sabato 31 luglio 2010

La realtà fuori di qui


Solo, tra queste stanze che conosco a menadito, mi intrattengo con i pensieri di sempre mentre cerco di trovare una forma diversa alle mie giornate. Viene una donna ogni giorno per un paio d’ore, mi porta qualcosa per pranzo, si occupa della mia casa. Il resto del tempo per me è composto da luci basse, silenzio, piccoli spostamenti dentro l’appartamento. Una volta alla settimana viene un’assistente del servizio sanitario, generalmente il giovedì, a volte arrivano in due, si piazzano seduti, mi guardano, riempiono i loro questionari, fanno delle domande e spesso ripetono le medesime.

L’altro giorno, mentre ero andato a prendere qualcosa in un’altra stanza, ho sentito che dicevano tra loro che non era più il caso di tenermi da solo, e secondo uno dei due era opportuno chiudermi dentro una clinica, anche se l’altro sembrava più cauto. Così ho deciso di fuggire. Il mio problema è che da anni non esco di casa, probabilmente da quando è morta la mamma: quella volta mi chiusi nel più profondo silenzio, e per mesi non detti retta a nessuno. In seguito riuscirono a farmi riprendere a parlare e a mangiare, ma non ho più voluto abbandonare le stanze del mio appartamento.

Solo a pensare alle strade, alla città, a tutta le persone che camminano come tante formiche lungo quei marciapiedi, mi prende un tremore profondo, una repulsione che non so controllare. Sento il mio corpo muoversi goffamente, percepisco il mio essere inadatto alle cose degli altri. La mia testa non riesce a pensare la fretta, prendere decisioni, avere iniziative. Eppure adesso sa cosa deve affrontare. Voglio andar via, non so dove, perché così resto prigioniero della mia inadeguatezza, lascio che altri decidano tutto per me, della mia vita, delle mie giornate composte esclusivamente di pensieri.

L’ultimo questionario degli assistenti era diverso, trattava anche di cose intime, mi ha messo fortemente a disagio e così ho rifiutato di collaborare. Allora mi hanno osservato, fermi seduti davanti a me come stavano; hanno parlato tra loro sottovoce senza farmi capire, sono tornati a guardarmi tante e tante volte. Hanno scritto qualcosa sopra i loro fogli, d’altronde come hanno sempre fatto, poi hanno alzato gli occhi e hanno ripreso di nuovo ad osservarmi. Voglio fuggire da queste persone, pensavo, devo proprio farlo.

Ho atteso che la donna che si occupa della mia casa avesse finito con le sue attività, ho risposto al saluto quando si è messa il soprabito per andarsene via, ho lasciato che chiudesse la porta del mio appartamento alle sue spalle. Per un attimo ho immaginato di essere lei. Poi ho preso l’impermeabile dentro l’armadio, l’ho indossato e ben chiuso di tutti i bottoni, infine ho aperto la porta, ho lasciato un saluto alla mamma e sono uscito. Era pomeriggio, mi sono subito reso conto di questo, per le scale non ho incontrato nessuno, quindi ho preso a camminare lungo la strada.

Ho girato senza badare a niente, se non al mio camminare e basta, ma poi alla fine mi sono sentito stanco e vuoto. Non so dove mi trovassi, ma quando ho visto una persona in uniforme ho detto il mio nome ed ho chiesto di aiutarmi. Non posso decidere da solo, ho pensato. Devo parlarne con la mamma, forse devo portarla assieme a me. Perché senza di lei non ho mai fatto niente, non posso iniziare proprio adesso.

Bruno Magnolfi

L'importanza di uscire di casa.


Pensavo qualcosa, soltanto un momento fa. Poi nella stanza è entrata Elisabetta, ed è parso tutto fuggire attraverso la finestra. “Lamberto, vorrei che tu fossi più presente, certe volte; invece ti piazzi lì, da una parte, e non si riesce più a capire dove tu sia davvero con la testa…”. “...Sono qui, non preoccuparti”, dico io, e intanto penso che dovrei trovare qualcosa di cui occuparmi quando sono a casa, almeno per farmi vedere più impegnato ed evitare queste domande uggiose di mia moglie. Chissà perché mi guarda ultimamente in quel suo modo strano, rifletto tra me, forse sospetta qualcosa, o magari pensa solo che abbia acquistato quella borsa che abbiamo visto nel negozio l’ultima volta che siamo usciti assieme. Poi dico: “Lamberto, ma non dovevi uscire?”, tanto per costringerlo a dire qualcosa, a scoprire almeno qualcuno dei suoi pensieri. “Si, è vero”, dice lui, “ma adesso non ne ho più voglia, però se ti manca qualcosa vado volentieri ad acquistarlo…”. “Si”, dico io, “serve del pane per la cena; se arrivi fino al forno te ne sarei grata…”. E’ solo una scusa, evidentemente. Adesso mi è venuta una gran voglia di fare una telefonata a Piero, ho bisogno di sentirlo, anche solo per un attimo. Sento la necessità sempre più forte della sua comprensione, dei suoi modi gentili con cui riesce a calmarmi, a farmi sentire importante. “D’accordo”, le rispondo; prendo la giacca e raggiungo la porta del nostro appartamento; penso che una boccata d’aria in fondo non mi farà poi male, il clima in questa casa è sempre più pesante, dovrei pensare di più a svagarmi, qualche volta. Apro il portoncino, ma invece di uscire lo richiudo, ricordandomi che in tasca non ho soldi. Passa solo un minuto mentre cerco nell’ingresso il mio portamonete, e intanto sento Elisabetta che parla con qualcuno al telefono. “Certe volte non ce la faccio più…”, dico a Piero che ha subito sentito la mia voce preoccupata. “Non riesco a sopportare quel suo sguardo indagatore, come se godesse nel torturarmi solo con gli occhi. E poi non esce quasi mai, sembra che si piazzi in casa solo per carpire i miei segreti. Anche adesso, per telefonarti, ho dovuto inventarmi qualcosa giusto per farlo allontanare…”, dico con voce quasi implorante, per accertarmi che Piero mi voglia veramente bene e comprenda il mio disagio. Resto perplesso, ma solo per qualche secondo. Ecco che cos’era che non riuscivo del tutto a capire da un po’ di tempo a questa parte. Rimango in silenzio nell’ingresso e riesco a dare un volto alla persona che sta all’altro apparecchio: il suo collega di lavoro; adesso è chiaro, è fin troppo evidente. Trovo finalmente il portafoglio, apro senza far alcun rumore la porta del nostro appartamento e la richiudo appena uscito con la medesima cautela: tutto sopporterei, meno che Elisabetta mi facesse una delle sue scenate per aver ascoltato la sua telefonata; farò un giretto attorno all’isolato, penso con convinzione, in fondo è per questo che sto uscendo.

Bruno Magnolfi

Giulia agli amanti della Fine del Giorno.




Il sole si spalmava sull’acqua a pennellate in una lunga striscia di mare color oro, verso ponente. L’umidità del maestrale aveva reso intorno le lingue di terra dei semplici profili grigi, senza prospettiva, e l’arenile appariva cosparso di innumerevoli orme, come fosse stato c...alpestato da folle sciamanti e inferocite. La maggior parte degli ombrelloni e delle sedie a sdraio erano già state chiuse, pronte a difendersi dalla brezza di terra, dalla salsedine e dall’umidità della notte. Nessun significato c’era nel rimanersene ancora lì, se non per contemplare quel lento evento della natura, il tramonto del Sole, come uno spettacolo risaputo e inevitabile, ma proprio per questo la piccola comitiva si era riunita seduta e composta vicino al bagnasciuga, nell’attesa che il disco fiammeggiante si tuffasse nell’acqua, pronta alla contemplazione dei colori dell’arancio, del rosa e del porpora con i quali tra poco si sarebbe agghindato quel cielo, come in un immenso fondale di una scena teatrale. E’ morta una donna, affogata nel mare qua vicino, aveva detto uno. Gli altri erano rimasti in silenzio; poi un altro, senza neppure alzare la testa, aveva aggiunto: non è vero, è solo rimasta stordita per giorni, poi ha ritrovato la coscienza e la memoria, ed è tornata indietro, verso il mondo dei vivi. Ci fu una pausa, come se anche il Sole nella sua lenta discesa si fosse fermato; infine Giulia, la donna di cui il gruppo degli amanti della Fine del Giorno aveva appena parlato, si sollevò dalla sabbia lì accanto come da un lungo e profondo sonno in cui fosse rimasta sprofondata per chissà quanto tempo, e in silenzio guardò attorno a sé ancora una volta quello scenario che pareva rammentarle tutti i pensieri che in quel giorno limpido le avevano attraversato la mente, e infine andò via, senza voltarsi.

