domenica 30 gennaio 2011

Non ci sono solo i treni a lievitazione magnetica


Non ci sono solo i treni a lievitazione magnetica a vincere la legge di gravità
ma nella vita di ogni persona c’e’ qualcosa di più, di cui si fa esperienza in momenti particolari ma pure in momenti ordinari.

“Come un uomo che sta cadendo da un burrone
e all’ultimo momento qualcosa lo afferra a mezz’aria:
è questo l’amore, una cosa che ci salva in caduta libera,
che batte la legge di gravità” (Paul Auster)

giovedì 27 gennaio 2011

Pomeriggio sospeso n. 2

Si era vestita, togliendosi la sua vestaglia da camera e scegliendo con calma gli abiti adatti per una passeggiata nel suo quartiere, senza neppure una meta precisa. Si era osservata più volte davanti allo specchio che teneva in un angolo, infine si era spazzolata i capelli, poi era tornata nel salottino. Non aveva una gran voglia di uscire di casa, questa era la verità, però sentiva suo preciso dovere smuovere quell’aria magica che lui, quando era uscito, si era lasciato alle spalle. I loro incontri clandestini erano così, spesso nascevano all’improvviso, e molte volte si consumavano in fretta, come un’idea, un pensiero, una supposizione. Mise via i due calici in cui avevano bevuto, sistemò qualche cosa senza importanza, poi cercò le chiavi di casa.

Fu sufficiente non riuscire a trovarle al solito posto, per farle tornare a mente i suoi modi, quel suo sorrisetto quando saliva le scale dietro di lei e attendeva che aprisse la porta dell’appartamento, oppure quando arrivava e restava lì fermo, sul pianerottolo, prima di decidersi a entrare. Avrebbe dovuto farne una copia di quelle chiavi, pensò con un sottile senso di auto rimprovero, come se avesse dovuto già averci pensato, poi immaginò se stessa rincasare e trovarselo lì, come un regalo portato da una bella giornata.

Lei avrebbe sorriso, senza parole, forse le sarebbero spuntati due lucciconi negli occhi per quella gioia improvvisa, e senza far altro lo avrebbe abbracciato, come a trattenerlo per sempre, o a stringere a sé tutta quella emozione. Si avvicinò alla finestra e tornò ad osservare i tetti delle case vicine, e quel campanile poco più là, svettante sul resto. Si accostò al tavolino e aprì il suo diario. “Fantastico averti con me…”, scrisse quasi senza pensare, come se già quelle parole, quelle semplici lettere sopra la carta fossero sufficienti a non farla sentire da sola.

Poi chiuse le pagine e tornò nella sua camera: doveva cambiarsi, pensava, vestirsi in una maniera migliore, perché quello non era un pomeriggio qualsiasi, lui era stato lì poco prima, assieme a lei, e soltanto questo era già qualcosa sicuramente da festeggiare. Indossò un camicetta spiritosa, un colore sgargiante, allegro, proprio come lei aveva voglia di essere, infine chiuse l’armadio per tornare nell’altra stanza.

Forse le avrebbe telefonato quella sera, pensò; forse non avrebbe dovuto neppure pensare di uscire, avrebbe dovuto star lì, aspettare che la sua fisionomia si materializzasse di nuovo, come per una magia. Prese il soprabito con dentro le chiavi e chiuse il portone dietro di sé. Lungo le scale continuava a pensare ai passi di lui che avevano solcato i gradini soltanto poco prima. Non avrebbe mai accettato una copia delle sue chiavi di casa, pensò: troppo concreto, troppo realistico un oggetto del genere; lui era diverso da tutti, incontrarlo aveva il fascino di una prima e di un’unica volta, come se il tempo stesso annullasse qualsiasi altra possibilità.

Quell’appartamentino era suo, non c’era niente da dividere là dentro se non quei momenti, quando la presenza di lui rendeva improvvisamente vere tutte le cose. Raggiunse il marciapiede davanti al portone del condominio, e rimase lì, immobile, quasi perplessa. Dette soltanto uno sguardo fuggevole a tutta la strada percorsa dalla solita gente, dalle auto veloci, dalle persone ordinarie. Tornò in fretta a salire le scale, e quando chiuse la porta alle sue spalle fu come ritrovare lui di nuovo tra quelle sue stanze, e questo in fondo era tutto ciò che contava.

Bruno Magnolfi

mercoledì 26 gennaio 2011

Pomeriggio sospeso n. 2


Si era vestita, togliendosi la sua vestaglia da camera e scegliendo con calma gli abiti adatti per una passeggiata nel suo quartiere, senza neppure una meta precisa. Si era osservata più volte davanti allo specchio che teneva in un angolo, infine si era spazzolata i capelli, poi era tornata nel salottino. Non aveva una gran voglia di uscire di casa, questa era la verità, però sentiva suo preciso dovere smuovere quell’aria magica che lui, quando era uscito, si era lasciato alle spalle. I loro incontri clandestini erano così, spesso nascevano all’improvviso, e molte volte si consumavano in fretta, come un’idea, un pensiero, una supposizione. Mise via i due calici in cui avevano bevuto, sistemò qualche cosa senza importanza, poi cercò le chiavi di casa.

Fu sufficiente non riuscire a trovarle al solito posto, per farle tornare a mente i suoi modi, quel suo sorrisetto quando saliva le scale dietro di lei e attendeva che aprisse la porta dell’appartamento, oppure quando arrivava e restava lì fermo, sul pianerottolo, prima di decidersi a entrare. Avrebbe dovuto farne una copia di quelle chiavi, pensò con un sottile senso di auto rimprovero, come se avesse dovuto già averci pensato, poi immaginò se stessa rincasare e trovarselo lì, come un regalo portato da una bella giornata.

Lei avrebbe sorriso, senza parole, forse le sarebbero spuntati due lucciconi negli occhi per quella gioia improvvisa, e senza far altro lo avrebbe abbracciato, come a trattenerlo per sempre, o a stringere a sé tutta quella emozione. Si avvicinò alla finestra e tornò ad osservare i tetti delle case vicine, e quel campanile poco più là, svettante sul resto. Si accostò al tavolino e aprì il suo diario. “Fantastico averti con me…”, scrisse quasi senza pensare, come se già quelle parole, quelle semplici lettere sopra la carta fossero sufficienti a non farla sentire da sola.

Poi chiuse le pagine e tornò nella sua camera: doveva cambiarsi, pensava, vestirsi in una maniera migliore, perché quello non era un pomeriggio qualsiasi, lui era stato lì poco prima, assieme a lei, e soltanto questo era già qualcosa sicuramente da festeggiare. Indossò un camicetta spiritosa, un colore sgargiante, allegro, proprio come lei aveva voglia di essere, infine chiuse l’armadio per tornare nell’altra stanza.

Forse le avrebbe telefonato quella sera, pensò; forse non avrebbe dovuto neppure pensare di uscire, avrebbe dovuto star lì, aspettare che la sua fisionomia si materializzasse di nuovo, come per una magia. Prese il soprabito con dentro le chiavi e chiuse il portone dietro di sé. Lungo le scale continuava a pensare ai passi di lui che avevano solcato i gradini soltanto poco prima. Non avrebbe mai accettato una copia delle sue chiavi di casa, pensò: troppo concreto, troppo realistico un oggetto del genere; lui era diverso da tutti, incontrarlo aveva il fascino di una prima e di un’unica volta, come se il tempo stesso annullasse qualsiasi altra possibilità.

Quell’appartamentino era suo, non c’era niente da dividere là dentro se non quei momenti, quando la presenza di lui rendeva improvvisamente vere tutte le cose. Raggiunse il marciapiede davanti al portone del condominio, e rimase lì, immobile, quasi perplessa. Dette soltanto uno sguardo fuggevole a tutta la strada percorsa dalla solita gente, dalle auto veloci, dalle persone ordinarie. Tornò in fretta a salire le scale, e quando chiuse la porta alle sue spalle fu come ritrovare lui di nuovo tra quelle sue stanze, e questo in fondo era tutto ciò che contava.

