giovedì 30 settembre 2010

Una sera colma di pianto




La donna era uscita di casa dopo aver saggiato a lungo il comportamento migliore da tenere. Ormai era stufa di quei sotterfugi a cui doveva dar seguito e anche di quegli appuntamenti giocati sul filo di pochi momenti, la sua vita aveva bisogno di altro, se ci pensava non capiva neppure come fosse finita in quella relazione adulterina con lui, lui che era solo un vicino di casa, incontrato per caso da solo una sera dentro a un caffè, e che spesso andava da lei solo per rovesciarle addosso le difficoltà con la moglie, i problemi con il lavoro e altre cose del genere. Se ci pensava per bene non sentiva neanche un affetto particolare per lui; certo, c’era stato un primo periodo in cui le era apparso come il miglior uomo del mondo, ma poi le cose lentamente erano andate cambiando, ed adesso tutta quella faccenda le era soltanto di peso.

A lei piaceva sognare, e c’erano stati momenti, questo era vero, in cui lui le aveva permesso di farlo, donandole piccoli pensieri e delicate attenzioni meravigliose. Ma questo non significava un bel niente, ormai i tempi erano diversi, doveva prendere delle decisioni concrete che mostrassero lo spirito differente di cui lei adesso si sentiva pervasa. Per questo aveva atteso per tutta la settimana che lui desse segno di sé, ma come se avesse compreso che qualcosa di negativo stava nell’aria, lui non si era fatto assolutamente vedere, ed aveva evitato di lasciarle anche solo uno dei suoi soliti bigliettini sotto alla porta, come al contrario altre volte aveva fatto.

Si sentiva nervosa, inutile dirlo, non ce la faceva più a stare in casa ad attendere. Per questo era uscita, anche se non sapeva neppure verso dove dirigersi. La serata era fredda e umida, le luci dei lampioni lungo la strada spandevano i riflessi come chiazze di colore sui marciapiedi; tutte le persone in giro a quell’ora apparivano serene, tranquille nel loro passeggiare in compagnia di qualcuno scambiando le proprie opinioni, e divertendosi nel raccontare le piccole vicende che ognuno viveva ogni giorno. La sua solitudine, in contrasto con gli altri, pareva caricata di orgoglio, come se la sua vita fosse costituita da un materiale più forte, e stesse lì, lungo quei marciapiedi, solo per dimostrarlo a chiunque.

I suoi passi casualmente l’avevano portata fino al caffè dove tanto tempo prima si era incontrata una sera con lui, quella volta per pura combinazione, quando mediante l’ausilio di alcuni semplici sguardi tutto aveva trovato un suo seguito. Così, rallentando il suo passo alla vista del locale, si era avvicinata, aveva spinto la porta vetrata, un campanellino aveva tintinnato, e lei era entrata lasciandosi avvolgere dall’aria calda e luminosa che c’era tra i tavolini e il bancone di legno. Lui era lì, seduto con qualcuno che lei non conosceva: lo ignorò, si sedette, si fece servire del the. Gli dava le spalle e per nessuna ragione al mondo si sarebbe mai girata verso la sua direzione. Bevve con calma il suo the, consultò qualcosa nella sua agenda, si accese una delle sue sigarette, poi, una volta pagata la consumazione al cameriere, si alzò dal suo tavolo e prima di uscire disse soltanto: addio, a voce alta, a tutta la sala, ma senza riferirsi a nessuno.

Quando raggiunse il marciapiede riprese a camminare come prima, ma pur stringendosi nel suo paltò le pareva d’essere una persona diversa da sempre, e anche quando si accorse di piangere, pur con tutto il bisogno che aveva di chiarezza, non riuscì neppure a capire se lo faceva per la gioia, o al contrario, per un dolore fino ad allora sopito.

Bruno Magnolfi

Semplici procedure di ogni giorno




Il suo ufficio era al quarto piano di quel palazzo, mancava soltanto mezz’ora alla fine dell’orario di lavoro e lui non riusciva a pensare nient’altro che ai gesti che avrebbe compiuto appena scaduto quel tempo: spegnere il computer, chiudere a chiave il primo cassetto della scrivania, prendere la sua giacca appesa in un angolo e uscire nel corridoio. Erano i gesti che faceva ogni giorno, quasi un meccanismo perfetto, equilibrato, completo in ogni dettaglio. Eppure, dopo tutti quegli anni, all’improvviso pareva che qualcosa fosse venuto come a mancargli. Avrebbe premuto il pulsante dell’ascensore se non lo avesse già fatto un collega prima di lui, oppure, se fossero stati già troppi i clienti, avrebbe sceso a piedi le scale, velocemente, poi una volta strisciato il suo badge nella fessura della macchina, finalmente avrebbe raggiunto la sua auto nel parcheggio aziendale e l’aria aperta.

Rifletteva sull’esecuzione di tutta quanta la procedura ma adesso si sentiva più che sicuro che qualcosa era diverso in ciò che avrebbe dovuto portare a compimento. Si alzò dalla sua poltroncina girevole quasi senza rendersi conto di cosa stesse facendo. Con le mani accennava i gesti che avrebbe compiuto di lì a poco, poi aveva spalancato la porta ed era uscito nel corridoio, aveva camminato fino al pannello scorrevole dell’ascensore e a quel punto si era reso conto di non aver portato con sé la sua inseparabile valigetta per i documenti. Tornò allora nella sua stanza, guardò accanto alla cassettiera e vide che la valigetta era lì, dove in genere la sistemava ogni mattina. Perfetto. Ma la chiave che chiudeva il cassetto non c’era.

Guardò immediatamente dentro al cassetto, poi sopra al piano della scrivania, tra la tastiera del suo computer, le matite, i pacchi di fogli e di cartelline, ma niente. Infine, con una sudorazione leggera che sempre gli prendeva alle mani in casi del genere, guardò dentro la tasca della sua giacca che ancora era appesa, e con sollievo si accorse che era lì. Così chiuse immediatamente la cassettiera, come per fare una cosa compiuta, ma poi si rese conto che ancora doveva metterci dentro tutte le pratiche più importanti, quelle sulle quali era meglio che nessuno all’infuori di lui mettesse le mani, così le cercò, ma si erano come confuse e alla fine pensò che poteva benissimo metterle nella sua valigetta anche all’ultimo minuto, e intanto chiudere bene quel benedetto cassetto.

Così fece, e intanto aveva anche indossato la sua giacca e riposta la chiave dentro la tasca, tanto per non tornarci più sopra, poi aveva sollevato la sua valigetta, ma quando era giunto ad aprirla si era subito reso conto che era già piena di tante altre cose, tutte importanti, che aveva momentaneamente come dimenticato. Il grande orologio nel corridoio lasciò sovrapporre le lancette ad indicare a tutti gli impiegati del piano che il loro orario era così terminato, lui vide passare davanti alla sua porta aperta tutti i colleghi che si sbrigavano in direzione dell’unico ascensore disponibile, e quasi non ebbe fastidio al pensiero che quella sera avrebbe dovuto fare le scale.

Intanto, con gesti nervosi, aveva quasi svuotato la sua valigetta mettendo tutto sul piano della scrivania, ma si era subito reso conto che non avrebbe mai potuto lasciare le cose così, e quindi iniziò a riordinarle, sistemandole per nome e per importanza, poi, con un gesto deciso anche se doloroso, tirando fuori la chiave dalla sua tasca, riaprì la cassettiera. Iniziò così ad infilarci le cartelline, ma siccome si sentiva impacciato e accaldato si tolse la giacca. Infine chiuse il cassetto, chiuse anche la valigetta, raggiunse la porta con un balzo quasi per recuperare qualche minuto, e proiettò la sua mente già fuori da lì, perché non voleva assolutamente che qualcuno lo immaginasse in una qualche difficoltà.

Prese di fretta il corridoio ormai sgombro e arrivò velocemente fino all’ascensore che adesso era libero e in un attimo fu giù, semplicemente, a strisciare il suo badge nella fessura. Ma solo allora si accorse di aver dimenticato la sua giacca all’appendiabiti con dentro peraltro la chiave dell’auto, così dovette tornare al quarto piano e rivedere tutto quanto da capo, compresa la chiusura della cassettiera e il contenuto della valigetta.

Il capoufficio non disse niente quando lo vide sudato e confuso, però non ne ebbe una buona impressione.

Bruno Magnolfi

mercoledì 29 settembre 2010

Una traccia da seguire per forza


Sto qua, seduto, e non c’è nessuno che mi chieda di fare qualcosa, di pensare, di muovermi o di raggiungere un luogo diverso da questo. Perciò resto qua, seduto, e osservo con attenzione le venature del legno sul piano del tavolo. Mi sono sempre perso con facilità in cose del genere, in piccoli dettagli senza apparente significato, ho sempre fatto così sin da quando ero piccolo, non trovo assolutamente motivo per cui dovrei comportarmi in un modo diverso. Il mio dito scorre il profilo liscio del tavolo, i miei occhi lo seguono, fino allo spigolo.

Poi si apre una finestra dentro di me, qualcosa pare volteggiare nell’aria, nella penombra della mia stanza, da qualche parte sui muri o attorno alla lampada spenta. Mi guardo attorno, cerco di immaginare quale piccolo elemento possa sfuggire al controllo, poi lascio perdere, riprendo il mio studio profondo delle venature del tavolo. Può essere stato un rumore, penso, oppure il ricordo di qualcosa che adesso non riesco neppure ad identificare: certe volte i miei sogni o i miei pensieri sono forti, urlano da soli nella mia testa, mi tengono inchiodato per giorni a guardare sempre la medesima immagine, poi sfumano, dissolvendosi in niente.

Le venature del legno corrono attorno ad un nodo, conosco perfettamente il loro disegno, la loro maniera per dar spazio alle fibre. Il nodo ha una forma ovale più chiara, è l’embrione di qualcosa ma a me non interessa particolarmente, mi piace soltanto che le venature si allarghino, per lasciargli lo spazio che serve. E’ un’immagine unica, penso, un disegno fatto una volta per tutte, irripetibile, ed è qui, sotto alle mie dita che scorrono la sua superficie.

La mia è un’attesa, penso, ma non so cosa attendermi, se non l’ora dei pasti o quella per stendermi a letto. Qualcosa emerge di nuovo dal buio, volteggia nell’aria come prima, ma adesso si posa sopra di me, sulla mia mano aperta sopra la superficie del tavolo. Resto immobile, riconosco una variabile al flusso di tutte le cose che potrebbe solo in un attimo scomporre l’equilibrio che cerco. Appoggio la faccia sul tavolo, gli occhi ben aperti ad osservare la mano, poi attendo con pazienza infinita che il momento si compia.

