venerdì 31 dicembre 2010

La scelta motivata

Che importa, in fondo, pensa Gabriele, non comprendere qualcosa di tutto ciò che è stato detto, magari soltanto perché qualcosa nell’insieme è stato espresso male, confusamente, con furbizia, proprio per non lasciare la possibilità di capire, almeno non del tutto. Non ha alcuna importanza, è sufficiente aver udito le parole, aver finto soddisfazione di quanto è stato riferito, come non ci fosse stata alcuna curiosità di andare a fondo in un argomento di quel genere. E il fatto poi che si trattasse di una materia così legata ai miei interessi, pensa ancora Gabriele, è un elemento di pura coincidenza, che alla fine importa ancora meno, visto che proseguo nel conservare le mie opinioni, non mi lascio certo confondere da queste argomentazioni quasi inutili.

Certo, capire le ragioni degli altri può essere importante, ma in fondo è facile modellare ogni pensiero a proprio piacimento, in modo da riuscire a far brillare sopra a tutti il punto di vista personale, le ragioni che si attagliano meglio ai propri tornaconti, i motivi principali sui quali si è imbastita l’esistenza propria. A chi importa cercare una logica più alta, un’obiettività che non ha senso, proprio perché persino troppo astratta, slegata da questa nostra vita?

La conferenza procede, Gabriele si alza, lentamente raggiunge il fondo della sala, esce dalla porta socchiusa. Ci sono alcuni in quell’ingresso che fumano qualche sigaretta, e intanto dicono qualcosa, ridono degli ultimi interventi, ma comprendono i motivi che hanno fatto dire con forza ai relatori soprattutto certe cose, evitando di metterne in luce certe altre. Così si deve fare, tutti pensano questo, non c’è altra possibilità. Lui osserva gli altri, consulta qualcosa su un suo taccuino, pensa che quella riunione sarà di nuovo inutile, o almeno servirà soltanto a stabilire che c’è accordo, che i punti vista sono chiari, la posizione di tutti è ormai stabilita.

Gabriele rientra nella sala, scorre lungo il corridoio, raggiunge la sua postazione. Tra poco si procederà alla votazione, dovrà premere il pulsante di destra o quello di sinistra, e lui sente di avere le idee ancora meno chiare dal momento in cui è arrivato. Ascolta gli ultimi intereventi, gli sembra che tutti proclamino ormai le stesse cose, usando quasi le medesime parole, il suo disagio è forte, sa che deve uscire da questa situazione, deve prendere una posizione chiara, anche se gli sembra sempre più lontana. Infine guarda il suo vicino: è serio, concentrato, scrive qualche appunto con tratti decisi, con gesti definiti. Va bene, non ci sono problemi, pensa Gabriele, e ormai ha deciso: voterà alla stessa maniera del suo vicino di postazione; torna ad osservarlo, gli pare retto, definito, e se è così convinto del proprio comportamento, pensa con forza, certamente può esserlo anche lui, proprio per le medesime ragioni.

Bruno Magnolfi

mercoledì 29 dicembre 2010

Fuori e dentro l'anima.

Fuori e dentro l'anima.



Fuori da qui soprattutto ci sono le persone, individui che vagano, guardano, cercano di comprendere il punto esatto da cui si generano attimi capaci di allegria, di piacere, di completezza delle proprie cose, e si ritengono disposti a battagliare tra di loro, a calpestarsi, a distruggersi l’un l’altro pur di raggiungere al più presto possibile quei loro scopi. Certe volte li osservo, cerco di interpretare i loro movimenti, di comprendere quali siano i comportamenti che terranno da lì a poco; mi tengo alla larga, questo è sicuro, mi limito soltanto a tenere tutti sotto controllo, ad evitarli per quanto sia possibile, in modo da scongiurare la possibilità di ritrovarmi di fronte a dei problemi da risolvere, grattacapi dei quali non ho mai sentito alcuna necessità.

Dentro a questo involucro di cui conosco ogni frammento c’è il mio mondo; osservo le mie mani, le giro, ne piego con facilità le dita, so che con queste posso afferrare qualsiasi oggetto, in qualunque momento ne abbia voglia. Sulla superficie dei miei occhi il mondo non mi spaventa, so che nel profondo di me stesso le cose si muovono in modo equilibrato, senza sbavature, come se tutto fosse permeato di significati, incapace di contraddizioni. Esco di casa, giro per le strade, entro in un caffè, parlo con un cameriere, mi lascio servire un bicchierino di acquavite, mi sento a posto, in assoluta coerenza.

Fuori da qui la realtà sembra priva di controlli, tutto avviene senza una logica formale, in assenza di una legge superiore che ne registri le attività svolte in ogni situazione. Automobili guidate in malo modo sbandano paurosamente, alberi scheletrici piegano i propri rami appesantiti dalla pioggia, piccoli fiumi ingrossati dall’acqua escono dagli argini inondando campagne e abitazioni. Persone di ogni genere ed età, piangono e si lamentano per i danni e le calamità subite, altre chiedono un aiuto, un sostegno che spesso giunge in modo poco significativo, nell’attesa generalizzata che tutto ritorni alla svelta nel grande alveo della normalità.

Dentro, nella quiete di cui provo con insistenza la necessità, non c’è mai stata alcuna paura: vago ancora per le strade, osservo le difficoltà in cui tutti si muovono, e sento farsi spazio una superiorità della quale non intendo avvalermi, almeno per il momento: tutti gli altri sono individui sciocchi, spesso insignificanti, ne sono certo, che senso avrebbe impegnarsi a dimostrarlo?

Bruno Magnolfi

Nella sera vuota di tutto.




Che importa ciò che avviene, quello che ci circonda, tutta questa confusione di gesti, di saluti spesso inutili, di ammiccamenti senza risultato. Si finge soddisfazione di cose piccole, spesso senza alcun significato, e ci si trattiene per evitare scontri stupidi, per limitare discussioni che non porterebbero nulla di positivo. La realtà, la maggior parte delle volte, procede tranquilla per proprio conto, senza avere ostacoli, come se nessuno sforzo fosse sufficiente a contenerla.

Arnaldo rientra in casa un pomeriggio qualsiasi, dopo una giornata di lavoro esattamente identica ad ogni altra, sale le scale, gira la chiave nella porta del suo appartamento, e improvvisamente, proprio entrando, sente di essere una persona che non conta niente, un individuo qualunque stritolato dentro un ingranaggio. Prende una birra dal suo frigorifero, butta giù uno o due sorsi, e immagina altre cento persone identiche a lui che nello stesso attimo sono tornate a casa dopo il lavoro, e stanno identicamente bevendosi una birra.

Arnaldo si siede, cerca di pensare qualcosa di ottimistico, ma il senso di vuoto lo abbatte anche di più. Suona il telefono, risponde. Lo aspettano al solito locale, una partita a carte, due risate, qualche scherzo per ridere, per ingannare il tempo, poi via, una corsa in macchina, a cercare qualche cosa che riempia il vuoto, allontani ogni malessere, sollevi quel morale pericolosamente su una china. Prende tempo, ha qualcosa di cui occuparsi, dice, forse solo più tardi può raggiungere gli altri. Guarda la serata dalla sua finestra, ma non trova alcun luogo dentro la sua mente per difendersi.

Esce senza cambiarsi, le mani in tasca, lo sguardo perso tra le automobili in colonna, il passo regolare lungo il marciapiede. Non c’è alcun luogo dove andare, Arnaldo lo sa bene, lascia che la sera affondi attorno a sé, coprendo le sue spalle a poco a poco con il buio che scende e lo lascia stupefatto. Si ferma davanti ad un negozio, osserva le persone all’interno che acquistano le cose, immagina tutto sempre più opaco, senza valore, quasi una finzione scenica per riempire il maledetto vuoto che sente e che vede attorno a sé.

Si siede sul gradino di un portone, si stringe dentro la sua giacca, torna ad osservare le persone che si muovono su e giù lungo la strada: un lampione là vicino getta una chiazza di luce sull’asfalto, ormai la sera ha completato il suo percorso, pensa, le luci sono tutte accese, la giornata arranca per andare a completarsi. Avrebbe voglia di parlare con qualcuno, chiedergli perché le cose siano proprio così, piene di amarezza, poi vede un uomo dalla parte opposta della strada; sta seduto su un gradino, come lui, lo sguardo perso tra le auto e i passanti.

Non c’è senso in tutto questo, pensa Arnaldo, poi si alza, vorrebbe riprendere a camminare, perché adesso prova pena per quella persona seduta là di fronte a lui, gli pare sola, un povero cristo che ha smarrito il senso: così, con calma, attraversa la strada, lo raggiunge, gli tocca una spalla, quello si volta, lo guarda, avrà i miei anni, pensa Arnaldo: vieni, gli dice con fare amichevole, ti offro una birra.

Bruno Magnolfi

martedì 28 dicembre 2010

La lingua del mare (in margine a -Bionda, naturalmente-).



Sul mare si osservano terre lontane, con appena un briciolo di fantasia. Rassicura pensare che ci sia qualcosa di migliore oltre la linea dell’orizzonte. La risacca sopra la spiaggia porta fragranze di qualcosa che non conosciamo, e quell’orlo bianco delle onde che giungono a riva, è come composto da tanti fogli di carta, arrotolati sopra se stessi, colmi di scritture e di messaggi che giungono a parlarci con nuove parole, a spiegarci cose diverse. Sta a noi saper leggere, sforzarsi di comprendere una lingua diversa da quella che usiamo ogni giorno.