Bruno Magnolfi

Pomeriggio sospeso n. 2.




Si era vestita, togliendosi la sua vestaglia da camera e scegliendo con calma gli abiti adatti per una passeggiata nel suo quartiere, senza neppure una meta precisa. Si era osservata più volte davanti allo specchio che teneva in un angolo, infine si era spazzolata i capelli, poi era tornata nel salottino. Non aveva una gran voglia di uscire di casa, questa era la verità, però sentiva suo preciso dovere smuovere quell’aria magica che lui, quando era uscito, si era lasciato alle spalle. I loro incontri clandestini erano così, spesso nascevano all’improvviso, e molte volte si consumavano in fretta, come un’idea, un pensiero, una supposizione. Mise via i due calici in cui avevano bevuto, sistemò qualche cosa senza importanza, poi cercò le chiavi di casa.

Fu sufficiente non riuscire a trovarle al solito posto, per farle tornare a mente i suoi modi, quel suo sorrisetto quando saliva le scale dietro di lei e attendeva che aprisse la porta dell’appartamento, oppure quando arrivava e restava lì fermo, sul pianerottolo, prima di decidersi a entrare. Avrebbe dovuto farne una copia di quelle chiavi, pensò con un sottile senso di auto rimprovero, come se avesse dovuto già averci pensato, poi immaginò se stessa rincasare e trovarselo lì, come un regalo portato da una bella giornata.

Lei avrebbe sorriso, senza parole, forse le sarebbero spuntati due lucciconi negli occhi per quella gioia improvvisa, e senza far altro lo avrebbe abbracciato, come a trattenerlo per sempre, o a stringere a sé tutta quella emozione. Si avvicinò alla finestra e tornò ad osservare i tetti delle case vicine, e quel campanile poco più là, svettante sul resto. Si accostò al tavolino e aprì il suo diario. “Fantastico averti con me…”, scrisse quasi senza pensare, come se già quelle parole, quelle semplici lettere sopra la carta fossero sufficienti a non farla sentire da sola.

Poi chiuse le pagine e tornò nella sua camera: doveva cambiarsi, pensava, vestirsi in una maniera migliore, perché quello non era un pomeriggio qualsiasi, lui era stato lì poco prima, assieme a lei, e soltanto questo era già qualcosa sicuramente da festeggiare. Indossò un camicetta spiritosa, un colore sgargiante, allegro, proprio come lei aveva voglia di essere, infine chiuse l’armadio per tornare nell’altra stanza.

Forse le avrebbe telefonato quella sera, pensò; forse non avrebbe dovuto neppure pensare di uscire, avrebbe dovuto star lì, aspettare che la sua fisionomia si materializzasse di nuovo, come per una magia. Prese il soprabito con dentro le chiavi e chiuse il portone dietro di sé. Lungo le scale continuava a pensare ai passi di lui che avevano solcato i gradini soltanto poco prima. Non avrebbe mai accettato una copia delle sue chiavi di casa, pensò: troppo concreto, troppo realistico un oggetto del genere; lui era diverso da tutti, incontrarlo aveva il fascino di una prima e di un’unica volta, come se il tempo stesso annullasse qualsiasi altra possibilità.

Quell’appartamentino era suo, non c’era niente da dividere là dentro se non quei momenti, quando la presenza di lui rendeva improvvisamente vere tutte le cose. Raggiunse il marciapiede davanti al portone del condominio, e rimase lì, immobile, quasi perplessa. Dette soltanto uno sguardo fuggevole a tutta la strada percorsa dalla solita gente, dalle auto veloci, dalle persone ordinarie. Tornò in fretta a salire le scale, e quando chiuse la porta alle sue spalle fu come ritrovare lui di nuovo tra quelle sue stanze, e questo in fondo era tutto ciò che contava.

Bruno Magnolfi

martedì 25 gennaio 2011

La normalità.

Non c’è niente di buono là fuori, aveva detto l’uomo al suo amico mentre i due restavano seduti dentro al bar. L’altro lo aveva osservato, forse avrebbe voluto dargli ragione, tanto per giustificare un’altra bevuta, ma era rimasto in silenzio, aveva abbassato lo sguardo, aveva cercato di pensare a qualcosa che lo spingesse a rimettersi in strada, spingersi a casa, affrontare la sua solitudine, compiere i gesti consueti di sempre.

Certe volte non riesco a far fronte nemmeno alle cose ordinarie, aveva detto a bassa voce, come confessando a se stesso quell’affermazione. So benissimo cos’è di cui devo occuparmi, eppure è come se non mi riuscisse. Resto fermo in un posto e non mi muovo, per nessuna ragione; i miei pensieri mi portano in fretta lontano, alla ricerca di qualcosa di nuovo e di diverso: vedo tutto quanto ciò che mi circonda e spesso vorrei farne parte, immergermi in quella realtà, ma non ci riesco, è più forte di me. Così resto immobile e poi me ne dispiaccio. Ci sono dei giorni in cui mi chiedo che cosa mai abbia fatto di cui possa ricordarmi con piacere fra un anno o anche di più, ma non mi pare ci sia proprio niente che meriti questo privilegio, così tiro avanti senza trovare una spinta ulteriore, e l’angoscia che provo è tale da lasciarmi privo di sogni, senza nessuna volontà.

Non è il caso di abbattersi, diceva l’altro accendendosi una sigaretta; in fondo nessuno di noi può sentirsi troppo contento di quello che ha: tiriamo avanti senza neppure sapere per quale motivo, però è così, non possiamo cambiare in fretta tutte queste cose. Guarda questo posto: viviamo ai margini di una strada, e oscilliamo tra la casa e il lavoro soffermandoci ogni giorno in questo stupido bar, a volte passa da qui qualche ragazza e ci sentiamo dei furbi solo a darci di gomito e a farci qualche battuta. La verità è che non dobbiamo pensare: riflettere troppo su quello che siamo ci fa sentire ancora più a fondo, ci costringe ad essere coscienti di una vita insulsa.

Va bene, diceva il primo poco convinto; ma che ne dici se uno di questi giorni prendiamo la macchina e ce ne andiamo da qualche parte, giusto per cambiare un po’ d’aria? Certo, aveva detto l’altro continuando a fumare, a te dove piacerebbe dirigerti? Non lo so, aveva risposto, forse dove ci sia da svagarsi, ecco. Mi sembra a volte che se riuscissimo a variare almeno qualche piccolo elemento, il resto potrebbe seguirlo in qualche modo. Va bene, lo faremo, ma non sono convinto che cambierà di molto questa situazione.

Nel locale non c’era quasi nessuno, dietro al bancone il proprietario sistemava i bicchieri e le tazzine, loro due restavano seduti cercando di spingersi con i pensieri lontano da quel posto, come se quella normalità potesse essere gabbata, come se bastasse concentrarsi per poter cambiare almeno qualche cosa. Infine pagarono le bevute e uscirono fuori dal locale, soffermandosi sopra al marciapiede. Non lo so, diceva uno dei due, questi giorni sono tutti simili, e fuggono via senza lasciare niente. Non ha importanza tutto questo, rispondeva l’altro, già solo avere la coscienza di quello che ci capita, mi pare un buon inizio. Succederà qualcosa, prima o poi, e noi saremo pronti ad affrontare qualsiasi novità, perché già lo immaginiamo che le cose non potranno andare avanti ancora in questo modo.

Bruno Magnolfi

domenica 23 gennaio 2011

Vuoto di idee e di pensieri.