Infine chiudo gli occhi, le venature del legno si muovono, le sento sotto la mano, qualcosa scorre lentamente lungo la superficie del tavolo. Allora torno ad assumere la mia solita posizione, seduto, senza niente che mi suggerisca di variare qualcosa. A volte mi chiedono se i miei pomeriggi non appaiono lunghi trascorsi così, ma io non rispondo: inutile gridare da dietro ad una finestra ferrata come spesso fanno gli altri. Io resto qui, lo studio della superficie del tavolo assorbe moltissimo del tempo che ho, ma non me ne lamento: la vita non sarà infinita, penso, devo proseguire il lavoro, devo trovarne la sua conclusione.

Bruno Magnolfi

martedì 28 settembre 2010

A difesa del genere umano


A difesa del genere umano

Il numeroso gruppo degli uomini di forza si era radunato in mezzo allo spiazzo, mentre gli altri, gli anziani, le donne, i bambini di tutto il villaggio si erano posizionati ad una certa distanza. La giornata era grigia, le nuvole giocavano a rincorrersi spinte da un vento freddo e continuo, quasi fastidioso. Le enormi corde intrecciate in modo approssimativo erano già state posizionate a terra e sistemate nel modo più razionale. Ci era voluto un tempo lunghissimo per staccare la pietra più adatta dalla roccia lavica, scolpirla e trasportarla fin lì, sopra quella collina che dominava tutta la valle. Adesso posizionare in verticale quel monolite era l’atto finale.

L’enorme buca praticata sotto al piede era stata realizzata nella maniera migliore: quando il megalite lentamente sollevato dalle corde avesse cominciato ad entrarvi, questa azione avrebbe favorito il posizionamento finale della pietra. Tutto era pronto. Si aspettava soltanto che l’artefice di tutta l’operazione desse il segnale.

Era difficile per i bambini comprendere appieno il significato dell’erezione di un monumento del genere, però anche loro, o almeno i più grandicelli, avevano riscontrato in tutto quel periodo quanto il villaggio si fosse dimostrato solidale, unito nel perseguimento di quello scopo comune. Le corde ad un tratto andarono in trazione, i muscoli di tutti si tesero, l’enorme pietra si mosse entrando con la base dentro alla buca praticata nella terra. Poi l’apice con lentezza estenuante si sollevò dalla terra ed il cielo in quell’attimo stesso parve scurirsi anche di più, lasciando cadere una passata di pioggia fredda e sottile.

Il silenzio dominava lo sforzo degli uomini nel vincere il peso smisurato della pietra nel suo lento innalzarsi nel cielo, tutti restavano con gli occhi puntati sul megalite, che quasi come un’entità viva conquistava poco per volta la giusta posizione eretta. Gli dei malvagi della valle avrebbero dovuto fare i conti da quel momento in avanti con quel protettore del villaggio, e la vita per uomini e donne si sarebbe dimostrata meno dura, alleviata e protetta dal simbolo stesso del loro ingegno e delle loro capacità.

Superato il punto di sforzo maggiore il monolite adesso andava solo posizionato nella maniera più verticale possibile. Il momento era delicato, non era più una prova di forza quella degli uomini, adesso era la stessa base piatta di pietra che lasciava svettare il monumento nell’aria, le corde potevano essere mollate, la posizione finale era stata raggiunta. Qualcuno gridò in senso di giubilo, e tutti gli altri gridarono anch’essi, in un’orgia di voci che contrastava con il silenzio della collina, dello spiazzo erboso, della valle ai piedi dell’idolo.

Poi qualcosa si mosse, la base di terra smottò forse per la pioggia che continuava a cadere, il megalite si inclinò lievemente, poi sempre di più, infine cadde di lato, in un frastuono di urla di dolore quasi insopportabili, spezzandosi in due. Il silenzio sgomento conquistò la collina per una frazione di tempo, poi tutti iniziarono a correre, lontano da lì, via da quel loro disastro: la pioggia, il vento, le nuvole, proseguivano il loro lavoro, nel folto degli alberi laggiù qualcosa si era già mosso, persisteva l’angoscia di un futuro nefasto e la valle stava già rigurgitando i suoi demoni contro la gente dello sventurato villaggio.

lunedì 27 settembre 2010

Una decisione per tutte




La sera vado sempre a letto stanco, dormo sodo, mi riposo, non penso a nient’altro. Poi uno dei miei amici, giù al circolino, dice che lui al contrario non ce la fa, non riesce a dormire. Pare impossibile, faccio, sembra qualcosa che non funziona a dovere. Si tratta di preoccupazioni, fa lui, problemi per il mio futuro, quello della mia famiglia, tutto qua. I problemi si affrontano, dico io, inutile star lì a rigirarsi in un letto e non decidere niente. Quello si arrabbia, dice che io non capisco un bel niente e così se ne va.

Dopo un paio di giorni lo ritrovo, sempre li al solito circolino. Ehi amico, gli faccio, sempre in crisi con la faccenda del dormire e delle altre cose? Forse, fa lui, però cerco di prendermela meno per tutto ciò che si mette regolarmente di traverso, e così riesco a sentirmi un po’ meglio. Gli offro una birra e mentre lui se la beve gli dico che davvero non vale la pena buttarsi giù per i problemi che in fondo hanno tutti.

Lui prende un sorso della sua birra poi dice tutto d’un fiato che sua moglie vuole andarsene a stare da sua sorella almeno per un periodo, perché con lui non resiste, dice che non ce la fa più, e cose del genere. Io ci penso un po’ sopra, poi dico: e tu lascia che vada, sarà sempre meglio che tirare la cinghia in questa maniera, almeno è un tentativo, una bella rimescolata tra tutte le cose. Forse hai ragione, fa lui, in certe cose la sola maniera è provare. Finiamo la birra poi lui mi saluta e va via.

Passa una decina di giorni e poi lo rivedo, sempre lì, al solito bar dove andiamo di solito. Mi cerca, mi fa il suo saluto, poi mi offre una birra. Ci sediamo ad un tavolo, gli dico qualcosa per scherzo, poi lui dice che le ultime notti ha dormito un po’ meglio. Mia moglie è andata, mi fa, anche se da quel punto di vista avrei preferito restasse, da solo mi sento una larva. Adesso le telefono ma lei non mi risponde: ha sempre qualcos’altro da fare, dice. Il vero problema è che io e lei nell’ultimo anno non ci siamo quasi mai schierati dalla medesima parte. Siamo stati continuamente a farci la guerra, fa lui, certe volte anche senza motivo, forse per la noia, per l’abitudine a cercare di essere sempre i medesimi.

Adesso rilassati e non ci pensare, fo io, probabilmente le cose adesso si aggiustano, sicuramente anche lei sarà giunta agli stessi pensieri che adesso fai tu. E’ probabile, dice lui, quello che mi pare sicuro è che non vorrei che la sua assenza durasse in modo superiore al necessario: mi manca, non ho mai pensato ad un’esistenza mandata avanti da solo, e poi se ritroviamo minimamente quell’armonia che avevamo negli anni passati tutto sarebbe meraviglioso. Propongo un bel brindisi e così ci scoliamo altre de birre, poi ognuno va via.

Ieri torno al circolino quando esco dal lavoro e cerco il mio amico, ma pare che lui non ci sia, così mi faccio servire una birra. Poi uno si accosta e mi dice sottovoce che il mio amico, quello con il quale parlavi certe sere, mi fa, è morto stecchito, non verrà più a bersi una birra con te e neppure con gli altri. Si è impiccato, aggiunge senza guardarmi, in casa sua con del filo elettrico appeso a una trave. Resto di sasso, mi siedo, mi sembra di non riuscire neppure a pensare. Poi prendo la birra e ne bevo un piccolo sorso.

Alla tua decisione, amico, penso tra me; che è la cosa più seria e importante che sei riuscito a mettere insieme.

Bruno Magnolfi

domenica 26 settembre 2010

Scena n. 4. Tempo esaurito.




Le assi di legno del palco avevano scricchiolato quando il signor Calzano era entrato dentro alla scena. Sotto alle luci dei riflettori c’erano le sedie e i tavolini di un bar, sul fondale era stato disegnato il bancone. Mi porterebbe per favore un caffè e mezzo bicchiere di acqua gassata?, disse il signor Calzano al cameriere nello stesso preciso momento in cui si stava sedendo. Subito, disse quello sparendo alla vista dietro alle luci. Una donna, al margine del palco, si muoveva lentamente di spalle cercando qualcosa dentro alla borsetta che continuava a tenere aperta sotto ai suoi occhi. Passò un minuto, poi vide il signor Calzano e si accostò con timidezza al suo tavolino, lui si alzò con gesto impeccabile, e invitò la donna a sedersi con lui, e lei si sedette.

Come vedi, disse la donna nervosamente, con la bocca storpiata in un vago sorriso, sono venuta; ma, solo per pochi minuti, solo per il tempo sufficiente a chiarire le cose. Mi dispiacerebbe davvero darti una delusione, continuava lei in modo aspro, però io mi sono rifatta una vita, in fondo ne sono trascorsi di anni, adesso ho un marito, una figlia, non ho certo aspettato che tu sciogliessi i tuoi dubbi interiori. Non so cosa cercassi da me con il biglietto che mi hai spedito, però sappi che io da molto non ho pensato più a te, anche se riconosco che la nostra è stata una relazione importante nella mia vita.

Il cameriere, con il suo piccolo vassoio, aveva intanto portato l’acqua e il caffè, poi, appoggiando la tazza e il bicchiere sul tavolo, aveva detto soltanto: la signora prende qualcosa? Si, per favore, aveva prontamente risposto la donna, un gin tonic con qualche cubetto di ghiaccio. Il cameriere solerte aveva annuito ed era sparito di nuovo, i due si erano guardati negli occhi per una frazione di tempo; poi, il signor Calzano aveva risposto: la vita è un materiale duttile, che cambia con facilità di forma e qualche volta anche di sostanza. Non avevo certo immaginato che tu fossi rimasta ad attendere la soluzione agli interrogativi che io mi ero posto quando eravamo innamorati l’uno dell’altra, nient’affatto, e neppure avevo voglia di vederti per parlare del nostro passato o di ciò che sei diventata oggigiorno. E’ solo per sapere se sei felice che ti ho chiesto di venire qui stamattina.

