscì dall’appartamento, raggiunse velocemente la strada e se ne andò, sicuro di aver fatto la sua parte. Fuori la gente continuava a camminare avanti e indietro lungo la strada, lui osservò il traffico e seppe di star bene, di sentirsi perfettamente a proprio agio. Entrò nell’auto e mise in moto: la radio continuava a richiamare tutti alla normalità, e andava bene così, le istituzioni continuavano a fare i propri interessi, nonostante tutto.

Bruno Magnolfi

lunedì 3 maggio 2010

Julius dei cuccioli


Era partito da solo, con quella macchina vecchia, scarburata e fetente. Contava di arrivare alla frontiera italiana a metà della notte, e se aveva fortuna nessuno lo avrebbe fermato, nessuno gli avrebbe chiesto di aprire quel bagagliaio maledetto.
Guidava ormai da cinque ore filate, e in testa non aveva più niente, tutti i pensieri se n’erano andati via poco per volta dal tubo di scappamento insieme a quel fumo. I trenta cuccioli si erano lamentati per più di due ore all’inizio, quando era ripartito dalla casa di campagna miserabile piena di latrati e di merda da tutte le parti, poi il freddo e il ronzio del motore li aveva convinti a starsene giù, rannicchiati, e aspettare il momento in cui fossero arrivati. Gli dispiaceva, a Julius, ma non poteva fermarsi, non poteva aprire quel cofano, neanche per dar loro da bere: non poteva rischiare che qualcuno li vedesse, che si facessero sentire o che qualcuno di loro scappasse da dentro la macchina. Alle prime luci dell’alba sarebbe stato a Milano, aveva il numero di telefono del contatto nella rubrica del suo cellulare, tutto si sarebbe concluso in fretta e senza problemi. Sapeva già che i tre o quattro cuccioli più deboli sarebbero morti, ma la selezione naturale avrebbe rinforzato la razza, così avevano detto quelli che li avevano messi nel suo bagagliaio.
Un lavoro da stronzi, quello di portare clandestinamente i cuccioli in Italia, lo sapeva anche lui, ma almeno la maggior parte di loro sarebbero andati a star bene, accuditi da qualche bambino ricco, con la villa, il giardino ed il resto. E poi sempre meglio che portare la droga, o cose del genere. Così pensava Julius, e intanto crollava di sonno, cercando di stare il più possibile dentro alla carreggiata con quella macchina vecchia, un pezzo di ruggine. Aveva aperto un po’ i finestrini perché il puzzo dei cani arrivava fin lì davanti, e poi l’aria fresca andava bene, lo faceva correre meglio, lo svegliava. Alla frontiera c’era un velo di nebbia, il poliziotto lo aveva guardato mentre lui lentamente passava con i documenti già pronti, ma non gli aveva fatto alcun cenno, la strada era libera, tutto andava come doveva. Altre due ore, pensava Julius, forse tre, poi si sarebbe concesso una bella dormita con i suoi tremila euro sotto al cuscino, e poi via, da sua moglie al settimo mese, con la pancia già grossa, a cercare di costruire un futuro. Forse avrebbe fatto un altro viaggio o anche due così, con i cani, poi basta, doveva cercare un cantiere fuori mano, dove nessuno veniva a chiedere niente, e farsi dare un lavoro da operaio, da manovale, tutto al nero, perché in altra maniera nessuno lo avrebbe mai preso, ma lui era giovane, gli andava bene anche così. Metter su una famiglia non era facile, si doveva accettare di tutto. Poi la nebbia era andata diradandosi, e in quel tratto in discesa lui aveva pigiato di più sul pedale, forse pensando a quei cuccioli, al loro bisogno di bere un po’ d’acqua, di smuoversi velocemente dagli scatoloni dov’erano stati rinchiusi. La macchina aveva iniziato a sbandare all’improvviso, forse su un pezzo di ghiaccio, lui aveva cercato di richiamarla con un colpo di sterzo, ma tutto era peggiorato di colpo e l’albero era uscito dal buio per andargli proprio davanti, a fracassarsi sul muso. L’ultimo pensiero di Julius era stato per quei cuccioli, quei piccoli cani rinchiusi tra quelle lamiere, destinati ai ricchi italiani, nati per un futuro migliore: forse diversi si sarebbero ancora salvati, ne era quasi sicuro, qualcuno fra non molto li avrebbe trovati, avrebbe dato loro da bere, forse avrebbe avuto pietà di quel loro tentativo di vita. Cosa importava adesso morire così, come uno stronzo qualsiasi, senza futuro, uno che non aveva saputo neanche guidare; ma i cuccioli no, loro non c’entravano niente, avrebbero dovuto salvarsi per forza. Questo l’ultimo pensiero di Julius; poi più nulla.

domenica 2 maggio 2010

Nel dolce letto del fiume.