Mio padre ha un ristorante, o meglio, un locale che è poco più di una bettola, davanti ad un piazzale sterrato, dove all’ora di pranzo vengono a mangiare alcuni operai dei cantieri vicini e diversi camionisti che si trovano a transitare lungo quella strada provinciale. Il nostro appartamento è al piano superiore, ma ci andiamo solo a dormire. All’ora di cena in trattoria si avventurano dentro anche qualche coppietta con pochi soldi, e due o tre pensionati che abitano in zona. La televisione, in alto, nell’angolo della sala, rimane perennemente accesa, e ogni tanto io salgo sopra una sedia per pulire lo schermo coperto da una patina di vapore untuoso.

Ogni giorno, quando esco da scuola, vado lì e mi piazzo ad un tavolo libero. La mamma, che lavora in cucina, mi porta le cose da mangiare e mio padre mi guarda sempre con quell’aria come se stesse per farmi qualche rimprovero. Spesso i clienti mi conoscono, qualcuno dice qualcosa ma io non rispondo quasi mai alle loro domande spiritose. Al pomeriggio vado in giro, certe volte con un compagno di scuola che ne sa sempre qualcuna più di me. I compiti e le lezioni li porto avanti in fretta sopra ai soliti tavoli del ristorante, quando non c’è nessuno, ma lo faccio sempre più svogliatamente.

Poi sul piazzale incontro un camionista simpatico, che mi chiede ridendo dove abbia parcheggiato il mio truck perché non lo vede; si ferma, smette di ridere, chiede si mi va di andare assieme a lui a farmi un giro. Salgo in cabina e lui mette in moto il mostro. Ha sganciato il rimorchio dell’autoarticolato, e così si va per strada solo con il trattore. Si gira a caso, lui suona per far girare qualche ragazza che cammina sopra al marciapiede, ogni tanto saluta qualcuno.

Mi dice un sacco di cose, alcune neppure le capisco, poi esce dal paese, tira le marce del suo camion e mi fa vedere come va forte quando è senza il carico. Infine a una rotatoria torna indietro e mi riporta al piazzale sterrato, accanto al ristorante; dice che non può permettersi di consumare troppo carburante, il suo padrone potrebbe accorgersi che lo ha usato. Così scendo svogliatamente, lo ringrazio giusto con un cenno per il giro, lui se ne va e io mi fermo accanto a un muro, senza decidermi a far nulla.

Non so cosa sia, ma non mi piace niente di tutto quanto; guardo l’insegna del ristorante già accesa a quest’ora del pomeriggio, e mi sembra triste, quasi senza scopo. Mio padre dice che se continuo così con la scuola inizierò a fare il cameriere da lui, tanto ne ha bisogno. Non lo so se mi va, mi sento indifferente a queste cose. Mi piacerebbe andarmene da qui, prima o poi, ma non so neppure io dove, il mondo in fondo mi sembra tutto uguale. Poi, lentamente, ritorno verso il ristorante, costeggio la strada e guardo la polvere che si accumula sul margine. La vita non è niente di speciale, penso, non vale neanche la pena farsi delle idee, tanto probabilmente non serviranno proprio a niente.

Bruno Magnolfi

venerdì 21 gennaio 2011

Avversi al pensiero unico.



Stamani il negozio di generi alimentari appare chiuso. Nessun cartello sulla serranda abbassata segnala questa anomalia, e lungo la strada e sui marciapiedi non c’è quasi nessuno, neppure il solito gruppo di anziani seduti sulle panchine in fondo alla via. Un ragazzo, che avrà circa vent’anni, passa da solo sopra la sua bicicletta, pedala lentamente, come cercando qualcosa, osservando sui muri i numeri civici di queste case di tre o quattro piani, infine si ferma davanti a un portone, estrae un grosso pezzo di gesso colorato e scrive sulla parete lì accanto: VATTENE ! Poi risale sopra al sellino con calma e sparisce alla vista.

Tutti coloro che abitano in questa strada sanno perfettamente cosa significhi quel senso angoscioso che opprime le persone. Una donna esce di casa con il suo cagnolino, si guarda attorno, arriva fino al giardinetto vicino, si trattiene pochi minuti, infine rientra. Io continuo ad osservare tutto dalla mia finestra, nascosto dietro la tenda: so perfettamente che verranno a cercarmi, prima o poi, che busseranno al portone, entreranno, in qualche maniera, e mi obbligheranno a seguirli. Non ho paura, il loro comportamento mi appare ridicolo, e in fondo non avrei mai immaginato di attirare tanto interesse.

Decido di uscire tanto per movimentare le cose, in fondo, anche se la giornata appare grigia, una passeggiata si può sempre affrontare, penso tra me. Indosso un vecchio cappotto e un cappello che non ho più messo da anni, poi, con passo solerte, arrivo sul marciapiede e decido di recarmi verso il centro della città. Qualcuno mi ha visto, ne sono sicuro, una persona socchiude un portone per osservarmi dall’andito buio, io mi soffermo, sorrido, sollevo il cappello per fargli un saluto, proseguo nel mio camminare spedito.

Percorro alcune vie senza quasi incontrare nessuno, infine vedo un bar dove non sono mai stato, così entro dentro e mi siedo. Il cameriere mi porta un caffè, c’è un giornale sul tavolino vicino, così lo prendo e lo sfoglio. Pare non ci sia niente di nuovo, tutto sembra tranquillo, ordinario, eppure qualcosa si muove nell’ombra, sono sicuro che prima di sera qualcosa dovrà senz’altro accadere. Dal telefono pubblico del bar chiamo un amico, gli chiedo di raggiungermi, gli spiego che qualcuno mi sta minacciando.

Lo attendo per poco più di un’ora, poi mi convinco che non verrà, e se cerco di telefonargli di nuovo sono sicuro che avrà già trovato una scusa. Mi rimetto in cammino, percorro alcuni marciapiedi e infine mi ritrovo ad imboccare la strada in cui abito. Davanti al portone di casa mia c’è un capannello di gente, mi accosto, tutti all’improvviso fanno silenzio e mi osservano. Un vicino che conosco di vista mi dice: non si preoccupi, noi siamo con lei; questi facinorosi seguaci del pensiero unico devono finirla di seminare il terrore. Dobbiamo farci vedere compatti, convinti di quello che siamo, sono sicuro che è questa l’unica maniera per combattere la nostra battaglia: da ora in avanti tutti dovranno saperlo, non ci abbasseremo mai a vivere in silenzio lasciandoli padroni del campo; ci sono tante realtà a questo mondo, la nostra sicuramente ha il valore di tutte le altre.