La donna ebbe un sussulto, si guardava le mani, la borsa appoggiata sopra le gambe, cercava le parole più adatte, poi disse: non lo so, a te posso dirlo, ho solo lasciato che le cose andassero avanti da sole, senza chiedermi cosa potessi fare di diverso o di meglio. Ho un compito importante adesso da svolgere, lo sento fuori e dentro di me, e cerco di metterci tutto l’impegno possibile per assolverlo al meglio. Quelle che fai tu sono domande che io non mi pongo; forse vorresti che facessi una comparazione con quando stavo con te, ma questo è impossibile, non ci sarebbe alcun senso nel cercare un raffronto. Però una cosa posso dirti, visto che siamo a parlarne: sento un orgoglio dentro di me, per quello che sono riuscita ad essere oggi, superiore a qualsiasi altro sentimento, e per questo orgoglio sarei disposta a qualsiasi sacrificio; se sono venuta qui al tuo appuntamento è solo per dirti questa semplice cosa: lasciami perdere, non cercarmi, potremmo giocare ai nostalgici se ci va e per un po’ di tempo, ma questo non farebbe altro che sciupare le nostre differenti realtà, senza costruirne di nuove.

Contemporaneamente arrivò il cameriere, appoggiò l’ordinazione sul piano del tavolo con professionalità, ma questo accadde proprio nel preciso momento in cui la donna ormai si era alzata, e con un gesto quasi di stizza era ormai uscita di scena.

Bruno Magnolfi

l futuro nelle parole di Genni


Il futuro nelle parole di Genni

Genni pensa spesso al futuro. Lo fa per esercizio, lei dice, per immaginare qualcosa di meglio dopo questo triste presente. Certe volte si parla con lei, ma è difficile capire quello che pensa davvero. A volte è come se si esprimesse in un linguaggio incomprensibile, lo fa con l’ausilio di una grande fantasia, di immagini aperte, di una logica non ordinaria. Tutti noi, tra ragazzi, si annuisce quando lei dice qualcosa, cerchiamo sempre di ascoltarla con serietà e comprensione. Alcuni di noi sono sicuri che se diamo retta a quello che dice Genni, in seguito ci ritroveremo senz’altro migliori, forse lontani da qui, da questa squallida ordinaria realtà.

Quando Genni non c’è, sulle panchine del giardino dove in genere ci ritroviamo, non parliamo di lei, anzi, fingiamo che non esista, che non debba arrivare, anche se ognuno di noi dentro di sé attende solo che lei ci raggiunga. Poi, quando arriva davvero, lei si piazza seduta, ci guarda, e senza riferirsi a nessuno in particolare ci dice con calma che cosa pensiamo, da che cosa siamo preoccupati, quali sono i nostri desideri più intimi.

Ci piace sentirla parlare, è come se dicesse le cose che abbiamo sempre sognato che qualcuno spiegasse, ma Genni non spiega quasi niente, dice le cose che pensa, si riferisce soprattutto al futuro, dice un sacco di volte che per lei questo è l’esercizio fondamentale. Parla contemporaneamente con tutti, con se stessa e con ognuno separatamente, e se qualcuno di noi la interrompe lei smette con quei suoi pensieri, resta lì, assente, certe volte va via.

Qualcuno in altri casi non ci sta, dice che non verrà più alle nostre panchine ad ascoltare Genni che parla, ma non c’è niente di male, lei dice, è naturale che qualcuno si senta così, straniato, forse, calpestato nella propria individualità, in ciò che pare anche oltre ogni ragionamento divergente. Ma gli altri stanno lì, quando lei parla, quando ci spiega cosa dobbiamo pensare e quello che dobbiamo aspettarci, e c’è sempre un ragazzo o due in più, ogni volta; ci prende in giro, certe volte dice che vedremo annullate poco per volta le nostre personalità, ma noi non ci crediamo, ridiamo di questi discorsi, aspettiamo che Genni esplichi altri pensieri, che ci dica ancora qualcosa, qualcosa che manca come un tassello fondamentale a tutta quanta la costruzione.

Ogni volta è come se un grande punto interrogativo nascesse dentro di noi, sappiamo che Genni sa le risposte da dare, sa probabilmente che cosa accadrà, perché lei ha indagato il futuro, lo ha pensato in tutte le forme in cui le è possibile immaginarlo, però non ci dice la sua riflessione finale, non chiarisce niente dei dubbi che noi continuiamo a crearci. Genni sa cosa passa dentro alle teste di tutti, allora ci guarda, sorride, attende ancora qualche momento, poi spiega che ci dirà tutto la prossima volta, per adesso basta così, non c’è assolutamente bisogno di andare ancora più avanti.

Bruno Magnolfi

venerdì 24 settembre 2010

In mezzo alla guerra




Non ho detto niente quando mi hanno chiesto qualcosa. Sono rimasto in silenzio, non mi sono mai fidato di chi fa troppe domande. Sono vecchio, questo è vero, ma ciò non vuol dire che sia rincretinito: ho capito benissimo cosa volevano sapere, forse bastava annuire qualcosa, far finta di stare al disopra di certi meccanismi. Il resto, tutto ciò che mancava dei miei accenni, delle parole che avrebbero voluto sentir dire, ce lo avrebbero messo loro, con grande piacere. Ma io immaginavo già tutto questo e sono rimasto indietro di un passo: ho detto il mio nome, a testa alta, ho detto ciò che sapevo, cose che anche gli altri sapevano, poi ho detto basta, non so niente di altro e non dirò mai qui spontaneamente quello che penso delle vostre congetture, inutile insistere.

Non l’hanno presa benissimo, avrebbero probabilmente avuto bisogno di qualcuno tra i loro avversari che facesse retromarcia sulle convinzioni più note, ma non ero io il loro uomo, e così hanno parlato a voce bassa tra loro, parevano piuttosto nervosi, poi mi hanno lasciato.

Difficile capire il meccanismo a cui stanno dando risposte: si tratta probabilmente di montare informazioni inventate, ma che siano così credibili da apparire assolutamente come vere. Ma per diventare così verosimili qualcuno deve star lì a suffragarle, qualcuno con un passato il più possibile cristallino, tanto da essere creduto per forza, senza alcun dubbio, ed io sono sicuro che lo troveranno, o forse pagheranno qualcuno affinché lo incarni al meglio possibile.

Che mondo di plastica è mai questo, ho pensato, tutto è sempre più finto, le informazioni sono plasmate in modo che servano a chi paga di più, tutti lo sanno, eppure c’è ancora chi, per stanchezza, per semplicità, per smania di qualcosa di diverso, è disposto a credere a tutto, a dar credito in modo completo a quello che viene raccontato ogni giorno.

Sono uscito da quegli uffici pieni di luci elettriche e di vetri oscurati che già mi sembrava di aver ottenuto una qualche vittoria: ho preso l’autobus, sono tornato a casa mia, mi pareva di stare bene, a posto con la mia coscienza. Poi con calma ho ripensato a quelle domande: non erano mai dirette, non si trattava di rispondere si oppure no. Ho iniziato ad avere dei dubbi, poi ho acceso la televisione. Quando è iniziata la mia intervista mi sono subito reso conto che avevano cambiato domande: le mie risposte apparivano ambigue, e le parti che non potevano essere utilizzate le avevano prontamente tagliate. La mia risata ironica sotto alle telecamere era diventata un moto di apprezzamento delle loro posizioni, le mie parole erano state spezzettate, ero dei loro, non ci poteva quasi essere dubbio.

Ho spento il televisore, ho ripensato alla guerra, al fascismo, al mio essere partigiano. Tutto si è fatto sporco, ho pensato, inutile prendersela: forse i miei pensieri e i ricordi sono solo miei. Inutile pensare di condividerli con chi vuole soltanto cavalcarli; non dovevo proprio accettare un’intervista del genere. Ho sbagliato, bisognerebbe gridarlo il mio sbaglio, ma non ho ormai più la voce che me lo permetta.



Bruno Magnolfi.

mercoledì 22 settembre 2010

Soltanto due ore di treno


Mi siedo, sto fermo, mi guardo attorno. Il bar della stazione è enorme e pieno di personaggi diversi, qualcuno più insolito di altri. Non posso rimanere qui a lungo, penso, anche se mi piacerebbe tantissimo. Sto aspettando l’arrivo del treno di Luisa, la mia fidanzata, diciamo così, a due anni di distanza dalla separazione dalla mia prima moglie quest’appellativo mi fa sempre un po’ ridere. Anche Luisa è separata, ci siamo conosciuti da poco, durante un convegno a cui abbiamo partecipato. Da allora ci vediamo una volta da me e una da lei, due ore di treno ogni fine settimana o quasi.

Mi sono seduto a questo tavolino giusto per farmi servire un caffè, ma la mia solitudine in mezzo alla gente mi appare un elemento fantastico, penso, qualcosa che tra pochi minuti purtroppo perderò, e questa riflessione è talmente prepotente che non posso ignorarla. Vorrei restare qui, guardare queste persone, immaginare i loro caratteri decifrandoli dai gesti e dalle parole, vorrei perdermi in mezzo a quei loro problemi, alla fretta, a qualche immancabile dimenticanza, a tutte le espressioni che si riesce a vedere.

Forse sono matto, penso, non si può ragionare così mentre ci attende un fine settimana di tutto rispetto. Eppure non riesco a farne a meno, mi sembra proprio che tra pochi minuti perderò qualcosa della mia libertà, della mia benedetta possibilità di starmene per conto mio. Non ci avevo mai pensato prima, anzi, in precedenza mi pareva di essere fortunato ad avere la possibilità di rifarmi una vita, come in genere si dice, e invece all’improvviso tutto mi sembra crollare.

Così mi alzo, faccio un giro verso le biglietterie, ascolto ai megafoni che il treno di Luisa è in arrivo. Mi muovo, vado verso il binario, guardo il convoglio che si avvicina frenando, poi si ferma, si aprono gli sportelli, va avanti la solita confusione di persone che salgono e scendono, e alla fine eccola qui, Luisa è arrivata.

L’abbraccio, le dico benvenuta, poi sento che questo pensiero che ho avuto poco fa devo chiarirlo, devo dirglielo subito, devo parlarne con lei, non posso aspettare. Così le chiedo di fermarsi con me dentro al bar della stazione, di sedersi ad un tavolino, di prendersi qualcosa da bere, di aspettare un momento, perché devo dirle qualcosa, qualcosa di veramente importante. Luisa mi segue, capisce che qualcosa non va, poi all’improvviso mi abbraccia, mi guarda, mi dice soltanto: non importa, voglio solo dirti prima che tu mi parli di qualsiasi altra cosa, che io sono stata sincera con te, e questo periodo per me è stato bellissimo, però non mi va di assistere a una lenta agonia; se il nostro vederci non funziona, va bene così, ci abbiamo provato, tu non devi in nessun caso colpevolizzarti di questo…

Bruno Magnolfi

Scena n. 2. Disperata ricerca.


