lunedì 28 marzo 2011

Nessun aiuto.





C'è qualcosa dentro di me che agisce in maniera un po' insolita. Nella mia mente i pensieri fluiscono veloci ed illogi­ci, e spesso hanno valore soltanto per come si snodano, per il loro concatenarsi l'un l'altro; ma non sono né perspicaci né uti­li, anzi, nel giro di poco me li dimentico tutti. Mi sveglio nel letto in un turbine di sogni leggeri del tut­to inconcepibili, e inizio subito a riflettere sulle cose più stu­pide: ridisegnare nella mente la disposizione della stanza, im­maginare il mio corpo disteso prendendo come punto di osservazio­ne il soffitto, cercare di ricordarmi dove ho messo alcuni piccoli oggetti che non vedo più da chissà quanti mesi.

Poi mi concentro, sulle mie mani, sui piedi, e rimanendo im­mobile come mi trovo, mi sembra quasi di non avere più gli arti, di non avere più ossa, neppure più un corpo. Mi è rimasto sol­tanto il cervello, sanguinolento e pulsante, un poco schiacciato per colpa del peso, senza neppure la scatola cranica, adagiato sopra al cuscino in una larga macchia rosata. Per quel po' di pendenza che c’è, scivola piano sulla coperta, o for­se semplicemente si muove, come una colonia di vermi, un grumo di bachi giganti bianchicci che continuano ad annodarsi tra loro, senza una pausa, come cercando qualcosa, forse in preda a uno spa­smo, a un delirio, provocando, nel nocciolo interno e profondo di quel mio cervello, pensieri impossibili, immagini assurde, sensazioni che non hanno criterio, nessuna parvenza di logica.

Sporgo lo sguardo dalla finestra e mi concentro sui sassi, sui piccoli pezzi di carta, sui mozziconi di sigaretta schiaccia­ti, giù sulla strada, tra gli spigoli dei marciapiedi. Vedo le fogne, le grate di ferro robuste che nascondono i cunicoli, le profonde raccolte di acqua melmosa, gli scarichi putridi, dove pullulano centinaia di specie di insetti, di topi voraci, gri­giastri, ognuno identico all'altro. Sopra al davanzale della finestra il cervello si sporge, come cercando qualcosa, e alla fine cade di sotto, lasciando un filo bavoso che ciondola proprio attaccato allo spigolo. Un male terribile, da tutte le parti; una botta tremenda, e tutto quanto che a pezzi risulta scagliato lontano, nel raggio di sette o otto metri.

E allora ecco che i topi e gli insetti impazziscono, rompono il ferro, fanno saltare le grate, e corrono a mordere, adden­tare con voracità ogni piccolo pezzo, ogni verme impazzito; mangiano, strappano, facendo piccoli rumori rivoltanti, lasciando dappertutto sottili fili di sangue, e accanendosi sulle parti più dure, le parti callose, più bianche e compatte, mordendo con gran­de rabbia, quasi con odio.

Di fronte alla strada una finestra si apre, qualcuno osserva la scena con sguardo impassibile, senza mostrare emozioni. Poi lei, perché è lei che mi guarda, lentamente rientra dentro alla stanza, e con gesti pacati, con mani quasi carezzevoli, richiude la finestra, i vetri, gli scuri, tira anche le tende, come ad in­terrompere il flusso tra l'interno e l'esterno, a ricomporre la fida barriera, il giusto divario tra ciò che si vuole capire e ciò che minimamente ci attrae, o che pur reclamando interesse, as­solutamente non ne merita nulla.


Bruno Magnolfi

domenica 27 marzo 2011

Di nuovo primavera.


Resto seduto, in questa piccola stanza quasi vuota, ammobiliata solo con un tavolo di legno ed una libreria, e mi sento bene a leggere qualcosa, sfogliare vecchi volumi che in molti casi ho letto già, ma in cui riesco a ritrovare sempre cose nuove, frasi e parole su cui la volta precedente non mi ero sufficientemente soffermato, e mentre svolgo questa attività mi sembra spesso di non aver bisogno di nient’altro.

Poi però penso a quante cose ci possono essere fuori, fuori da qui, dai miei pensieri, da queste pagine consunte, e allora torno ad osservare quello spicchio di strada che si vede dalla mia finestra, e mi sembra che tutto sia ordinario, monotono, consolidato, come se, qualsiasi cosa potessi mai trovare dentro alla mia testa o in queste pagine, sarebbe comunque qualcosa che non vale, che non porta alcuna novità.

Mi sollevo dalla sedia, cammino dentro alla mia piccola stanza, e mi sento nervoso, preda di un tormento che giunge dal di fuori, ed è come se tutti i miei pensieri subissero un attacco alla loro legittimità, o come se non fosse giustificato neppure ciò che penso, o tutto quello che riesco a riflettere sopra a questi libri, proprio come se le pagine che sfoglio fossero rimaste preda della loro bella età, risultando vecchie, una volta per tutte, fuori scala, senza possibilità di dire altro.

Apro la porta, esco in corridoio, indosso velocemente la mia giacca e scendo senza tentennamenti le scale di questo condominio: fuori non c’è niente, niente che io abbia altre volte visto e riflettuto, eppure oggi c’è il sole, forse è primavera, la giornata è calda, l’aria piacevole, come qualsiasi altra primavera.

Bruno Magnolfi

sabato 26 marzo 2011

Solo in linea teorica.



Il vecchio appariva concentrato su qualche pensiero, lo si poteva capire dall’espressione assorta del viso mentre con calma spingeva la porta vetrata per entrare dentro al piccolo negozio, ma contemporaneamente aveva subito dato come l’impressione di essere lì quasi per puro caso, forse addirittura per sbaglio. Aveva lasciato che la porta meccanica si chiudesse alle sue spalle, si era avvicinato al bancone dove Alfio Neri stava controllando qualcosa dietro al suo registratore di cassa, ed era rimasto lì, probabilmente nell’attesa che l’altro alzasse lo sguardo. Era restato nell’aria un attimo di silenzio, sospeso dentro al negozio deserto, quasi come una pausa all’interno della quale risultava praticamente impossibile dire veramente quello che si vorrebbe; poi, alla fine, il vecchio aveva mosso le labbra, forse bisbigliando un timido buongiorno, e subito, come correggendosi, aveva affermato, nella medesima aria, ma con voce leggermente più decisa: ho bisogno di una saponetta.