Bruno Magnolfi

lunedì 27 dicembre 2010

Nella sera vuota di tutto.



Che importa ciò che avviene, quello che ci circonda, tutta questa confusione di gesti, di saluti spesso inutili, di ammiccamenti senza risultato. Si finge soddisfazione di cose piccole, spesso senza alcun significato, e ci si trattiene per evitare scontri stupidi, per limitare discussioni che non porterebbero nulla di positivo. La realtà, la maggior parte delle volte, procede tranquilla per proprio conto, senza avere ostacoli, come se nessuno sforzo fosse sufficiente a contenerla.

Arnaldo rientra in casa un pomeriggio qualsiasi, dopo una giornata di lavoro esattamente identica ad ogni altra, sale le scale, gira la chiave nella porta del suo appartamento, e improvvisamente, proprio entrando, sente di essere una persona che non conta niente, un individuo qualunque stritolato dentro un ingranaggio. Prende una birra dal suo frigorifero, butta giù uno o due sorsi, e immagina altre cento persone identiche a lui che nello stesso attimo sono tornate a casa dopo il lavoro, e stanno identicamente bevendosi una birra.

Arnaldo si siede, cerca di pensare qualcosa di ottimistico, ma il senso di vuoto lo abbatte anche di più. Suona il telefono, risponde. Lo aspettano al solito locale, una partita a carte, due risate, qualche scherzo per ridere, per ingannare il tempo, poi via, una corsa in macchina, a cercare qualche cosa che riempia il vuoto, allontani ogni malessere, sollevi quel morale pericolosamente su una china. Prende tempo, ha qualcosa di cui occuparsi, dice, forse solo più tardi può raggiungere gli altri. Guarda la serata dalla sua finestra, ma non trova alcun luogo dentro la sua mente per difendersi.

Esce senza cambiarsi, le mani in tasca, lo sguardo perso tra le automobili in colonna, il passo regolare lungo il marciapiede. Non c’è alcun luogo dove andare, Arnaldo lo sa bene, lascia che la sera affondi attorno a sé, coprendo le sue spalle a poco a poco con il buio che scende e lo lascia stupefatto. Si ferma davanti ad un negozio, osserva le persone all’interno che acquistano le cose, immagina tutto sempre più opaco, senza valore, quasi una finzione scenica per riempire il maledetto vuoto che sente e che vede attorno a sé.

Si siede sul gradino di un portone, si stringe dentro la sua giacca, torna ad osservare le persone che si muovono su e giù lungo la strada: un lampione là vicino getta una chiazza di luce sull’asfalto, ormai la sera ha completato il suo percorso, pensa, le luci sono tutte accese, la giornata arranca per andare a completarsi. Avrebbe voglia di parlare con qualcuno, chiedergli perché le cose siano proprio così, piene di amarezza, poi vede un uomo dalla parte opposta della strada; sta seduto su un gradino, come lui, lo sguardo perso tra le auto e i passanti.

Non c’è senso in tutto questo, pensa Arnaldo, poi si alza, vorrebbe riprendere a camminare, perché adesso prova pena per quella persona seduta là di fronte a lui, gli pare sola, un povero cristo che ha smarrito il senso: così, con calma, attraversa la strada, lo raggiunge, gli tocca una spalla, quello si volta, lo guarda, avrà i miei anni, pensa Arnaldo: vieni, gli dice con fare amichevole, ti offro una birra.

Bruno Magnolfi

sabato 25 dicembre 2010

Vecchio Natale.








In quest’ultimo periodo, il tempo scorre più velocemente. Certe volte chiudo appena gli occhi per raccogliere i pensieri, e quando li riapro è già arrivata l’ora del pranzo, o della cena, della visita del medico, o di chissà cos’altro. La giornata è scandita da una serie di appuntamenti in mezzo ai quali dovrei forse avere del tempo libero, starmene lì, immobile, e guardare le chiome degli alberi là fuori, nel giardino, e ripensare ai motivi per cui la mia vita sia rimasta imbrigliata in questa situazione ai limiti del verosimile.

Invece qualcuno mi tocca un braccio, mi chiamano, c’è da far questo o quest’altro, e la giornata sembra chiudersi in un attimo, senza che sia riuscito neppure a raccogliere le idee. Mi piazzo davanti alle vetrate, su una sedia comoda, e lascio che davanti mi scorrano i ricordi, ma il tempo è diventato più veloce, e i miei libri devono essere chiusi in tutta fretta. Non me ne lamento, forse deve essere così, non posso farci niente.

La luce del giorno dura poco, ed io risulto lento, inadatto alla sincronia che serve. Gli altri anziani di questa casa di riposo se ne stanno immobili e in silenzio, come me, e un gruppo qualche volta gioca a carte su un tavolo quadrato. Poi ci sono i programmi alla televisione, ma nessuno guarda ormai più niente, tanto distanti sono tutte quelle cose da noi stessi. A me basterebbe comprendere la chiave della mia esistenza, come abbia fatto a ritrovarmi qui, quasi senza accorgermi di niente. Invece mi torna a mente il viso di una ragazza di cui adesso non ricordo neanche il nome, e volentieri mi lascio cullare da quel suo sorriso.

Il medico mi chiede come sto: benissimo, rispondo, qua non manca niente; però ancora non capisco dove abbia sbagliato, quale possibilità io non ho colto durante la mia vita per non sentire adesso il rimpianto che mi opprime in certi giorni. Lui dice che io sono troppo profondo, dovrei pensare meno, distrarmi, giocare a carte o guardare la televisione, come fanno gli altri. Domani è Natale, dice, ancora un’altra volta, pensa quanti ne ha passati uno come te, non ti sembra già meraviglioso?

Forse ha ragione dottore, gli rispondo; ma non riesco a rassegnarmi all’oblio, al vuoto della mente che smette di pensare. Mi siedo nel mio posto preferito, guardo laggiù le chiome di quegli alberi, mi pare manchi qualcosa alla mia vita, anzi, ne sono ormai sicuro. Forse sarà anche Natale domani, e forse non c’è neppure il tempo sufficiente, ma io devo provare a capire il senso di ciò che mi è accaduto, e forse anche di quello che non mi è capitato. Sono un uomo, dottore, e il tempo è frettoloso, ma io sono sicuro di sconfiggerlo, di riuscire a capire ciò che ancora devo.



Bruno Magnolfi

Percezione di una presenza.




Nei giorni precedenti lei aveva già notato quell’uomo, più di una volta. Se ne stava lì per alcuni minuti, sopra quel marciapiede, fermo, come ad aspettare qualcosa o qualcuno. Lei si era accostata ai vetri della finestra, come a volte faceva, scansando le tende appena quel poco che serviva, e lui era là, dal lato opposto della strada, cappotto grigio, espressione neutrale, senza caratteristiche degne di nota. Sul marciapiede le persone andavano avanti e indietro come sempre, altre entravano nel caffè quasi all’angolo. Ma quell’uomo pareva soffermarsi qualche momento in attesa, come se proprio in quel punto dovesse accadere qualcosa, oppure come se lui fosse certo di incontrarvi qualcuno.

Poi lei si era preoccupata delle sue cose, aveva stirato una camicetta appena lavata, aveva messo sopra ai fornelli, col fuoco basso, una minestra di legumi per pranzo; infine, quando era tornata a guardare la strada dalla finestra, quell’uomo non c’era più. Meglio, aveva pensato, le procurava un senso di insicurezza quella presenza, quasi come non si sentisse più perfettamente a suo agio in quel suo quartiere. Non doveva essere un poliziotto in borghese, si vedeva, piuttosto un perditempo che si era fissato con qualcosa di cui probabilmente non voleva perdere traccia.

Il giorno seguente di nuovo era lì, più o meno nello stesso tratto di marciapiede. Lei aveva scostato la tenda, di poco, come sempre, e lui aveva alzato gli occhi verso quelle sue finestre del primo piano, guardandola per un attimo intenso e veloce. Subito lei si era ritratta, provando un brivido intenso e improvviso, aveva immediatamente riaccostato la tenda e si era sentita scoperta, curiosa, un po’ ficcanaso, una che non riesce a disinteressarsi dei comportamenti degli altri. Così aveva evitato per l’intera giornata di tornare ad osservare la strada. Più tardi doveva uscire, così aveva indossato un giaccone, si era avvolta al collo una sciarpa, ed era scesa.

L’uomo non c’era, lei aveva camminato in fretta allontanandosi da lì, ed era arrivata fino ad un negozio non molto lontano. Aveva fatto un giro soffermandosi davanti ad alcune vetrine, infine, quando era tornata a percorrere quella sua strada, aveva visto, appena girato l’angolo dove si apriva il caffè, che l’uomo era là, nello stessa porzione di marciapiede delle altre volte. In fretta, per non incontrarlo, era entrata nel bar, si era fatta servire una tazza di the, aveva scambiato qualche parola con il cameriere che conosceva, poi, pur prendendosela calma, era dovuta tornare ad uscire.