Bruno Magnolfi

giovedì 29 luglio 2010

L’importanza di uscire da casa.



Pensavo qualcosa, soltanto un momento fa. Poi nella stanza è entrata Elisabetta, ed è parso tutto fuggire attraverso la finestra. “Lamberto, vorrei che tu fossi più presente, certe volte; invece ti piazzi lì, da una parte, e non si riesce più a capire dove tu sia davvero con la testa…”. “...Sono qui, non preoccuparti”, dico io, e intanto penso che dovrei trovare qualcosa di cui occuparmi quando sono a casa, almeno per farmi vedere più impegnato ed evitare queste domande uggiose di mia moglie. Chissà perché mi guarda ultimamente in quel suo modo strano, rifletto tra me, forse sospetta qualcosa, o magari pensa solo che abbia acquistato quella borsa che abbiamo visto nel negozio l’ultima volta che siamo usciti assieme. Poi dico: “Lamberto, ma non dovevi uscire?”, tanto per costringerlo a dire qualcosa, a scoprire almeno qualcuno dei suoi pensieri. “Si, è vero”, dice lui, “ma adesso non ne ho più voglia, però se ti manca qualcosa vado volentieri ad acquistarlo…”. “Si”, dico io, “serve del pane per la cena; se arrivi fino al forno te ne sarei grata…”. E’ solo una scusa, evidentemente. Adesso mi è venuta una gran voglia di fare una telefonata a Piero, ho bisogno di sentirlo, anche solo per un attimo. Sento la necessità sempre più forte della sua comprensione, dei suoi modi gentili con cui riesce a calmarmi, a farmi sentire importante. “D’accordo”, le rispondo; prendo la giacca e raggiungo la porta del nostro appartamento; penso che una boccata d’aria in fondo non mi farà poi male, il clima in questa casa è sempre più pesante, dovrei pensare di più a svagarmi, qualche volta. Apro il portoncino, ma invece di uscire lo richiudo, ricordandomi che in tasca non ho soldi. Passa solo un minuto mentre cerco nell’ingresso il mio portamonete, e intanto sento Elisabetta che parla con qualcuno al telefono. “Certe volte non ce la faccio più…”, dico a Piero che ha subito sentito la mia voce preoccupata. “Non riesco a sopportare quel suo sguardo indagatore, come se godesse nel torturarmi solo con gli occhi. E poi non esce quasi mai, sembra che si piazzi in casa solo per carpire i miei segreti. Anche adesso, per telefonarti, ho dovuto inventarmi qualcosa giusto per farlo allontanare…”, dico con voce quasi implorante, per accertarmi che Piero mi voglia veramente bene e comprenda il mio disagio. Resto perplesso, ma solo per qualche secondo. Ecco che cos’era che non riuscivo del tutto a capire da un po’ di tempo a questa parte. Rimango in silenzio nell’ingresso e riesco a dare un volto alla persona che sta all’altro apparecchio: il suo collega di lavoro; adesso è chiaro, è fin troppo evidente. Trovo finalmente il portafoglio, apro senza far alcun rumore la porta del nostro appartamento e la richiudo appena uscito con la medesima cautela: tutto sopporterei, meno che Elisabetta mi facesse una delle sue scenate per aver ascoltato la sua telefonata; farò un giretto attorno all’isolato, penso con convinzione, in fondo è per questo che sto uscendo.

Bruno Magnolfi

lunedì 26 luglio 2010

Il mondo di frutta da cogliere.


L’aria fresca dell’alba di un nuovo giorno si fa strada nei polmoni tra i residui del fumo stagnante delle ultime sigarette della sera precedente. L’angoscia pare attenuata, analogamente il bisogno di nuovi progetti si fa spazio dentro la mente. Al terso binario della stazione ferroviaria... il treno è annunciato in ritardo, ma solo di pochi minuti. Il signor Siniscalchi è pronto, attende con ansia il convoglio con tutto il suo carico umano con cui è pronto a mescolarsi. In fondo per molti è poco importante la destinazione, la cosa fondamentale è partire, fingere di lasciare alle spalle tutto ciò che ormai è desueto, risaputo, quell’ingombrante bagaglio di vita già stata, già elaborata e posta nell’archivio di una memoria sempre più futile e annoiata. Cosa c’è di più bello di un presente bruciante, l’immediatezza del mondo che ti viene incontro con il suo carico stupefacente di novità?, pensa il signor Siniscalchi. Cosa importa aver infranto le regole, carpito qualcosa di altri, aver sbeffeggiato con indifferenza quanto era a disposizione di tutti? Non sono riflessioni che adesso abbiano senso compiuto.Nella sua valigetta c’è il bagaglio più prezioso di qualsiasi altra cosa, l’ingrediente segreto per qualunque ricetta si voglia approntare da ora al futuro: valuta pregiata, la migliore, il toccasana per qualsiasi malattia dell’esistenza. Sul marciapiede davanti ai binari le persone si sfiorano, parlano tra loro di orari, di appuntamenti, di sciocchezze ordinarie che il signor Siniscalchi sta per lasciarsi definitivamente alle spalle. I suoi pensieri di adesso sono dominati soltanto dagli ultimi preziosi dettagli: il treno fino a Parigi, il biglietto aereo da lì già prenotato sotto falso nome, il suo passaporto contraffatto da esperti professionisti. In un pugno di minuti per lui la definizione di tutto il futuro.Cosa importa essere stato tanti anni fa un brillante universitario del corso di laurea in Legge, aver iniziato una carriera invidiabile, aver saltato velocemente tanti passaggi per la maggior parte dei suoi colleghi assolutamente insormontabili? Ciò che ha importanza è essere arrivato fin lì, non aver mai chiuso del tutto le porte che potevano essere utili, aver sempre fatto lavorare la mente a proprio vantaggio, perché è questo ciò che conta di più: sfruttare al meglio possibile qualsiasi occasione costruita o eventuale. La gente non ha testa, crede in tutto quello che viene raccontato, è giusto che paghi rispetto a chi emerge, chi riesce ad elevarsi al di sopra di lei. Il treno arriva decelerando rapidamente, si ferma, gli sportelli si aprono, qualcuno scende, gli altri si accalcano per salire, il signor Siniscalchi si mette in coda conservando la calma, ma proprio nell’attimo in cui mette un piede sopra al gradino, qualcuno gli afferra le braccia, due uomini che lui non conosce ai suoi fianchi lo trattengono sul marciapiede. Non sarò io a raggiungere il mio paradiso, pensa il signor Siniscalchi: però qualcuno lo farà, è sicuro, qualcuno lo ha già fatto, perché questo è un mondo di frutta pronta solo per essere colta.

Bruno Magnolfi

domenica 25 luglio 2010

L’inevitabilità del caso.