Sullo sfondo erano stati disegnati degli alberi, e al centro della luce, apparentemente proiettata da un basso lampione, c’era una semplice panchina e un giovane uomo seduto. Una donna cinquantenne entra nella scena con passo malfermo, con espressione sofferente, si guarda attorno, poi dice all’uomo: ho perduto mio figlio; è accaduto diversi anni fa, aveva l’età per andarsene in guerra, forse, ma lui è andato via, ed io non ne ho saputo più nulla. Adesso continuo a girare, ad andare nei luoghi dove immagino potrei ritrovarlo, o forse potrei sentir dire qualcosa di lui, che sta bene, non ha bisogno di niente, che vive la vita, com’è giusto che sia. Lei non ha per caso conosciuto una persona così?

No, signora, dice l’uomo senza scomporsi; io non ho visto nessuno così, tantomeno ho conosciuto suo figlio. Ho girato molto, ho incontrato tante persone, ma nessuna di queste gli assomigliava. Perché ci vuole una persona diversa da tutte per abbandonare sua madre e non farle sapere più niente di sé. Oppure ci vogliono dei motivi talmente gravi per compiere un’azione del genere che non vorrei neppure sentirne parlare. Ma lei, piuttosto, possibile che non sappia perché lui se n’è andato quel giorno?

Ha ragione, dice la donna dopo una pausa, è giusto che lei pensi in questa maniera. Non si fa una cosa del genere se non ci sono dei buoni motivi. Eppure io questi motivi continuo a cercarli dentro di me, in mezzo alle cose che ho detto, che ho fatto, in tutto ciò che posso essere stata, ma ancora non li trovo, non capisco quali ragioni ci possono mai essere state, e per questo continuo a vagare come una pazza, proprio per cercare di leggere negli occhi di chi non conosco una soluzione ai miei dubbi, ai tormenti che ancora accompagnano ogni mio giorno. Lei forse non farebbe altrettanto?

L’uomo intanto si solleva dalla panchina, si guarda attorno con una certa lentezza, poi dice: forse, quello che a lei sembra poco importante, certi gesti o certe parole di scarso rilievo per suo parere, possono essere proprio quelle che hanno innescato tutto il resto. Parlo solo per congetture, sia chiaro, ma non posso pensare nient’altro se non un motivo nascosto, un piccolo elemento insignificante in apparenza, a cui lei non ha dato peso in un primo momento, ma che adesso, forse con un pensiero più approfondito, può rivelarsi quello scatenante, la causa di tutto. Ci pensi, rifletta, non ha forse detto o fatto qualcosa di questo genere?

No, signore mio, risponde la donna di getto ancora prima della fine delle parole dell’altro. Io penso di essere stata per lui una buona madre, di averlo allevato nella maniera migliore, di aver sacrificato tanto della mia vita cercando di dare a lui l’educazione migliore, i più sani principi. Può darsi che qualcosa abbia sbagliato senza accorgermene, ma quale persona sulla terra non ne commette di errori? Com’è possibile che io debba pagare così tanto per qualcosa di cui non riesco neppure a rendermi conto?

Forse, dice ancora l’uomo mentre lentissimamente esce dalla zona illuminata sotto al lampione: in ogni caso si può anche pensare che tutto quello che c’era da dire sia stato già detto; che non ci sia più possibilità alcuna per riprendere un dialogo ormai interrotto per sempre. Forse ogni cosa è compiuta, tanto vale farsene ormai una ragione, guardare avanti comunque, scegliere di pensare soltanto a quello che è stato e non tormentarsi più al cospetto di qualcosa che potrebbe essere stato diverso. Adesso vado via, la saluto, ma non so cosa augurarle: forse quella guerra di cui parlava all’inizio per me deve ancora scatenarsi; ma allo stesso tempo sento dentro di me la necessità di cercarla, di trovare, da qualsiasi parte possa essere, quella guerra per cui da tempo mi sentivo già pronto, e di andare avanti, di perseguire ciò che mi è parso sempre così naturale, perché questo oggi, solo questo, è tutto ciò che mi muove.

Bruno Magnolfi

Scena n. 3. Monologo interiore.




Sono qui, da solo, come sempre. Quasi non mi interessa che abbiano allestito questo piccolo palco tutto per me, con uno sfondo di palazzi di periferia, questo marciapiede qualsiasi, le luci taglienti che lasciano ombre da tutte le parti. Mi viene da ridere a pensare che si siano preoccupati di dare una cornice adeguata al mio spirito, è insignificante il contorno, ciò che conta è questa amarezza, sapere che niente riesce a farmi sentire adeguato.

In genere nutro scarso interesse per ciò che gli altri si affannano a fare, non perché io viva solo di me stesso, sia chiaro, in genere cerco di tenere lontano da me qualsiasi moto egoista; bensì perché riconosco un certo ottimismo, una positiva speranza, una voglia per me assurda di guardare in avanti, una maniera di pensare ogni cosa che io, per quanto cerchi dentro di me, non ritrovo, non ho mai conosciuto.

Vivo di poche certezze, alle quali ritengo di stare attaccato più che a qualsiasi sogno fumoso: so di essere, di occupare uno spazio all’interno del mondo, di essere costretto in un ruolo di cui farei a meno, di mandare in avanti un’esistenza della quale non ho scelto un bel niente, se non il mio debole pensiero, la mia capacità di sentirmi inadatto a ciò verso cui sono costretto. Percorro la strada che mi è stata indicata, mi guardo attorno certe volte, mi rendo conto che non ho alcuna scelta.

Eppure sono qui, sento la necessità di urlare un dolore che mi esce da dentro, anche se so già in partenza che non servirà a niente. Che posso farci, a mio modo resto comunque un patetico sognatore, però non riesco a impedirmi di dire quello che sento, anche se certe volte non so neppure io a cosa serva. Incarno una persona qualsiasi, uno che abita la periferia del mondo, come tutti, perché tutto è periferia, non c’è da farsi illusioni.

Bruno Magnolfi

domenica 19 settembre 2010

Poco distante dai pensieri usuali


Poco distante dai pensieri usuali

Il negozio di stoffe esisteva da almeno trent’anni, e vendeva tendaggi, lenzuola, anche qualche tappeto. Ci lavorava una commessa, ma alla cassa e dietro al grande banco di legno in tutti quegli anni c’era sempre stata la proprietaria, una signora ormai anziana dall’espressione bonaria, con l’inseparabile metro di stoffa girato sul collo. La signorina Francesca era la figlia, l’avevo sentita una volta chiamare proprio così dalla commessa, e aveva iniziato ad aiutare la mamma almeno per tre o quattro pomeriggi la settimana, senza grande impegno, a dire il vero e per quanto potevo capire, limitandosi a rimettere a posto le pezze ogni tanto e a servire qualche cliente. Aveva un’espressione triste, quella ragazza leggermente invecchiata; portava generalmente camicette bianchissime e i capelli annodati dietro alla nuca, quasi da assumere l’aria del personaggio di un’altra epoca, con la sua corporatura magrissima, quasi sofferente, lo sguardo da timida, la carnagione olivastra.

Io abitavo al numero sedici di quella strada, nella casa che mi avevano lasciato i miei genitori, appena dieci metri dopo il negozio di stoffe, e ogni volta che passavo davanti a quelle vetrine davo un’occhiata all’interno. Non ci avevo mai fatto caso prima di allora, ma era stato quando avevo notato la signorina Francesca per la prima volta che qualcosa di lei mi aveva incuriosito. Non ero mai entrato all’interno di quell’esercizio, però con il tempo, a furia di osservare i particolari dal marciapiede, era come se conoscessi già tutto di quel posto, come se fossi quasi affezionato a quelle persone che lavoravano là dentro.

Era stata una sera qualsiasi, mentre tornavo a casa come sempre, che era successo di essermi quasi scontrato con la signorina Francesca mentre stava uscendo da dentro al negozio. Scusi, ci eravamo detti ambedue quasi contemporaneamente, e lei lo aveva fatto con una voce che non avrei mai immaginato, non avendola mai sentita parlare prima di allora, dolce e profonda allo stesso tempo, e con una riservatezza nei gesti e nello sguardo che mi aveva attratto ancora di più. Mi ero sentito folgorato, ed avevo iniziato a passare di fronte a quelle vetrine tantissime volte nelle sere seguenti, mai soffermandomi ma rallentando la mia camminata nello spazio di quei pochi metri, con l’intento di rivederla, di darle un saluto, di riuscire a strapparle un sorriso, qualche parola convenevole. Invece non c’era, o diversamente appariva indaffarata dietro a qualche cliente, ed io non avevo trovato più alcun motivo per poterle parlare.

Più la osservavo, la signorina Francesca, durante quei pochi secondi in cui passavo davanti al negozio, più mi sembrava una persona dai modi affascinanti, con quella maniera di tenere lo sguardo abbassato, i capelli raccolti, le sue camicette sempre bianchissime. Potevamo avere la stessa età, e la mia solitudine mi pareva più sopportabile da quando sapevo che lei era là, che mi era vicina in qualche maniera, che forse soffriva del mio medesimo male. Poi decisi che dovevo parlarle, perché non resistevo, non potevo più attendere.

Una sera qualsiasi entrai dentro al negozio, chiesi alla commessa di una tenda da mettere alla finestra della mia camera, poi, mentre quella mi stava mostrando qualcosa, mi voltai verso la signorina Francesca, nello stesso momento in cui anche lei si era girata verso di me. Buonasera, le dissi, e ci sorridemmo, come per un’intesa, così almeno mi parve. La commessa mi fece vedere parecchi colori e altrettante finiture, ma io mi mostrai estremamente indeciso, proprio per lasciare qualcosa in sospeso e tenermi la possibilità di tornare in negozio in un altro giorno. Dissi a voce alta che sarei ripassato, avrei preso meglio le misure che servivano, poi, al momento di uscire, mi accostai appena verso la signorina Francesca, giusto per dirle: allora… arrivederci, con tutto il sentimento sincero che riuscivo a mettere in una sola parola. Lei mi guardò, mi sorrise, poi abbassò gli occhi.