Se l’era trovato proprio di fronte, quell’uomo, davanti ai suoi piedi, e non aveva potuto far altro che alzare gli occhi sopra al suo viso, e così, a distanza ravvicinata, gettare un piccolo grido per la sorpresa. Scusi, aveva detto lui, con modi cortesi, proseguendo quasi immediatamente per la sua strada. Lei si era stretta nel proprio giaccone, aveva abbassato lo sguardo, e in fretta era rientrata nel portone e nel suo appartamento: da allora non lo aveva più visto, nei giorni seguenti si era affacciata quasi ad ogni ora alla finestra, ma l’uomo non era più tornato sopra quel marciapiede, e lei, per qualche assurdo motivo, per molto tempo non era riuscita a dimenticarlo.

Bruno Magnolfi

martedì 21 dicembre 2010

La parte assegnata.




Che cosa serve pensare? Arrovellarsi l’anima, nient’altro. Tutto trova compimento nel presente, inutile farsi illusioni, cercare di pianificare la giornata di domani, o quella dopo. E’ come non esistessero, e comunque dobbiamo affrontare il futuro volta per volta, non c’è un’altra soluzione. La mia cuccia per la notte è quest’angolo, in fondo alla stazione dei treni. La polizia ferroviaria mi tollera; però quando arriva il mattino, già ad iniziare alle sei, vengono lì e a volte mi svegliano con le pedate, mi dicono di sloggiare, e alla svelta. Allora devo rifare in fretta tutto il fagotto e rimettermi in giro.

Cosa mi importa di chi mi guarda: sono uno come tutti, con un passato che adesso non voglio neppure più ricordare. Ma tutti mi guardano ora, e per tutti sono quello che sono adesso, senza un passato, quello è sparito dalla mia vita. E il futuro, per uno come me, non esiste. Il mio percorso non è ampio: vado lungo le strade minori attorno a questa stazione, chiedo in giro qualche spicciolo, senza fare mai l’insistente.

Mi siedo su qualche gradino, resto lì, senza far niente. Il niente è la mia vita, lo so. Certe volte guardo attorno le persone che corrono. E’ come un gioco che procede davanti ai miei occhi. Non parlo più con nessuno, non ho niente da dire. Bofonchio qualcosa, ogni tanto, questo mi pare già sufficiente. Nella stazione guardo i treni, la gente si affretta a salirvi. Non ho nessuna opinione, lascio che tutto scorra da sé. Poi ritrovo la mia cuccia la sera. Ognuno deve fare la parte che gli è stata assegnata, penso; e questa è la mia.

Bruno Magnolfi

domenica 19 dicembre 2010

Un futuro che valga.




Quasi in fondo al viale alberato, che iniziava dalla piazza rotonda con in mezzo una larga vasca con la fontana, c’era il liceo, e la corriera vi si era fermata con un leggero stridore dei freni, lasciando scendere dalla porta pneumatica sette o otto ragazzi coi loro pesanti zaini dei libri. Il mezzo pubblico arrivava come ogni giorno da alcuni piccoli paesi vicino, impiegava una buona mezz’ora per arrivare fin lì, e altrettanto per tornarsene indietro all’orario dell’uscita da scuola.

L’ultima campanella prima dell’inizio delle lezioni suonava esattamente alle otto e trenta, mancavano soltanto dieci minuti, Marco si era mosso svogliatamente una volta sceso sul marciapiede, aveva lasciato che la corriera alle sue spalle fosse sparita velocemente dietro la curva, poi si era soffermato a guardare i compagni che allungavano il passo per raggiungere in tempo l’edificio scolastico.

Che senso aveva andare con loro, pensava Marco, raggiungerli magari, arrivare trafelato nell’aula come ogni giorno, conservando soltanto quel lieve amaro sapore che toglieva qualsiasi curiosità, che non dava alcuna soddisfazione, aveva solo quel senso antipatico delle cose pianificate e previste? In un attimo i ragazzi erano già più distanti, lui camminava lentamente, li osservava, cercava con concentrazione di pensare qualcosa di positivo, ma senza alcun risultato.

Poi prese la prima piccola strada che portava da qualche parte diversa, un posto qualsiasi, con passo lento, le mani sprofondate dentro le tasche, riflettendo qualcosa, interpretando un pensiero all’improvviso estremamente importante, che mostrava un segno discriminante tra il prima ed il dopo. Non sapeva di preciso verso dove dirigersi, ma adesso si sentiva convinto che doveva camminare, muoversi, cercare qualcosa che non riusciva neppure a immaginare cosa fosse.

La città si snodava in maniera probabilmente normale tra le strade che si assomigliavano e il traffico della gente che si proiettava verso qualcosa: Marco era perplesso, osservava le auto, le case, le persone, come se tutto quanto girasse dentro a una giostra che riusciva a vedere solamente quel giorno, come se fosse la sua prima volta. Più in fretta di quanto avrebbe voluto arrivò a percorrere il corso, la strada pedonale dove stavano aprendo i negozi. Si soffermò davanti a qualche vetrina, raggiunse la piazza centrale, poi, all’improvviso, si sentì completamente perduto.

Entrò dentro a un bar, si sedette su una sedia di plastica, si fece dare un cornetto, un bicchiere con un’aranciata, infine osservò fuori dai vetri. Non c’era alcun ruolo nel suo essere lì, senza far niente; eppure qualcosa lo tormentava, era come una ricerca la sua, il tentativo di trovare un’identità personale. Uscì da lì per girovagare lungo le strade durante tutta la mattinata, e quando infine Marco tornò nella piazza della fontana per salire sulla corriera, guardò i suoi compagni usciti da scuola, li vide diversi, e improvvisamente seppe cosa stava cercando: ho compiuto un percorso, pensò, domani posso tornare al liceo.

Si sedette su uno dei sedili, sistemò il suo zaino dei libri, infine lascò che il paesaggio cullasse il suo sguardo, scorrendo come in un film fuori dai finestrini. Si devono affrontare i propri dubbi, pensò; si devono scoprire i motivi che muovono tutte le cose, solo quando si diventa consapevoli di quello che siamo e di ciò che stiamo facendo si può mostrarsi sereni, convinti di avere un futuro davanti, una prospettiva di cui sappiamo almeno qualcosa che ne valga la pena.

Bruno Magnolfi

venerdì 17 dicembre 2010

Scena n. 13. Disegno di famiglia.




La donna seduta guarda avanti a sé, come cercando, in ciò che ha di fronte, in un segno sul muro, forse in un soprammobile di quel soggiorno, il senso dei propri pensieri. L’uomo, muovendosi in silenzio, con il bambino per mano, entra nella stanza con lentezza, cercando quasi di non apparire, con l’impermeabile addosso e l’espressione di chi sta subendo qualcosa.

Il bambino senza fretta si stacca dalla mano dell’uomo, va verso la donna, e senza che lei faccia alcun gesto oltre abbracciarlo, le dà un bacio sopra la guancia. Ciao piccolo, dice la donna abbozzando un sorriso, Come è andata oggi la scuola? Lui toglie velocemente il giubbotto e va a sedersi sopra una sedia, appoggiando la sua cartella scolastica sopra a quel tavolo; poi tira fuori il quaderno. Tutto bene, dice alla fine, indaffarato a tirar fuori la matite e a trovare la pagina che gli interessa.

L’uomo immobile guarda la donna, poi dice: va bene, se non c’è niente, io vado. La donna lo guarda, pensa che si sentirà più a suo agio appena lui sarà uscito, però qualcosa dentro di lei vorrebbe forse trattenerlo. Dice: Vai a riprenderlo a scuola anche domani? L’uomo che è già voltato di fianco, pronto per dare un ultimo abbraccio a suo figlio prima di uscire, risponde soltanto: no, domani non posso, ti telefonerò per avvertirti quando potrò essere libero.

Il bambino ha ripreso il disegno iniziato all’asilo, sembra preso soltanto da ciò che sta colorando, ma poi dice: vieni tu mamma, domani? Suo padre si avvicina, si china sul tavolo a guardare da vicino il disegno, gli appoggia una mano sopra la testa, con voce bassa, dice: quando torno a riprenderti mi fai vedere tutti gli ultimi disegni che hai fatto, vero? Se sono come questo saranno bellissimi. La mamma come a intromettersi dice: si, vengo io. Poi si alza dalla sua sedia e va nella stanza vicina, quasi a mostrare che il tempo delle visite è ormai finito.

L’uomo dà un bacio al bambino, si muove nella stanza per raggiungere velocemente l’uscita, ma lei, improvvisamente ritorna, si ferma per un attimo proprio davanti ai suoi piedi, gli dice: grazie, non riuscendo a dire nient’altro. Lui la guarda, forse vorrebbe abbracciarla, come ha fatto un attimo fa con suo figlio, ma si trattiene, poi dice: non c’è niente di cui ringraziarmi. Lei gli sfiora la manica dell’impermeabile, dice: ciao allora, con un leggero sorriso che le esce quasi senza volere.

Il bambino, che non è rimasto per niente indifferente a quel gesto, dice come tra sé: forse vi potrei disegnare, se vi metteste vicini. L’uomo si volta, lo guarda, dice: va bene, uno di questi giorni ci metteremo in posa per te. Poi torna a guardare sua moglie. Lei non ha tolto gli occhi da sopra il suo viso, assapora quelle parole, infine gli dice, a voce bassa: certo, almeno per un disegno, è qualcosa che a lui dobbiamo senz’altro.

Bruno Magnolfi

mercoledì 15 dicembre 2010

Il rumore della vita che scorre.