Bruno Magnolfi

giovedì 20 gennaio 2011

Rosi e nient'altro



Avevamo trascorso un lungo periodo cercando lo scopo e le soluzioni da definire. La direzione strategica poi mi aveva assegnato a quella città del Nord, e di quei compagni iniziali con i quali avevo trascorso i primi tempi di clandestinità non avevo avuto più alcuna notizia. Eravamo tre adesso, e ci si era conosciuti nello snodo della metropolitana, un posto pieno di gente nella fascia oraria che avevamo pattuito. Si era finto di osservare con interesse una vetrina, guardandoci a lungo senza farci notare. Io ero l’unica donna. Abitavamo tre appartamenti differenti, e si era scelto di vedersi solo una volta a settimana, in luoghi e giorni sempre differenti. Quando iniziammo a spiare le mosse e le abitudini dell’obiettivo designato, ci vedemmo più spesso. In pubblico non parlavamo mai tra noi: ci scambiavamo furtivamente dei foglietti con su scritte le idee e le piccole personali decisioni. Tutto il resto ci arrivava nella cassetta per la posta con una scrittura in codice. Dei miei compagni conoscevo solo i nomi di battaglia: Frenchi e Lesli. Per me avevo scelto Rosi. In tutto quel periodo di solitudine forzata avevo iniziato a ripensare a tante cose: mi era preso anche il desiderio struggente di telefonare alla mia mamma, poi l’avevo cancellato. Spesso mi divertivo a ricordare i miei capricci da bambina. Non c’era mai un vero e proprio motivo per intestardirsi su qualcosa che desideravo per me o che volevo gli altri facessero. Era una prova a cui sottoponevo chi mi era vicino per misurare i loro sentimenti. Superata quella mi sentivo dolce e affettuosa con tutti. Forse non ero cambiata molto crescendo. Il mio programma di lavoro prevedeva l’uscita da casa, ogni mattina, alle ore sette e dieci. Qualche volta, sopra al pianerottolo del palazzo, incontravo un uomo che abitava l’appartamento accanto al mio. In genere cercavo di evitarlo anche se non sempre era possibile. Sua moglie dava l’idea della persona che origlia alla porta per riuscire a sapere i fatti degli altri. Non potevo rischiare niente, neanche che mi rivolgessero qualche domanda sottile, magari sorridendo. Così normalmente mostravo fretta, limitandomi ad un semplice e generico “buongiorno”. Il personaggio cui mi ispiravo era quello di una segretaria impiegata in una direzione assicurativa. Ma per tutto quel periodo nessuno chiese niente. Quasi ogni giorno cambiavo occhiali e parrucche seguendo i percorsi del mio obiettivo. Mi sedevo sopra una panchina, dentro a qualche bar, nella mia stessa auto, e mi annotavo gli orari dei passaggi, descrivendo tutti i particolari che osservavo. Non era troppo difficile far trascorrere l’intera mattinata mentre studiavo, con modo di fare disinvolto e insospettabile, tutte le possibili traiettorie seguite dal mio uomo. Al pomeriggio tornavo a casa presto, in genere verso le cinque, e sopra le piantine dettagliate delle strade cittadine ripercorrevo con matite colorate ogni tragitto. Tutte le informazioni che ogni volta riuscivo a completare le passavo ai miei compagni tramite i soliti foglietti. Gli avvistamenti del pomeriggio e della sera erano un compito di Lesli. Una sera andammo assieme nel quartiere residenziale interessato. Si fece un giro a piedi fingendo una passeggiata di piacere. In realtà tenevamo sotto osservazione tutto quanto. Non parlammo molto, giusto le cose essenziali. Poi Lesli decise di entrare in un bar. Il nostro uomo era rientrato in casa e non avevamo praticamente altro da fare. “Sei carina”, disse semplicemente, quando fummo seduti al tavolino. “Non avrei creduto di trovare dei tipi come te nell’organizzazione”. “Perché”, risposi, “cosa ci trovi di tanto strano?”. “Forse niente”, disse, “però immaginavo un mondo di duri che non si preoccupa del trucco o del rossetto, tutto qua…”. Guardai Lesli negli occhi e mi accorsi che era convinto di quello che diceva, così lasciai cadere l’argomento. “Ti sei visto con Frenchi?”, chiesi. Prese tempo, guardò qualcosa oltre le mie spalle, poi disse: “certo; qualche volta sono andato assieme a lui ad osservare i movimenti dei conoscenti del bersaglio”. Poi pensò qualcos’altro che voleva dirmi, ma rimase in silenzio, forse per evitare di parlare di sé....continua su "Parole o semplici frasi " di Bruno Magnolfi.

Rosi e nient'altro .



Avevamo trascorso un lungo periodo cercando lo scopo e le soluzioni da definire. La direzione strategica poi mi aveva assegnato a quella città del Nord, e di quei compagni iniziali con i quali avevo trascorso i primi tempi di clandestinità non avevo avuto più alcuna notizia. Eravamo tre adesso, e ci si era conosciuti nello snodo della metropolitana, un posto pieno di gente nella fascia oraria che avevamo pattuito. Si era finto di osservare con interesse una vetrina, guardandoci a lungo senza farci notare. Io ero l’unica donna. Abitavamo tre appartamenti differenti, e si era scelto di vedersi solo una volta a settimana, in luoghi e giorni sempre differenti. Quando iniziammo a spiare le mosse e le abitudini dell’obiettivo designato, ci vedemmo più spesso. In pubblico non parlavamo mai tra noi: ci scambiavamo furtivamente dei foglietti con su scritte le idee e le piccole personali decisioni. Tutto il resto ci arrivava nella cassetta per la posta con una scrittura in codice. Dei miei compagni conoscevo solo i nomi di battaglia: Frenchi e Lesli. Per me avevo scelto Rosi. In tutto quel periodo di solitudine forzata avevo iniziato a ripensare a tante cose: mi era preso anche il desiderio struggente di telefonare alla mia mamma, poi l’avevo cancellato. Spesso mi divertivo a ricordare i miei capricci da bambina. Non c’era mai un vero e proprio motivo per intestardirsi su qualcosa che desideravo per me o che volevo gli altri facessero. Era una prova a cui sottoponevo chi mi era vicino per misurare i loro sentimenti. Superata quella mi sentivo dolce e affettuosa con tutti. Forse non ero cambiata molto crescendo. Il mio programma di lavoro prevedeva l’uscita da casa, ogni mattina, alle ore sette e dieci. Qualche volta, sopra al pianerottolo del palazzo, incontravo un uomo che abitava l’appartamento accanto al mio. In genere cercavo di evitarlo anche se non sempre era possibile. Sua moglie dava l’idea della persona che origlia alla porta per riuscire a sapere i fatti degli altri. Non potevo rischiare niente, neanche che mi rivolgessero qualche domanda sottile, magari sorridendo. Così normalmente mostravo fretta, limitandomi ad un semplice e generico “buongiorno”. Il personaggio cui mi ispiravo era quello di una segretaria impiegata in una direzione assicurativa. Ma per tutto quel periodo nessuno chiese niente. Quasi ogni giorno cambiavo occhiali e parrucche seguendo i percorsi del mio obiettivo. Mi sedevo sopra una panchina, dentro a qualche bar, nella mia stessa auto, e mi annotavo gli orari dei passaggi, descrivendo tutti i particolari che osservavo. Non era troppo difficile far trascorrere l’intera mattinata mentre studiavo, con modo di fare disinvolto e insospettabile, tutte le possibili traiettorie seguite dal mio uomo. Al pomeriggio tornavo a casa presto, in genere verso le cinque, e sopra le piantine dettagliate delle strade cittadine ripercorrevo con matite colorate ogni tragitto. Tutte le informazioni che ogni volta riuscivo a completare le passavo ai miei compagni tramite i soliti foglietti. Gli avvistamenti del pomeriggio e della sera erano un compito di Lesli. Una sera andammo assieme nel quartiere residenziale interessato. Si fece un giro a piedi fingendo una passeggiata di piacere. In realtà tenevamo sotto osservazione tutto quanto. Non parlammo molto, giusto le cose essenziali. Poi Lesli decise di entrare in un bar. Il nostro uomo era rientrato in casa e non avevamo praticamente altro da fare. “Sei carina”, disse semplicemente, quando fummo seduti al tavolino. “Non avrei creduto di trovare dei tipi come te nell’organizzazione”. “Perché”, risposi, “cosa ci trovi di tanto strano?”. “Forse niente”, disse, “però immaginavo un mondo di duri che non si preoccupa del trucco o del rossetto, tutto qua…”. Guardai Lesli negli occhi e mi accorsi che era convinto di quello che diceva, così lasciai cadere l’argomento. “Ti sei visto con Frenchi?”, chiesi. Prese tempo, guardò qualcosa oltre le mie spalle, poi disse: “certo; qualche volta sono andato assieme a lui ad osservare i movimenti dei conoscenti del bersaglio”. Poi pensò qualcos’altro che voleva dirmi, ma rimase in silenzio, forse per evitare di parlare di sé....continua su "Parole o semplici frasi" di Bruno Magnolfi.

lunedì 17 gennaio 2011

I topi dentro la testa.