La luce al neon azzurrina su in alto dava nell’ambiente un senso sgraziato a tutte le cose; al contrario, attraverso i vetri dell’entrata si vedeva all’esterno il sole chiaro della mattina illuminare la strada e le poche persone che giravano sui marciapiedi. Il vecchio non aveva detto di voler acquistare una saponetta, ma solo di averne bisogno. Alfio Neri invece non aveva detto niente, si era limitato a guardare il cliente per un momento, forse senza neppure vederlo, poi aveva abbassato di nuovo lo sguardo, come attratto irresistibilmente da quei suoi conti che andava controllando, limitandosi, con una mano appena distesa, ad indicare una posizione sopra ad uno scaffale, fra quei tre o quattro che componevano il suo punto vendita.

Il vecchio si era voltato come rispondendo ad un meccanismo automatico, si era accostato con poca convinzione allo scaffale indicato, e aveva osservato le confezioni che vi erano esposte. Di fatto non aveva toccato niente, limitandosi ad osservare i colori sgargianti dei pacchetti, le etichette dai nomi più fantasiosi, le quantità di scorta di ogni prodotto. Infine si era voltato, tornando di nuovo a scrutare la sagoma di Alfio Neri, e come per ridere, ma senza alcuna inflessione, gli aveva spiegato: forse avrei preferito ne avesse avuta una sola di saponette dentro al negozio; o magari di un solo tipo: adesso non riesco a capire se devo lasciarmi guidare dalle marche oppure dai colori, ma infine, a pensarci per bene, non credo neppure di averne tutto il bisogno che mi immaginavo.

Il negoziante era tornato ad osservare il cliente, ma adesso con maggiore attenzione, aveva seguito le ultime parole che il vecchio aveva riferito restando praticamente immobile, senza sapere neppure cosa obiettare, sempre che un’obiezione potesse esser stata utile al caso: in fondo avrebbe potuto dare qualche indicazione aggiuntiva sulle sue saponette, pensava, oppure incoraggiarne l’acquisto di una piuttosto che un’altra spiegandone il prezzo, o la qualità, o chissà cosa d’altro, ma quel cliente che aveva di fronte era disarmante nelle sue riflessioni, così si era limitato a guardarlo da sopra le lenti dei suoi occhiali, come se tutto ciò che era utile fosse stato lì, su quello scaffale.

Il vecchio con calma era tornato verso il bancone, aveva appoggiato leggermente le sue mani grinzose sul bordo del piano e aveva chiesto con convinzione a Alfio Neri a quale ora chiudesse quel suo esercizio: alle tredici, gli era stato risposto, e questa era parsa la spiegazione più necessaria di tutte, tanto che anche il negoziante si era sentito più sollevato. Poi il vecchio era rimasto un altro attimo solo in silenzio davanti al commerciante, e lo aveva guardato dritto negli occhi come mostrando una specie di smorfia nel suo viso solcato dagli anni. Infine aveva solo detto: grazie; e così era uscito.

Bruno Magnolfi

martedì 22 marzo 2011

Libertà di ridere.



Procedeva lentamente con la sua utilitaria, la signora Adele Macchi, lungo la strada per tornarsene a casa, quando le venne da ridere, ma senza un vero motivo, solo così, per una voglia improvvisa e inspiegabile. Accostò con l’auto vicino al marciapiede, fermò del tutto la marcia per guardare qualcosa dentro la borsa che teneva appoggiata sopra al sedile al suo fianco, e lasciò che la sua risata nervosa terminasse di sfogarsi del tutto. Poi osservò qualcosa nello specchietto retrovisore, sistemò velocemente qualche ciuffo dei suoi capelli, e si sentì subito pronta per innestare di nuovo la marcia e tornarsene a casa.

D’improvviso però, nonostante le fosse completamente passata la voglia di ridere, le parve, alla signora Adele Macchi, che come non aveva motivo di divertirsi, ugualmente non ne aveva per andarsene a casa o da qualsiasi altra parte. Dette ancora un’occhiata a se stessa nello specchietto, con il motore della vettura ancora in movimento: le sembrò di vedere i medesimi occhi, il medesimo sguardo, la solita espressione di sempre, solo qualche ruga più accentuata, qualche sintomo in più di quegli anni che procedevano convulsamente.

Girò la chiavetta e ogni vibrazione all’interno dell’auto scomparve. Rimase immobile nella sua posizione e in silenzio, ancora per qualche momento, la signora Adele Macchi, poi abbassò il viso a guardarsi le mani, le unghie curate, gli anelli che portava alle dita, il bracciale a catena girato attorno al suo polso. Non c’era niente di diverso dal solito, eppure tutto sembrava precipitare. D’un tratto niente pareva avere più senso, se non quel rimanersene lì, al bordo di una strada qualsiasi, come se per procedere in qualsiasi direzione ci fosse stata la necessità di un vero motivo che al momento lei non trovava, o che forse non aveva mai avuto.

Attese che alcune auto le passassero vicino lungo la strada, che certe persone forse la notassero mentre si tratteneva nella sua utilitaria, poi nervosamente tirò la levetta di apertura dello sportello e scese dalla vettura. Due file di alberi disegnavano il profilo di quel tranquillo viale, ai bordi dei marciapiedi bassi muretti contornavano aiuole e piccoli giardini davanti alle case. Faceva un po’ parte della sua vita tutto il quartiere, anche quel lungo viale era lo stesso che percorreva ogni giorno, però adesso c’era qualcosa nell’aria che la signora Adele Macchi non riusciva compiutamente ad afferrare, qualcosa su cui non aveva mai riflettuto, e che adesso era lì, davanti a lei, a mostrarle come la realtà fosse composta da punti di vista, da opinioni diverse su ciò che spesso sembra definitivamente assodato.

Si appoggiò alla fiancata dell’auto, la signora Adele Macchi, e si lasciò scivolare per terra, fino a sedersi sopra l’asfalto, indifferente a qualsiasi altra cosa. Qualcuno la notò, intervenne verso di lei, le chiesero se stesse bene, se tutto fosse ancora sotto controllo. Sul momento lei non rispose, poi fece cenno di si con la testa, e qualcuno delicatamente le prese un braccio per aiutarla a rimettersi in piedi, ma lei rifiutò quell’aiuto, mostrando di voler restare dov’era. Altri si avvicinarono, qualcuno forse la riconobbe, e quando nessuno se lo sarebbe aspettato, lei si lasciò andare in una profonda e sgargiante risata. Nessuno comprese il motivo del suo atteggiamento, eppure lei sentiva di star bene così, d’improvviso perfettamente a suo agio, che la sua dignità era più forte di qualsiasi altra cosa, e che in fondo era questo l’elemento importante.