Dobbiamo dare un’immagine di fermezza, disse il capo dell’organizzazione. Perciò dobbiamo andare in fondo a qualsiasi provocazione in cui sia implicato il nostro nome. Nessuno aveva qualcosa da dire, quelle parole erano sacrosante, scolpite nella materia dura, incancellabili. Non saranno delle sciocchezze a farci regredire o cambiare punto di vista, continuò; va studiata l’opportuna contromossa che dimostri invariabilmente di quale pasta siamo fatti. D’accordo, disse uno dell’organizzazione, però è proprio questo il difficile: decidere quale comportamento tenere, cosa fare concretamente, ecco. No, non è tanto difficile, lo interruppe un altro; è sufficiente dare un’occhiata alle abitudini, ai comportamenti, ai modi con i quali differenziarsi, mostrarsi differenti, ed il resto viene da sé. Bravo, disse il capo dell’organizzazione, per prima cosa va studiato questo aspetto, siamo d’accordo. La villetta isolata nella campagna appariva circondata da alberature frondose, il vasto giardino era disseminato di uomini di scorta con sguardi vigili, e le auto erano state messe al riparo dietro fitte siepi. L’ora del tramonto aveva cosparso di rosa le basse colline vicine, e il cielo aveva assunto meravigliose sfumature di colori. Dobbiamo dare una lezione a qualcuno, aveva detto il capo dell’organizzazione dopo una lunga pausa riflessiva; niente di cruento, basterà mostrare che non abbiamo problemi a tirar fuori la testa e far vedere che siamo pronti a tenere il passo. Te ne occuperai tu, proseguì indicando uno di quelli che seguiva con maggiore attenzione le sue parole. Però deve riuscire un buon lavoro, niente violenza, niente giornalisti ficcanaso, niente forze dell’ordine. Ti lascio carta bianca, però se sbagli ci rimetterai la tua parte nell’organizzazione. Va bene, disse quello, sono pronto.Fuori, nel giardino, un certo nervosismo intanto aveva preso i guardaspalle e il servizio d’ordine dell’organizzazione. Qualcuno aveva sentito dei rumori, ad altri era parso che ci fossero stati dei movimenti tra gli alberi più distanti. Il capo del’organizzazione fu subito avvertito, salutò tutti con un gesto, e senza dire altro raggiunse la sua auto; gli altri attendevano ognuno il proprio turno per andare via, come già erano d’accordo. Le guardie del corpo avevano estratte le loro automatiche, tanto per sentirsi più tranquilli, ma tutti quanti ambivano il momento in cui sarebbero stati lontano da lì. La prima auto uscì sollevando un po’ di polvere, poi volse su un lato prendendo il viottolo che portava fino ala strada provinciale. Diversi tra i rimasti ne osservavano la traiettoria oltre le siepi, mentre velocemente continuava ad allontanarsi, alcuni calcolavano il momento in cui sarebbe potuta partire anche la seconda macchina. Fu allora che la deflagrazione non lasciò alcun dubbio. L’auto con sopra il capo dell’organizzazione parve disintegrarsi in una fiammata spaventosa, tutti rimasero basiti in silenzio almeno per un attimo, sembrò che tutto fosse irrimediabilmente perduto: ma a qualcuno venne subito spontaneo di pensare a chi poteva essere il successore maggiormente accreditato, e a qualcun altro venne forse anche l’idea di approfittare del momento inevitabile di sbandamento che sarebbe sopraggiunto. Uno tra tutti forse aveva già calcolato ogni pensiero degli altri: nessuna sorpresa, certe cose erano del tutto inevitabili.

Bruno Magnolfi

sabato 24 luglio 2010

la realtà fuori da qui




Solo, tra queste stanze che conosco a menadito, mi intrattengo con i pensieri di sempre mentre cerco di trovare una forma diversa alle mie giornate. Viene una donna ogni giorno per un paio d’ore, mi porta qualcosa per pranzo, si occupa della mia casa. Il resto del tempo per me è composto da luci basse, silenzio, piccoli spostamenti dentro l’appartamento. Una volta alla settimana viene un’assistente del servizio sanitario, generalmente il giovedì, a volte arrivano in due, si piazzano seduti, mi guardano, riempiono i loro questionari, fanno delle domande e spesso ripetono le medesime.

L’altro giorno, mentre ero andato a prendere qualcosa in un’altra stanza, ho sentito che dicevano tra loro che non era più il caso di tenermi da solo, e secondo uno dei due era opportuno chiudermi dentro una clinica, anche se l’altro sembrava più cauto. Così ho deciso di fuggire. Il mio problema è che da anni non esco di casa, probabilmente da quando è morta la mamma: quella volta mi chiusi nel più profondo silenzio, e per mesi non detti retta a nessuno. In seguito riuscirono a farmi riprendere a parlare e a mangiare, ma non ho più voluto abbandonare le stanze del mio appartamento.

Solo a pensare alle strade, alla città, a tutta le persone che camminano come tante formiche lungo quei marciapiedi, mi prende un tremore profondo, una repulsione che non so controllare. Sento il mio corpo muoversi goffamente, percepisco il mio essere inadatto alle cose degli altri. La mia testa non riesce a pensare la fretta, prendere decisioni, avere iniziative. Eppure adesso sa cosa deve affrontare. Voglio andar via, non so dove, perché così resto prigioniero della mia inadeguatezza, lascio che altri decidano tutto per me, della mia vita, delle mie giornate composte esclusivamente di pensieri.

L’ultimo questionario degli assistenti era diverso, trattava anche di cose intime, mi ha messo fortemente a disagio e così ho rifiutato di collaborare. Allora mi hanno osservato, fermi seduti davanti a me come stavano; hanno parlato tra loro sottovoce senza farmi capire, sono tornati a guardarmi tante e tante volte. Hanno scritto qualcosa sopra i loro fogli, d’altronde come hanno sempre fatto, poi hanno alzato gli occhi e hanno ripreso di nuovo ad osservarmi. Voglio fuggire da queste persone, pensavo, devo proprio farlo.

Ho atteso che la donna che si occupa della mia casa avesse finito con le sue attività, ho risposto al saluto quando si è messa il soprabito per andarsene via, ho lasciato che chiudesse la porta del mio appartamento alle sue spalle. Per un attimo ho immaginato di essere lei. Poi ho preso l’impermeabile dentro l’armadio, l’ho indossato e ben chiuso di tutti i bottoni, infine ho aperto la porta, ho lasciato un saluto alla mamma e sono uscito. Era pomeriggio, mi sono subito reso conto di questo, per le scale non ho incontrato nessuno, quindi ho preso a camminare lungo la strada.

Ho girato senza badare a niente, se non al mio camminare e basta, ma poi alla fine mi sono sentito stanco e vuoto. Non so dove mi trovassi, ma quando ho visto una persona in uniforme ho detto il mio nome ed ho chiesto di aiutarmi. Non posso decidere da solo, ho pensato. Devo parlarne con la mamma, forse devo portarla assieme a me. Perché senza di lei non ho mai fatto niente, non posso iniziare proprio adesso.

Bruno Magnolfi

giovedì 22 luglio 2010

Quasi sufficiente un’immagine.