Bruno Magnolfi

venerdì 17 settembre 2010

Scena n. 1: Il principio del raccontare

Un tavolo, una sedia, uno sfondo grigio; una lampada dall’alto illumina lo spazio. Un uomo entra timidamente nel fascio di luce. Si rivolge al pubblico, ma solo dopo qualche momento: vedete, dice, qua non c’è niente, niente che io possa fare o dire che non sia già risaputo, scontato, elemento ordinario. Qualsiasi cosa è inutile. Però potrei raccontare una storia, una piccola storia alla quale tengo molto, che ho pensato da lungo tempo, che ho tenuto in serbo, solo per voi, proprio per raccontare qualcosa stasera.

Ci siamo dannati tutti per lungo tempo cercando gli argomenti che racchiudessero altri argomenti, rovistando tra le parole maggiori che fossero quelle più importanti di tutte le altre; abbiamo pensato, e di ogni pensiero abbiamo studiato la matrice, abbiamo immaginato la riflessione più alta, quella principale di tutte. Inutile e ridicolo appare adesso anche solo dirlo: ci siamo persi dietro questa nostra ricerca, ci siamo confusi, siamo rimasti imprigionati durante il percorso, e non abbiamo saputo neanche più come uscire da quel labirinto.

Per questo, ecco, una piccola storia, un breve racconto è senz’altro ciò che può dare il senso alle cose, proprio perché non ha nessuna pretesa, è solo una piccola cosa in mezzo ad un mare di altre cose che ogni giorno viviamo, ascoltiamo, percepiamo nell’aria come costituenti leggeri e necessari del nostro inseguire le tracce; si, le tracce, le orme di qualcosa a cui cerchiamo di assomigliare e che è sempre più avanti di noi: ne seguiamo la pista, la scia, il richiamo fortissimo e indecifrabile che ci lascia affaticati mentre ci affanniamo nel corrergli dietro, eppure sappiamo in partenza che saremo perdenti, ma anche così siamo ben consapevoli che non potremo mai scegliere altro da perseguire.

Le storie sono solo costruzioni meccaniche messe assieme ora per stupire, ora per insegnare qualcosa, ora per farci sognare. E’ giusto rivoltarsi a questo automatismo scontato, non c’è nessun interesse nello starsene a bere tutto quello che ci viene rifilato. Però, non c’è vergogna, siamo uomini e donne, possiamo sbagliare, continuamente sbagliare ed accorgerci ogni volta di qualsiasi errore in cui siamo caduti, eppure continuare a sbagliare, proprio come poveri dementi fissati.

Io, questa sera, non so neanche più di che cosa volevo parlarvi; c’è ancora qui questo tavolo, quest’umile sedia, non so neppure chi abbia scelto questo arredamento così minimo, non so neanche cosa farci con un tavolo e con una sedia. Non lo so, però ci penso, ci sto pensando, forse qualcosa mi viene alla mente: posso sedermi sopra la sedia, appoggiare i gomiti sul tavolo e in questa posizione cercare di scrivere; si, scrivere, inventare la storia da raccontare la prossima volta, se mai ci sarà la prossima volta. Posso studiare il racconto da leggere quando sarà il momento più adatto, ecco, perché lo so, lo so bene, sarà quel racconto, pur piccolo, breve, insignificante che sia, quello di stasera oppure uno diverso, che saprà ancora convincermi che si può essere vivi, e mi lascerà utilizzare tutte le parole possibili per dar ali alla mia fantasia.

Bruno Magnolfi

giovedì 16 settembre 2010

Nessuna variazione, anche stasera









Davanti all’appartamento al piano terra di Ettore, subito di là dalla strada, abitano due coniugi anziani. Lui non sopporta vederli, ma loro sembra non abbiano nient’altro da fare che starsene lì tutto il giorno, in quel giardinetto ridicolo con le piante stipate in pochi metri quadrati di terra e qualche vaso. Ettore torna nel pomeriggio dal suo lavoro e loro sono lì, che gli sorridono, lo salutano come se non avessero altro da fare. Quel giardinetto e tutta la casa ha un’aria di vecchio, qualcosa di insopportabile, come se ogni cosa, i mobili, le porte, gli spigoli dei muri, fossero stati preservati per un mucchio di tempo da qualsiasi accidente potesse essere mai capitato.

Ettore passa davanti, vorrebbe non voltarsi verso di loro, rinuncerebbe per qualsiasi cosa a quel loro saluto, ma poi un richiamo di disgusto gli fa girare la testa verso la zona di là dalla strada sempre a quell’ultimo momento prima di aprire la porta, giusto per accorgersi che loro sono lì, lo stanno guardando da dietro la loro ringhiera, stanno apprezzando che lui rientra a casa all’orario di sempre, senza tardare, senza fermarsi in un bar o da qualche altra parte prima di tornarsene a casa.

Farebbe di tutto per scompaginare i loro pensieri, Ettore, i pensieri di quei coniugi anziani, ma il suo è un lavoro sporco, per forza deve tornarsene a casa prima di qualsiasi altra cosa, deve cambiarsi, farsi una doccia, mettersi in ordine. Ettore è sicuro che loro hanno annotato su un calendario tutte le volte che lui ha fatto qualcosa di diverso dal solito, almeno a quell’ora del pomeriggio, quando torna dal suo lavoro. La loro vita vuota di tutto li ha messi in condizione di percepire qualsiasi piccola novità, ogni variazione, qualsiasi differenza, e lui da anni cerca oramai di rientrare dentro casa nell’istante preciso in cui loro si aspettano che lui lo faccia, proprio in maniera da provocare nei loro disegni quasi una piccola delusione, così come immagina, da non lasciare loro alcuna possibilità per scrivere qualcosa su quello stupido calendario.

Immagina una casa, la loro, dove i soprammobili sono tutti al solito posto da almeno cinquant’anni, dove aleggia perennemente odore di minestra nell’aria, dove le parti dei mobili che quei due toccano con le loro mani grinzose, sono più lucide di ogni altra superficie. E poi c’è il giardino, quel buco ridicolo dove nessuna foglia secca riesce a cadere da sola, perché loro sono sempre pronti a toglierla di mezzo un attimo prima, dove i vasi e le piante sono stati collocati una volta per tutte decine di anni più indietro e niente è più riuscito a spostarli. Ettore a volte li guarda dalla finestra e si sente distante da quella vita meschina, gli pare perfino impossibile vivere in quella maniera.

Poi una sera torna più tardi con un amico che è passato a prenderlo all’uscita dal suo lavoro e con il quale si è già bevuto due birre in un bar. Ridono forte di qualcosa loro due, e mentre Ettore cerca la chiave per aprire la porta non riesce a resistere e si volta per dare un’occhiata ai suoi anziani vicini. Loro sono lì, lo stanno osservando, fanno finta di niente per non metterlo a disagio, ma lui dice forte: buonasera, calcando le vocali e dando risalto a quel suo saluto. Loro non rispondono, se non con una semplice occhiata di riprovazione; poi rientrano in casa, si chiudono di nuovo in quei muri logori: saranno andati ad annotare tutto quanto sul loro calendario, pensa Ettore, e intanto assesta una pacca simpatica sulle spalle al suo amico.



Bruno Magnolfi

mercoledì 15 settembre 2010

Dentro alla tela del ragno

Mi sento completamente vuoto. Giro per casa in ciabatte senza riuscire a concentrare l’attenzione su qualcosa che ne valga la pena. Poi decido di uscire, infilo le scarpe e volo giù per le scale. Guardo attorno la solita strada, ma tutto mi sembra esattamente come sempre, mi avvio e arrivo fino al caffè proprio all’angolo. Entro e mi pare di stare dentro a un documentario già visto alla televisione, la fotocopia precisa di un altro giorno qualsiasi tra tutti quelli che sono trascorsi. Mi siedo davanti al bancone, mi lascio servire una birra, la bevo a piccoli sorsi, ma ho quasi paura di terminarla, dopo non avrò più neanche un motivo per restarmene lì, seduto senza far niente.

Infine pago la birra e esco dal locale, giro un po’ per le strade del mio quartiere, mi sento già soddisfatto di non incontrare nessuno che conosco: scambiare le solite chiacchiere, trattare monotoni argomenti, tutta roba che mi fa sentire anche peggio di come mi sento. Poi torno a casa, mi siedo, cerco di concentrarmi su qualcosa che ne valga lo sforzo. Infine in un angolo della parete un piccolo ragno per gradi inizia ad attrarre il mio sguardo: lo seguo mentre tira i suoi fili, niente di speciale, ma mi piace osservarlo, studiare i suoi modi e i suoi trucchi.

Vado a prendere la mia piccola macchina fotografica digitale, metto davanti all’obiettivo una lente di ingrandimento da scrivania e scatto diverse istantanee illuminando la scena con una lampada da tavolo. Arriva una zanzara e cade nella rete del ragno. Continuo a scattare una foto sull’altra, fino a che tutto si compie e mi pare non ci sia altro da fare per me. Sono contento di quel lavoro, mi sembra proprio una cosa interessante studiare qualcosa che succede proprio qui dentro casa, sotto ai miei occhi.

Mi siedo alla scrivania, osservo le foto dentro al display e mi sembrano tutte curiose, qualcuna anche ben fatta, interessanti. Poi mi alzo, giro per casa, prendo una scopa e mi libero di ragno e ragnatela. Riguardo le fotografie: non potrei farle vedere a nessuno, penso. Nessuno si interessa di cose del genere, e chi se ne interessa davvero, riesce senz’altro a fare delle foto molto migliori. Così giro ancora per casa con la mia piccola macchina fotografica, rifletto ancora su tutte le cose, poi seleziono la memory card e cancello tutto quello che ho fatto. Non interessa nessuno quella roba, la gente fa altro, se le faccio vedere probabilmente mi ridono dietro, penso.

Accendo la televisione e mi sdraio sulla poltrona; giro un po’ tra i canali, poi mi fermo su un programma di roba naturalistica, sono documentari bellissimi, tutta roba girata con mesi di pazienza e di appostamenti. Mi viene da ridere a ripensare al mio ragno, poi rifletto che non c’è spazio per uno come me, per qualsiasi cosa io possa inventarmi: inutile prendersela, sono destinato a sentirmi così, vuoto, completamente, è il mio destino, penso.

Bruno Magnolfi

martedì 14 settembre 2010

Dentro alla tela del ragno




Mi sento completamente vuoto. Giro per casa in ciabatte senza riuscire a concentrare l’attenzione su qualcosa che ne valga la pena. Poi decido di uscire, infilo le scarpe e volo giù per le scale. Guardo attorno la solita strada, ma tutto mi sembra esattamente come sempre, mi avvio e arrivo fino al caffè proprio all’angolo. Entro e mi pare di stare dentro a un documentario già visto alla televisione, la fotocopia precisa di un altro giorno qualsiasi tra tutti quelli che sono trascorsi. Mi siedo davanti al bancone, mi lascio servire una birra, la bevo a piccoli sorsi, ma ho quasi paura di terminarla, dopo non avrò più neanche un motivo per restarmene lì, seduto senza far niente.

