domenica 29 maggio 2011

Certe volte, ad un incrocio.





Sono passato davanti ad un semaforo con la mia auto durante un giorno qualsiasi, uno di questi giorni appena trascorsi, che sembrano spesso identici l’uno a quell’altro, ricordo soltanto che non pioveva, anzi, forse c’era addirittura un pallido sole, magari era addirittura una giornata chiara, di quelle che ti fanno sentire a tuo agio, in pace con tutto. Procedevo lentamente, ricordo che non avevo alcuna premura, mi guardavo attorno, come a cercare di riconoscere le strade che percorrevo, i quartieri che stavo attraversando, nella ricerca distratta di chissà mai che cosa. Sopra un marciapiede mi rammento che c’erano delle persone, un gruppo intero, probabilmente, tutte ferme nell’attesa di attraversare la via piuttosto transitata, e così ho intravisto, mescolato agli altri, un uomo come tanti se ne vedono, forse addirittura uno qualsiasi, ed ho immaginato, non so neanche perché, fosse mio padre.
Giacca grigia leggermente sformata, camicia chiara, forse bianca, nient’altro mi è riuscito di vedere di lui in quel breve attimo in cui sono riuscito appena ad occhieggiare la sua faccia, la sua espressione seria, i lineamenti stanchi, di chi probabilmente ha già compiuto un percorso che nel tempo poco per volta gli ha ristretto qualsiasi possibilità di futuro, lasciandogli niente di differente alla sua vita di anziano, attaccata solo alle abitudini. Il suo viso, a ben guardare, mostrava quasi spavento, forse un assoluto bisogno di rassicurazione, come di un uomo che cerca disperatamente suo figlio in un luogo qualsiasi, per la necessità di sentirsi sorretto, non più da solo in mezzo ad estranei.
Era proprio solo, probabilmente, ma forse sono stato soltanto io a immaginarmelo così: un uomo anziano che gira insieme a tutti gli altri dentro ad un quartiere, che cerca forse di capire come si stia evolvendo la realtà, cos’è che sta velocemente cambiando, senza quasi che riesca davvero a rendersene conto. Ho pensato a quell’uomo come ad un’anima in pena, un padre che ha smarrito i propri figli, probabilmente, o forse li ha soltanto lasciati andare, via a cercarsi autonomamente un proprio percorso, senza ostacolare niente della loro curiosità, anzi aiutandoli in questo, anche se qualche volta con la morte nel cuore.
Ho provato a parlargli mentalmente, mentre continuavo a guidare la mia auto, ho provato a chiedergli da che cosa adesso fosse incuriosito, cosa potessi mai fare io per lui, per rendergli un po’ di serenità smarrita, per togliere per un attimo dalla sua faccia quelle rughe di tristezza che parevano indelebili, profonde; ma lui non ha risposto, non mi ha neanche guardato, non per indifferenza, soltanto per una lontananza che a me non arrivava in quel momento, o che mi pareva assolutamente superabile, come un piccolo stupido ostacolo tra tanti che affrontiamo ogni momento.
Con la vettura sono arrivato alla prima rotatoria, ho compiuto un giro completo attorno ad una aiuola cittadina molto ben tenuta, e sono tornato indietro, fino al semaforo dove mio padre doveva essere ancora, in attesa di qualcosa, mentre cercava di attraversare la strada come gli altri, come tutti, sicuro di vederlo, di potermi fermare forse, parlargli davvero, forse abbracciarlo, dirgli quello che ho sempre pensato, che ho spesso avuto voglia di digli, senza mai riuscire a farlo, ma non c’era più, era ormai sparito, risucchiato dalla vita dei semafori, delle strade, dei passaggi pedonali. Così ho proseguito a guidare la mia auto, senza pensare alcunché, forse perché non potevo proprio far altro.

Bruno Magnolfi

Quasi una mancanza (in margine a -Bionda, naturalmente-).