I topi già da diverso tempo avevano iniziato ad attraversare il margine del mio campo visivo. Succedeva maggiormente proprio nei momenti in cui mi sentivo tranquillo, a posto, senza pensieri. Certe volte accadeva che io mi piazzassi lì con la mente completamente sgombra da qualsiasi preoccupazione, ed ecco che d’improvviso un branco di quei maledetti spiccava una corsa da un angolo per andare a perdersi in qualche sfumatura lontana.

Agli inizi quasi mi divertivo, non ci trovavo niente di male in tutto questo: spesso arrivavano in due o in tre e si fermavano da una parte, mi guardavano con i nasi per aria, poi tutto perdeva di qualsiasi consistenza. Naturalmente in tutti quei casi io non davo loro alcuna importanza, anzi certe volte volgevo lo sguardo da tutt’altra parte, come a mostrare quanto poco interesse nutrissi per la loro presenza. Però mi ritrovavo in uno stato di agitazione, come se dovessi sforzarmi per conservare la tranquillità che dimostravo, eppure ero lì, seduto, senza che ci fosse qualcuno nei dintorni, a parte quelle bestiacce, a disturbare i miei comportamenti.

Osservavo con indifferenza la porta scura in fondo al lungo corridoio, le grandi vetrate luminose che si aprivano su un fianco, le piastrelle chiare e identiche di cui è coperto tutto quel pavimento. E’ una prospettiva usuale, monotona, che ho guardato per centinaia, forse migliaia di volte, mi sono sempre trovato benissimo per interi pomeriggi ad osservare le lente variazioni di luce là dentro, non ho mai avuto sobbalzi di nessun tipo, neppure quando qualcuno ha percorso quel tratto di corridoio fino alla porta. All’improvviso i topi arrivavano, giungevano davanti ai miei occhi dal margine, e in genere erano piccoli, rapidi, e come tante macchioline scure in movimento scivolavano sul pavimento e dentro al mio sguardo, poi si fermavano, a volte scorrevano lungo il muro di destra, altre volte attraversavano di colpo tutto quel corridoio, e infine sparivano, come d’incanto, contro la porta sul fondo, marroni sopra al marrone.

Trovavo odioso quello zampettare silenzioso sulle piastrelle, eppure non potevo fingere a lungo che niente accadesse, così avevo iniziato a spostare il mio punto di osservazione dalla parte opposta del corridoio. I finestroni pieni di luce mi rimanevano così sulla destra, e in fondo a tutta la prospettiva osservavo una porta del tutto simile all’altra, dalla parte opposta, vicino a dove mi ero piazzato, ma che stava, al contrario di quella, perennemente spalancata. I topi parevano spuntare proprio da lì, come se nelle stanze comprese in quell’ala dell’edificio si annidasse tutta la loro congrega.

Perciò mi alzai dalla sedia, mossi dei passi titubanti lungo quel corridoio, arrivai fino alla soglia dell’uscio spalancato, misi la testa dentro alle stanze, mi accertai che in quel momento non ci fosse nessuno, poi, quasi con impeto, chiusi la porta, immaginando così di bloccare l’accesso a quegli animali. Invece, quando mi voltai, rimasi del tutto sbalordito: davanti a me c’erano decine di topi, da piccoli a grandi, di colori più chiari e più scuri, con le code ora brevi ora lunghe, e tutti si erano fermati a guardarmi, con i nasi per aria, come in attesa di una reazione.

Urlai con quanta voce avevo dentro la gola, pur restando fermo dov’ero, non tanto per richiamare l’attenzione di qualcuno, quanto per provare se con quel rumore che producevo quei mostriciattoli se ne sarebbero andati, se fossi riuscito a metterli in fuga, a farli sparire obbligandoli a zampettare velocemente lungo quel pavimento. Al contrario, nessuno di loro si mosse, restarono fermi, continuarono per lunghe frazioni di tempo a guardarmi, forse ancora più minacciosi di prima, quasi fossero sordi ai miei urli, e solo alla fine, quando fu spalancata la porta di fondo da qualcuno che veniva in soccorso, in quella folata di vento che così si produsse, i topi sparirono tutti dal mio campo visivo, come non fossero neppure esistiti, esattamente come non fossero mai stati lì.

Bruno Magnolfi

domenica 16 gennaio 2011

Scena n. 14. Sogni e finzioni.



Ernesto è vestito elegantemente, addirittura con un fazzolettino di seta che sporge dal taschino della sua giacca. Arriva sul palco con passi lenti, fumando la sua sigaretta come se fosse talmente sicuro di sé da non aver bisogno di altro, se non quel suo sguardo ipnotico, quasi malato, di chi vive delle proprie convinzioni, e non ha bisogno di altro. Continua a fumare con i suoi gesti lenti, la faccia quasi una maschera, si guarda appena un po’ attorno, giusto per rendersi conto della scarsa mobilia da cui è circondato in quella stanza dove adesso si trova, quasi non fosse la casa che abita, quella dove vive la sua famiglia.

In un angolo una donna sta lì, seduta, immobile, non dice niente, non fa alcuna domanda, non ha bisogno di sentire la voce di Ernesto per sapere quello che pensa, e lui semplicemente la ignora, o almeno finge che neanche ci sia, o di non averla veduta. Lei guarda nel vuoto, ed è come se pensasse: a cosa serve vedersi, parlare, scambiare delle opinioni attorno alle quali trovarsi probabilmente d’accordo, oppure no? Neppure questo fa differenza. I miei pensieri spesso si alzano accompagnati dal vento, come aquiloni, ed io certe volte mi perdo seguendo le loro traiettorie. Nessuno mi segue in questi percorsi, così resto distante da tutti, anche dal mio compagno, è così, è inevitabile.

La donna si alza, fa due passi in avanti, si ferma davanti al pubblico immerso nel buio, e dice d’un fiato: sto bene, non c’è assolutamente da preoccuparsi; questa è la mia casa e qui dentro c’è tutto quello che nella mia vita sono riuscita a desiderare. I vicini e i conoscenti mi fermano spesso per strada, dicono che sono una bella signora, piena di vita e di allegria, si vede da lontano che tutto mi va a gonfie vele. Io lascio dire, abbasso lo sguardo per timidezza, forse mi schernisco perché, anche se non sono perfettamente d’accordo, certe cose mi piacciono, mi fanno addirittura arrossire.

Perché mai non dovresti essere d’accordo, dice Ernesto senza guardarla; in fondo quello che vedono quelle persone, risponde a verità. Oppure pensi che sia doveroso cercare di fingere qualcosa, affinché gli altri non stiano a chiederti cose che ti potrebbero creare disagio? In un caso o nell’altro non risulti essere affatto la persona che pensano, visto che certi aspetti dici ti piacciono, però non sai sostenerli, non ti interessa dire la verità, perché questa ti sembra vada a scapito di qualche altra cosa. Alla fine ti poni dentro una gabbia, e spieghi però che stai bene così.

La donna si volge lentamente verso il vestito elegante di Ernesto, poi torna a guardare la gente immersa nel buio. Non ci sono delle ragioni precise, dice pesando le sue parole; ma all’improvviso, dopo tutti questi anni, mi sento completamente da sola. Ho tirato su questa casa, questa famiglia, ma alla fine vedo che si è formata un’enorme distanza tra me e tutti gli altri. Per questo forse rifuggo da tutto, ma il percorso non è solo mio, è l’incomunicabilità generale che ci ha portati fin qui. Adesso mi accontento di sognare, e fingere certe volte che i sogni siano la realtà.

Ernesto si fa avanti, si rivolge al pubblico adesso con una espressione diversa, getta a terra la sua sigaretta, muove una mano come in aiuto alle parole che vorrebbe esprimere, muove il tronco, la testa, si guarda attorno, apre la bocca, si pianta dritto sui piedi, si irrigidisce, tira su il collo, spalanca i suoi occhi, guarda lontano, alle file più buie della platea che ha di fronte, a tutti coloro che lo stanno seguendo, che non perdono neppure un piccolo gesto; e infine: resta semplicemente in silenzio. Si chiude il sipario.