Bruno Magnolfi

venerdì 18 marzo 2011

L'analisi del tempo presente.



Sto seduto nel bar, al margine della piazza di questo paese, mi siedo quasi sempre al solito tavolo dove ho già trascorso una buona parte della mia vita. Forse non avrei dovuto, ma non mi sono mai sentito di occuparmi di altre cose, mi è sempre bastato star qui, andare qualche volta nella saletta sul retro, dove giocano al biliardo, scherzare con quei soliti amici, oppure, quando quelli devono ancora arrivare, osservarmi attorno restando seduto dietro a questa vetrina. Guardo la gente, le figure che scorrono davanti ai miei occhi, le persone del paese che camminano sui marciapiedi, le auto che scivolano lungo la strada, e non trovo mai niente di diverso in quello che vedo, o almeno non sufficiente da portarmi verso riflessioni che non siano le solite, i medesimi pensieri che da sempre scorrono nella mia mente.

Mi lascio servire il caffè, accostandomi al bancone del bar, e ci impiego tutta la calma che serve, come compiendo un piccolo rito, e la realtà intanto mi scorre davanti, qualsiasi cosa mi pare sotto controllo, non c’è alcun bisogno che mi affanni a guardare o ascoltare i segnali complessi che forse giungono a me, ma che in nessun caso mi preoccupo di prendere in considerazione. I miei movimenti sono metodici, ben calibrati, non c’è mai niente di diverso dal solito, compio quasi i medesimi gesti ogni giorno, e anche se non mi sento del tutto soddisfatto di quanto succede, o di questo perenne non accadere, ritengo che tutto sia sempre meglio che ritrovarmi deluso, impegnarmi, sforzarmi in qualcosa solo per scoprire che non serve, non va proprio da alcuna parte.

Conosco da sempre il barista, lui certe volte mi guarda, ma non mi chiede quasi mai niente. Forse ha un’opinione di me, del mio stazionare ogni giorno nel suo locale, ma a me non interessa, mi lascio servire qualcosa, allungo sul banco i suoi soldi, nient’altro. Le giornate proseguono in modo monotono, somigliandosi tutte, eppure io vado lì, mi siedo senza pensieri, e mi sembra subito triste il mondo là fuori, quello che rimane oltre le vetrine del bar. Certe volte qualcuno si prova a dire qualcosa di divertente, a prendere in giro gli aspetti del mondo sotto agli occhi di tutti, ma io non ci bado, non ho le parole per ribadire le battute che ascolto, lascio che tutto prosegua, come la calma che circonda il vuoto dei miei pomeriggi.

Certe volte, poi, mi sento stufo di starmene lì: allora mi alzo, saluto tutti, me ne vado scivolando lungo la strada, fuori da quella vetrina del bar, ed allora mi sento uno qualsiasi, un individuo senza alcuna caratteristica, uno che rincasa perpetuando le assodate abitudini. Non mi sento neppure affezionato particolarmente a quel bar, a quei tavolini, agli amici che incontro là dentro: eppure non potrei farne a meno, in fondo la mia vita gira lì attorno, non c’è niente che debba essere cambiato, niente di diverso da quello che è stato deciso per me.

Bruno Magnolfi

giovedì 17 marzo 2011

Il messaggio perduto.



Quei pochi alberi svettanti sotto al vento, laggiù, in fon­do alla strada. Un'ironia, nient'altro che una stupida ironia. Il resto è fermo, un panorama di oggetti che è come un quadro pesantemente inchiodato a una parete spessa, fermissimo, come co­stituito di sali già decantati e ben solidi e asciutti sopra la tela, come se questa fosse un rigido insieme, un corpo ormai uni­co con il muro al di sotto.

Questa strada è ancora deserta, i miei vetri sono opachi, offuscati dal mio alito. Tutto quanto è fermo, anche il tempo. E la casa di fronte appare leggera, friabile, con pareti lisce al cui interno si annidano porosità senza fine, bolle d'aria mi­nute disperse all'interno dei muri, da tutte le parti. Un biscot­to, da prendere con la mano e spezzare; qualcosa di leggero che cede facilmente sotto a una forza pur minima, che si può frantu­mare, che si sbriciola.

Difficile scrivere un messaggio. Articolare alcune parole dotandole di un senso compiuto; girare attorno a qualcosa che as­suma via discorrendo più importanza, giocare magari su un senso o su un altro di una parola un po' ambigua, e arrivare diretti a spiegare ciò che si ha in mente, o almeno lasciarlo capire. Scivolare leg­geri sulla propria speranza annidata tra i puri pensieri e conclu­dere con un qualsiasi gesto eloquente di chiara generosità. Innestare il contatto, o almeno provarci, senza rudezze, sen­za cercare forzature; lasciare che scorra qualcosa di leggero, come una piccola vena subito sotto la pelle, azzurrina e contorta, che abbia in sé qualcosa di fresco, un senso di vita, una voglia di nuovo. Un piccolo ruscello di acqua leggera, ecco, che scenda saltellando da un picco, da una roccia riarsa, ingiallita, e an­naffi più a valle le radici di un bosco assetato.

Ecco, questo è ciò che avrebbe importanza; trovare un sistema qualsiasi, una formula di natura casuale che allacci un insieme che prima non c'era, che produca un collegamento diretto su una base completamente inventata, che assuma un valore decisamente non ignorabile, e in ogni caso abbia il senso di qualcosa che rima­ne in sospeso, con degli sviluppi del tutto imprevedibili.

Parlare di cose del tutto inventate, il più possibile eteree, senza fornire un fattore preciso che costituisca possibilità di raffronti; sorvolare su tutto, quasi come si parlasse di niente, ma tenere ben fermo il filo sottile, insinuante, dell'enorme pas­sione che giustifica il tutto, che sostiene ogni passo, qualsiasi follia. Dimostrare un poco di estro, la capacità di essere aperti, di esse­re capaci di andare anche più in là. Mostrare il proprio coraggio, senza vantarsi, solo come sortisse dalla propria natura, dalla propria porzione di noi non controllabile.