Io amo il silenzio. Per questo non esco quasi mai da questa mia stanza; ciò nonostante anche qui giungono continuamente piccoli rumori fastidiosissimi che mi fanno regolarmente innervosire. E non parlo neppure del vociare dei bambini che quasi ogni giorno affollano il giardinetto su cui si affaccia questa mia finestra; penso a quei piccoli suoni che si insinuano regolarmente nei muri del mio appartamento: i tubi dell’acqua e del riscaldamento, per esempio, oppure i rumori che regolarmente provocano i miei vicini al piano di sopra, o a quello di sotto, o anche di fianco, nel manovrare le sedie, la mobilia, non so neanche io cos’altro, dandomi l’idea di persone del tutto indifferenti a chi non riesce a sopportare certe manifestazioni.

Ci sono fortunatamente anche momenti migliori durante la giornata, questo è vero; momenti nei quali un’aura di silenzio quasi perfetto si installa come per magia intorno alla mia stanza. Mi sento bene in quelle brevi pause, quasi a mio agio, anche se quella pacatezza che in quei casi riesco a raggiungere ha una durata sempre inferiore al tempo che vorrei.

Ho notato tempo fa, proprio in quei casi, che nel silenzio della mia stanza, in quei rari momenti in cui avviene, spicca alle mie orecchie il rumore basso e indisponente del mio cuore che continua a martellare, e insieme quello appena percettibile del sangue che scorre e del mio sistema nervoso in funzione. Perfino quando a sera tardi entro nel mio letto, queste vibrazioni fastidiose danno gran prova di loro, sembrano perfino aumentare, e adesso che ho iniziato a notarle e a prestarci orecchio, paiono addirittura ingigantirsi.

Ne ho parlato con il medico, naturalmente, giusto per capire cosa sia possibile fare in questi casi, ma lui ha risposto che non c’è nessuna possibilità, neppure tappandosi le orecchie, e che anzi, in quel caso, quei rumori apparirebbero ancora più definiti. Così ho cercato poco per volta di togliermi di mente questa mia preoccupazione, e qualche volta ho iniziato a trovare addirittura giovamento quando qualche piccolo brusio provocato dai vicini è giunto a coprire i rumori di fondo di questo mio organismo.

In questa maniera sono tornato ad ascoltare quasi con piacere il vociare dei bambini nel giardinetto vicino casa mia, ed ho lasciato correre ben volentieri quando ho sentito il suono cantilenante di qualche rubinetto d’acqua aperto in un appartamento di questo condominio. Poi ho pensato che il silenzio in fondo è solo un’astrazione, un’idea di cui si può provare un richiamo formidabile, certo, su cui ci si può anche fissare, ma che alla fine non ha proprio alcun senso. Per questo ho deciso di cambiare casa: voglio provare rumori diversi, abitare in una strada dove ci sia del traffico, saggiare così differenti vibrazioni con i miei padiglioni auricolari, magari anche più forti di quelli che ho udito fino adesso: sarà una piccola nuova esperienza, ho pensato, basta che non mi ritrovi nuovamente ad ascoltare con le mie orecchie la vita stessa che scorre dentro me.

Bruno Magnolfi

martedì 14 dicembre 2010

Piccole attività di un mercato.




La signora Franca e la sua amica si incontrano ogni sabato mattina all’angolo della piazza del quartiere, e insieme si recano al mercato rionale lì vicino. Si salutano sempre con grandi sorrisi quando si vedono, e si scambiano con poche parole un piccolo riassunto di come va la salute e il resto di tutte le cose che caratterizzano le loro giornate. Forse potrebbero addirittura parlare maggiormente delle loro preoccupazioni e di quei minimi guai che sono costrette ad affrontare, ma quel loro incontrarsi al sabato mattina è qualcosa che supera questo tipo di chiacchiere, con un balzo va oltre l’elementare spiegarsi la loro diversa ma simile vita ordinaria.

Si conoscono da molto tempo la signora Franca e la sua amica, ma generalmente non si vedono mai durante la settimana, neanche per caso, abitando in due strade, pur dello stesso quartiere, ma non vicinissime tra loro. Quindi si vedono al sabato, come un rito sedimentato, in occasione di quel mercato a cui non riuscirebbero in nessuna maniera a mancare. Normalmente non c’è niente che devono comprare o di cui abbiano veramente bisogno, si trovano lì per un altro scopo, ed è forse un vezzo ancora più forte della mania degli acquisti.

Le due donne si fermano ad ogni bancarella, osservano ciò che viene posto in vendita, e intavolano tra loro uno scambio continuo di opinioni sui prodotti e sui prezzi. A volte qualcosa finiscono pure per acquistarlo, in questo scorrere da un articolo all’altro, ma non è certo questa la cosa importante. Per loro sapere cosa viene venduto ogni sabato in quel mercatino popolare è qualcosa che va oltre ogni altro valore. Nella maggior parte dei casi si trovano facilmente d’accordo nel dare giudizi su ciò che considerano, ma anche quando non hanno la stessa opinione su qualcosa, questo fatto non provoca alcuna differenza nei loro rapporti.

Lentamente perlustrano tutte quante le bancarelle di cui quelle strade sono piene, e solo quando ormai si sentono stanche decidono che è l’ora di tornarsene a casa. Certe volte si concedono un caffè in piedi, dentro un bar che si apre lungo la strada, altre volte ne fanno anche a meno. Nei casi in cui qualche conoscente si è voluta affiancare alla loro consuetudine, le cose non sono andate mai troppo bene, perché il gusto che provano la signora Franca e la sua amica è qualcosa che vale solo per loro, e spesso è difficile persino da spiegare.

Infine tornano a separarsi nella piazzetta del loro quartiere, si dicono ancora qualcosa fermandosi sempre per un attimo in più, poi si salutano, dandosi naturalmente l’appuntamento per la mattina del sabato successivo, esclusi sempre possibili impedimenti. La signora Franca è raggiante quando ritorna a salire le scale di casa; suo marito le chiede qualcosa, ma lei non concede quasi alcuna spiegazione sui suoi giri al mercato: è qualcosa a cui tiene, non ci sono assolutamente dei dubbi, ma è un elemento così evanescente nella sua vita, quasi una piccola, fondamentale estrosità, che per nessuna ragione sarebbe disposta a privarsene o a scambiare con altri, neppure se suo marito si mettesse di mezzo per capirne di più la natura.

Bruno Magnolfi

lunedì 13 dicembre 2010

L'uomo che cerca di fare.



L’uomo elenca mentalmente le cose da fare, mentre scende le scale del condominio dove abita da quasi dieci anni. Non sono molti gli impegni a cui vuole adempiere in quella mattina, eppure tutto questo non lo fa sentire a suo agio, e mentre le sue scarpe risuonano allegre sui gradini di marmo, lui si sente già scoraggiato ancora prima di cominciare. La giornata appare grigia, con il cielo coperto di nuvole, anche se la strada davanti al suo palazzo sembra la stessa di sempre, una striscia spersonalizzante di asfalto che va in due direzioni opposte tra loro.

L’uomo decide di prendere l’autobus e si dirige di fretta verso la più vicina fermata, in fondo alla via, ma mentre cammina incontra un vicino di casa che lo ferma per aggiornarlo su alcuni problemi relativi ai ripetuti schiamazzi notturni nell’area dei parcheggi. Lui dice che adesso non ha proprio il tempo per poterne parlare, ma l’altro insiste, così lui gli promette di suonargli il campanello di casa appena sarà di ritorno, in modo da poter esaminare quell’argomento con calma. L’altro dice un po’ a malincuore che gli va bene, ma che quelli sono temi da affrontare una volta per tutte, come per ammonirlo, poi lo saluta.

L’uomo attende qualche minuto insieme ad altre persone che non conosce prima di salire sull’autobus rumoroso e sgradevole, timbra un biglietto che aveva, e poi si appende ad una maniglia restando in piedi perché i posti a sedere sono tutti occupati. Quando scende dal mezzo pubblico qualche goccia di pioggia è già cominciata a cadere, e lui non ha preso l’ombrello con sé, così si ripara la testa con la sua cartella dei documenti e affretta il suo passo. Quando arriva presso lo studio dell’avvocato chiede di lui, ma la segretaria gli risponde che il dottore sarà presente in ufficio soltanto nel pomeriggio.

L’uomo torna ad uscire, copre a piedi un paio di isolati con una pioggerella sottile che lo infastidisce, ed entra dentro a un negozio, giusto il tempo per ritirare un pacco di carta intestata con il suo nome e la sua attività, materiale che aveva ordinato in precedenza, telefonicamente. Quando torna per strada sa che deve andare all’ufficio postale, ma vista la pioggia e la fila di gente che sicuramente ci troverà, si chiede più volte se ne valga la pena. Infine, senza un briciolo minimo di voglia sincera, si avvia verso l’agenzia del suo quartiere, acquista un ombrello lungo la strada, e decide di andare fino lì a piedi, tanto è il tragitto medesimo per tornarsene a casa.

L’uomo arriva alle poste, ritira il biglietto col numero, attende paziente che gli altri prima di lui sbrighino le proprie cose. Quando è il suo turno spedisce le raccomandate che aveva già preparato, si lascia restituire le ricevute dall’impiegata, e infine riprende con il suo ombrello la strada di casa. Le auto paiono scivolare sull’asfalto bagnato, le poche persone sui marciapiedi sembrano stizzite del tempo inclemente; lui pensa a se stesso mentre cammina, la testa e le spalle ben riparate da quel suo parapioggia. Infine incontra una signora con un piccolo cane al guinzaglio, ferma, mentre l’animale orina su un’aiuola intorno ad un albero.