La fotografia appariva sfocata, ingiallita, con delle tonalità di grigio ormai false, senza spessore. Però averla ritrovata tra le cose dimenticate di un cassetto di fondo dopo tutti quegli anni era quasi un miracolo, un riesumare un passato che si stentava a credere vero. A quell’epoca lei era giovane, carina, sorridente, ed era rimasta così, nella fantasia di Alberto, come se il tempo e la vita non avessero su di lei avuto il potere di cambiarne neppure un dettaglio. Lui, di tutta quella fotografia, riusciva a vedere solo quella dolce espressione, e non provava neppure a pensare a come potesse trovarla cambiata all’appuntamento che si erano dati dopo tutto quel tempo.
Caro Alberto, gli aveva scritto lei in quel breve biglietto, forse non ti ricorderai neppure di me, di quella ragazza magra, biondina, forse un po’ ombrosa. A me invece il tuo ricordo ha fatto compagnia tante volte durante questi anni, tanto che non ho mai parlato di te con nessuno per paura che quel pensiero così intimo potesse venire turbato. Aver cambiato città è stato un bene per me, non avrei mai sopportato di incontrarti per strada come due persone qualsiasi. Adesso alcune cose sono cambiate, ed io sono tornata. Mi piacerebbe vederti, parlare con te, anche solo per poco. Per favore, rispondimi con un semplice biglietto come quello che leggi. Seguiva l’indirizzo e la firma.
Ad Alberto qualche perplessità era velocemente passata dentro la testa, ma la voglia di rivedere quella ragazza era enorme, improvvisa, dirompente, tale da superare qualsiasi altra cosa. Tornava a rileggere le poche parole scritte di pugno e poi subito ad osservare quella fotografia in bianco e nero, e si sentiva quasi felice, come se l’entusiasmo che quegli oggetti riuscivano a scaturire al suo interno, potesse annullare qualsiasi divario possibile.
Le aveva scritto di getto quel biglietto di risposta che lei aveva richiesto, ed era stato breve, asciutto, conciso, cercando in poche parole di spiegare il piacere che provava anche lui nel desiderio di incontrarla. Lo aveva spedito subito, quasi di fretta, senza pensare a nient’altro, ma adesso, improvvisamente, si sentiva inadatto ad incontrarla davvero. Provava l’umana paura di deluderla, di non riuscire a dire le cose più giuste, di mostrarsi solo nostalgico e un po’ sdolcinato, senza essere capace di mettere a frutto un momento importante per la loro vita matura.
Allora pensò a lungo sulle cose migliori da fare, su come comportarsi, in quale modo vestirsi perfino, e niente nella mente di Alberto pareva adatto a quell’incontro fissato. Si sentì piccolo, stupido, incapace di stare all’altezza di una cosa del genere, e l’appuntamento era ormai fissato proprio per quella serata. Girò dentro casa, si fece una doccia, cercò di calmarsi e di volgere la mente verso altre cose; poi tornò a riguardare quell’unica fotografia che aveva di lei, e si sentì bene ad osservarla di nuovo. Si sedette, e con gli occhi tornò ancora sopra l’immagine, e decise di getto di rimanersene lì, seduto nella sua poltrona ad osservare per tutta la sera quella dolce fotografia. Perché in fondo, Alberto, non aveva davvero bisogno di altro.

Bruno Magnolfi

Miseria delle persone.



Sto fermo, seduto a pensare. Ricordo distintamente quando, circa due anni fa, ho iniziato a sperimentare come si possa procedere nella concentrazione mentale su un elemento che per qualche motivo interessa la nostra persona. Si vuole profondamente qualcosa, si percorre con il proprio pensiero la p...orzione di tempo in cui si desidera debba capitare qualcosa di semplice, e alla fine ecco che l’evento si avvera. Si guarda un oggetto di piccolo peso, lo si ritaglia con gli occhi dal luogo dove esso si trova, ed ecco che quello lentamente si sposta, magari anche soltanto di poco, ma l’oggetto dimostra di cedere passivamente ad una volontà superiore. Mi muovo tra le stanze del mio appartamento, poi esco di casa, giro per strada incrociando altre persone, percorro i marciapiedi guardando vetrine di negozi fitte di oggetti. Ho un potere incalcolabile su tutto, lo sento dentro di me, mi fa sentire a mio agio e mi concede uno sguardo disincantato, ma non mi interessa mostrarlo, farmi additare dagli altri come una persona speciale. Guardo gli oggetti che fanno bella mostra di sé dentro ai negozi illuminati e pieni di gente che acquista, che pone domande ai commessi, si sente potente, quasi superiore, dalla parte di coloro che a un certo punto aprono quei bei portafogli e pagano i conti, comprano, come se questo fosse il gesto fondamentale tra tutti. Lascio correre, non mi sento nelle condizioni di cercare supremazia su di loro, mi è sufficiente sapere che posso interrompere in qualsiasi momento quei finti sorrisi, quei gesti rituali, quei loro comportamenti da maledetti borghesi, e questo mi basta. Sorrido dentro di me, recupero un passo distinto e controllato lungo le strade, continuo a camminare immerso dentro ai pensieri, conscio di me stesso, di ogni mia piccola, nascosta, capacità. Rilevo quanto il mondo stia ancora dietro a piccoli comportamenti del tutto insignificanti, ed ho un moto di dispiacere nel rendermi conto di questo. Ma in fondo, rifletto, cosa mai posso fare, se non registrare il senso disperato che permane dentro ad ogni persona? A volte credo che ciascuno di loro, di tutta la gente, sappia in cuor suo cosa sarebbe in grado di fare se solo aprisse la mente, invece di perdersi dietro a monotoni gesti e a comportamenti usuali. Lo penso, pur sapendo di perdere solo del tempo con loro. Perché poi, in fondo, a che serve pensare una cosa del genere, mi chiedo: le persone sono solo persone, non si può pretendere molto.

Bruno Magnolfi

domenica 18 luglio 2010

Il coraggio per ricominciare.




Il signor Bernardini quella sera, nella fase del giorno in cui normalmente si preparava per andarsene a letto, e nonostante la sua età avanzata, si era messo un abito appropriato ed era uscito di casa, per la prima volta a quell’ora da un numero di anni così grande da non averne memoria. Sua moglie era morta da dodici giorni, e lui in quel breve tempo aveva come perduto l’equilibrio delle sue attività. Una scomparsa improvvisa lascia sempre esterrefatto chi rimane, specialmente se è anziano, ma nel suo caso era come venuto a mancare il punto di riferimento di ogni suo comportamento. La solitudine che il signor Bernardini aveva iniziato a provare girando da solo nel suo grande appartamento, era quasi indescrivibile, come se niente dei mobili, delle stanze, di tutti gli oggetti che aveva intorno, gli appartenesse davvero, e quasi che tutto avesse perduto importanza fino al punto da spingerlo a porsi domande su qualsiasi scontata certezza. Non riusciva più a capire che cosa desiderasse davvero, il signor Bernardini, ma oltretutto anche i compiti a cui aveva sempre accudito pareva d’improvviso che in lui avessero perso importanza, come se la struttura stessa della giornata, anche gli orari e i comportamenti ordinari, si fossero svincolati dalle loro funzioni. Il suo medico gli aveva prescritto delle lievi cure adeguate a casi del genere, viste le sue condizioni di grande prostrazione, ma lui non le aveva seguite, deciso come si sentiva a scoprire delle realtà rimaste sopite dentro di lui per tantissimi anni. Nei primi giorni amici e parenti si erano dati il turno a telefonargli e a chiedergli se avesse bisogno di qualcosa, anche soltanto per riempire quelle giornate da pensionato qual’era, ma lui aveva con naturalezza rassicurato tutti quanti, tagliando alla svelta ogni argomento. La fase maggiormente complessa della giornata si era subito dimostrata proprio quella, la sera, quando anche i pensieri divenivano precari, senza un vero significato, e il suo desiderio più forte si mostrava qualcosa verso cui indirizzarsi, un interesse a cui dedicarsi per sopperire a tutte quelle mancanze. Così era uscito, pur vecchio com’era, e aveva fatto una passeggiata senza un itinerario preciso, muovendosi a caso e pensando soltanto a camminare. Quel moto era salutare, lasciava spendere le energie e rilassare la mente, e i pensieri, grazie a quei passi cadenzati, parevano svagarsi fluttuando sugli argomenti più vari. Cercava di capire, il signor Bernardini, quali fossero adesso i suoi nuovi interessi, quale volontà nascondesse quel suo atteggiamento, anche se si sentiva confuso, a volte quasi smarrito. Rifletteva che non avrebbe potuto rinchiudersi in casa ad aspettare di morire d’inedia, era quello il punto essenziale che lo scuoteva. Voleva ancora vivere, questo era il principale sentimento, ma tutto intorno pareva non dargli seguito. Girava, camminava, scrutava nel buio, cercava di trovare la soluzione a quei suoi pensieri con la paura di trovare qualcuno che gli dicesse di tornarsene a casa.Poi il suo sguardo era andato a incuriosirsi dell’insegna luminosa di un locale notturno lungo la strada, un posto dove si suonava musica jazz, e così si era avvicinato a quel grande ingresso per ascoltare. Era rimasto lì qualche minuto, rapito da quegli echi che arrivavano fin sulla strada, senza accorgersi che una ragazza gli si era accostata: “E’ la musica più trascinante che si possa ascoltare…”, gli aveva detto lei sottovoce. Il signor Bernardini si era girato per osservare e forse per rispondere qualcosa alla donna, ma dentro a quegli occhi belli e sorridenti aveva visto in un lampo tutto quello che pareva inesorabilmente perduto nella sua vita: lo sguardo della ragazza era sorridente, piacevole, come mai ne aveva visto di simile, e prodigava coraggio, voglia di vivere, curiosità verso il mondo; così anche lui le sorrise, restando in silenzio, come se la differenza d’età non contasse un bel niente, compiacendosi di quelle parole. Continuò ancora per un attimo ad osservare quell’espressione, come per farne una scorta, poi, salutando quella ragazza con un inchino spiritoso e gentile, si avviò allegramente verso casa, convinto di avere compreso qualcosa di più su se stesso, e di sentire la forza e la determinazione per affrontare ancora la vita.