E lasciare intuire, non segnalandole, meditazioni su tutto, sui fatti importanti da cui siamo dominati, sui grandi valori ri­masti invariati dall'alba dei tempi; ed essere chiari sul saper cogliere l'attimo giusto di ogni cosa, come un dono di natura che permetta ogni volta di conoscere il momento adatto per compiere un gesto, per dire una cosa, per farsi sentire. Dietro si muovo­no esperienze inaudite, forse grandi viaggi, un filo di fascino per qualcosa che non è chiaro, come una fuga non ancora realizzata, apparsa in un sogno, in una visione improvvisa. Introspezioni decisamente particolari, personalissime, come una metà di se stessi che lotti con l'altra metà, e dimostri co­scienza, grandi intuizioni, e forse anche una certa stravaganza, ma dia anche il senso, indubbiamente, di una grande sensibilità. Traumi infantili assorbiti nel tempo con coraggio deciso, una volontà sicura; e forse grandi avventure, o voli pindarici vissuti ad occhi aperti, ad assorbirne quasi il succo, la linfa vitale.

Personaggi incredibili che sorgono certe volte dall'ombra, sfu­mate conoscenze che rimangono in sfere sospese per anni lunghissi­mi, finché escono fuori improvvise, e gettano una lingua di lu­ce, un nuovo colore, una diversa maniera per guardare le cose. E poi grandi scelte, sembianze magari bizzarre che nascondono in fondo delle idee maturate nel corso di anni, come uno stesso pen­siero affrontato e risolto ogni giorno, fintanto che il suo risul­tato non diventi un bisogno, un'enorme esigenza: una voglia di nuovo, di vita diversa. Qualcosa a cui appas­sionarsi, applicarsi in maniera totale, anche senza sembianze da grande motivo, da fede abbracciata. Un interesse piccolo e stu­pido ma che interiormente sia un fiume, una forza, un evento, una grande invenzione che dia più impulso alla vita, che scavando ne scopra significati diversi, e lasci accettare anche il resto, anche i fatti più tristi, le cose più grigie, le giornate più vuote.

Nuovi tempi, da scoprire all'interno del già collaudato, nei monotoni giorni che scorrono, nei soliti gesti, nei medesimi ogget­ti di sempre; e una fiamma all'interno che ne bruci la patina, che ne tolga quel velo impossibile, quella polvere fine e antipa­tica depositata negli anni. Fantasmi di sensi, di idee, di im­possibili elogi neppure considerati al momento, o scartati per forza, sepolti da solenni risate; ed ora risorti da una memoria incoerente, da un gusto di antico, o usciti da dentro in un urto di vomito, impastati framezzo alle solite cose, alla noia, al di­sprezzo, ai succhi linfatici di un corpo non sano.

E poi quel "perduto" che sempre ritorna, tra il senso di im­broglio che genera il proprio cervello, tra le cose fissate, inu­tili, assurde, e i pensieri smarriti, le riflessioni importanti che una volta erano là, ne siamo sicuri, ed adesso si staccano e scemano, sfuggono, si riducono ad appunti infantili, organismi imprecisi, sacche già usate che trattengono poco, e in più perdo­no proprio quel senso importante di uso che le ha ridotte così.

Difficile scrivere un messaggio; parlare di tutto a una per­sona che sfugge, che io non conosco, che ogni parola può interpre­tare in maniera diversa, dandole un altro valore, un diverso significato, che magari risulta protesa verso qualcosa che per me è incomprensibile, o si perde dietro a luoghi comuni, a quotidia­ne tristezze. Forse i suoi sensi percepiscono cose che a me so­no sfuggite; forse i suoi occhi vedono fatti che mai, in ogni ca­so, riuscirei ad osservare. Tra me e lei sicuramente c'è un baratro, differenze incredibili, e solo con sforzi pazzeschi pos­so tentare un collegamento di qualsivoglia natura.

Forse è solo un'idea, una ricerca utopista, un tendersi e­stremo in un gioco perduto in partenza; è il credere profondamen­te in qualcosa che si sa già impossibile, ed è forse per questo che diviene più serio, ancor più impegnativo. Una battaglia sen­za nemico, nella quale annullare se stessi, il realizzarsi di un sogno a cui concedere tutto, indifferenti a qualsiasi risultato.

Quegli alberi dritti, infilzati per terra, che non chiedono nulla ed offrono ancora di meno; e inchiodano il quadro, lo ten­gono immobile, come tutto qua attorno, come la gente che passa.

Bruno Magnolfi

lunedì 14 marzo 2011

L'arrivo imminente.


L'arrivo imminente.

Clelia lo aspettava, sapeva che lui sarebbe arrivato prima o poi, non era possibile tardasse ancora più a lungo, lei lo sapeva perfettamente, lo sentiva dentro di sé, sarebbe arrivato da un attimo all’altro, senza alcun preannuncio, come se la sua comparsa fosse l’evento più naturale di tutte le cose che sarebbero potute accadere. Aveva riflettuto a lungo su quegli ultimi avvenimenti, Clelia, aveva continuato a pensare ogni particolare di quell’ultimo paio di giorni, dando una spiegazione del tutto logica a ogni dettaglio, come se quegli accadimenti fossero stati aspetti ordinari della loro esistenza, come qualsiasi altro avvenimento delle giornate che si susseguivano, ed adesso si sentiva perfettamente convinta e a proprio agio con quelle semplici concezioni che era riuscita con determinazione a mettere a fuoco.

Addirittura, all’inizio, quando aveva capito, appena si era convinta dell’arrivo imminente di lui, era corsa dietro ai vetri della finestra con profonda sicurezza, col viso ridente, ed era rimasta lì, ad osservare la strada nell’attesa e nella certezza di vederlo arrivare, come tante altre volte in quei quattro anni era successo, e appoggiata agli infissi si era sentita bene, a suo agio, nel guardare le persone di quel quartiere che si fermavano a parlare tra loro lungo i marciapiedi, e a scambiare qualche opinione, a dirsi qualcosa che magari non aveva neppure troppa importanza, e che invece, in qualche maniera, appariva per quella frazione di tempo così fondamentale, come tutte le piccolezze che compongono qualunque giornata. Poi però si era scossa: non voleva farsi trovare da lui in quella posizione, e così era andata a sedersi accanto al tavolo, iniziando a giocherellare con la tovaglietta merlettata, e continuando a pensare a tutto quanto, sempre accompagnata dalla sua grande fiducia.