L’uomo assesta con rabbia una pedata a quel cane, guarda negli occhi la signora che ha un moto di protezione verso il suo piccolo animale, forse vorrebbe anche tornare a infierire di nuovo, se non fosse che quella donna ha parole di fuoco verso di lui, alzando la voce, e solo questo alla fine lo porta a desistere. Poi se ne va, sempre con l’ombrello nella sua mano, indifferente alle due o tre persone che si sono accostate alla donna, per cercare di capire che cosa sia successo. Non ha alcuna importanza, pensa l’uomo tra sé, in fondo questa è solo una giornata qualsiasi; cosa conta in questo momento se non sarò mai più lo stesso: un giorno doveva pur capitare.

Bruno Magnolfi

domenica 12 dicembre 2010

Illustrazione del diavolo.




Fuori da queste mura di casa ci sono i diavoli. Li sento mentre urlano, vorrebbero prendermi, ma io resto qui, nel mio angolo, vicino alla finestra con le tende ben tirate, e poco alla volta su questo tavolino porto avanti il lavoro dei disegni, non mi lascio impaurire da loro. Sento fuori le automobili che corrono, con i loro motori frastornanti, e le frenate in cui si adoprano, vicino ai marciapiedi, a cercare di impaurire quei pedoni che si arrischiano a camminare lungo le strade scure, sporche, interminabili, avvolte dallo smog e dalla polvere.

Mi chiedo certe volte cosa mai sia tutto questo; poi rifletto meglio che a me in fondo non importa, non mi interessa niente, io i diavoli li evito, ho trovato il sistema, e resto qui, fermo a questo mio tavolo. Disegno poco alla volta i loro gesti inconsulti, le loro espressioni assurde, e tutto questo riesce a tenerli lontano dal mio tavolo, dai miei fogli di carta, dalle mie immagini fatte a lapis e a carboncino.

Li sento bussare certe volte, su al piano superiore, o in altri casi direttamente alla finestra. Non li temo, le imposte sono ben chiuse, anche le tende le lascio ben tirate, che neanche uno spiraglio, di luce, di sguardo, di chissà cos’altro, possa arrivare da fuori fin sul mio tavolo. Continuo a disegnare, per giorni e giorni, senza mai stancarmi, con i lapis e con i carboncini, loro lo sanno, sono sicuro che vorrebbero strappare tutti i miei fogli, gettare via le mie matite, ma non permetterò mai una cosa di quel genere.

I miei familiari entrano nella stanza per portarmi la minestra e un po’ di pane, mettono tutto sopra al tavolo, accanto ai miei disegni; a volte mi chiedono qualcosa, di andare insieme a loro, di uscire per strada, a respirare l’aria: io fingo sempre di non comprendere quello che mi dicono, di non sentire nemmeno le parole. Resto qui, i diavoli non mi avranno, non riusciranno a confrontarsi con i miei disegni, perché lo sanno che la realtà è fuggevole, e ce l’ho io, con me, sopra questo tavolo; è con me la realtà, lo sanno, ma non possono assolutamente farci niente.

Bruno Magnolfi

venerdì 10 dicembre 2010

Ritratto di coppia.




Erano usciti di casa insieme, come spesso facevano la domenica mattina, una passeggiata a piedi nel quartiere, una breve sosta al caffè poco lontano, e una in edicola per il giornale, poi di nuovo verso casa, a prepararsi insieme e con cura il proprio pranzo. Camminavano stringendosi il braccio, come una coppia dei tempi passati, salutavano quasi all’unisono i conoscenti che a volte incontravano, e lasciavano alle spalle, nella mente di tutti, il pensiero che fossero una coppia bella e affiatata, distinta e impeccabile.

Tra loro non smettevano mai di parlare, e lo facevano senza grandi espressioni del viso. Lei diceva qualcosa su un loro vicino, sempre scorbutico e scostante, lui annuiva, trovandosi il più delle volte in accordo con quanto ascoltava. Poi lui si lamentava del suo lavoro che non gli procurava in quel periodo le soddisfazioni che aveva creduto, e allora lei gli dava sostegno, tagliando corto e dicendo che le cose sarebbero migliorate senz’altro. Le loro parole erano sempre dosate, sempre sull’orlo di fermarsi improvvisamente, per lasciar spazio a un saluto o ad una frase di circostanza per qualcuno, tanto i loro piccoli discorsi erano costantemente pacati, privi di qualsiasi discussione.

Quando rientravano a casa riponevano con garbo i soprabiti, si scambiavano ancora la propria opinione su qualcuno che avevano incontrato per strada o al caffè, e continuavano con metodo il loro tranquillo dipanare quel tempo della giornata. Certe volte, nel pomeriggio, andavano al cinema, scegliendo con cura la pellicola, informandosi bene sulle tematiche, e scorrendo qualche recensione sopra al giornale. Quando uscivano dalla sala era già sera, discorrevano del film a cui avevano assistito, e si scambiavano le proprie opinioni su un aspetto o sull’altro, riflettendo sui significati di ciò a cui avevano assistito.

Spesso trovavano a seguito tutto il tempo per un tè o per un aperitivo, così si fermavano nella saletta di un bar elegante, coi tavolini di legno lucido e sopra le tovagliette, un locale che in quelle occasioni amavano frequentare. A quell’ora certe volte incontravano altre coppie simili a loro, persone che conoscevano da molto tempo, così, ben volentieri, si fermavano a parlare e a scambiare con loro qualche opinione. In quei casi lui si accendeva una delle sue sigarette, godendosi appieno quel piccolo strappo alla norma e ridendo di gusto di qualche battuta che poteva uscir fuori in quella compagnia.

Per abitudine quasi mai rimanevano fuori per la cena nei giorni di festa, preferendo al contrario rientrare nel loro appartamento e rilassarsi con una tisana e della semplice frutta. La loro giornata si spegneva poco per volta, le loro parole alla sera si facevano ancora più esili, e al momento di andarsene a letto erano quasi un sussurro. La buonanotte immancabile che si auguravano prima di spengere le lampade sui comodini, era soltanto un piccolo suono, quasi l’ultima vibrazione di un carillon che si ferma, lasciando tutto sospeso.

Per molto tempo nessuno riuscì a credere a tutto quel sangue che lui aveva fatto spargere in casa con venti coltellate nel petto e alla gola di lei, prima di tagliarsi le vene. Eppure, in tutto il quartiere, chiunque si dovette fare una ragione di quanto era accaduto. Le cose a volte sono molto diverse da ciò che si crede, disse qualcuno; bisogna sempre mostrarsi dubbiosi, perché è inevitabile, la realtà ci raggira, non si è mai sicuri di niente.

Bruno Magnolfi

giovedì 9 dicembre 2010

Nessuna reale raffigurazione.





La fotografia in bianco e nero era sfocata, e la cornice di cartone aveva un angolo tutto rovinato dal tempo, probabilmente anche dall’umidità della cantina. Indubbiamente il soggetto era lei, e più o meno, a giudicare dalla faccia e dai capelli, doveva essere stata scattata una trentina di anni prima, anche se adesso non ricordava affatto né quell’occasione, né il motivo per cui non aveva mai visto prima quell’immagine. Era sempre così, pensava Lucia, quando si metteva a riordinare qualche angolo dimenticato, scappava fuori inevitabilmente qualcosa di strano, qualcosa che non aveva assolutamente considerato.

Lei era voltata di profilo nella foto, i capelli lunghi raccolti in una coda di cavallo, una camicetta buffa di cui si ricordava, ma solo vagamente, e lo sguardo incuriosito da qualcosa che non era nell’immagine; lo sfondo era un giardino, ma si vedeva soltanto un albero e dei cespugli sul dietro, nient’altro. Sarà stato il compleanno di un’amica, pensava adesso, o una festicciola come si usava in quel periodo: nell’espressione che aveva là sopra si immaginava una ragazza seria, anche se quel giorno abbastanza spensierata, probabilmente con dentro l’entusiasmo di chi sta costruendo poco per volta il suo futuro.

Le cose in seguito non erano andate troppo bene per lei, adesso ne era consapevole, ma a quell’epoca ricordava di essere stata disposta a battersi come un leone per cercare la sua strada, per mettere a punto i suoi desideri, per affermare la sua personalità. Non poteva dar la colpa a niente e a nessuno se le cose non erano andate come lei aveva previsto. Anzi, in qualche maniera, la vita le aveva preso la mano costantemente, ponendola spesso di fronte a scelte e a decisioni; il resto in fondo era venuto come conseguenza inevitabile del suo carattere, delle sue idee, non c’era niente di cui rammaricarsi.

Forse la fotografia poteva averla scattata il suo ragazzo di quegli anni, un tipo estroso, un creativo, come a volte si diceva, con tante idee dentro la testa, ma che nel giro di poco tempo aveva dimostrato di non saperne realizzare neanche una. Lucia si era fidata di lui, aveva cercato di infondergli coraggio qualche volta, di spingerlo in avanti, ma lui non era riuscito a combinare quasi niente, e poi se n’era andato, dopo infinite ed estenuanti discussioni senza esito.