Bruno Magnolfi

domenica 11 luglio 2010

Per la fine della stagione estiva.


Sandra lavorava in quel locale come cameriera da poche settimane. Era una degli stagionali, il suo contratto era di quattro mesi, copriva giusto il periodo estivo, e il resto dell’anno niente, che tanto da quel paesino di mare c’era poco da aspettarsi. Nelle ultime due settimane la Pen...sione Orchidea si era riempita di villeggianti, e tra le colazioni, i pranzi e le cene da servire, non c’era quasi il tempo neppure di respirare. Tutti dicevano di tenere duro, che sarebbe trascorso in fretta anche quel mese, e lei cercava di mettere l’impegno massimo in quello che faceva. Qualche giorno avanti uno dei camerieri esperti, Nicola, uno che lavorava in quell’albergo per quasi tutto l’anno, le aveva sorriso guardandola con intensità, come a mostrare simpatia per lei o chissà cos’altro. Sandra era arrossita e aveva abbassato subito gli occhi, però le era piaciuto quello sprazzo di intimità, così adesso cercava di fare ancora meglio il suo lavoro, per mettersi in luce, per fare buona figura, soprattutto con Nicola. Poi però c’era stata la vicenda di una donna che non veniva più trovata, e più d’uno aveva iniziato a sostenere che era affogata in mare, e non sarebbe più stato rinvenuto neppure il corpo, fino a quando, al contrario delle dicerie, quella donna rispuntò fuori viva e vegeta, dopo solo un paio di giorni, come per magia, e tutto si risolse. Però Nicola aveva mostrato in quei due giorni un’agitazione incredibile, come se la sua sensibilità per quella cliente lo avesse sottoposto a una fortissima tensione. Sandra, che aveva preso a scambiare qualche parola con tutti i camerieri tra una portata e l’altra nella sala del ristorante, e soprattutto con Nicola, era rimasta colpita per quella sua assenza completa di attenzione anche per lei, e per quel nervosismo di cui pareva preda, tanto da sembrarle una persona addirittura diversa da quella che aveva conosciuto fino a quel momento. In più, quando era arrivato alla Pensione Orchidea il marito della scomparsa, Sandra si era accorta che aveva parlato a lungo con Nicola, come se lui avesse notizie che tutti gli altri non avevano. Certo, non erano affari suoi, ma qualcosa che a Sandra non piaceva, pareva si stesse verificando proprio sotto ai suoi occhi. Lei continuava il suo lavoro come sempre, ma ora più che mai stava attenta a tutto quello che accadeva intorno a quello strano cameriere. Forse lui a un certo punto si era anche reso conto che stava rovinando tutto con Sandra, ed una volta riapparsa l’affogata e sparito di scena quel marito, Nicola l’avvicinò, approfittando di un momento in cui erano soli. “Ti chiedo scusa, se i miei comportamenti ti sono parsi strani”, disse, senza che Sandra avesse chiesto nulla; “Però ci sono delle volte in questo mestiere che ci si trova a contatto con persone di cui non si sa nulla, e magari ci paiono proprio come tutti gli altri. Poi accade qualcosa, anche non di grande rilevanza, e si scopre cose che un attimo prima sembravano impossibili. Forse ti sembrerò superficiale, ma quest’ultima vicenda mi ha convinto di quanto tutto sia legato da un semplice filo di lana, e di quanto sia importante, al contrario delle facili furbizie, fare le cose in piena luce”. Poi si volse solo per un attimo, come per concentrare le sue speranze in poche parole, in un dettaglio, e quando tornò a guardare Sandra: “Mi piaci”, le disse, “te ne sarai accorta, ma non voglio forzarti; osservami ancora, fatti un’idea più precisa di me, di come sono fatto, oltre questi giorni assurdi, e se vorrai dirmi qualcosa prima che finisca il tuo contratto di lavoro, io ti aspetterò…”.

Bruno Magnolfi

sabato 10 luglio 2010

Lungo un qualsiasi marciapiede.


L’uomo, da solo, scruta il piccolo tavolo tondo e la sedia dove intende mettersi comodo. La sua giornata è già colma di indecisioni, sente che il tempo scivola inevitabilmente e lui non riesce a dare un indirizzo alle cose. Ha guardato le sue scarpe camminare, ha sentito la sua voce riferirsi a qualcuno, ma questo non ha significato alcunché. Forse neppure gli interessa dare un senso preciso al suo giorno, forse la sua ricerca di faccende di cui occuparsi è solo l’ennesimo tentativo per scoprire qualcosa di se stesso. Infine si siede, ma dopo un primo momento reputa inutile e quasi dannoso quel gesto. Il locale gli piace, c’è calma, ogni cosa sembra stare ben posizionata al suo posto, e fuori dalla vetrata la strada al contrario continua ad essere l’anarchica mescolanza di tutto.
Si avvicina con metodo un cameriere, chiede gentilmente cosa desidera, l’uomo dice, senza guardarlo, il piatto del giorno e un quarto di vino. Non ha fame, è evidente, ma l’abitudine a sedersi ad un tavolo e di mangiare a quell’ora che spacca la monotonia della giornata è così forte che non si sente in grado di fare resistenza. Ha un piccolo notes dentro alla tasca, lo estrae, rilegge gli appunti delle cose che avrebbe voluto fare quella mattina, si rende conto che non ne ha compiuta nessuna.
Niente di nuovo, è normale perdersi in mille altre cose che per via gli vengono a mente, anzi, forse il suo incaponirsi ad annotare le cose da fare, ha proprio il senso della smentita, del disattendere scientifico di ogni proposito. Che cosa può essere mai una giornata qualsiasi, trascorsa da solo girando per strada con mille pensieri e altrettante divagazioni, se non lo scegliere a braccio in ogni momento le cose da fare, decidere volta per volta dove andare, dove fermarsi, in che cosa occupare un po’ di quel tempo?
Nel bar-ristorante c’è poca gente, ognuno di loro nuota all’interno della propria indifferenza per tutto, il cameriere si affretta a servire le ordinazioni per restarsene poi immobile in qualche angolo fuori dalla vista. In fondo alla sala c’è un uomo, da solo, potrebbe essere lui. Ha finito già di mangiare, così legge il giornale, aspetta, lascia trascorrere il tempo. Non c’è niente che assomigli ai suoi gesti, ai suoi modi di fare, eppure qualcosa li unisce. Infine si alza, saluta con un gesto il cameriere, passa vicino al suo tavolo tondo ed esce, senza alcuna incertezza.
L’uomo vorrebbe alzarsi a sua volta, raggiungerlo, chiedergli di spiegargli dove stia il suo errore, perché continua a sentire dentro di sé l’angoscia di aver solo perso del tempo, di non essere riuscito neanche stavolta ad essere utile, di non aver messo a frutto di nuovo quel tempo che continua a scorrere e a finire nel niente. Poi osserva quel suo simile mentre scorre lungo la strada, oltre la vetrata, dove il marciapiede è ingombro di gente: niente ha senso, riflette; va accettato così tutto quanto, sollevare la testa dai propri pensieri e camminare verso qualcosa, lungo un qualsiasi marciapiede.