Bruno Magnolfi

giovedì 13 gennaio 2011

(Profilo n. 1). Il ribelle.



Oggi ho provato di nuovo ad uscire di casa. La serata precedente mi era parsa scorrere con grande tranquillità: avevo notato lungo la strada, ascoltando tutto da dietro i vetri della mia finestra, soltanto suoni usuali, quelli del traffico, della gente in movimento, le deboli voci di persone che continuavano a scambiarsi qualche opinione e ad attardarsi sopra ai marciapiedi giusto per il gusto di conversare. Così mi sono fatto coraggio ed ho affrontato le scale del mio condominio. Fuori dal portone del palazzo dove io abito, l’indifferenza pareva regnare.

Mi sono guardato attorno quanto potevo, ed in fondo alla strada, dove si apre la piazza, ho intravisto il solito gruppo di uomini anziani seduti sulle panchine. Ho attraversato per transitare con passo pacato proprio davanti alla bottega del salumiere, subito dirimpetto al mio condominio, ma lui, che stava come sempre dietro al bancone, ha fatto finta di non vedermi, anche se ho notato che mi guardava anche se giusto per un momento; forse, ho pensato subito dopo, era davvero impegnato con quel paio di clienti che aveva di fronte, non aveva alcun senso si preoccupasse di altro. Non è bello immaginare che qualcuno, tra le persone che mi conoscono almeno di vista nel mio quartiere, sia disposto a far finta di niente quando mi vede, oppure che cerchi addirittura di evitare il mio sguardo, così non ho voluto pensare una cosa del genere, e mi sono distratto fermandomi di fronte ad una vetrina, anche se non era interessato per niente a quello che c’era lì esposto.

Ho sentito alle spalle qualcuno che arrivava, due o tre persone, ho pensato, a giudicare dal rumore dei passi. Sono rimasto perplesso un attimo solo, poi mi sono girato con decisione restando sul posto, ed ho mostrato un’espressione ordinaria, naturale, senza lasciar sospettare alcuna preoccupazione. Si sono piazzati di fronte a me, mani in tasca, facce scolpite. Hanno ripetuto con quattro parole quello che già sapevo: nessuno ha più intenzione di sopportare il suo continuo isolarsi, hanno detto; c’è bisogno che lei prenda una posizione precisa, come tutti, che affronti le cose come facciamo noi altri, troppo comodo starsene in casa da solo ad osservare come vanno le cose. I tempi sono difficili, hanno detto, chi non sta insieme a noi certamente non risulta essere consenziente alla nostra causa, e tutti quanti in questo quartiere non possono affatto accettare una cosa del genere.

Io li ho ascoltati, mi sono sfiorato il viso con l’unghia del pollice, come a segnalare che stavo pensando a quello che mi era stato spiegato, poi ho abbassato lo sguardo, ho infilato le mani dentro alle tasche del mio cappotto, e infine mi sono scostato, sono passato tra loro senza curarmi di niente, ed ho continuato la mia passeggiata lungo la strada. Dicevano qualcosa intanto dietro di me, mentre io continuavo a camminare senza curarmi di nulla, ma non mi pareva di alcun interesse.

Bruno Magnolfi

mercoledì 12 gennaio 2011

Congetture inadatte al momento.




Sono stanco, mi sento stufo di tutto. Ho cercato mille volte di fare le cose che fanno quegli altri, di assomigliare alle persone che ho intorno, di essere un po’ come tutti, insomma; ma non ci sono riuscito, questa è la verità più antipatica, riesco soltanto ad essere quello che sono, e a me pare che in tanti siano semplicemente simili ad un modello preciso, all’individuo che finge si sentirsi bene con tutti, a quello positivo, vincente, apparentemente altruista, ed io non sono così, c’è ben poco da fare. Ho cercato quasi sempre di non stare da solo, di spendere il mio tempo libero insieme agli amici, di frequentare le partite di calcio, di ritrovarmi insieme a loro in un bar, poco lontano da casa, giusto per bere una birra, parlare di giocatori, di squadre o di donne, anche se niente di questo mi è mai interessato. O meglio, le donne si, ma non in quei termini in cui tutti si esprimono.

Poi ho girato da solo lungo le strade, giusto per cercare dentro di me quei pensieri svagati che magicamente riescono a farmi star bene, ed ho incontrato altra gente, altre persone che parlavano gesticolando, con la voce un po’ alta, quasi come fossero perfettamente sicuri di sé, dei loro modi, di quelle parole che usavano. Mi è sembrato, certe volte, tutto quanto giocato su un piano di supposizioni, che non ha quasi mai una base ben solida, come se fosse certezza che chi maggiormente riesce a fare tesoro dei luoghi comuni, è colui che non ha paura di niente e nessuno.

Infine mi sono seduto su una panchina di pietra, sono rimasto lì per un po’ a guardarmi le mani senza preoccuparmi di niente, e quando ho visto quella ragazza alla fermata che attendeva il suo autobus, non ho resistito ad andarle vicino e a cercare di parlare con lei. Sono stato cortese, mi sono presentato, non ho fatto alcuna domanda, ho detto soltanto che al solo vederla mi era parsa incantevole, e così mi sarebbe piaciuto almeno sentirne la voce. Lei si è schernita, ha detto che oggi non si sentono più galanterie di quel tipo, e che lei era timida, e spesso stava da sola.

Le ho chiesto di rivederla, per approfondire quella nostra conoscenza, ma lei ha detto immediatamente di no, non si sarebbe sentita a suo agio altrimenti, però se per caso ci fossimo di nuovo incontrati, se fosse successa la medesima cosa, probabilmente si sarebbe fermata volentieri con me a chiacchierare, perché le sembravo una persona per bene, si sentiva tranquilla a parlare con me, mi farebbe piacere, aveva detto alla fine senza guardarmi. Poi è arrivato il suo autobus e lei è sparita, mescolata là dentro insieme con tutti quegli altri. Ho girato ancora per strada, praticamente senza far caso alle vie e ai quartieri. E il giorno seguente sono tornato alla panchina di pietra, accanto a quella fermata, alla solita ora.

Quando lei è arrivata non ha detto niente, mi ha guardato solo un momento, poi ha girato lo sguardo in una direzione diversa. Sono qui per te, le ho detto, perché quello che ho detto ieri lo penso e lo sento dentro di me. Lei mi ha guardato di nuovo, ha detto d’un fiato che non dovevo tornare a cercarla, perché due come noi non servono a niente, non faranno mai niente: siamo gente che vive di sogni, di semplicità, di piccole cose che negli altri non trovano senso. Siamo male assortiti, ha aggiunto, due come noi non combinano niente, soffrono di tutto in silenzio, e poco per volta si spengono, come candele ormai consumate.

Bruno Magnolfi

sabato 8 gennaio 2011

Il più forte tra noi.




Non si può andare avanti così, diceva il ragazzo a voce bassa ma con tono deciso, convinto, che non poteva in alcun modo essere frainteso. Gli altri stavano intorno ad un flipper, dalla parte opposta della vasta sala del bar, e a giudicare dalla concentrazione con cui seguivano la pallina metallica in quella sfida a realizzare il punteggio migliore, non si stavano certo accorgendo della discussione in atto tra lui e quella ragazza. Il pomeriggio pareva avanzare poco per volta dentro quel locale monotono, come se un’inerzia di fondo lasciasse strascicare le ore, i minuti, i gesti pacati, le parole asciutte, quasi fosse impossibile articolare là dentro una frase compiuta, un discorso completo, un pensiero più definito.