Era già successo qualche altra volta a Clelia: aveva così tanto desiderato di vederlo arrivare all’improvviso, lo aveva così tanto pensato nella profondità di se stessa, che alla fine lui era arrivato davvero, quasi materializzandosi, come richiamato dalla telepatia che lei era quasi convinta di possedere dentro di sé, come se quella unione fosse un elemento inciso nella natura delle loro cose, e di cui non doversi mai meravigliare, in qualsiasi caso. Certo, stavolta forse era diverso, lui aveva detto del loro rapporto parole irripetibili e quasi definitive che probabilmente non avrebbero dovuto lasciarle molte speranze, se non fosse stato che Clelia, ripensando a quegli ultimi tempi, si era resa subito conto di non aver compreso bene alcune cose, e di non aver parlato a lui delle variazioni nelle sue idee e di quei desideri che era riuscita da poco a comporre. Ecco, soprattutto questo le pareva l’elemento fondamentale di adesso: com’era possibile che lui da quasi tre giorni non sentisse l’esigenza di parlarle, di scambiare i suoi pensieri con lei come sempre era accaduto, di sapere cosa stesse facendo, di chiederle quale fosse il suo stato d’animo attuale?

Avevano scambiato tutto in quei quattro anni, pensava adesso Clelia, non era possibile interrompere di colpo qualcosa che in loro aveva sempre agito in modo così naturale, quasi come un automatismo, rispondendo però ad una invidiabile sincera spontaneità. E poi, il loro parlare di futuro, quel sognare quasi ad occhi aperti su tutto ciò che di bello avrebbe senz’altro dovuto accadere a loro due, non poteva certo interrompersi in quella maniera. No, lui stava arrivando, Clelia lo sapeva, era proprio come tutte le altre volte: ma non doveva avvicinarsi alla finestra, non doveva dargli la soddisfazione di mostrare che lei era lì, in sua attesa, come non avesse altro da fare. Doveva svagarsi, occuparsi di qualcosa, così ad un tratto Clelia si alzò dalla sedia per accendere la lampadina, contenta di aver trovato un gesto utile, e in quell’attimo sentì una vibrazione nell’aria, qualcosa di realmente poco comprensibile: si accorse Clelia, all’improvviso, che era trascorso più tempo di quello che si sarebbe mai immaginata: il giorno aveva già tracimato dentro la sera, il cielo si era oscurato, un altro pomeriggio era passato, senza che lei quasi se ne fosse neppure accorta. Così mosse alcuni passi dentro la stanza, Clelia, si guardò attorno nel silenzio, e infine andò ad accostarsi di nuovo alla finestra, con un moto di disperata speranza.

Non c’era più nessuno nella strada adesso, tantomeno lui. Eppure a Clelia sembrava ancora che quasi stesse arrivando, le pareva addirittura di vederlo, se ci pensava con profondità, con il suo modo particolare di camminare, la sua faccia serena, il suo sorriso. No, rifletteva adesso all’improvviso, non stava venendo da lei, ecco cos’era l’elemento più nuovo, e non era lui quella persona che camminava laggiù da sola contro le case, anche se in fondo forse questo non aveva più alcuna importanza: d’un tratto non era più tanto essenziale che ora lui si facesse vedere, che uscisse fuori dallo scuro di quei marciapiedi; Clelia adesso provava un’emozione diversa, lo sentiva accanto a sé, ne sentiva il respiro, la presenza, le pareva quasi di poterlo toccare, come se non si fosse mai allontanato; lui era lì, insieme a lei, Clelia ne era sicura, e tutto il resto al confronto con questa convinzione era soltanto una sciocchezza del tutto secondaria.

Bruno Magnolfi

sabato 12 marzo 2011

Come una piuma che vola.



Il corridoio è lungo non più di sei o sette metri, lo percorro tutto in otto passi con falcate distese e veloci, poi lo rifaccio al contrario, e ancora di nuovo, avanti e indietro, senza stancarmi. All’inizio sento le suole delle pantofole che ritmano sul pavimento, i miei abiti bianchi di cotone che frusciano, ma non faccio caso a questi particolari, e vado avanti impegnandomi a fondo e rasentando il muro alla mia destra, poi arrivo alla fine del corridoio e mi volto di scatto, tornando subito indietro e conservando la stessa distanza dal muro, quello di fronte, ma sempre alla mia destra, senza fermarmi né perdere quella cadenza.

I muscoli delle mie gambe risultano ben impegnati, e all’inizio devo far forza sulla mia volontà per continuare così senza fermarmi, ma dopo un bel po’, quando perdo perfino la cognizione di quell’attività in cui sono impegnato, ecco che inizio a volare. La mia camminata si trasforma in una semplice piuma sollevata da un soffio di vento, e la mia mente esce da quell’istituto e se ne va in giro, visitando i luoghi migliori che riesce a pensare.

Gli infermieri quasi sempre mi lasciano fare: dopo le prime volte che mi comportavo in questa maniera hanno smesso di venir lì a interrompermi e a chiedermi sempre qualcosa, spesso solo per ridere di me e del mio impegno. Hanno capito, penso, la mia camminata è la cosa più importante di tutte, io non li vedo, sono distante, li lascio tutti là dentro, nell’istituto, e vago nei luoghi dove ho sempre desiderato recarmi. Quando ritorno mi sento contento e sfinito: mi siedo, raccolgo le forze, un infermiere mi porta dell’acqua, mi sento accaldato, sono pronto per tornarmene a letto.

Ieri ho bevuto un piccolo sorso di acqua da un bicchiere di plastica, come ogni mattina, ho guardato per un attimo l’infermiere che me lo stava porgendo e che più di tutti mi rimane maggiormente simpatico, e gli ho detto che mi dispiaceva; è vero, ho pensato anche dopo, mi dispiace per lui, ma anche per gli altri, che non possono venire con me a visitare nessuno dei luoghi dove mi reco ogni giorno; e così a grandi linee ho descritto a quell’infermiere i miei giri, i miei voli di piuma, la mia capacità di andarmene dove io voglio. In fondo la mia attività è come un dono, riesco ad essere libero dentro a queste mura per tutti noi consuete, gli ho detto, e lui sorridendo ha annuito, come fosse davvero in accordo con me.