Bruno Magnolfi

Solitudine maledetta.



Sono stanca di tutto, diceva la donna anziana ad una vicina di casa mentre stendeva i panni ad asciugare al sole sullo spiazzo condominiale. Non mi interessa quasi più di niente, me ne rendo conto, ma non so che cosa fare per cambiare le cose. Le mie giornate sono regolate dai compiti di sempre a c...ui mi sento sottomessa, quello che ho fatto sempre per tutta la mia vita, qualsiasi cosa differente che si presenti come una variazione a questa monotonia mi sembra come un nemico della mia esistenza. Resto in casa quasi tutto il giorno, mi preoccupo di spolverare i mobili, di spazzare i pavimenti, di cucinare qualcosa da mangiare, ma niente mi procura neppure una soddisfazione minima. La sera mi siedo davanti alla televisione, cerco di seguire ciò che viene detto, le notizie e le riflessioni sul mondo e sulla vita, ma io mi sento sempre più distante da tutte quelle cose, come si fosse interposto tra me e la realtà un sipario inestinguibile, che non mi lascia scelte, e mi concede soltanto di proseguire nelle mie giornate, di essere solo quella che sono, indifferentemente. Ne ho parlato con qualcuno, in parrocchia, all’assistente sociale del quartiere, ai miei nipoti anche se non vengono quasi più a farmi una visita, ma mi sono resa conto che i miei problemi sono di tutti, perché a tutti sta calando l’entusiasmo per la vita, non c’è più gusto a tirare avanti così, in qualche modo, senza pensare che ci può essere un elemento nuovo, magari all’improvviso, che ci dia un impulso a rinnovarci. Mi sento di morire un po’ per volta, forse proprio mentre cerco solo di accondiscendere a quelli che reputo i miei semplici doveri, ma questo non mi fa paura, anzi, mi sembra quasi una liberazione da tutte queste piccole terribili cose da cui mi sento circondata. Mi dispiace parlarne proprio a lei, così, mentre stendiamo i panni; lei che magari per chissà quanti anni mi ha visto sempre come una donnetta tra le tante che vivono in questo quartiere semplice, però forse, proprio perché non ci conosciamo affatto, se non per l’immagine che ci siamo costruite l’una dell’altra, vivendo vicine, però distanti, forse qualcosa che ci accomuna c’è, e la comprensione alla fine può nascere proprio da questo, da una solidarietà tra persone che soffrono di un medesimo problema. Io non le chiedo niente, se non che mi dia un cenno, un semplice gesto di comprensione di quello che le ho detto, perché forse anche solo una cosa così semplice so che può essermi d’aiuto. Ma in fondo neanche questo importa: già solo essere stata qui ad ascoltarmi per me è importante, anche se non posso guardarla negli occhi, ma solo seguire la sua ombra che si flette sopra queste lenzuola stese al sole, mi creda, per me è già sufficiente. E poi, se anche scoprirò, magari proprio andando via da qui, che quell’ombra che mi figuravo una persona che era lei, sarà stata, chissà, quell’albero laggiù con le sue grandi fronde al vento così piene di foglie, andrà bene lo stesso, era parlare che mi interessava, niente di più.

Bruno Magnolfi

Soltanto così

La sua mano sorreggeva il bicchiere con l’acqua, l’altro braccio era disteso, a riposo sul fianco. La pastiglia era andata giù con facilità lungo la trachea, tra pochi minuti sarebbe iniziato il suo effetto. Le dita attorno al bicchiere continuavano a stringere il vetro più del dovuto, forse per via dell’agitazione di cui lui era rimato preda fino ad allora, così pensò che avrebbe dovuto rilassare i suoi muscoli, sciogliere quell’ultimo barbaglio di tensione, ma in quell’attimo il calice gli cadde di mano andando in frantumi sopra le piastrelle del pavimento.

Succedeva sempre così per tutti i dettagli legati alla sua esistenza, riflettè: cose a cui dava troppa importanza, altre che continuava a ignorare; ogni elemento appariva sempre squilibrato tra i suoi interessi, spesso cercava dentro di sé il giusto valore da dare alle cose, senza assolutamente riuscirci. Rilassò anche l’altro braccio lasciandolo disteso lungo il fianco, poi fece due o tre passi fino a raggiungere il tavolo.

Si sentiva come paralizzato, improvvisamente i suoi occhi osservavano gli oggetti usuali senza riuscire a metterli a fuoco, e si perdevano in quelle inezie diventate improvvisamente fondamentali. Avrebbe dovuto cambiare completamente il suo modo di essere, di comportarsi, di pensare, ad iniziare da oggi, da subito, anche se non riusciva a capire da quale punto rifarsi. La pastiglia stava togliendo poco alla volta il dolore dalla sua testa, lasciandogli uno strano senso di vuoto, come se si allargasse per lui la possibilità di occuparsi di molte altre cose.

Si sentì stanco, e andò a sedersi su una poltroncina nell’angolo, poi si accorse di aver lasciato i vetri del bicchiere sparsi per terra, e gli parve una fatica terribile provare a rimuoverli.

Qualcuno suonò alla sua porta, e d’improvviso gli giunse insieme a quel suono sgradevole l’impressione che la giornata avesse ripreso il suo corso, come sempre, togliendogli l’aspetto meditativo che fino ad un attimo prima gli era parso oltremodo necessario. Decise di non muoversi, e chiunque fosse stato a suonare il suo campanello non replicò. Infine decise di sollevarsi, ma solo per raggiungere la finestra, poi scostò leggermente la tendina, e guardò fuori, lungo la strada, fino ad accorgersi che non c’era niente che lo interessasse davvero di quel mondo esterno.

Bruno Magnol

mercoledì 7 luglio 2010

parlare da sola

L’assenza di collegamento.

I due ragazzi si ritrovavano ogni giorno, dopo la scuola elementare, all’ombra di uno stretto edificio scalcinato edificato da solo nel niente, del quale si diceva che fosse un’importante centralina della corrente elettrica di quel quartiere periferico. I cavi neri e ben tesi su in alto arrivavano da un lato e dall’altro ripartivano, e continuamente si sentiva ronzare qualcosa all’interno, ma di fatto era proprio da lì che iniziava la campagna, con la sua terra incolta che oltre quelle ultime case era attraversata da sentieri di buche fangose ai cui bordi venivano scaricati cumuli di immondizia e di calcinacci.

Loro si ritrovavano proprio sotto quella cabina, come sul confine di qualcosa, e si sedevano sopra una pietra liscia e lunga, a parlare sottovoce di tutto, a far passare quella giovinezza da fratelli minori che il più delle volte erano portati ad odiare. In casa erano quelli cui nessuno badava, posti a sedere alla tavola che non contavano niente, costretti ad ascoltare tutti gli altri della famiglia restando perennemente in silenzio.

Le loro teste dai capelli cortissimi erano continuamente toccate dalle mani dei loro tanti fratelli, per scherzo, rimprovero, richiesta d’attenzione, tanto che crescere in fretta e sfuggire a quei modi era la cosa che forse desideravano di più. I loro pensieri erano già come dovevano essere, da grandi, e le loro risate spensierate nemmeno un ricordo; non avevano biciclette, non avevano pattini, il prossimo anno avrebbero dovuto cercarsi un lavoro, e per adesso riuscivano soltanto a ritrovarsi lì, loro due, all’ombra di quella cabina, e qualche volta andare a cercare qualcosa di utile tra i cumuli di immondizia e di calcinacci.