Infine pago la birra e esco dal locale, giro un po’ per le strade del mio quartiere, mi sento già soddisfatto di non incontrare nessuno che conosco: scambiare le solite chiacchiere, trattare monotoni argomenti, tutta roba che mi fa sentire anche peggio di come mi sento. Poi torno a casa, mi siedo, cerco di concentrarmi su qualcosa che ne valga lo sforzo. Infine in un angolo della parete un piccolo ragno per gradi inizia ad attrarre il mio sguardo: lo seguo mentre tira i suoi fili, niente di speciale, ma mi piace osservarlo, studiare i suoi modi e i suoi trucchi.

Vado a prendere la mia piccola macchina fotografica digitale, metto davanti all’obiettivo una lente di ingrandimento da scrivania e scatto diverse istantanee illuminando la scena con una lampada da tavolo. Arriva una zanzara e cade nella rete del ragno. Continuo a scattare una foto sull’altra, fino a che tutto si compie e mi pare non ci sia altro da fare per me. Sono contento di quel lavoro, mi sembra proprio una cosa interessante studiare qualcosa che succede proprio qui dentro casa, sotto ai miei occhi.

Mi siedo alla scrivania, osservo le foto dentro al display e mi sembrano tutte curiose, qualcuna anche ben fatta, interessanti. Poi mi alzo, giro per casa, prendo una scopa e mi libero di ragno e ragnatela. Riguardo le fotografie: non potrei farle vedere a nessuno, penso. Nessuno si interessa di cose del genere, e chi se ne interessa davvero, riesce senz’altro a fare delle foto molto migliori. Così giro ancora per casa con la mia piccola macchina fotografica, rifletto ancora su tutte le cose, poi seleziono la memory card e cancello tutto quello che ho fatto. Non interessa nessuno quella roba, la gente fa altro, se le faccio vedere probabilmente mi ridono dietro, penso.

Accendo la televisione e mi sdraio sulla poltrona; giro un po’ tra i canali, poi mi fermo su un programma di roba naturalistica, sono documentari bellissimi, tutta roba girata con mesi di pazienza e di appostamenti. Mi viene da ridere a ripensare al mio ragno, poi rifletto che non c’è spazio per uno come me, per qualsiasi cosa io possa inventarmi: inutile prendersela, sono destinato a sentirmi così, vuoto, completamente, è il mio destino, penso.

Bruno Magnolfi

lunedì 13 settembre 2010

La misurazione dei componenti




La donna aveva guidato nel traffico con la sua utilitaria, poi rallentando aveva accostato con la vettura al marciapiede di destra, proprio dove, in mezzo ad altre persone, aveva intravisto chi la stava aspettando. Si era fermata, aveva dato un leggero colpo sul clacson, aveva lasciato che in diversi si voltassero verso di lei. Per quel giorno aveva indossato una camicetta bianca con il morbido colletto di pizzo, e una giacchina attillata della quale si sentiva convinta le stesse benissimo, ed era uscita da casa felice di incontrarsi con lui.

L’uomo, fermo sul marciapiede in attesa, aveva riconosciuto da lontano quella macchina, si era voltato di fianco fingendo di guardare qualcosa tra le sue mani per non dare troppa importanza alla donna che stava arrivando, e si era subito innervosito quando aveva sentito che lei gli suonava, come per mostrarsi a tutta la strada. Non gli era piaciuto quel gesto, così aveva sollevato la testa restando per un attimo fermo dove stava, perplesso sull’atteggiamento da prendere.

Poi si era mosso, era andato svogliatamente verso la macchina mentre la donna aveva prontamente azionato le frecce di stazionamento, non dimenticando di osservare la strada alle sue spalle nello specchietto retrovisore. Le aveva bussato nel vetro dello sportello dalla parte del passeggero, quindi aveva lasciato che lei azionasse il meccanismo per l’apertura automatica del finestrino. Poi si era leggermente inclinato, ma non tanto da farle vedere tutto il suo viso, attendendo anzi che lei si spostasse con il suo corpo verso il sedile di destra, in modo che riuscisse a guardarlo negli occhi. Poi aveva dato un’occhiata lungo il marciapiede ingombro di gente che si snodava al suo fianco.

Ciao, aveva detto lei cercando di conservare il suo buonumore nonostante avesse capito perfettamente che c’era qualcosa che non andava. Stavo solo aspettando l’arrivo di una persona, aveva detto lui chissà cosa cercando di farle capire. E non ti sembra arrivata? Incalzò lei decisa a recuperare la situazione. Forse, aveva risposto lui dopo una pausa, ma non mi sembra abbia capito la maniera come mi piacerebbe desse segno di sé. Lei allungò la mano conservando il sorriso, fece scattare il meccanismo di apertura dello sportello, e attese che lui salisse sulla vettura.

Aspetta, disse lui, una volta sistemato sopra al sedile; penso che dovrai ascoltare qualcosa prima di innestare la marcia. Vedi, non mi sento a mio agio con te, sei sempre un po’ lontana dai miei desideri, ti comporti come se io fossi qualcosa da tirare sulla tua macchina mentre te ne vai in giro, per poi scaricarmi una volta stufata. Non metti mai impegno nel cercarmi, nel mostrare che mi desideri, che hai un’idea alta del nostro incontrarci. Non mi sento a mio agio quando esco con te, sembra sempre che tutto si muova per il verso sbagliato.

Va bene, aveva detto lei conservando la stessa espressione e dando ancora un’occhiata nello specchietto retrovisore. Ci fu una pausa vuota di tutto, poi lui fece scattare l’apertura dello sportello, lo aprì senza dire più niente, senza neppure guardarla, e scese da quella macchina, richiudendo la portiera avendo cura di evitare di sbatterla. Anche lei non disse niente, innestò prontamente la marcia facendo raschiare leggermente gli ingranaggi del cambio, dette un’occhiata agli specchietti per assicurarsi che nessuno stesse arrivando, e poi se ne andò.

Bruno Magnolfi

domenica 12 settembre 2010

Improvvisamente diverso




A Rodolfo piace molto scherzare. Certe volte inizia di punto in bianco e pare proprio non voglia più smettere. Gli amici lo guardano, sorridono, qualcuno di noi vorrebbe dirgli forse che è il caso di farla finita, ma lui pare non accorgersi di nulla, e scherza, dice cose surreali, ogni argomento pare una scusa per farci sopra dell’ironia. Sua moglie al contrario rimane in silenzio, sembra abituata a quei modi di fare, oppure sa benissimo che l’unica maniera per neutralizzare un po’ quella vena è ignorarlo, lasciare che vada avanti da solo fino a quando non si sente un po’ stupido.

A me piace all’inizio quel suo modo di riempire il silenzio, mi pare che tutto sia sempre migliore quando lui gioca con le parole e coi modi di dire le cose. Dopo un po’ al contrario mi stufa e non lo sopporto. In fondo, quando certe volte ci ritroviamo tra amici per stare un po’ insieme, sembra non si possa fare a meno di lui. Così gli chiediamo sempre qualcosa per farlo partire, gli diciamo: com’è che stasera sei serio? Oppure: ma non ti è successo più nulla dall’ultima volta che ci siamo visti? E generalmente lui inizia e va avanti da solo.

Ma le ultime volte che siamo usciti non è stato così. Pareva quasi un’altra persona, stava lì ad ascoltare quel che dicevano gli altri senza aggiungere nulla, senza parlare con quei suoi modi simpatici di tutto quello che gli passava dentro al cervello. Lo abbiamo pungolato come sempre, gli abbiamo fatto qualche domanda, ma lui niente, e anche sua moglie sembrava non aspettarsi di più da quella situazione in cui pareva passivo.

Così lo abbiamo preso da parte, a Rodolfo, ci siamo accostati in due o tre e gli abbiamo chiesto cos’era che lo stava affliggendo. Ma lui ha sorriso, ci ha guardati con leggerezza e ha detto che andava tutto benone, e che lui si sentiva quello di sempre. Anche sua moglie ci ha detto che non c’era un bel niente di diverso dalle solite volte. Così abbiamo lasciato correre e abbiamo cercato di non farci più caso.

Rodolfo in fondo è un amico, nessuno di noi vorrebbe che ci fosse qualcosa che non vuole dirci per qualche motivo, così siamo andati a cercarlo nel negozio dove lavora. Lui ci ha offerto un caffè nel locale di fronte, ha detto che è vero che si sente diverso da un po’ di tempo, ma neanche lui sa capirne il motivo. Così ce ne siamo andati, ci siamo salutati come sempre, lo abbiamo lasciato alla sua occupazione.

Una sera della settimana scorsa ci viene a trovare, senza la moglie. Dice che si sente una persona differente, ha bisogno dell’aiuto di tutti, non riesce a capire cosa sia che non va. Parliamo, gli chiediamo qualcosa, Rodolfo sembra assente, come se la sua testa fosse da tutt’altra parte. Così prendiamo qualche argomento leggero, tanto per tenerci tranquilli, ma lui cambia tema, sembra non starci per niente con il cervello. Se ne va e non sappiamo proprio cosa pensare di lui.

Ieri sua moglie ci ha detto che ha dovuto ricoverarlo in una clinica psichiatrica, per un periodo di osservazione. Ci siamo telefonati tra amici per scambiarci le idee, per parlare di quella faccenda, e qualcuno ha iniziato a dire che forse non c’è proprio tanto da stupirci: secondo qualcuno era sempre stato un po’ matto, fin da quando faceva il divertente con le sue tirate ironiche e i suoi modi così surreali. Abbiamo riflettuto tutti assieme che alla fine c’era quasi da aspettarsela una conclusione del genere. Io allora ho acceso la televisione, mi sono aperto una birra, ho sintonizzato un programma qualsiasi, e ho pensato che è tutto normale: ognuno insegue qualcosa nella vita, Rodolfo non riusciva ad essere uno come tutti, a sentirsi proprio come gli altri, la conclusione delle cose parla per lui.