Ecco, forse era questo ciò che adesso le ricordava quell’immagine: ma nonostante fosse stato quello un periodo piuttosto difficile, zeppo di contraddizioni, se ora proprio ci pensava a fondo, Lucia riusciva ancora a salvare qualche cosa; si, certo, c’era l’entusiasmo, la voglia di fare, la generosità dei suoi comportamenti; c’era quel credere di poter rendere migliore quel futuro in cui tutti in quel periodo credevano fermamente. Per questo era bene adesso distruggere quella fotografia: niente di tutto ciò che raffigurava era rimasto, inutile persino ripensarci.

Bruno Magnolfi

mercoledì 8 dicembre 2010

Scena n. 12. Il dialogo.




Sul palco la luce appare scarsa, come se la finta stanza curata dagli sceneggiatori fosse illuminata da un’unica sola candela, quella appoggiata sopra al tavolo. Si intravedono soltanto due persone, sedute, immobili, le espressioni serie, di chi ha pensieri profondi, e riesce a trattenerli solo per qualche momento, come fosse questo il tempo giusto di una sincerità superiore e definitiva.

Uno dei due individui, nella penombra, sembra una donna, capelli bianchi, raccolti in una crocchia sulla nuca; si piega un po’ in avanti, poi dice: non mi interessa più niente di ciò che potrà accadere, con tuo padre ne abbiamo parlato così tante volte che oramai è solo un fastidio pensare ancora al futuro. La mia vita è scarsa di tutto, non c’è stato neppure il tempo per interrogarmi su cosa dovessi fare, se non cercare che tutto fosse funzione delle cose che avevo imparato da piccola, da quegli insegnamenti inculcati in me dai miei genitori.

L’altra persona è un ragazzo, volta la testa, sembra non abbia voglia neppure di parlare, ma infine dice: sono confuso, lo ammetto, mi avete parlato di tante cose, avete cercato di spiegarmi gli aspetti più diversi della realtà, ed io spesso sono rimasto inerte, a cercare di ascoltare quanto, tu e mio padre, volevate dirmi, senza che sia riuscito a vantare delle opinioni personali. Ora forse dovrei dire qualcosa di me, ma non sento niente, non ho maturato nulla tra le mie idee.

Ambedue restano seduti, come se fossero estranei, i pensieri dietro a qualcosa di imprendibile, con ritmi diversi, differenti lunghezze d’onda, quasi che tra loro non ci fosse proprio niente di comune. La donna guarda le sue mani, le vede raggrinzite dai lavori che ha dovuto svolgere nella sua esistenza, e questo le pare un aspetto importante, fondamentale della vita. Il ragazzo guarda davanti a sé, e non vede niente, se non il buio di qualcosa che non gli è chiaro, non gli è stato spiegato o lui non ha compreso.

Poi si volta, dice: siamo diversi, la nostra natura è ciò che ci distanzia. La donna sembra indifferente, prosegue a guardare le sue mani, infine dice: un cemento collega tutti gli uomini; i loro dubbi, le perplessità che non riescono mai a sciogliere. Questo è il nostro male, questa la nostra affinità. Il ragazzo si alza in piedi, guarda la donna, infine dice: lo so, vorrei solo superare questo ostacolo, nient’altro.

Bruno Magnolfi

martedì 7 dicembre 2010

Separatismo di Clara.




Spesso si respirava una logica apparentemente irrazionale. Pareva che chiunque si potesse disinteressare dei fatti di primaria importanza, ma tutto avveniva per un atteggiamento che metteva in luce alla fine solo debolezza di carattere, nient’altro. Così si prendevano presto le distanze anche da questo, e si procedeva a interessarsi di qualche altra tematica. In genere ci si perdeva con facilità dietro a punti di vista perlopiù marginali, in cui si riusciva a far emergere elementi individuali di puro aspetto speculativo, come se l’importanza maggiore delle cose fosse rappresentata da quanto si riusciva a dedurre, e da nient’altro.

Comunque l’atteggiamento fondamentale era mostrare sicurezza di sé e rilassatezza. Ci si incontrava nei corridoi, discutendo di qualcosa, la maggior parte delle volte evitando perfino il saluto ordinario, etichettandolo come gesto inutile, privo di qualsiasi caratteristica. Poi, molte volte, ci si richiudeva dentro se stessi. Era come se all’improvviso tutto chiedesse una riflessione più forte e maggiormente significativa, ed ecco che tutti gli altri diventavano un impedimento, un ostacolo ai nostri più intimi pensieri.

Clara era sprofondata in una crisi profonda, anche se non riusciva a capirne il motivo. Non aveva più voglia di frequentare nessuno, stava bene unicamente con se stessa, gli amici erano assurdi, fuori da ogni sua riflessione. Si era provato a darle una mano, eravamo andati da lei, a parlarle, a darle conforto in qualche modo, ma lei era rimasta in silenzio, come si fosse tutti lontani chissà quanto. La sua amica di sempre le aveva chiesto qualcosa, ma lei aveva detto di no, non aveva bisogno di niente, oltre quella sua solitudine che pareva la cosa più importante di sé.

Così ci eravamo tutti disinteressati della sua vicenda, ci si ricordava di Clara solo qualche volta, mentre si parlava, ma solo per abitudine, o forse anche perché restava comunque una di noi. Avvennero parecchie cose in quel periodo, e in certi casi ci dispiaceva che lei non ci fosse, che non potesse capire insieme a tutti noi quanto stava effettivamente succedendo.

Poi la si rivide. Tornò a camminare lungo i corridoi, inizialmente da sola, infine avvicinata dagli altri, da noi tutti, per darle conforto, per cercare di capire quanto si fosse scostata da tutto il movimento. Lei non disse molto, rimase seria, preda delle sue angosce; chiarì soltanto che non sarebbe più tornata indietro, la sua strada la trascinava da altre parti, spiegò in fretta, lei aveva assolutamente capito questo, e noi così restammo in silenzio, non le chiedemmo altro, non la torturammo per comprendere di più, la lasciammo perdere, disinteressandoci delle sue scelte, e affidandola completamente al suo destino.

Bruno Magnolfi

lunedì 6 dicembre 2010

Nei pensieri del paese.



Un passo, poi un altro, senza fretta, con un ritmo da passeggiata, da affrontare nelle ore centrali del giorno, lungo le strade principali del paese, con calma, sempre in modo cadenzato, senza stancarsi mai di camminare e di osservare tutto. Non ci sono problemi, chiunque può farlo, qualsiasi persona può permettersi di girare lungo i marciapiedi grigi, ed osservare le case, le persone, un gatto che salta sopra un muro, alcuni alberi cresciuti dentro ad un giardino, una porta chiusa troppo bruscamente.

La signora Lorenza abita da sola, lo sanno tutti, e forse rimanersene in casa, là dentro tutto il giorno, è una cosa che proprio non riesce a sopportare. Così esce, passeggia in lungo e in largo anche se non si ferma quasi mai a parlare con qualcuno; scambia un saluto, questo si, ma in genere prosegue subito dopo la sua strada, a meno che non le chiedano qualcosa, al che lei risponde sempre con grande cortesia, con un sorriso pronto per chiunque. E’ uno spirito solitario il suo, lo si capisce subito, chissà cosa pensa dentro a quella testa di capelli quasi bianchi, lunghi, raccolti sulla nuca da un fermaglio, come a tirare verso un punto definito tutte le sue idee, le sue piccole riflessioni di instancabile osservatrice.

Dicono che scrive poesie, ma forse è solo un’abitudine di paese quella di voler dare un senso a tutto, come se si dovessero trovare le debolezze di chiunque per riuscire a sentirsi superiori. Un giorno inciampa, la signora Lorenza, e cade a terra, in malo modo. Qualcuno corre, la rialzano, lei si lamenta, non perché senta un dolore particolare da qualche parte, ma solo perché qualcosa è intervenuto ad interrompere il suo filo di pensieri, le sue lente riflessioni sulle cose. Così per qualche giorno evita di uscire, qualcuno osserva la sua porta chiusa, altri chiedono di lei, ma solo così, per semplice curiosità.

Quando torna a farsi rivedere, tutti notano che è andata a sedersi sopra una panchina, sotto agli alberi della piazza principale. Ha un quaderno con sé, scrive qualcosa, forse una delle sue poesie di cui a volte si era parlato. Infine torna a casa, sempre con il suo quaderno sotto al braccio, e qualcuno mentre la saluta le chiede, per curiosità, cosa mai possa averci scritto sopra quei fogli: niente di particolare, dice lei, sono solo i pensieri di tutti coloro che incontro ogni giorno per la strada; li ho sempre immaginati, mentre camminavo, ma ora che mi sono decisa a descriverli sopra al mio quaderno, mi pare proprio che siano ancora più reali, quasi quanto le stesse persone del paese che hanno avuto quei medesimi pensieri.

Bruno Magnolfi

Il potere di una persona qualsiasi.




Certe volte le cose sono proprio complicate. Esci di casa, vai nei soliti posti di sempre, e tutti sembrano quasi ignorarti, come se non avessero tempo per te, per star dietro alle tue stupidaggini. Così abbassi lo sguardo, non dici niente a nessuno, ti chiudi in te stesso lasciando che gli altri facciano pure quello che vogliono. Poi inizi a pensare che le parole non dicono niente, per questo è poco importante parlare, forse hanno proprio ragione tutti quanti, tanto vale mettersi lì e non pensare più a niente, come se non ci fosse niente che ne valesse la pena.