Fu un giorno qualsiasi, quando il caldo di quel giugno si era già fatto opprimente, e l’erba alta là attorno aveva lasciato seccare al sole i suoi steli, donando a quell’aria un profumo di terra riarsa, di paglia bruciata e di polvere fine. Luccicava qualcosa più avanti, loro due si avvicinarono con circospezione, guardandosi attorno. Erano soli, e lì, a margine di qualche asse marcio e imbiancato, c’era rimasta una radio, una di quelle vecchissime, enormi, con il mobile di legno mezzo scassato, però con tutti i pulsanti e le rotelle al loro posto.

La presero, la portarono ai piedi della cabina, e immaginarono funzionasse, visto che c’era anche il filo della corrente e la spina. La nascosero, e fu il giorno seguente che cercarono di forzare la porta della centralina elettrica, tanto per vedere se al suo interno ci fosse stata una presa, per provare se la radio funzionasse davvero. Il lucchetto saltò dopo una certa fatica, e loro entrarono dentro, lasciando girare con sforzo la porta di ferro sui cardini arrugginiti. Misero dentro la testa, tra ragnatele robuste, quel tanto che era sufficiente, cercando velocemente di adattare gli occhi a quel buio, immersi dentro al ronzio adesso fortissimo dei trasformatori. La scarica di corrente e la fiammata li colse ambedue, non ci fu alcuno scampo per loro, e forse l’elettricità saltò in tutto il quartiere, tanto l’assorbimento fu forte. Restò lì, ai piedi dei sogni, la loro pietra, rifugio dei pensieri da grandi, e quella radio, quella radio vecchissima, che forse non funzionava neanche.

domenica 4 luglio 2010

La comprensione degli eventi.




La scogliera era battuta dal vento, l’uomo da solo era rimasto a lungo ad osservare la superficie del mare biancheggiata di schiuma. La barca in difficoltà, con il motore in avaria e carica di turisti, si era fermata sottocosta, ma si intuiva subito che la cima dell’ancora non avrebbe potuto reggere a lungo. L’uomo aveva osservato tutto quanto con un certo distacco, come se in tutta la vita solo l’indifferenza fosse il sentimento vincitore tra quelli che avevano combattuto dentro al suo animo. Quasi niente ormai gli interessava di meno che preoccuparsi per gli altri, la sua solitudine lo aveva strappato da tutto, lasciandolo inerme nei confronti delle difficoltà che le persone certe volte erano costrette ad affrontare, convinto che la sua priorità fosse l’inedia, il lasciare che il mondo corresse per conto proprio, distante, senza neppure trarre un’idea o un giudizio sugli avvenimenti da cui in qualche caso era sfiorato. Così quella gente in pericolo sopra la barca rivestiva solo l’aspetto di una giornata qualsiasi, un elemento della realtà da cui non si sentiva coinvolto. Ugualmente restava lì, nel vento, sull’alto delle rocce, a guardare quel mare minaccioso e a vedere le persone che dalla barca, poco per volta, si erano gettate tutte nell’acqua con i loro giubbotti salvagente, annaspando tra i marosi, pericolosamente vicini agli scogli. Niente poteva turbarlo, come se il destino di tutte le cose fosse segnato, e a nulla servisse correre, urlare, cercare di opporre la propria volontà contro gli eventi. Poco dopo la barca, strappando gli ormeggi, era andata a fracassarsi sopra gli scogli, e i turisti erano tutti riusciti in qualche maniera ad aggrapparsi alle rocce, meno che una persona, forse una donna, da sola, rimasta in balia delle onde, attaccata con disperazione a una tavola, che con il vento e le onde continuava ad essere spinta più avanti, sempre più avanti, lontana dagli altri. L’uomo osservava quanto accadeva sotto ai suoi occhi, consapevole che niente avrebbe potuto scuotere quella sua completa imperturbabilità. Non c’era egoismo nel suo comportamento, solo la coscienza di essere un niente, un fantasma, incapace di vivere e di intervenire, impossibilitato a compiere qualsiasi azione a favore degli altri. Infine perse di vista la donna, e all’improvviso tutto in lui parve mutare, come se quella realtà lo avesse colpito più di quanto si sarebbe aspettato. Si mosse da lì, riprese a camminare lungo la strada nell’alto della scogliera, nel vento che a tratti pareva volerlo portare con sé, fino a quando comprese che quella donna era in lui, adesso la sentiva, ed era salva, da qualche parte là sotto, la poteva osservare mentre respirava davanti ai suoi occhi, e sapeva, in qualche maniera, che quel segnale lo stava riportando alla vita, come se una forza pari a quella del mare spingesse anche lui. Si fermò, guardò l’orizzonte, gli parve di comprendere tutto.

Bruno Magnolfi

venerdì 2 luglio 2010

Una distanza uguale all’invidia.


Forse dovrei proprio alzarmi da questa sedia, pensavo senza convinzione. Uscire, prendere l’autobus, arrivare fino all’ufficio del lavoro, strappare dalla macchinetta un foglietto con il numero e aspettare il mio turno per parlare con un’impiegata. Si sa, andandoci spesso a chiedere qual...cosa in quegli uffici, magari fingendo di non aver capito la volta precedente, tentando di avere buoni rapporti con quella gente, e di essere disposti ad andare avanti e indietro con quei moduli da compilare, le domande da presentare, i documenti da aggiornare, alla fine qualcosa loro riescono a trovarti. Sanno indirizzarti, darti delle dritte, spiegarti come fare per presentarti bene a qualche colloquio. Però mi chiedo, a che serve trovare un lavoro, rispettare degli orari, faticare tutto il giorno dietro a cose di cui volentieri faccio a meno, avere rapporti antipatici con qualcuno che ti indica come comportarti e poi ti tiene d’occhio per vedere se rispondi agli incarichi che ti sono stati dati, se sei una persona affidabile, e altre cose di quel genere? Forse dovrei proprio preparare un curriculum vitae, inserirci tutte le esperienze della mia carriera lavorativa, magari pensate bene, messe in buona luce, qualcuna anche inventata, come se fossi uno scienziato che si piega a cercare un lavoretto per campare, ma il senso del ridicolo è superiore a qualsiasi volontà, e rimandare è semplice, basta stare qui, occuparsi d’altro, restare indifferenti a quanto è possibile fare, magari lasciare tutto ad un altro momento, quando questa attività di cercarmi un vero e proprio lavoro sarà proprio del tutto indispensabile. Forse è il mio carattere che non si lascia smuovere con facilità, probabilmente sono le notizie diffuse nei telegiornali che certe volte ascolto con un orecchio solo, e che non mi concedono grandi speranze per il mio futuro lavorativo, tanto da lasciarmi immobile su questa sedia, prostrato a pensare ad altre cose, gli amici, le ragazze, certi festini a base di birra e qualche pastiglia sciolta in acqua tonica. In fondo non ho neanche vent’anni, avrò tutta la vita per preoccuparmi del lavoro, di tutte quelle cose antipatiche in cui sono infagottate quelle persone così simili ai miei genitori, che non parlano altro che di soldi, di fine mese, di banche dove accumulare i loro miseri risparmi, di tredicesime e stipendi, e ancora di spese che non possono permettersi, e del calibro con cui misurare ogni cosa, come se tutto fosse quantificabile in quattrini e ore di lavoro. Forse dovrei farmi un’idea più precisa sulla politica, le attività lavorative, i sindacati, i contratti collettivi, tutte quelle cose enormemente distanti da ciò che mi sembra importante davvero. In televisione intravedo gente ben vestita, che finge di essere preoccupata di qualcosa, qualcosa che riguarda gli altri, e spesso parlano in nome loro, quei loro che non includono chi parla, e li vedi già abbronzati quando è ancora giugno, e nessuno tra coloro che mostrano lì la propria faccia preoccupata, sembra aver mai fatto davvero qualcosa che non sia per loro stessi. Forse, in fondo in fondo, potrei sollevarmi da questa sedia in qualsiasi momento, se ne valesse davvero la pena, ma sono sicuro che a nessuno interessa veramente, anzi, pare proprio che sia importante per tutti che io resti qui, a far parte della schiera di chi non si preoccupa di nulla, e lascia che la vita scorra per conto proprio, così che nessuno di noi che facciamo parte di questa generazione, avrà mai niente da obiettare a coloro che sono abbronzati tutto l’anno: che possiamo dire difatti: che hanno avuto fortuna, forse che vivono alle nostre spalle, che sono stati bravi anche se spesso ci risultano un po’ odiosi, è tutto vero, ma per questo è bene che rimangano lì, in televisione, che tanto non potremo mai sopportarli come persone in carne ed ossa, la loro esistenza è lontana dalle nostre giornate, ci separa da loro qualcosa grande quanto il mare.