Oggi è tornato, quell’infermiere, mi ha fatto qualche domanda, mi ha sorriso mentre io lo guardavo. Poi ha tirato fuori una siringa già pronta, ha detto che avevo bisogno di molto riposo, il mio aspetto non era troppo rassicurante. Mi ha fatto l’iniezione senza darmi dolore, poi ha riposto i suoi oggetti e senza guardarmi ha detto che il direttore non vuole che io prosegua a camminare nel corridoio. Me lo aspettavo, ho risposto, ma non importa, va bene lo stesso: ormai è cominciata la trasformazione dentro di me, mi sento sempre più come una piuma che vola, basta solo un soffio di vento, una porta che si apre, il respiro di qualcuno vicino, ed io vado via, come se niente riuscisse più a trattenermi.

Bruno Magnolfi


Il miracolo quotidiano

Mi ero preparato per uscire, in mente una leggera passeggiata senza impegno, indosso le scarpe adatte e gli abiti comodi e usuali di qualsiasi giorno, indifferenti alla ricorrenza festiva. Il mio appartamento pareva profumato di polvere impalpabile, di aria ferma e trasparente nei timidi raggi di sole pallido che penetravano dalle fessure tra le tendine alle finestre; l’ordine apparente delle cose mostrava gli oggetti ordinari al loro posto, esclusa qualche piccola sciocchezza appoggiata con noncuranza su un mobile o sul piano di una sedia. La serratura della porta, una volta varcata la soglia, era subito scattata in conformità al proprio meccanismo, i giri di chiave abituali garantivano la sicurezza dell’appartamento durante la mia assenza. I miei pensieri, giusto per un attimo, si soffermavano ogni volta con naturalezza su qualsiasi particolare preso in esame.

Uno strano silenzio lungo le scale, assieme al fresco del marmo dei gradini e dell’intonaco perennemente immersi in una penombra ordinaria, dava un senso di calma, di perfetta tranquillità, come se nulla dalla parte interna dei portoncini degli appartamenti, ben chiusi ai pianerottoli condominiali, potesse mai movimentarne troppo l’uso: sarebbe bastata una parola a voce alta, pensavo scendendo con calma, una risata sguaiata dal fondo di una stanza chissà dove, un rumore qualsiasi, forse, e tutto avrebbe preso vita, come in una dimostrazione chiara dei comportamenti abitudinari di cui neppure tener conto; invece niente, fino a giungere alla strada.

I miei passi lungo la via: quelli di ogni giorno; i miei gesti camminando: quelli di chiunque quando si muove lungo il marciapiede. La solita piazzetta col giardino che appariva quasi deserta, gli alberi immobili che ne calcavano i contorni intristendone l’aspetto. Sopra una panchina, seduti e come incapaci di prendere una qualsiasi decisione, restava una donna insieme ad un bambino forse imbronciato, annoiato di qualcosa, senza soluzione. Mi ero avvicinato, lanciando un semplice buongiorno sottovoce, poi mi ero seduto accanto a loro. Non era possibile parlare del tempo o di quel piccolo giardino, così avevo fischiato quasi un richiamo, come se avessi avuto un cane che mi seguiva, attardato lungo le piste degli odori tra i cespugli e i bordi delle aiuole.

Mi piacerebbe avere un cane, avevo detto senza convinzione; purtroppo ho sempre poco tempo per dedicarmi a qualcosa che non sia il lavoro all’agenzia delle assicurazioni. Perché tenere in casa una bestiola vuol dire dedicargli ogni momento, è semplicemente questione di elementare civiltà, oltre che di affetto e di coscienza. Il bambino mi aveva fissato con interesse, dimenticando il broncio, la sua presunta mamma invece aveva continuato imperterrita a sfogliare una rivista. Non c’è alcun bisogno di guardare gli altri, avevo continuato, per decidere cosa vorremmo fare di diverso per non assomigliare a loro. Si tratta di sentirsi a proprio agio, fare le stesse cose che vorremmo tutti facessero, indipendentemente da qualsiasi senso critico nei confronti di chicchessia.

Inutile emergere solo per semplice immagine di qualcosa che magari ci accomuna tutti quanti, avevo continuato; dovremmo cercare di essere migliori solo per noi stessi, ma senza cadere mai nell’individualismo, anzi, preparandoci ogni giorno per la vita sociale, per un comportamento che tenga conto di quanto sia impossibile non assumere il collante della solidarietà. Un pausa di silenzio era subentrata dopo le mie ultime parole. Sulla panchina un vago senso di imbarazzo si era fatto strada, la donna aveva distolto lo sguardo dalla carta patinata del giornale, mi aveva osservato per un attimo come cercando conferma a ciò che aveva ascoltato, poi, con titubanza, aveva preso tra le sue la mano del bambino, si era alzata, e con un semplice buongiorno indiretto si era allontanata lentamente. L’avevo guardata mentre andava via, e mi era venuto da sorridere: in fondo, pensavo, riuscire a parlare con qualcuno, per una persona come me ormai più che abituata a vivere da sola, era già un vero miracolo; non c’era niente di male in tutto il resto, anzi, ogni cosa pareva dondolarsi nella più assoluta normalità: niente di diverso.

Bruno Magnolfi

lunedì 7 marzo 2011

sognando ad occhi aperti


Senza gli occhi giusti qualunque rospo, senza il bacio, diventa magicamente un principe.

Trasformazioni

Ho sognato pesci volanti che mi portavano via, lontano in un mondo sommerso, occulto lontano dalla ragione.
I pesci onirici si possono collegare ai contenuti rimossi, sconosciuti che risalgono alla luce della coscienza e con cui l’individuo deve misurarsi.

Sono in genere aspetti molto vitali e passibili di trasformazione, legati all’istinto ed alla capacità di ” nuotare”, cioè di avanzare nella vita, e quando in sogno si presentano in gruppi argentei o li si vede agitarsi appena sotto il livello dell’acqua, fanno riferimento a qualità del sognatore, a caratteristiche inconsce che stanno affiorando, a forze interiori.

Se i pesci emergono, enormi e solitari, si collegano a ciò che ha bisogno di manifestarsi, qualcosa di urgente o di importante, qualcosa che può facilmente indicare un cambiamento, una trasformazione.

Scena n. 17. Il pubblico.