Lei si era appoggiata alla finestra, nella zona meno illuminata della grande stanza, e qualche luccicone forse le era spuntato dagli occhi, ma il panorama del fiume cittadino di fronte, mentre scorreva lentamente in mezzo alle case, le stava dando un coraggio forse insperato. Va bene, aveva detto senza voltarsi; non andiamo più avanti, non ce n’è alcun bisogno. Anzi, evitiamoci, o meglio, lasciamo tutto così, senza darsi più appuntamenti per vedersi da soli; torniamo ad essere due della compagnia, senza alcun rapporto speciale, poi vediamo chi sarà il primo, o la prima, a fare un gesto verso quell’altro, o quell’altra.

Il ragazzo era rimasto in silenzio, forse non si aspettava una reazione del genere, né una scelta così radicale: si sarebbe aspettato una scena diversa, in cui si era quasi preparato a svolgere il ruolo del duro, quello che alle decisioni ci tiene, e sa reggere bene la parte che si è imposto. Così si era sentito quasi sorpreso, ma al contrario di quanto aveva pensato, gli pareva una grande alzata di ingegno quella sparata, quasi una sfida, un modo per vedere, tra loro due, chi aveva una personalità superiore. Ecco, pensava, così mi piace la mia ragazza, una che ha il coraggio di affrontare le cose, che non si crea alcun problema nel dire le cose che pensa, che chiude la porta, se è il caso, non sta lì ad attendere un gesto o una parola di carità o di consolazione.

Gli altri continuavano a seguire il gioco del flipper, lei osservava dalla finestra il cielo di fronte, sopra le case, come se non avesse bisogno di altro se non di quell’immagine di serenità, nel lento oscurarsi del tardo pomeriggio, e di quel senso del tempo che volgeva in avanti, lasciando a lei la possibilità di maturare pensieri e cercare riflessioni ulteriori. A lui, al contrario, gli era presa la voglia un po’ assurda di stringerla a sé, farle sentire che forse era disposto ad annullare ogni sua parola che adesso gli sembrava fuori luogo e sprecata, ma proprio mentre continuava a fissarla, ecco che lei si era voltata, lo aveva guardato appena un momento, poi, ignorando del tutto il suo debole sorriso, si era mossa rapidamente per raggiungere gli altri ragazzi.

Bruno Magnolfi

giovedì 6 gennaio 2011

Incomprensibile solitudine




Seduta ad un tavolino della saletta di un bar, la ragazza si era fatta servire una tazza di tè dal cameriere, poi aveva aperto un libro che aveva dentro la sua borsa, e ne aveva scorso velocemente alcune pagine, seguendo le parole, a dire la verità, con scarsa concentrazione. Intorno c’erano poche persone, una coppia di innamorati, tre giovanotti, un anziano da solo. Non aveva alcun motivo importante per starsene lì, non aspettava nessuno, non le piaceva neanche troppo il locale, eppure le era difficile pensare di andarsene, forse perché non sentiva alcuna voglia di mettersi in giro con il freddo che faceva senza una meta, e neppure tornarsene a casa per stare da sola era qualcosa che le sembrava accettabile, almeno per quel pomeriggio.

Lei insisteva da anni nel definirsi ancora una ragazza, ma la sua età un po’ più avanzata tendeva ormai a mostrarsi: i primi capelli bianchi si erano già fatti vedere, qualche piccola ruga ormai contornava i suoi occhi, qualcuna forse anche la bocca. Che schifo la vita, pensava certe volte, se ne va via senza che neppure abbiamo imparato come trattarla, in quale maniera starci nel mezzo, considerarla, spenderla; non si era mai spinta molto in avanti, lei, questo era vero, però che cosa poteva farci se era quello il suo modo di essere, il suo carattere? In fondo era riuscita a starsene spesso da parte, senza dare fastidi, anche questo era un valore, e lei si sentiva orgogliosa di non aver quasi mai fatto le cose che non le andava di fare.

Era da sola, anche se non per una sua scelta, ma ormai questo suo modo di essere le era diventato quasi un vestito che non riusciva proprio a non indossare, e non le importava neanche più niente che qualcuno del vicinato pensasse di lei come di una zitella. Certe volte si piazzava seduta, osservava le sue mani sempre curate, e si sentiva completa, come se non avesse bisogno di altro: zitella era una donna che non accettava la vita senza un rapporto di coppia, pensava, per lei era diverso, andava tutto bene così, non aveva bisogno di niente, rialzava la testa quando i vicini la salutavano, e cercava di apparire felice, sorridente, a posto e in armonia con le poche cose su cui poteva contare. Aveva poi ripreso il libro, leggiucchiato un’altra mezza pagina, bevuto un sorso finale di tè, infine si era decisa ad alzarsi ed uscire dal bar.

Fuori la serata era fredda, come già sapeva, ognuno per strada si stringeva dentro ai propri abiti, lei aveva sistemato bene la sciarpa e percorso senza fretta alcuni marciapiedi di quel suo quartiere. Era giunta davanti al portone del condominio dove abitava soprappensiero, senza quasi rendersi conto, così aveva cercato la chiave nella sua borsetta, l’aveva inserita ed era entrata dentro l’ingresso, richiudendo velocemente l’uscio dietro le sue spalle. Un suo vicino del piano superiore era giunto in quel momento scendendo le scale, l’aveva salutata con un sorriso, lei aveva risposto, e infine, rallentando ambedue i propri movimenti, si erano guardati più attentamente, come alla ricerca di qualcosa di sensato da dirsi: fa freddo fuori, aveva spiegato lei; e camminare per strada da soli certe volte è pesante. Lui l’aveva guardata negli occhi, si era soffermato ancora un momento, quasi ad indagare su qualcosa di cui non aveva alcuna idea, poi era tornato con gesto lento ad aprire il portone, e infine, senza neppure riuscire a dirle niente, era uscito da lì, quasi di fretta.

Bruno Magnolfi

mercoledì 5 gennaio 2011

(Profilo n. 7). Qualcosa nella vita.


Certe volte davanti a me vedo una macchia. Sul muro bianco della stanza improvvisamente è lì, l’osservo senza muovermi e quella si allarga, lentamente, poco per volta si apre come un fiore colpito dalla luce. I miei familiari mi chiamano dalla sala da pranzo, vogliono che stia con loro, mi sieda al loro tavolo, faccia in modo che la conversazione allieti i pranzi e le cene, e che si affrontino insieme, quando è possibile, i piccoli problemi quotidiani dai quali siamo afflitti.

Resto in silenzio, la maggior parte delle volte, gli argomenti di cui parlano tutti neppure mi interessano, e poi non ho mai avuto la vocazione a dire a voce alta quello che penso o a riflettere collettivamente su qualcosa. Preferisco guardare nel mio piatto, sollevare lentamente le posate sminuzzando ogni cibo in tante piccole porzioni di misura quasi identica, e portarmele alla bocca con gesti attenti, quasi studiati, muovendo la mascella per la masticazione in maniera garbata, lineare, quasi elegante.

Certe volte mi guardano; la moglie di mio fratello, con la sua voce stridula, dice qualcosa su di me, mai riferendosi a me direttamente, ma come cercando in modo subdolo di tirarmi dentro al suo continuo conversare, e subito qualcuno mi chiede qualcosa, se sto bene, se procedono bene le mie meditazioni sull’eternità e sull’assoluto. Lo dicono per ridere, lo so, è come se non avessero alcuna fiducia nella mia organizzazione dei pensieri, ed io annuisco con la testa, giusto per far tutti contenti, per lasciar credere loro tutto quello di cui sentono la voglia.