Bruno Magnolfi

Autocelebrazione di un giorno qualsiasi.


La sequenza indica un uomo che esce di casa, gira per strada senza una meta precisa, si ferma dentro a un caffè e incontra uno sconosciuto. Quando l’uomo torna a casa scopre di essere una persona diversa. In un secondo tempo, l’uomo uscito da casa, non avendo incontrato nessuno, ...rientra nervoso e irritato. Inoltre lo stesso, avendo dato appuntamento al caffè ad una persona che non conosceva, riesce a sentirsi diverso anche solo per quella possibilità a cui non ha adempiuto. Sia l’uomo che lo sconosciuto, sapendo ambedue di riuscire a sentirsi diversi solo uscendo da casa e una volta raggiunto il caffè, spesso riescono a girare per strada anche senza una meta precisa. Di fatto la casa dell’uomo e dello sconosciuto è ritenuta diversa anche senza che né l’uno né l’altro abbiano girato per strada o si siano recati al caffè. In ogni caso la loro meta è precisa anche se non si fermano quasi mai proprio lì. Spesso, dentro al caffè, allo sconosciuto è richiesto il motivo per cui l’uomo, visto girare per strada senza una meta precisa, si possa essere sentito diverso pur senza essere uscito di casa per spingersi addirittura fin lì.In alcuni casi, girando per strada nei pressi del caffè senza apparenza di una meta precisa, lo sconosciuto ha incontrato un uomo che si è fermato dentro al locale, ed ha dichiarato di sentirsi diverso senza sapere per quale motivo.L’uomo, il caffè e certe volte anche lo sconosciuto, si sono dimostrati diversi solo per essere usciti di casa e aver girato per strada senza trovare una meta. Una volta rientrati ognuno nel proprio ruolo, le cose si sono rivelate concrete anche se loro non si sono incontrati.Infine, sia la casa, sia lo stesso caffè, risultano diversi per il solo fatto che l’uomo assieme allo sconosciuto hanno girato per strada senza trovare una meta, capitando in quei pressi prima di pensare a qualsiasi altra cosa. Il locale naturalmente, almeno quel giorno, è risultato deserto.

(Soluzioni dettate da elaboratore elettronico)
Bruno Magnolfi.

giovedì 1 luglio 2010

Una mostra per dilettanti




Tutto era pronto, o quasi. Si era cercato di trovare un senso collettivo a quella mostra di fotografie di tanti autori diversi, scattate in situazioni e momenti lontani tra loro, ingrandite fino a raggiungere formati di dimensioni notevoli, anche in qualche caso sgranate nei dettagli, oppure le...ggermente fuori fuoco. Si era messa su una riunione, ma non si era trovato alcun compromesso, nonostante le idee numerose, e alla fine le cose erano rimaste nell’aria, senza un qualcosa di definitivo. Naturalmente i fotografi erano tutti dilettanti, amatori come quasi sempre era in uso di dire, e a loro non si poteva chiedere molto, salvo l’impegno, la passione, la voglia di mostrare il proprio punto di vista con la macchina fotografica, nient’altro. I soggetti inquadrati erano tanti: facce, espressioni, persone, paesaggi, oggetti grandi e piccoli di ogni tipo. La Casa della Cultura aveva messo a disposizione, come sempre faceva in casi del genere, quelle due grandi sale, generalmente chiuse, lasciate libere ogni volta che qualcuno aveva da esporre qualcosa, per parlare di sé, per mostrare i propri lavori. Si erano ritrovati lì poco per volta, quei fotografi, incoraggiati dalla possibilità di esporre le proprie cose, ed avevano montato i loro lavori sopra a quelle pareti di stoffa bianca, sistemando l’illuminazione, piazzando nomi, titoli e date su cartellini in basso ad ogni inquadratura, come vere e proprie opere d’arte. Ma alla fine non si erano trovati d’accordo neppure sull’indicare una data certa di inaugurazione per quella mostra, anche se qualche curioso era già riuscito ad entrare là dentro ed osservare qualcosa. E non essendo riusciti a trovare un vero titolo per quella rassegna, tutti continuavano a dire “la mostra di foto”, senza stabilire un qualcosa di unificante. Qualcuno tra coloro degli esterni che aveva osservato quello fotografie già installate, aveva stabilito che qualcuna era migliore di altre, e gli autori ignorati avevano subito iniziato a darne il merito alle luci migliori di cui si era appropriato qualcuno, o delle posizioni più in vista su quelle pareti di cui si era avvalso qualcun altro. La serata continuava a restare indecisa, si parlava del mese di marzo, ma nessuno lo credeva possibile. I fotografi, andando ogni sera alla Casa della Cultura per ricevere informazioni e sistemare qualcosa delle loro creazioni, di fatto continuavano a spostare le fotografie piazzandole più in angolo per dargli maggiore risalto, oppure al centro delle pareti per gli stessi motivi; alcuni accostavano, per colore o soggetto, i propri lavori a tutt’altre immagini, in modo da spiccare di più, modificando sempre e comunque anche quella parte di mostra già a posto, continuando a variare le cose e lamentandosi comunque di qualsiasi dettaglio, ma soprattutto dei colleghi con cui dividevano gli spazi, e maggiormente di coloro che non avevano ancora piazzato i loro lavori. Qualcuno addirittura aveva iniziato a sostituire le proprie fotografie, senza farne troppa pubblicità, sostenendo con toni dimessi che vedendole lì assieme agli altri lavori, quelle già esposte avevano assunto un senso diverso, tanto da modificare il loro significato. Due o tre, addirittura, si erano messi, macchina fotografica in mano, a scattare nuove istantanee, tanto per cercare di portare altri lavori alla mostra e spiazzare tutti gli altri, magari proprio all’ultimo momento. Infine il dirigente della Casa della Cultura aveva trovato la data migliore per l’inaugurazione di quella mostra, visto che alla metà del mese seguente un sabato coincideva con il giorno di nascita di quella fondazione, ma quasi nessuno tra i fotografi trovò giusto sovrapporre le cose tra loro. Così si lasciò passare anche quel giorno, e alcuni, anche per paura di vandali o ladri, iniziò in silenzio a riportare a casa propria i lavori già esposti. Tutti gli altri, nel giro di poche serate, fecero la medesima cosa, e alla fine la mostra, quasi completata fino a pochi giorni più indietro, si svuotò velocemente di tutte le fotografie già allestite, e gli autori impegnati in tutto quel periodo smisero anche di parlare di ciò che avrebbero voluto mostrare. Il presidente della Casa della Cultura alla fine definì una serata in cui fare una riunione per accordarsi su tutto quello che era rimasto in sospeso, ma con grande meraviglia di coloro che erano presenti a quella riunione, ci si dovette rendere conto che di quegli artisti non si era presentato nessuno.

Bruno Magnolfi