La strada correva arrotondando le colline coperte di bosco per chilometri e chilometri, serpeggiando quasi senza interruzioni di salite e discese. La vegetazione sui bordi appariva fittissima, colma di rovi e cespugli, a tratti quasi impenetrabile, e in qualche piazzola sterrata apparivano cumuli di legna lasciata a seccare. La grossa auto scivolava sopra l’asfalto interpretando perfettamente il tracciato quasi privo di traffico, e chiazze di sole e di ombra si intervallavano continuamente tra loro sul parabrezza, uniche variazioni degne di nota in un viaggio pacato, tranquillo, quasi una lenta e consapevole discesa negli inferi.

La guida pacata ed attenta di lui era forse rincorsa da alcuni pensieri tortuosi, nascosti, l’inizio di qualcosa con il quale era auspicabile porre rimedio nella consapevolezza di aver commesso qualche stupido sbaglio, durante la vita. Nella sua mente si andava mescolando piacevoli ricordi fumosi di qualche anno addietro, con la spigolosa realtà degli ultimi tempi: era il momento di decisioni incontrovertibili, a suo parere, inutile continuare a riempirsi di buoni propositi.

Giulia era immobile, al suo fianco, stretta dalla cintura di sicurezza: si lasciava cullare dalle curve stradali e dalla musica a basso volume che circolava nell’abitacolo, gli occhi sul verde dei boschi, le valige nel bagagliaio, zeppe di cose e vestiti, superiori a una normale vacanza. Il mare sarebbe apparso improvviso, al fondo di una aperta vallata, lei lo sapeva, aveva già percorso altre volte la strada, ma questa volta sarebbe stato come uno schiaffo, uno scatto improvviso della propria esistenza, la consapevolezza che da quel momento nessuno, tra loro due, sarebbe più potuto tornare sui propri passi.

Suo marito avrebbe percorso la medesima strada a ritroso, la sera stessa o il giorno seguente, non aveva importanza. Per Giulia iniziava il suo periodo di solitudine del quale tremava solo a pensarci, ma che adesso era l’unica cosa possibile, la maturazione e il compimento di ciò che dentro di lei era rimasto da sempre insoluto: la presa di coscienza che lei e suo marito non avevano più molto da dirsi, e che con quella vacanza si apriva in questa maniera il futuro, inevitabile, una voragine dal fondo nebbioso, quasi un periodo di studio almeno per lei, troppo presa dagli altri, in tutti quegli anni, per essere riuscita a conoscersi bene.

Il mare apparve improvviso come si era aspettata, una larga riga scintillante di sole pareva adornarlo, il litorale più chiaro denotava la sua mansuetudine, al largo, più scuro, il filo dell’orizzonta era netto, tagliente. Prese un respiro, come a cercare di adattarsi ad un luogo diverso; normalmente avrebbe detto qualcosa, ma adesso era inutile, e rimase in silenzio. Fu raggiunta, senza che ce ne fosse un motivo, dal ricordo della sua mamma, negli ultimi suoi giorni di vita: le era parsa quasi un’altra persona, torturata da qualcosa di incomprensibile, come adesso era lei, desiderosa di ritrovare la memoria, riannodare dei fili, pensare, senza nient’altro.

Suo marito disse sottovoce qualcosa, continuando a guidare; Giulia lo osservò per un attimo, non comprese neppure le sue parole, lo vide diverso da lei, distante, rinchiuso in qualcosa di inesistente eppure inviolabile, le apparve una persona che le sarebbe terribilmente mancata, a cominciare sin da domani, con la quale sarebbe stata disposta a invecchiare, fino a poche ore più indietro, ma che adesso non aveva più nulla, forse, da spartire davvero con lei.