Bruno Magnolfi

sabato 11 settembre 2010

Su questa spiaggia deserta (a margine di "Bionda, naturalmente")




Mi sarebbe tanto piaciuto rimanermene sulla spiaggia assolata, senza niente di cui preoccuparmi, da sola, distante da tutto. Invece dentro la testa i pensieri corrono, mi tengono in uno stato perenne di agitazione, nonostante io avessi deciso che questa sarebbe stata la mia sacrosanta vacanza, il luogo dove preoccuparmi soltanto di me stessa. Fortunatamente il bagnino ogni tanto interrompe il flusso ininterrotto di cose che passano dalla mia mente: “buongiorno signora bionda”, ripete ogni giorno, ed io trovo divertente il suo modo, la sua capacità di essere ad un tempo distaccato e pungente.

Sento ormai da tanto tempo una distanza che si era formata tra me e tutto il resto, e in questo spicchio di solitudine invece di rilassarmi e ritrovare la forza per affrontare il futuro, proseguo come una sciocca a preoccuparmi di tutte le vicende del mio passato. Torna mia madre in silenzio a posare il suo sguardo così penetrante sui modi e i comportamenti di quando ero ancora bambina, tanto da sentirla continuamente con me, anche quando non c’era. Ripenso ai suoi gesti, a quelle sue strane maniere prima del ricovero nella clinica psichiatrica: quella sua perspicacia, quel capire le cose senza chiederle, quello starmi vicina come una carezza gentile, senza ossessioni, senza mai forzature.

Sentivo da sempre un’unione con lei, una simbiosi profonda, qualcosa che dentro di me scorreva così naturale da non spaventarmi, da non lasciarmi alcuna preoccupazione. Eppure sapevo che non era come tutte le mamme, ma io mi sentivo come lei, costituita della sua stessa materia, e non sentivo necessità alcuna di parlare con anima viva del suo essere strana, particolare, forse unica.

Andavo a scuola, in giro con le mie amiche, in biblioteca a studiare, e sapevo continuamente che non ero sola, qualcosa di lei mi accompagnava, con discrezione, con tatto, aiutandomi in ogni piccola decisione da prendere. Dopo le sue ultime crisi, quando mi dissero che aveva esalato il suo ultimo respiro, provai il terrore di sentirmi inevitabilmente da sola: invece non era così, per tutto questo tempo lei ha continuato ha inviarmi messaggi, a parlare con me, come per uno strano fluido, nella sua maniera inconcepibile e silenziosa.

Anche adesso, su questa spiaggia calda e piacevole, so che qualcosa mi spinge, qualcosa mi grida di andare più avanti, di cercare in mezzo alle pieghe della mia immaginazione qualcosa che non appare evidente, qualcosa che risulta nascosto ma che è d’importanza vitale per me, per comprendere veramente chi sono, per riuscire a capire cosa sia questo stimolo che a volte mi lacera ma del quale ho bisogno. Non riesco a capire dove mi porterà questo senso, so che devo seguirlo, devo andare, in qualsiasi caso e a costo di qualsiasi sacrificio.

Bruno Magnolfi

venerdì 10 settembre 2010

In fondo a un bicchiere svuotato


Niente è cambiato, lo so, me ne rendo conto. Avevo cercato mille volte di concentrarmi, di far forza su me stesso, di tenermi a distanza da quei soliti bar dove trovi sempre qualcuno che sorride e ti fa compagnia. Per mesi non avevo più comprato neppure una bottiglia di vino, e tutto questo è durato per un sacco di tempo, ma è bastato solo ritrovare per strada un vecchio amico di tanti anni fa che io ho sentito subito vacillare ogni promessa.

Ci siamo fatti un bel brindisi quel giorno, è chiaro, e da lì non sono più riuscito a fermarmi. Ci ho pensato su tante volte e ho capito che forse c’è proprio qualcosa nel mio DNA che mi fa essere proprio così. Giro per strada, incontro la gente, magari saluto anche qualcuno che conosco, ma sembrano tutte persone insignificanti, ed io mi sento proprio come uno di loro. Se invece lascio andar giù almeno un bicchierino, ecco che il mondo mi appare diverso, più colorato, più divertente, e le persone tutte carine, qualcuno di loro persino simpatico.

Poi un giorno giro per strada e incontro uno che fa: ti ricordi di me? Ci siamo visti giù al gruppo degli alcolisti anonimi, saranno un paio di anni fa. Io dico di no, che non lo ricordo, ma a lui non fa alcuna differenza, così decidiamo di farci una birra in un pub proprio lì accanto. Ci sediamo e lui dice: che roba, tutto quel tempo buttato, a me non è proprio servito a un bel niente, mi fa; io annuisco, non c’è neppure bisogno che te lo dica, penso.

Poi fa: tutto il trucco sta nel tenere le cose sotto controllo, non devi mai superare il tuo limite, è solo questa la cosa importante. Lo lascio dire quello che vuole, poi dico: tu come te la passi in questo momento? E lui fa: amico, io me la passo benone, cosa credi, ho capito quale sia il mio limite, l’ho studiato, messo a punto, e adesso sono a posto, tranquillo, mi fa. Io me lo guardo con un sorrisetto perché non ci credo per niente a quello che dice, ma lui monta su tutte le furie, sbatte il bicchiere sul tavolo e poi se ne va, lasciando persino da pagare la sua birra.

Così penso che il mondo sia proprio pieno di gente svitata, però mi ha colpito il suo punto di vista, la faccenda del limite è più seria di quello che sembra, penso. Torno a casa e mi fo un bicchierino tanto per ragionare un po’ meglio su quello che ha detto quel tizio. Quando torno ad uscire penso che la sua teoria sia perfetta, ci devo soltanto lavorare per metterla a punto, la devo solo sistemare apposta per me, ma è proprio la cosa migliore che io possa fare, penso.

Puoi farti un bicchierino, mi dico, puoi fartene due, se proprio ti va, ma devi imparare subito dopo a dire di no, che basta così, perché è quello il tuo limite e tu non lo puoi superare. Ecco quello che penso. Se qualcuno degli amici giù al solito bar ti chiede cos’è che stai facendo e magari ti batte una mano sopra la spalla, tu non devi avere problemi, basta dire con serietà che non puoi superare il tuo limite, è questa la disciplina che segui, per te è più importante di qualsiasi altra cosa, ecco cosa puoi dirgli. Sono contento di aver trovato quel tizio, penso, mi ha aperto gli occhi, potrei addirittura sfidarlo a mostrarmi il suo limite prima di fargli capire del mio. Potremmo anche farci su delle belle risate se non fosse svitato com’è, penso. Però meglio uno così, che tutti gli altri.

Bruno Magnolfi

Senza alcuna parola



Lo schiaffo non era stato particolarmente forte, ma il risultato lo aveva ottenuto ugualmente: lui era rimasto immobile, quasi incapace di comprendere cosa fosse effettivamente accaduto. Lei, con una certa freddezza, lo aveva lasciato parlare, aveva voluto misurare fino a che punto riusciva ad essere falso. Era rimasta in silenzio, lo aveva ascoltato, aveva lasciato che lui cercasse di apparire quello di sempre.

Si era fatta portare fino alla loro solita panchina, quella dove avevano deciso di mettersi assieme ormai diversi mesi più indietro; quella dove si erano baciati per la prima volta, superando i dubbi e la timidezza della loro età di ragazzi; proprio lì, dove insieme avevano capito che valeva la pena di affrontare in due la realtà di ogni giorno. Mentalmente aveva ripercorso tutte le tappe che insieme avevano raggiunto, l’intimità, la dolcezza, la scoperta di avere affinità insospettabili. E poi quel presentarsi abbracciati davanti agli amici, quella prova forse più entusiasmante di tutte, quasi un’iniziazione alla vita, all’amore, ai rapporti sociali.

Era salita sul motorino di lui dopo la scuola come sempre quel pomeriggio. Avevano percorso i viali per lasciarsi alle spalle il traffico e tutta la gente, avevano arrampicato la collina lungo la strada piena di curve per raggiungere quella piccola piazzetta rialzata, così fuori mano, regolarmente deserta, il loro punto d’arrivo di tanti pensieri, di tanti discorsi, del loro entusiasmante confronto.

Avevano osservato il panorama, si erano lasciati scaldare al sole sonnacchioso e piacevole, lei aveva continuato ad ascoltare i suoi discorsi di sempre, gli scontri in famiglia, le difficoltà col fratello più grande, i risultati poco entusiasmanti al liceo. Poi aveva chiesto qualcosa a proposito di una ragazza che da sempre faceva la stupida con tutti, e lui non aveva saputo rispondere, si era fatto rosso in faccia, si era imbrogliato del tutto.

Lei sapeva cos’era successo, erano già andate le sue amiche a raccontarle tutto quella mattina, ma non aveva voluto credere niente, aveva chiesto silenzio, non aveva voluto sentire neppure un’altra parola. Si era fatta trovare sotto casa come sempre da lui, lo aveva guardato giusto un attimo, e aveva capito subito che quei discorsi erano veri.

Continuava a chiedersi dove stesse il motivo per fare un gesto del genere, per sciupare ogni cosa in un modo così poco maturo. Adesso gli aveva dato uno schiaffo, senza dire niente, senza usare nemmeno mezza parola: lo meritava quel gesto, meritava senz’altro quel suo disprezzo; ma le parole forse sarebbero state un po’ troppo, pensava, inutile spiegare le cose evidenti, insensato parlare di gesti e emozioni che era impossibile descrivere. Lasciava a lui adesso tutte le parole possibili, tutti i discorsi che sarebbe riuscito a comporre, perché solo se fosse stato bravo davvero sarebbe riuscito a riaverla. Il suo silenzio dietro allo schiaffo era la sola espiazione che lei riusciva ad imporgli.

Bruno Magnolfi

mercoledì 8 settembre 2010

Dietro al sorriso del cameriere

 
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Il mio mestiere è questo, non c’è niente da dire. Qualcuno storce la bocca se me lo chiede, ma io sorrido quasi sempre, ormai sono abituato a certi giudizi. Sono cameriere in una pizzeria, ogni sera su e giù lungo i tavoli apparecchiati con tutta la gente che mi dice cosa desidera e mi porti questo o quell’altro. A me non importa, memorizzo il minimo di quello che mi viene detto, scrivo sul taccuino i gusti delle persone e poi mi disinteresso di tutto. Dietro al forno sono in due, mi chiamano con il trillo leggero di un campanello quando c’è qualcosa per me. Io non parlo mai con nessuno, neppure con loro mentre aspetto che sfornino. Il resto della serata in genere procede per automatismi.