Poi alzo gli occhi: sopra al muro la macchia si apre, assume colorazioni diverse pur rimanendo sempre scura, è come se desse profondità alle superfici, quasi scavasse dentro alla parete, nella materia, allargando se stessa corrodendo l’intonaco, il cemento, i mattoni, continuando a lavorare lentamente, con i bordi sempre in movimento, alla ricerca spasmodica di abbracciare tutto, di allargarsi ad ogni cosa possibile. Torno al mio piatto, mastico, muovo le posate, afferro una parola bisbigliata da qualcuno, i bambini seduti sopra le sedie rialzate dai cuscini ridono e si stuzzicano tra loro.

Mi muovo, chiedo qualcosa a bassa voce, tutti si voltano a guardarmi: no, dico, non volevo disturbarvi, solo dell’acqua, per favore; parlo in modo affrettato, stendendo leggermente una mano ad indicare la caraffa, ma tutti ne guardano il dorso ossuto, la posizione tremolante, forse pensano che non stia bene, si preoccupano di me, lo sanno che non voglio, che non c’è niente di diverso dal normale. Bevo un sorso d’acqua e sento gli occhi che continuano ad osservare ogni mio gesto, così riprendo le posate e ricomincio come prima a mangiare e a masticare, anche se loro hanno già finito. Sottovoce parlano di me, almeno mi pare, spesso fanno così.

I bambini si alzano, non ce la fanno più a rimanersene ancora seduti, qualcuno dice qualcosa di allegro, si portano via i piatti sporchi dalla tavola. Anch’io mi alzo, nessuno mi chiede di aiutare alla risistemazione della sala da pranzo, al riordino di tutte le cose che abbiamo usato: mi hanno visto, sono stati con me, hanno constatato anche oggi la mia condizione, adesso posso tornare nella stanza, riprendere con tutti i miei pensieri, non servo a niente, e darei solo fastidio a girellare per la casa. Così sparisco, affondo nella mia poltrona, prendo in mano un caro vecchio libro che ho letto e consultato ormai migliaia di volte, e infine torno ad osservare il muro, nell’attesa che la macchia ricompaia.

Bruno Magnolfi

lunedì 3 gennaio 2011

Una traccia di niente.




Il freddo della tarda serata gli era entrato fin dentro le ossa, pur camminando lungo i marciapiedi deserti ben avvolto dentro al cappotto, e i suoi pensieri si erano come disciolti in quell’umidità e nella leggera foschia della notte, tanto da essere ormai inconsistenti, privi di forza. Lui andava avanti, un passo dietro quell’altro, quasi senza impegnarsi, e la sua mente poco alla volta si svuotava di tutto, con le case e le strade ai suoi occhi sempre più identiche, i lampioni ronzanti di luce bianca, il cielo di sopra solo una cappa fuliggine.

L’altro, alle sue spalle, si muoveva più svelto: si sentivano lontani sopra le pietre i tacchi ritmici delle sue scarpe, e quel suo passo spedito dava il senso di un luogo dove giungere in fretta, probabilmente la sua abitazione, o chissà cosa. Lui non si volse, cercò soltanto di immaginare con quei pochi elementi la persona che si avvicinava, e gli parve qualcuno che forse poteva conoscere, magari un amico di quelli che a volte incontrava al caffè.

Accelerò leggermente la sua camminata, in modo da far durare più a lungo quella sensazione leggera di inseguimento, poi, in prossimità di un passaggio pedonale, si decise ad attraversare la strada, voltando lo sguardo dietro di sé quasi per norma di sicurezza, osservando per un attimo la strada vuota e l’uomo che continuava a camminare spedito verso la sua direzione. Poteva essere chiunque con il viso coperto da quel largo cappello, pensò; eppure gli ricordava qualcuno, tanto da decidere quasi di attenderlo per salutarlo.

L’altro all’improvviso dette due o tre forti colpi di tosse, fermandosi giusto un momento per cercare dentro una tasca il suo fazzoletto, quindi soffiò rumorosamente col naso, poi riprese a camminare, ma più lentamente. Lui si mosse, attraversò la strada senza perplessità guardando in avanti, fino a raggiungere il marciapiede di fronte, quindi tirò fuori una sigaretta, l’appoggiò con delicatezza alle labbra tornando subito a far sprofondare le mani dentro al cappotto. Continuò così a camminare, un’auto elegante transitò quasi senza rumore, poi lui si accorse che l’altro stava attraversando a sua volta la strada.

Si fermò per attenderlo, voltandosi solo di fianco, l’altro lo raggiunse nel giro di una decina di passi: ha da accendere? gli chiese con voce bassa e parole scandite. L’altro non gli rispose, lo aveva guardato soltanto un momento, ma davanti ai suoi piedi si era fermato all’improvviso, tirato fuori un accendino d’argento, e fatto scoccare una fiammella giallastra. La piccola nuvola di fumo si sollevò svelta, lui disse: grazie, quasi senza calcare quella parola. L’altro spense la fiamma in un piccolo scatto meccanico, poi lo guardò, lasciando scivolare l’accendino dentro una tasca, e infine disse soltanto: le pare? Poi passò avanti, riprendendo la sua camminata.

Bruno Magnolfi

sabato 1 gennaio 2011

La solitudine dello scrittore.

Quando chiudo gli occhi una luce mi illumina i pensieri, e la mia mente inizia ad inseguire volti, figure, immagini di altrettante persone che non so chi siano, non ho mai conosciuto, ma che per qualche motivo trattengo da lungo tempo dentro di me, e loro tornano ogni volta a farsi vedere, a compiere gli stessi gesti, a riempire il mio campo visivo. Questa gente mi guarda, mi scruta, qualcuno tra tutti gli altri mi viene più vicino, dice qualcosa, anche se sottovoce, usando parole per me incomprensibili, come se parlasse una lingua sconosciuta, e gesticolando in modo misterioso.

E’ come se la scena si ripetesse ogni volta, sempre la stessa, io abbasso le palpebre e i miei occhi lentamente si girano al contrario, andando a guardare dentro di me, iniziando subito a vedere tutte quelle persone che restano lì, in piedi, senza fare niente, solo aspettando il momento quando io torno tra loro. Ho tenuto il mio segreto per tanto tempo, non volevo si dicessero cose strampalate su di me, così evitavo le persone, mi chiudevo dentro al mio segreto, evitando qualsiasi contatto, anche qua dentro, in questa clinica psichiatrica.

C’è un medico, apparentemente uno come gli altri medici che girano in questa palazzina, difatti non lo avevo mai notato in precedenza, ma può anche darsi che sia arrivato solo ultimamente: lui si piazza lì e mi guarda, certe volte mi pare assomigli a qualcuno di quelli che vedo solo io. Anche lui dice qualcosa sottovoce, con parole incomprensibili, proprio come quelli che vedo solo io, così mi è sembrato di capire che quel medico faccia parte della schiera di persone che sta dentro di me, o che in qualche modo abbia qualcosa a che fare con tutti loro.

L’ho evitato, per un po’ di tempo, come faccio sempre con chiunque; poi l’ho fermato con un gesto della mano, proprio davanti a me, quasi sui miei piedi: l’ho guardato, e anche lui ha fatto la stessa cosa, senza dire niente, e alla fine io ho chiuso le palpebre ed ho sentito gli occhi che si giravano dentro di me. Poi non so che cosa sia successo, ma quando ho guardato i visi delle persone che come sempre stavano davanti a me, ho visto che c’era anche lui insieme agli altri, c’era anche il dottore. Mi hanno legato al letto con delle fasce, mi hanno costretto a restare qui, sdraiato, senza poter fare più alcun gesto, qualcuno ha detto che potrei farmi del male, e nel trambusto di tutto quello che è accaduto ho visto che c’era anche lui, quel dottorino nuovo che conosce il mio segreto: ci siamo fatti un gesto, quando ci siamo guardati, appena un battito di ciglia, un’inezia impercettibile, quasi per dire, ma cosa importa tutto questo, ci vediamo dopo, insieme agli altri, dall’altra parte.

Bruno Magnolfi