La ragazza, sulla sponda del fiume, si era legata sopra le spalle il suo vecchio zainetto di scuola riempito di pietre, ed adesso restava là a piangere, assolutamente incerta sulla decisone da prendere. Ormai era buio su quel tratto di argine che le era sempre piaciuto, dove tante volte era andata con lui, nessuno avrebbe più potuto notarla, ma la giornata fino a poche ore prima era stata stupenda, piena di sole, di luce, di vita. Lui all’appuntamento non si era fatto neanche vedere, e lei sapeva perfettamente cosa significasse quel gesto, così adesso le pareva impossibile continuare a mangiare, a respirare, a parlare con gli altri, come se niente fosse successo.
Qualcuno, nel periodo appena trascorso, le aveva pur detto che forse era meglio chiuderla una storia d’amore così negativa, dove ogni gesto sembrava un ingrediente specifico concepito per avvelenare l’esistenza di tutti. Ma lei, caparbia com’era sempre stata, aveva voluto perseguire comunque in quell’intento, in quel cercare di costruire un futuro con lui, e lo aveva fatto senza ascoltare nessuno, proseguendo con la testa bassa, senza ascoltare e senza guardarsi mai attorno, quasi per scoprire fino a che punto potevano arrivare le cose. Adesso si sentiva sfinita, lì su quella sponda del fiume cittadino, era la prima volta in tutta la vita che provava quel tipo di sensazione, e soltanto questo semplice pensiero era capace di renderle anche l’idea del futuro assolutamente insopportabile.
Aveva provato già più di una volta quella sera a scrivere un biglietto che spiegasse il suo gesto, ma le risultava quasi impossibile racchiudere in poche parole quello che sentiva dentro di sé in quel momento. Era come se la sua vita avesse trovato in un unico gesto il compendio in cui concentrare i tanti possibili sviluppi, ma non sapeva perché. Piangeva, e in quel suo pianto stava soprattutto la consapevolezza di sé, di quanto fossero racchiuse lì dentro anche le cose che tante volte aveva sognato e che da adesso non avrebbe più potuto realizzare. Pensava ai suoi genitori, agli amici, a lui, e le pareva che il suo gesto potesse funzionare da monito a tutti, come se nessuno si potesse permettere di giudicare troppo leggeri i suoi sentimenti, la sua sensibilità, la serietà con la quale aveva intrapreso quella sua storia. Le pareva di vederli tutti là, increduli, affranti, durante la fase di riconoscimento del suo cadavere, e poi nella camera ardente a chiedersi come fosse stato possibile, e ancora con quella bara di legno sopra le spalle, a proseguire mesti le loro esistenze.
Poi dette uno sguardo al suo orologio da polso, quasi per abitudine, e improvvisamente si sentì un’incredibile sciocca. Le parve in un lampo che i suoi pensieri fossero troppo proiettati verso il futuro per non provare la curiosità di scoprirlo con i suoi occhi; le sembrò che i suoi pensieri fossero troppo egoistici per lasciare tutti a piangere stupidamente della sua mancanza; e infine decise che probabilmente ci sarebbero stati altri uomini nella sua vita che avrebbero avuto la capacità di farle dimenticare di quel suo ragazzo. Pensò a tutte le cose che si era ripromessa di fare negli anni a venire, e le parve impossibile non tener fede a quelle intenzioni. Si tolse con fatica lo zaino da sopra le spalle, e con gesto deciso lo gettò avanti a sé, osservandolo sprofondare in un attimo in quell’acqua nera. Poi si arrampicò sopra l’argine, con il cielo ancora cosparso di un chiarore di luce, e fu proprio in quell’attimo che avvertì la presenza di qualcuno poco distante. Strinse i suoi occhi, osservò meglio, poi si accorse con gioia infinita che era lui, il suo dolce ragazzo, venuto disperato a cercarla, forse consapevole di quanto il suo ritardo all’appuntamento si fosse dimostrato più grave di quanto avrebbe potuto supporre. Forse non era lui il suo futuro, ma che cosa importava, adesso era bello pensarlo.