Siamo tre camerieri, ognuno si preoccupa solo del suo settore; stasera ho servito due tavoli, ma è ancora presto, stanno arrivando tutti anche se siamo solo a metà settimana. Le persone entrano dentro al locale, si guardano attorno, scelgono il posto e si accomodano: io arrivo subito, porto i menù e dico buonasera. Poi torno, mi lascio dire sempre le solite cose, faccio scegliere ciò che desiderano, poi scrivo ogni cosa sul mio taccuino e mi allontano alla svelta.

Stasera sembrano tutti tranquilli, nessuno si lamenta di una cosa o dell’altra come a volte succede; giro tra i tavoli e nessuno mi chiama con quelle odiosissime voci: cameriere, ehi, cameriere; così mi accosto ad un tavolo dove ci sono due tipi svegli di circa trent’anni, e mi fermo da loro tanto per fare due chiacchiere: chiedo se va tutto bene, come sempre si usa, poi dico che ormai la stagione è finita, e anche per noi il lavoro si fa più rilassante, tanto per dire.

Quei due mi guardano mentre si ritagliano un boccone della giusta misura, accennano qualcosa tra loro, poi dicono sottovoce, senza guardarmi, che dovrei uscire un attimo per farmi dare il pacchetto. Io non comprendo ma continuo ad ascoltarli, uno dei due intanto si alza e scorre la fila dei tavoli. Capisco che forse dovrei andargli dietro, ma sicuramente hanno sbagliato persona, o cameriere, o pizzeria, e improvvisamente tutto mi appare in un’altra maniera. Dico con voce tremolante che ci dev’essere un malinteso, e che io non so niente. Il tipo rimasto seduto mi guarda, fa un cenno a quell’altro che dalla porta si è voltato a guardare, poi si alza anche lui e tutt’e due filano senza dir niente.

Velocemente sparecchio quel tavolo, mi sento la fronte sudata, poi giro lo sguardo sui miei due colleghi e anche sui pizzaioli: forse sono un tipo persino troppo semplice, penso, forse dovrei guardarmi più attorno, interpretare le cose, ma a me pare già così complicato fare il cameriere che non capisco come potrei preoccuparmi di altro.

Bruno Magnolfi

martedì 7 settembre 2010

La comprensione del senso


L’uomo resta fermo sulla banchina del porto, le mani sprofondate nelle tasche della sua giacca, il cappello con la tesa di poco sopra gli occhi, quasi a nascondere qualcosa del viso. Osserva l’acqua scura che oscilla lievemente sciabordando sul cemento del molo. Dall’altra parte forse devono iniziare le operazioni di carico di una nave ormeggiata e quasi immobile, senza alcuna attività apparente, che si direbbe deserta se non fosse per uno scroscio d’acqua gettato in mare su un fianco dalle pompe di sentina. Forse deve partire, tra qualche ora, o domani, chissà. Intanto in giro non si vede nessuno. La luce verde e l’altra rossa che segnalano l’imboccatura della rada, lampeggiano con regolarità, la sera avanza, l’uomo si siede sopra una grossa bitta d’ormeggio.

Oltre la diga foranea del porto, il mare lontano lascia biancheggiare la cresta delle onde più grandi, qualche gabbiano plana mansueto trasportato dalla brezza salmastra. L’uomo si alza, riprende a camminare con calma restando vicino allo spigolo del molo, continua ad osservare qualcosa nell’acqua, i suoi passi scricchiolano sui frammenti di ghiaia. Più avanti un anziano pescatore con la canna ha tirato su qualche muggine, l’uomo va verso di lui, si avvicina fino a tre o quattro metri, poi si ferma come ad osservare la sua operazione per tirare su un altro pesce, ma subito dopo lo lascia alle spalle e procede.

I pensieri si intrecciano, arrivano a gruppi, a cascata, ma spesso sembrano intenzionati a interrompersi, come non ci fosse alcuna necessità della loro presenza. L’uomo arriva alla fine del molo, il vento si sente in quel punto, deve tener fermo il cappello sopra la testa se non vuole vederlo finire nell’acqua. Poi torna indietro, ripassa alle spalle del pescatore che ora sta riponendo la sua attrezzatura: il sole dietro le nuvole ormai è già tramontato, ancora pochi minuti di luce, poi sarà buio. L’uomo guarda di nuovo la nave: si sono accese delle luci sul ponte e nelle cabine e si sente il ronzio del motore che lascia un velo di fumo su in alto. Sicuramente deve partire, pensa l’uomo; tra qualche ora, o domani, chissà, ma questo pensiero gli pare la chiave di tutto, e si sente rasserenato da quella consapevolezza: qualcosa si muove, procede in avanti, pensa ancora; non è vero che siamo tutti fermi ad aspettare la morte.

Bruno Magnolfi

lunedì 6 settembre 2010

La norma di vita



Quello che rimane certo è che in tutto questo tempo e nonostante tutto l’impegno non è affatto migliorato, aveva detto il padre di Luca. Questo sicuramente è vero, aveva risposto la madre, però dobbiamo convenire che non è neppure peggiorato, e questo forse è già un risultato. Si erano seduti nella saletta d’attesa dell’ospedale psichiatrico, e aspettavano il turno per essere ricevuti dal medico. Lui si sentiva depresso, pensava che le cose sarebbero andate avanti così, probabilmente fino a quando loro due sarebbero stati troppo anziani per poterlo ancora accudire, e questa gli pareva una prospettiva tristissima. Lei continuava a vivere giorno per giorno e a volte le bastava soltanto l’articolazione indistinta di una parola da parte di Luca per lasciarsi commuovere: le pareva già così un progresso grandissimo, e questo per lei era sufficiente a qualsiasi sacrificio.

Luca aveva ormai otto anni, non aveva risposto quasi a nessuno di tutti gli stimoli che avevano cercato di sollecitargli, niente pareva scalfire la corazza in cui restava chiuso. Anche i medici avevano sperato qualcosa di più, ma alla fine i risultati erano quelli che erano, lui rimaneva lì, inattivo, sprofondato in un mondo diverso. E’ vero che certe volte aveva meravigliato tutti mostrando capacità che nessuno gli aveva insegnato, ma erano stati momenti sporadici che la maggior parte delle volte pareva aver sviluppato da solo. Si continuava così, stimolandolo, osservandolo, senza darsi grandi speranze.

Sopra le sedie della sala d’attesa il padre di Luca non aveva argomenti, restava in silenzio e ripensava alle piccole cose avvenute negli ultimi tempi, quelle che in qualche modo avessero un senso, potessero risultare significative per il medico che seguiva la loro situazione. La madre andava avanti come sempre a dire qualcosa a suo figlio, pur lentamente, sottovoce, spesso usando parole isolate, come dando continuazione ad un dialogo sul quale contava e che a lei pareva importante non interrompere. Luca come sempre guardava un punto qualsiasi davanti a sé, con le mani toccava qualcosa di immaginario sulle sue gambe, pareva sempre sul punto di dire qualcosa, di esprimersi, di spezzare da solo quella corazza e abbracciare con slancio i suoi genitori; ma non lo faceva.

Poi un uomo arrivò quasi di corsa, bussò alla porta della stanza dove il medico faceva le visite e attese che gli aprissero. In quell’attimo, come richiamato da qualcosa, si volse verso Luca e lo osservò. Luca tirò su il suo sguardo, lo guardò in fondo agli occhi, e in un attimo l’importanza di tutte le cose parve oscillare: le sue mani smisero di cercare qualcosa, sua madre rimase in silenzio, persino il ronzio di un neon dentro al soffitto parve attenuarsi, poi la porta si aprì e Luca si alzò autonomamente dalla sua sedia: è il mio turno, sembrava dicesse, dobbiamo tutti sottostare alle norme.

Bruno Magnolfi

domenica 5 settembre 2010

Oltre la politica più abituale


La riunione era per le sedici. Lei si era portata la cartella con gli appunti e alcuni documenti in merito all’intervento che si era preparata. Le sue parole avrebbero dovuto essere soffici, accarezzare i temi importanti senza dare l’impressione di aggredire nessuno. Non era affatto semplice mettere tutti d’accordo, o meglio, far stare dalla propria parte almeno la maggioranza dei rappresentanti: ognuno di loro aveva più di un motivo per rivendicare qualcosa, ed uno di questi doveva rientrare all’interno delle possibilità prospettate dal suo discorso. Che poi niente fosse vero questa era tutt’altra storia. Tutti sapevano che spesso si costruiva nel niente, dando l’impressione di avere delle forze alle spalle che di fatto non c’erano, oppure mostrando delle opportunità che di fatto erano frutto solo di fantasia. Ma questa era la politica, si sapeva, e lei ne era cosciente anche di più, pur sentendosi da un po’ di tempo nauseata da quelle parole, quei comportamenti, quei modi di essere.

Era entrata dentro la sede salutando tutti come suo solito, qualcuno le aveva fatto i complimenti per il suo abito, o per i capelli, o per chissà cosa; lei aveva appoggiato la sua cartella sopra una scrivania, poi era andata nel bagno. Si era guardata allo specchio, poi aveva cercato di darsi una rinfrescata a quel trucco sul viso che adesso le pareva troppo vistoso. Aveva sbiadito il colore sugli occhi e sulle labbra, aveva calcato di meno con la matita, aveva reso più morbido il suo fondo tinta, di fatto impiegandoci, in tutte queste operazioni, un tempo a dir poco esagerato, curando meticolosamente ogni dettaglio ed usando tutti i possibili strumenti che aveva nella sua borsetta.

Poi era tornata a guardarsi di nuovo dopo aver girato su se stessa lentamente in modo da dimenticarsi per un momento della sua immagine. Non si era piaciuta, ma aveva guardato il suo orologio da polso e si era accorta quasi con piacere che la riunione era già cominciata da almeno venti minuti. Per discrezione nessuno era venuto a cercarla, ma di fatto in molti probabilmente si erano chiesti dove fosse finita.

Lei si era guardata ancora allo specchio, si era data una ravviata finale anche ai capelli, infine aveva ripreso la borsa e con modo deciso aveva spalancato la porta. Nel corridoio non c’era nessuno, neppure i soliti che dovevano fumarsi la sigaretta, e sopra la scrivania c’era ancora la sua cartella a segnalare, a chi fosse passato di lì, la sua presenza impellente in sala riunioni. Tentennò, prese la cartella, poi, con tutta la calma necessaria, visto che non c’era nessuno, raggiunse la porta che dava sul marciapiede.

Fu allora che un ritardatario arrivò trafelato, la vide, le chiese tra il serio e l’ironico: non avranno mica iniziato? E lei, senza scomporsi: no, no, senza di noi non inizieranno di certo.

Bruno Magnolfi