Torno a casa e mia moglie mi guarda, come se avessi fatto qualcosa di male, o se fossi un qualsiasi buonannulla come questi ubriaconi che passano il giorno nel bar qua vicino. Mi piazzo in un angolo, accendo la televisione, tanto per fare qualcosa, e lì mi distendo, lascio che tutto vada un po’ per suo conto, che in fondo non ho neanche voglia di capirne qualcosa.

Dice mie moglie che mi hanno cercato al telefono, qualcuno voleva sapere dove io fossi, quando tornavo, che cosa avessi in programma, tutte cose del genere. A chi possono interessare quei fatti miei, mi chiedo, tutti quanti si sono richiusi in se stessi, nessuno ha più niente da dire, e poi trovi gente che telefona e vuole sapere dove mi trovo, cosa penso, cosa sto facendo; così torno a uscire di casa, vado al bar a vedere se l’atmosfera è cambiata, se c’è qualcosa che non sono riuscito a capire.

Un amico anche lì mi dice che mi hanno cercato, due tizi mai visti hanno chiesto di me, delle mie abitudini, quali fossero gli orari dei miei spostamenti. Naturalmente non è stato spifferato un bel niente, ma la faccenda non è affatto chiara, io mi sento braccato, anche se non capisco quale motivo ci sia per darmi la caccia. Così inizio a indossare un cappello, un vecchio berretto che tengo in casa da anni, tanto per coprirmi la faccia, lo sguardo, per rendermi meno riconoscibile. Mi guardo attorno per strada, mi sembra che tutti mi osservino, scrutino ogni mia minima espressione, come se all’improvviso fosse diventato importante capire cosa io pensi, dove vada, quali siano le mie idee.

Non capisco per niente cosa sia tutta questa faccenda, lo dico a un amico che sta seduto lì accanto nel bar; ma lui mi guarda in modo curioso, non risponde un bel niente, scuote la testa e poi se ne va. Anche mia moglie non sembra la stessa, fa le cose di sempre, si comporta nella stessa maniera, ma fa tutto in modo più strano, quasi come se io fossi un estraneo. Oscillo da un posto a quell’altro, senza quasi fermarmi, nei luoghi di sempre, salutando le stesse persone che conosco da anni, eppure tutto sembra diverso, anche se non ne capisco il motivo. In poche ore mi pare di avere la febbre, di vedere tutto distorto.

Infine due uomini con la cravatta mi fermano in mezzo alla strada, sono gentili, mi parlano di qualcosa, mi chiedono di togliere per un po’ il mio cappello, mi guardano, conoscono bene il mio nome, chi io sia, ma io non li ho mai visti prima. Dicono che sono degli inviati, roba statale, investiti di piena ufficialità; forse, penso io, spediti qui dal governo, vogliono solo capire di più dei miei comportamenti: sembra che io sia la persona perfetta da studiare, dicono loro, l’uomo campione che pensa le medesime cose che pensano tutti, così sono un soggetto importante, uno tramite il quale si riesce a capire cosa pensano gli altri.

Non possono darmi dei soldi, non possono neppure pagarmi un caffè, perché in questo modo cambierei forse qualche opinione, e invece devo solo dire a loro quello che penso, tutto ciò che mi passa dentro la testa, senza lasciarmi influenzare da nulla. Questa è la cosa più strana che mi sia mai successa, penso, così mi metto lì, buono buono, e rispondo a tutti quei loro questionari infiniti. Al termine mi dicono che sono stato bravo, paziente, devo essere più che orgoglioso di quello che ho fatto, perché in questo modo ho dato una mano alla nazione.

Poi mi salutano, se ne vanno così, come sono arrivati, io mi rimetto il cappello, li guardo andar via, e vado subito a infilarmi nel bar: stasera ho proprio voglia di alzare un po’ il gomito, penso tra me, tanto la vita è uno schifo, persino in misura maggiore di ciò che si immagina.

Bruno Magnolfi

sabato 4 dicembre 2010

Indifferente agli altri.




Lo so, lo so bene che la mia vita è priva di consapevolezza, e che io sono sempre stato così, forse senza prospettive, magari persino senza idee. Eppure ho sempre continuato a mandare avanti le mie giornate, una dietro l’altra, e la maggior parte delle volte sono stato capace di evitare il pensiero che non stessi facendo niente, niente di buono intendo. Ho parlato con qualcuno, in qualche caso, ho scambiato la mia visione delle cose, mi sono sempre trovato d’accordo con chi avevo di fronte, ho sempre detto che avevano ragione, giusto per andare in sintonia, ed ho tirato avanti, senza stare troppo a preoccuparmi.

Perché mai avrei dovuto pensare che le cose fossero diverse da come me le ero immaginate; perché avrei dovuto perdere tempo a riflettere su quanto mi rimaneva più distante, sugli aspetti a me più ostici, meno interessanti? Ho lasciato ad altri certe preoccupazioni, io ho semplicemente mandato avanti il mio lavoro, i miei svaghi, le mie innocue, semplici attività. Certamente mi sono guardato attorno, almeno qualche volta, ho osservato gli altri per capire cosa stesse succedendo, mi sono interrogato, certo, ma solo in qualche caso, quando c’era da prendere qualche decisione, per esempio, poi non ho fatto nient’altro.

Mi hanno attaccato in fabbrica, hanno detto che io sono immaturo socialmente; ma cosa vuol dire tutto questo, io guardo la mia busta paga, è soltanto quella la mia preoccupazione, poi esco dal mio posto di lavoro e vado a sedermi nel solito bar, giusto per scherzare un po’ con i ragazzi. Ma all’improvviso sembra che nessuno abbia più voglia di parlare insieme a me, pare che io non sia più alla loro altezza, che non sia neppure capace di bere una birra in compagnia. Così mi guardo attorno, inizio a interrogarmi, cerco di pensare alle cose delle quali tutti gli altri sembrano assolutamente preoccupati.

Torno a casa, penso che la vita sia uno schifo, non c’è niente che valga la pena di impegnarsi nelle cose di ogni giorno, così mi siedo sopra al solito divano e bevo qualcosa, senza stare neppure a rimuginarci troppo. Poi suona il telefono, alzo la cornetta, qualcuno dice con voce camuffata che sono un gran bastardo, poi riattacca. Mi hanno isolato, penso, hanno fatto terra bruciata intorno a me, solo perché a me non interessa niente delle loro lotte, del rinnovo del contratto e cose di quel genere. Non lo so, mi pare di essermi sempre preoccupato solo dei fatti miei, non capisco dove stia l’errore. Mi dico che domani non andrò neppure a lavorare, ma poi invece ci vado, voglio vedere come andrà a finire.

Arrivo ai cancelli e qualcuno è lì, pare quasi che mi stia aspettando. Non dicono niente, mi guardano, si vede che non si fidano di me. Così anche io guardo gli altri, come se volessi far vedere che ho bene le mie idee, che so perfettamente come devo comportarmi. Quindi entro in fabbrica, senza tentennamenti, vado diritto dal mio capo del personale e gli racconto tutto quanto quello che succede. Lui mi guarda, annota qualche cosa sopra un foglio, poi si alza, con calma, quindi torna a guardarmi, poi dice soltanto: dalla prossima settimana parte la cassa integrazione, per un terzo di tutti i dipendenti; ci sei anche tu nel numero.

Bruno Magnolfi

venerdì 3 dicembre 2010

I suoni tra le rocce.




Non c’era molta strada da fare, in paese lo sapevano tutti: bastare prendere uno stretto viottolo e in poco più di mezz’ora si arrivava fino all’orlo del precipizio. Le rocce in quel punto apparivano sedimentarie, erose dal tempo, la vegetazione attorno lasciava tutto lo spazio a quell’enorme spaccatura in mezzo alla terra, e si rimaneva lì, a bocca aperta, a contemplare il fiumiciattolo che scorreva tra le pietre giù in fondo.

Era affascinante quel luogo, ma nessuna strada arrivava da quelle parti: non c’era mai stato interesse da parte di alcuno per farne un luogo turistico, o un posto comunque da visitare; al contrario, si dava per scontato che fosse pericoloso avventurarsi da quelle parti, e insomma che non ci fosse alcun valore nel visionarie quelle rocce: era soltanto una fenditura profonda nel suolo, si pensava, che andava avanti per dei chilometri, senza nessuna positività.

Era come se nella testa di tutti ci fosse qualcosa di strano, di diverso dalla logica: non si parlava quasi mai di quel posto dove qualcuno si avventurava ma solo in casi particolari, però la gente sapeva cosa c’era laggiù, conosceva bene quella rupe al margine delle colline a chiudere il passo, a tagliare in due quello spazio, come se intuisse perfettamente che iniziava un mondo diverso oltre quel precipizio, ed era bene evitarlo, come le cose dannose. Ma forse era soltanto una credenza, una di quelle dicerie di paese, qualcosa di cui certe volte si bisbigliava, ma soltanto in occasioni particolari.

Le cose cambiarono solo per caso, un giorno qualsiasi, quando un ragazzo del paese, da solo, arrivò fino lì portandosi dietro la tromba che da qualche mese stava studiando. Il luogo era perfetto per suonare senza preoccuparsi di dare fastidio, da quelle parti non c’era nessuno, e l’eco che usciva fuori dal precipizio dava un tocco meraviglioso ad ogni nota. Ma qualcun altro aveva sentito quei suoni, dalla parte opposta della spaccatura, e si era affacciato alle rocce dalla parte di là, ad osservare e ad ascoltare il ragazzo e quel suo strumento.