Bruno Magnolfi

sabato 1 maggio 2010

Il mercato quotidiano

Il signor Vannini e la sua consorte, come già era accaduto qualche altra volta anche se non di frequente, avevano invitato per quella sera i coniugi Rilotta a prendere un caffè in casa loro. Si erano accomodati nelle poltrone del salotto e dopo poco la signora Vannini era tornata con uno scintilla...nte vassoio con il caffè e dei pasticcini. La signora Rilotta aveva detto con voce stridula e vagamente ridicola qualcosa di convenevole sul servito elegante appoggiato sul tavolo basso, e aveva aggiunto qualcosa sull’incomodo che si era andata a cercare la signora Vannini, con quegli splendidi centrini merlettati che fungevano da sottotazza, e comunque compiacendosi della finezza per quegli oggetti così aristocratici, anche se il marito dell’altra aveva smorzato le cose spiegando quanto sua moglie ci tenesse a quel tipo di cose. Poi avevano subito iniziato a parlare del loro quartiere, visto che le loro abitazioni rimanevano poco distanti, e in fondo questo era anche il motivo della loro conoscenza. “Ormai è diventato uno schiamazzo continuo, e se fino a pochi anni fa queste strade erano caratterizzate da tranquillità e da calma, adesso è tutto il contrario”, diceva la signora Vannini. Il signor Rilotta continuava ad osservarla senza farsi notare, immaginando il suo modo di fare all’amore con suo marito, sempre con quella mascella leggermente tirata, come di chi non è mai d’accordo su niente, e forse gli veniva persino da sorridere pensando a un’immagine del genere; e così, tanto per mostrare il suo interesse per quell’argomento, disse subito: “Tutta colpa delle famiglie dei nuovi arrivati, con quella miriade di figli che rimangono tutto il santo giorno per strada; e poi non gli basta, si mettono pure a giocare e a fare gazzarra”. “Ha ragione”, colse al volo l’argomento il signor Vannini; “L’altro giorno una pallonata è arrivata direttamente sul cofano anteriore della mia auto mentre tornavo a casa, roba che dalla paura per poco non andavo a sbattere in un albero del vialetto, e a nulla è servito averli rimproverati, hanno continuato come se tutto fosse normale”. A questo punto, mentre gli altri scuotevano la testa per mostrare la loro solidarietà su quanto l’altro aveva appena riferito, il signor Rilotta, forse eccitato da quell’argomento, fece una mossa un po’ brusca, rovesciando con malagrazia la sua tazzina di caffè che cadendo sul pavimento irrimediabilmente si ruppe. La faccia della signora Vannini naturalmente assunse espressioni indescrivibili, e in mezzo alle scuse immediatamente poste in essere con espressioni del tipo: “Non riesco proprio a capire come possa essere successa una cosa del genere”, tutti si dettero immediatamente da fare per cercare di pulire e sistemare le cose, compreso il marito della signora Vannini, preoccupato anche lui per le conseguenze. Naturalmente la serata apparve subito senza rimedio, ma le cose precipitarono ancora quando la signora Rilotta, riferendosi soltanto al signor Vannini, che essendo più ragionevole forse era anche d’accordo, disse che probabilmente non sarebbe importato tirare fuori un servito prezioso del genere per una serata tra amici. La moglie comprese al volo la critica ai suoi comportamenti insita in un’affermazione del genere, e così si sentì subito in dovere di replicare che lei era abituata a fare le cose per bene, e a trattare anche gli ospiti non meritevoli con un certo riguardo, cosa che fece inalberare la Rilotta, in difesa del suo disattento marito, dicendo con un certo orgoglio: “Non si può sostenere che un incidente sia dato da mancanza di rispetto o cose del genere; comunque se ne ha proprio bisogno, le ricompriamo volentieri l’intero servito”. Tutto precipitò, e le cose perdendo di qualsiasi razionalità si portarono in avanti con una polemica infinita intorno ai modi e ai sistemi migliori di comportamento, e siccome i signori Rilotta avevano intanto riavuto dal signor Vannini i soprabiti per andarsene via, la discussione si era spostata direttamente fuori dalla porta, lungo il breve vialetto che portava alla strada. Le loro voci adesso erano stridule e si accavallavano le une sopra le altre nel silenzio della serata, compresa quella della signora Rilotta che cercava di dare il meglio di sé difendendo a spada tratta il marito, e fu solo ad un certo momento, dopo essere andati avanti con voci alterate per parecchi minuti che si resero conto che qualcuno, in fondo alla strada, stava cercando di chiedere un po’ di silenzio, un minimo di calma; “Perché così””, diceva la voce, “Sembra proprio di essere dentro a un mercato”.

Bruno Magnolfi

Il risultato migliore



Le parole di Franco si erano immediatamente imbrogliate mentre cercava di dire qualcosa di carino. Aveva ripetuto come balbettando qualche sillaba, e Laura gli aveva sorriso, come se fosse disposta per una volta a perdonare un ragazzo un po’ pasticcione. Ma Franco non voleva che lei sopportasse la... sua timidezza, e neppure che a lui fosse perdonato qualcosa per simpatia o per disinteresse. Non desiderava neppure essere duro o irato con se stesso, quindi prese tempo, distese il suo volto rimasto fino ad allora corrucciato, trovò meglio le parole con le quali voleva spiegarsi e le disse, con calma, con la maggiore semplicità che gli era possibile. Poi osservò Laura negli occhi per vedere quale risultato aveva ottenuto, e si accorse così che il suo impegno era stato premiato: Laura era felice della determinazione che Franco aveva dimostrato, e per lui non ci poteva essere un risultato migliore.

Bruno Magnolfi