Bruno Magnolfi

La scia bianca a perdita d'occhio(in margine a -bionda, naturalmente)




I due avevano concluso insieme il loro turno di lavoro, si erano infilati svelti nelle cuccette, e si erano lavati e cambiati, proprio come se avessero da andare da qualche parte. La navigazione aveva ripreso da quella mattina, ci sarebbe voluto quasi un mese per raggiungere il luogo di imbarco del greggio, poi altri due per tornare indietro fino al terminal della raffineria. Si era parlato per tutti quei giorni precedenti di preavvisi attendibili di burrasche, per questo il comandante aveva deciso una sosta, e c’era chi aveva abbassato lo sguardo a quelle notizie, ma in fondo era normale incontrare brutto tempo andando per mare.

Erano in trenta là sopra, tutti con anni di vita del genere dietro alle spalle, la lingua comune un inglese storpiato composto di poche parole e molti gesti esplicativi. Loro due invece si conoscevano da tanto, erano di Salerno, avevano iniziato insieme ad andare per mare, spesso parlavano tra loro fingendo di stare in vacanza, come se quei viaggi fossero di puro piacere. “Se domani c’è il sole sto tutto il giorno in coperta ad abbronzarmi la schiena”, dicevano per ridere. A volte giocavano a carte, per ingannare un’ora o anche due, e avevano sempre con sé la loro scorta di libri da leggere.

Ma la cosa più importante di tutte là sopra era quando a ciascuno nasceva la voglia di scrivere una lettera. C’era tempo per scegliere bene le cose da dire, le parole più adatte, le riflessioni meglio azzeccate, ma tutte le frasi non dovevano mai perdere l’entusiasmo e il piacere di mettere sulla carta qualcosa che nasceva d’impulso, come parlare, o sorridere di un gesto qualsiasi, o sentirsi felici per una bella serata. Ognuno si chiudeva in se stesso per scrivere, ma l’atto finale arrivava dopo avere già pensato tutte le cose, aver riflettuto su tutti gli argomenti da dire, anche se alla fine non erano certo quelle le attività più importanti.

Era ricevere posta la cosa fondamentale; ritrovare, aprendo la busta di carta recapitata nel porto dove facevano scalo, quel senso di attaccamento al proprio paese, quel riuscire a sapere cosa era accaduto, anche se erano piccoli fatti di nessuna importanza di cui parlava loro qualcuno della famiglia o un amico. Era come non perdere quel filo sottile che li legava alla vita di tutti, piegati in quell’inconfessato senso di sentirsi in esilio, lontani ma sempre vicini, con la testa ingombra perennemente di pensieri e ricordi che li accompagnavano per tutti quei mesi.

Il loro scrivere al confronto era un atto minore, un chiedere per carità un aiuto per superare tutto il viaggio. “Io sbarco”, spesso dicevano tra loro, come se solo sapere che la scelta era facile, a portata di mano, li facesse star meglio. Poi, dopo un breve riposo, ricominciava con regolarità il loro turno, e tutto continuava a procedere, come la scia della nave che biancheggiava dietro di loro, misurando la lontananza da tutto.

Bruno Magnolfi

Dentro la pietra (in margine a -Bionda, naturalmente-).



Le cose a volte galleggiano sulla superficie dell’acqua, si muovono lentamente spinte da una leggerissima brezza. Non ha alcun senso preoccuparsi della direzione che possono prendere, la loro natura è di andare, restare in balia di elementi fuori dal nostro controllo, senza che nulla possa cambiare questa semplice condizione.

Nella clinica psichiatrica la donna osservava una pietra sul muro di fronte, una pietra liscia, gialla, ai suoi occhi l’unico oggetto importante al margine di quel giardino e di tutta la costruzione. Il medico le aveva chiesto più volte che cosa vedeva là sopra, in quel punto, ma lei non aveva mai voluto rispondere. La sua giornata scorreva così, con un’espressione del viso immutabile, raccolta in silenzio, e un lavorio incessante di quei suoi pensieri che indubbiamente scorrevano lungo tanti elementi diversi.