Le persone in platea restano sedute in silenzio, guardano tutte nella stessa direzione, nessuna di loro volge lo sguardo dietro di sé, al massimo qualcuna osserva, ma solo per brevi istanti, la zona a fianco dove siede il proprio vicino. Gli uomini tengono un atteggiamento fermo, determinato, le donne al contrario mostrano una dolcezza di espressione tale da giustificare un atteggiamento benevolo nei confronti di ciò a cui stanno assistendo. L’impresario osserva tutto da una vetrata che domina la sala, se ne intende di persone, sa perfettamente cosa significa quell’atteggiamento quasi passivo, e si ritiene piuttosto soddisfatto delle rappresentazioni messe in cartellone per la stagione in corso.

La scenografia appare essenziale, due operai nel pomeriggio sono riusciti a mettere in piedi tutto quanto senza indugi, e le luci basse sulla scena adesso producono una certa profondità di campo nella semioscurità che si forma sul fondale dietro al palcoscenico. Il teatro è quasi pieno, la pubblicità a tappeto, su carta neppure patinata, ha dato i suoi frutti, e anche il titolo ambiguo della rappresentazione è riuscito a creare una certa aspettativa tra la gente. Se le cose funzionano, saremo riusciti a creare un importante precedente per tutto ciò che seguirà da ora in avanti, pensa l’impresario.

Una persona poi si alza, dice qualcosa a voce alta, un giudizio pesante sulla serata che si sta svolgendo, l’attore incerto tentenna e poi si ferma, osserva qualcosa per un attimo nel buio della sala, quindi prosegue riuscendo a non perdere il filo della sua recitazione. Tutto è peggiorato, pensano in parecchi, forse è l’inevitabilità dei tempi che porta questi doni, immaginano alcuni; altri agitandosi sopra le poltroncine sembrano arrabbiati contro chi ha osato interrompere la rappresentazione, e con i loro modi, senza rendersene conto, riescono a complicare le cose in misura quasi maggiore di ciò che fino allora è realmente accaduto. Un brusio si avverte dappertutto, alcuni dicono a voce bassa che chi ha parlato prima indubbiamente ha un briciolo di ragione: lo spettacolo si vede che è tirato via, le cose scorrono ma solo per l’indulgenza manifestata dal pubblico, che in qualche modo gioca un proprio ruolo. Poi, lo stesso tizio che ha parlato inizialmente usando in realtà parole poco chiare ma lasciandosi ugualmente comprendere benissimo, adesso si alza, e con lentezza esce dalla sala: qualcuno pacatamente applaude, altri sembrano sul punto di seguirlo.

Gli attori vanno avanti, sembrano consci della situazione che si è creata, il loro imperterrito proseguire nella recitazione pare la giustificazione al loro mestiere, alla necessità di tutti di portare a compimento in un modo o nell’altro il proprio lavoro. In effetti non si sa neppure con chi prendersela, i tempi sono questi, sembra la spiegazione più evidente delle cose, chi non ci sta cerchi pure di cambiarli, se riesce. Si leva un applauso quando un attore, conscio di tutta la tensione, si rivolge al pubblico allargando le braccia quasi in segno di resa, ma come se contemporaneamente non avesse la voglia di fare lui ulteriori spese della situazione, mostrando così che non è proprio colpa sua se le cose stanno in quella maniera.

Lo spettacolo riprende, forse c’è uno spiraglio di indulgenza, ma la situazione ormai non è più la stessa dell’inizio: si è rotto l’incantesimo, gli uomini si sbracano sopra alle poltrone, le donne hanno risolini ironici, gli attori continuano, ma solo per contratto, non c’è più interesse nel mandare avanti al meglio la rappresentazione. Quando finalmente lo spettacolo finisce, tutti escono, in pochi hanno voglia di parlare, ma qualcuno riesce a trovare addirittura interessante la serata, e alla maggior parte di loro lo spettacolo sembra proprio sia piaciuto, nonostante tutto.

Bruno Magnolfi

Un ritratto da portare via.




L’impiegato della compagnia delle assicurazioni, dietro la sua scrivania al terzo piano del palazzo dove ha sede la direzione della società per cui lavora da quasi vent’anni, pensa a sua moglie in quel primo pomeriggio pieno di sole che filtra dai grandi finestroni a vetri che fronteggiano la strada, in un’aria leggermente sonnacchiosa, forse per via di quel quarto di vino rosso di cui si è servito quasi con superficialità durante il pranzo nella mensa aziendale al piano terra del medesimo edificio. Qualcosa gli sembra differente in quella giornata così identica a qualsiasi altra, forse sarà la digestione, immagina, o forse il pensiero di sua moglie che sembra sorridergli in modo stravagante da dietro la piccola cornice di metallo appoggiata in un angolo sul piano della scrivania.

In fondo le abitudini hanno giocato un grande ruolo all’interno di tutta la sua vita, pensa: la monotonia perenne degli orari, tutte quelle attività sempre un po’ simili, quel comportamento suo e degli altri colleghi spesso alternabile, quella maniera di augurarsi il buongiorno a inizio turno, e la buonasera alla fine della giornata di lavoro; ecco, tutto questo adesso gli appare come qualcosa di indigesto, che all’improvviso lo richiama verso qualcosa di cui, a dire la verità, non si è quasi mai interessato. Sua moglie è stata cortese, questo è sicuro, prima di lasciarlo andare via di casa quel mattino; eppure qualcosa nei suoi modi sembrava nascondere qualche elemento di insincerità, come un inventarsi certe maniere eleganti, quasi piacevoli, proprio nel dire le cose abituali di ogni giorno, edulcorate da un sorriso inedito, forse più disteso.

Lui a tratti ha parlato con i suoi colleghi durante la mattina, si sono scambiati tra loro le solite riflessioni di ogni giorno, si sono detti le cose che si dicono da sempre abitualmente tanto per lasciare scorrere le ore, per poter dimostrare che la loro vita è utile, concreta, quasi necessaria, e questo gli è bastato per arrivare all’ora del pranzo soddisfatto della sua attività. Ma adesso è lì sua moglie che lo guarda, sopra al piano della scrivania, con un’espressione che sembra quasi voler dire che tutti quei suoi comportamenti così composti, così garbati, di piena adeguatezza, di cui lei peraltro si è sempre mostrata compiaciuta, bene, adesso quei suoi modi precisi e definiti, quei dettagli sempre misurati e riflettuti, quelle maniere così giuste, sono assolutamente fuori sintonia, anzi, a dirla tutta, addirittura un po’ ridicoli.