Si erano guardati, lui e quella persona, pur nella lontananza dello spazio aperto, poi il ragazzo aveva ripreso a suonare, e quello si era seduto sopra una pietra per ascoltarlo. La cosa si era ripetuta il pomeriggio seguente, e così ancora, fino a quando qualcun altro era andato ad ascoltare quelle note lunghe e lamentose che si perdevano nell’asprezza di tutte le rocce. Il ragazzo si era sentito importante, aveva iniziato poco per volta a modulare delle melodie particolari, qualcosa nato quasi in funzione di quel luogo, e tutte le persone che oramai arrivavano fin lì, nelle settimane a seguire, ognuno per suo conto, proprio per ascoltarlo, sembravano rapite da quei suoni, come da elementi magici che per straordinaria virtù riuscivano a riempire di bellezza tutta quella gola sassosa.

Le cose andarono avanti per un certo tempo, ma senza che nessuno in paese sentisse la voglia di parlarne: era come se tutti coloro che arrivavano là, lo facessero sempre un po’ di nascosto, mimetizzandosi tra gli alberi e i cespugli vicini, restando separati, a volte anche ognuno dall’altro. Quando immobilizzarono il ragazzo mentre era intento a suonare, lo fecero solo in due o in tre, prendendolo da dietro, senza che lui potesse riuscire a capire chi fosse a strappargli di mano la tromba. E quando la vide volare giù dalla rupe, gli parve impossibile, come se non riuscisse a trovare nei suoi concittadini un solo motivo per un gesto del genere. Eppure, quando tornò disperato in paese, nessuno spese per lui una parola di solidarietà o di conforto: certe cose andavano prese così, sembrava dicessero tutti, inutile opporsi.

Bruno Magnolfi

Il viaggio.





Si doveva partire, chissà poi perché, anche se sembrava del tutto inevitabile. Ci eravamo riuniti in quell’appartamento, in attesa della notte, quando il momento sarebbe stato più propizio. Si scherzava, si diceva con convinzione che la nostra partenza sarebbe stata l’inizio di tutto quanto il resto, senza sapere con precisione quale domani avremmo dovuto attenderci, ma forse solo per mostrarci fiduciosi sulla nostra capacità di affrontare il futuro. Tutti quanti si occupavano di qualcosa, scontrandosi avanti e indietro nella febbrile preparazione dei bagagli, io invece mi sentivo stanco, per questo mi ero sdraiato su un divano, e mentre intorno tutti parevano nervosi, tutti presi dai preparativi, al contrario in me era come scesa una completa calma, una perfetta indifferenza verso ciò che sarebbe potuto accadere.

Qualcuno poi mi aveva toccato un braccio, mi aveva scosso, aveva richiesto la mia attenzione, giusto per dirmi che eravamo pronti, che tutto era stato ormai sistemato. Così mi ero tirato su, avevo osservato gli altri, mi ero reso conto che dovevamo abbandonare tutto, ormai niente ci teneva ancora attaccati a quel nostro passato. Eppure, mi pareva che una riflessione finale fosse importante, come se si dovesse riassumere un ricordo in pochi pensieri, forse soltanto in uno sguardo, e condensare in un gesto superiore, come era quello di andar via, ciò che fino a quella sera era stato importante per noi tutti.

Così guardai le borse, gli zaini, le valigie, tutti i bagagli pronti che avremmo portato con noi, come fosse fondamentale traghettare, da ieri fino a domani, qualcosa di riconoscibile, di familiare, di consueto. Si capivano i vestiti pesanti, per affrontare le notti fredde, gli oggetti a cui eravamo legati, quelli che ci sarebbero potuti tornare utili, e ancora le fotografie che ci ricordavano qualcuno, e i libri, che ci mostravano ancora le radici, e i nostri documenti, che ci consentivano, almeno per un po’ di tempo, di sapere chi noi fossimo.

Passeggiai a lungo per le stanze, osservai tutto, mi soffermai sui mobili vuoti, sugli scaffali liberi, i letti inutili. Provai una tristezza indicibile, mi parve in un lampo che non saremmo più tornati, nessuno di noi sarebbe sopravvissuto a quegli oggetti, e mi sentii sul punto di abbandonare ogni proposito. Poi qualcuno mi mise una mano su una spalla, senza dire niente, solo mostrando quanto ognuno di noi fosse costernato in quella fase.

Lasciai perdere ogni nostalgia, c’era qualcosa di estremamente più importante che attendeva il nostro impegno, così radunai tutti nell’ingresso, ci guardammo ancora per un attimo, come scambiandoci la consapevolezza di quanto, da quel momento in avanti, c’era da affrontare; poi iniziammo a caricare tutti i nostri bagagli. Non ci sarebbe stato niente di male, pensavo, se qualcuno in quel momento si fosse sentito privo di coraggio, avesse detto agli altri, magari tra le lacrime, che non se la sentiva proprio, che quel viaggio non era fatto per lui, anche se ne era profondamente dispiaciuto. Invece a nessuno passò per la testa un’idea di quel genere.

Infine abbandonammo l’appartamento, e con lui tutte le nostre certezze, e quando, ormai nel pieno del destino che si concretizzava davanti ai nostri sguardi, pensammo che orami sarebbe stato impossibile anche solo tentare di tornare indietro, ci sentimmo orgogliosi, convinti delle nostre forze e delle convinzioni che avevamo messo in campo: così doveva essere, e così stava manifestandosi la nostra volontà, forse oltre ciò che ogni buon senso avrebbe chiesto.

Bruno Magnolfi

mercoledì 1 dicembre 2010

Al bordo del mondo.



L’appuntamento era fissato in una larga piazzola panoramica accanto alla strada provinciale, subito fuori città, all’apice di una bassa collina; vi si trovavano alcune panchine di legno dove era possibile sedersi ad osservare un pezzo di aperta campagna, nelle giornate di sole, ed era bello attardarsi là sopra, come se il tempo perdesse di consistenza, limitandosi a far calare la sera, alla fine di quei pomeriggi, ma con una piacevole calma. Già altre volte lui e lei si erano ritrovati su quelle panchine, a parlare, a scambiare le proprie opinioni, a cercare, quasi fondendosi tra loro e in quel panorama, di uscire fuori dalla loro diversa e ordinaria realtà.

A lui piaceva arrivare in anticipo, restare qualche minuto da solo ad osservare le cose, rimanersene in piedi appoggiato alla staccionata di legno, con le spalle coperte da una siepe che divideva quel luogo dal tracciato stradale. Pensava a se stesso, a lei, al loro incontrarsi, senza dare giudizi su niente, solo immaginando i loro sorrisi incontrandosi, il loro abbracciarsi, quell’immediato ricostituire ogni momento che avevano passato distanti, sin dall’ultima volta che si erano incontrati.

Lui stava lì, e gli era piacevole allungare a dismisura quel momento, come lasciandolo intrappolato tra il desiderio di rivederla al più presto, ed il leggero bisogno di preparare i suoi sentimenti alla vista di lei. Restava lì, appoggiato con gli avambracci su quel corrimano, e con gli occhi persi in quella campagna, a cercare le sfumature di grigio nella distanza che fondeva la terra col cielo. Si sentiva felice in quel momento, quasi come se un tremore, di chissà quale natura, ma tutta elaborata dentro se stesso, arrivasse tra un attimo a sconvolgere insieme a lei qualsiasi sua aspettativa, stravolgendo ciò che aveva immaginato a favore della realtà.

Scommetteva su quel momento, ne avvertiva il suo approssimarsi, evitava di girarsi per scoprirla mentre stava arrivando, e al contrario lasciava volutamente che fosse lei a sorprenderlo solo, immerso in quella visione aperta su tutto e su niente, come se una scoperta inattesa tingesse di colori meravigliosi quel loro incontro. Sognava quasi il momento, e proiettava ogni sua immagine attorno a cose minori: cosa si sarebbero detti, come si sarebbero guardati, quanto desiderio ognuno dell’altra sarebbe stato possibile trasmettersi con un semplice gesto, forse soltanto con uno sguardo.

Infine lei era lì, fermava la sua automobile a ridosso della siepe, tirava il freno di stazionamento, scendeva dall’abitacolo, con calma, con i suoi soliti modi compassati, di chi non vuole sbagliare. Lui si voltava, osservava il suo abito, la fisionomia, le andava incontro, felice di tutto, come se niente ci fosse di diverso da ciò che aveva vagheggiato fino ad allora. Si prendevano le mani, si salutavano, sorridendo, quasi senza riuscire a contenere le loro espressioni deliziate di quel ritrovarsi esattamente come avevano tanto desiderato.

Niente sembrava valere quel loro momento, se non quella campagna, quel luogo qualsiasi appena fuori città, quell’ora calda del pomeriggio, quando il giorno è ancora pieno, denso di cose da pensare e da dire, quando è ancora possibile immaginarsi e sognare qualcosa di superiore ad un semplice appuntamento. La strada, oltre la siepe, restava la stessa, con il suo traffico abbastanza rarefatto a quell’ora, quelle automobili in corsa verso qualcosa: loro due si sentivano fuori da tutto, almeno quando erano lì, in quella piazzola appoggiata sul mondo, come se fosse possibile scavare un piccolo nido fuori da tutto, un angolo fuori dalla vita di sempre, e lasciare che il resto di tutte le cose si disinteressasse di loro.

Bruno Magnolfi