Ecco, questa è la parola fondante in tutta la faccenda: lui si sente ridicolo, ma non perché sua moglie adesso lo osserva da quella vecchia fotografia a colori, oppure perché si è dilungato a parlare coi colleghi di cose in fondo poco significative, quanto perché lui adesso è cosciente di essersi adagiato, giorno dopo giorno, dentro a un meccanismo che forse non condivideva appieno. Certo, questo è il punto. Svolgere la propria esistenza senza averla mai affrontata criticamente. Questo è l’aspetto che gli manca. La stessa foto di sua moglie sopra al piano della scrivania, è soltanto un’abitudine per tutti coloro che come lui lavorano nella sede della compagnia delle assicurazioni, non una scelta personale.

All’improvviso, a fronte di queste riflessioni, si sente quasi mancare, sarà colpa del vino rosso, pensa ancora per un attimo. Poi si alza lentamente dalla sedia girevole con i braccioli e il poggiatesta, raccoglie il portaritratti che per molti anni è stato sopra l’angolo del piano della scrivania e se lo ficca in tasca. Quindi esce, indifferente all’ora indicata dal grande orologio sul muro in fondo al corridoio, raggiunge le scale, scende al piano terra e se ne va: niente di meglio che avere qualcosa di importante da fare in un pomeriggio come quello, pensa sorridendo, confrontato allo starsene seduto su una sedia fingendo qualcosa senza alcun significato.

Bruno Magnolfi

La finestra socchiusa.





Lei lo ha visto, lo ha guardato solo un momento. Lui si è girato, come altre volte, a mostrarle che era attratto da quel suo viso, dagli occhi, dai suoi modi pacati. Un’ombra è passata tra le loro finestre socchiuse, solo un attimo e le cose sono sembrate inevitabilmente diverse: lei è rientrata, ha accostato la tenda, lui ha finto di interessarsi a qualcosa sopra al suo davanzale. Non importa, ci saranno altre occasioni, importante rimane l’impalpabile linguaggio dei loro sguardi, che contemporaneamente indica tutto e anche niente, fino a mostrare quanto il pensiero e la fantasia siano forti, superiori ad ogni altra cosa.

Bruno Magnolfi

L'urlo dei pensieri.




L'urlo dei pensieri.

I ragazzi si erano stufati in fretta di giocare al pallone, così si erano seduti sopra al bordo di un marciapiede poco lontano, tenendosi le ginocchia con le braccia e parlando sottovoce delle loro cose. Il babbo di uno di loro era passato poco dopo con la sua auto scarburata, aveva abbassato il finestrino e lo aveva chiamato. Lui era corso via e nel giro di mezz’ora anche il resto del gruppo si era sciolto, andandosene ognuno verso la sua casa, mentre le ultime ombre del giorno si allungavano tra i sassi e la terra di quel quartiere periferico.

Andrea era rimasto in silenzio ad ascoltare gli altri, poi, quando se n’erano andati, aveva salutato tutti con un ciao imbronciato e si era allontanato da solo, perché era l’unico che abitava in un appartamento delle case minime, un gruppo di abitazioni di legno messe su in fretta dopo il terremoto in una zona fuori mano, e poi rimaste lì, a degradarsi poco per volta in quei dieci anni, giorno dopo giorno. Non gli piaceva tornarsene dai suoi, preferiva tirare tardi insieme a qualcuno dei ragazzi, quando era possibile: c’era in casa quel clima perennemente teso, una guerra continua anche soltanto per delle stupidaggini, e lui, nonostante il suo silenzio e gli occhi bassi, a volte comunque riusciva a fare le spese di qualcosa di cui non aveva minimamente colpa.

La strada polverosa girava attorno ad un gruppo di orti di fortuna, recintati alla meglio, e qualche povero cane, rinchiuso nelle cucce di lamiera, abbaiava e guaiva al minimo sentore di qualcuno nelle vicinanze. Andrea si era fermato, si era guardato attorno, infine senza far rumore era andato a sedersi su una grossa pietra lì vicino: non aveva voglia di tornare a casa, continuava a ripeterselo continuamente, avrebbe fatto di tutto pur di non sentire i soliti urli e assistere alle medesime scenate di ogni giorno. I cani in poco tempo si erano acquietati, e lui, nella sua equilibrata solitudine, aveva respirato l’aria fresca della sera, quel silenzio meraviglioso, quella pacatezza che regnava accanto agli orti ormai deserti a quell’ora.

Sarebbe diventato grande tra qualche anno, pensava, le cose sarebbero state facili e naturali per lui, così come lo erano state per suo fratello e per tutti gli altri ormai adulti, e avrebbe anche lui potuto dire in faccia a chiunque le sue idee e le sue opinioni, facendosi ascoltare, e si sarebbe fatto in fretta una reputazione, la calma sarebbe regnata in casa sua, ognuno avrebbe potuto esprimere in piena libertà ogni proprio singolo pensiero. Era solo questione di tempo, tutte le cose si sarebbero aggiustate, ma non poteva lui pretendere adesso una qualche scorciatoia, era evidente, e se non sopportava il continuo litigare dei suoi genitori, doveva solo convincersi che tutto questo non sarebbe continuato così per molto tempo.

Nessuno gli chiedeva mai la sua opinione, ma era solo perché lui preferiva starsene perennemente in silenzio, e tutti in genere lo lasciavano in disparte di ogni cosa, come se Andrea non avesse un suo parere. Ma sarebbero cambiate le cose, lo sentiva, era sufficiente far passare un po’ di tempo, e lui avrebbe spiegato a tutti cosa pensava veramente, quali erano le idee che gli passavano continuamente nella testa e qualche volta parevano quasi urlare dentro di sé. Ormai era buio, non c’era altro da fare, adesso doveva proprio rientrare a casa sua, così si alzò da quella pietra incamminandosi verso quel buffo gruppo di alloggi di legno poco lontano, e nello stesso attimo un cane uggiolò, riportandolo all’improvviso alla realtà: volse la testa come per cercarlo tra quegli orti, anche se era tutto scuro, e d’un tratto seppe di volergli bene, anche se non sapeva di preciso neppure dove fosse.

Bruno Magnolfi