Si ha pena di una persona quando è succube di qualcosa più forte della sua volontà, ma quando è la volontà stessa che riesce ad arginare tutto il resto, fino a mostrare di sé soltanto un involucro chiuso, invalicabile a tutti, allora ci si stringe dentro alle spalle, e si ha voglia solo di dichiararsi impotenti.

Veniva il marito, quasi ogni giorno, per una visita breve, come a tentare una possibilità, a scrutare in quegli occhi fermi, quasi senza più sguardo, se qualcosa di diverso potesse aleggiarvi. Non diceva quasi mai niente, si sedeva lì, accanto a lei, osservava con lei la pietra gialla incastonata nel muro, prendeva la mano della sua donna e la teneva un po’ tra le sue, come a cercare, sperandolo, di sentire un brivido nuovo, qualcosa di diverso sotto alla pelle. Poi andava via, con la testa bassa, conservando la stessa speranza per il giorno seguente.

Certe volte veniva la figlia con lui, una ragazza giovane, che rimaneva in genere un passo distante, come a cercare di tenere lontana da sé la malattia che attanagliava sua madre. Aveva voglia di piangere, si vedeva, le pareva impossibile osservare quello straccio seduto senza alcuna volontà. Però c’era qualcosa di diverso a volte in quei giorni, dietro a quegli occhi di mamma; qualcosa di nuovo sembrava soffiare sulla superficie dell’acqua: difficile dire cosa fosse davvero, impossibile captare la traccia di tutti i pensieri che continuavano incessanti dentro a quella mente ammalata.

Ma poi, quando i suoi familiari andavano via, quando lei restava da sola, ecco che all’improvviso si alzava dalla sua sedia. Non cambiava espressione, niente di diverso pareva attirarla, eppure, con lentezza infinita, arrivava fino a quel muro in fondo al giardino, fino a quella medesima pietra gialla cementata in mezzo alle altre. Stava lì quella donna, almeno per qualche minuto; accarezzava la pietra come fosse il dolce viso di un suo familiare, forse proprio la figlia, e ci lasciava senza parole a noi, poveri infermieri al servizio della medicina, convinti di poter indagare con la nostra piccola scienza su cose così maestose, superiori alle nostre pretese, oltre la superficie immobile dell’acqua, sfiorata soltanto da una brezza leggera.

Bruno Magnolfi

mercoledì 25 maggio 2011

Da questo momento esatto in poi




Sei tu che stai sbagliando, aveva detto lei con un lieve ironico sorriso sulla bocca, riponendo contemporaneamente sopra al vassoio i bicchieri in cui loro due avevano sorseggiato quasi in silenzio e con molta calma un meraviglioso aperitivo costituito da succo d’arancia, vino bianco ed una leggera spolverata di cannella. Ogni volta che si parla di qualcosa che ti interessa tendi a rimanere regolarmente sulle tue posizioni, e diventa talmente difficile smontare quelle tue convinzioni che viene voglia di evitarle, di lasciare che i tuoi costrutti da egocentrico proseguano il loro destino, anche se non si intravede neppure una logica che li sorregga.

Lui aveva fatto una smorfia guardando a terra come preso dalla riflessione che quelle parole probabilmente gli imponevano, forse avrebbe addirittura avuto voglia di un ulteriore sorso di quell’aperitivo servito proprio alla temperatura giusta, ma non disse niente, limitandosi a registrare dentro di sé che il suo bicchiere era ormai vuoto. Non gli pareva il caso di replicare a quelle parole, non ne avrebbe neppure intravisto il senso, preferiva ignorarle, come sempre, così si limitò a cambiare argomento, giusto per dire in modo molto garbato: ceniamo in giardino, questa sera? La serata sembra perfetta, e poi non soffia neanche un filo di quella brezza che generalmente riesce a innervosirti.

Lei, in piedi, lo aveva osservato per un attimo, velocemente aveva portato via i bicchieri con il vassoio, poi era tornata, soffermandosi un momento, pensierosa. Si, aveva risposto; anche se rimane evidente il tuo errore, disse voltandosi verso la posizione in cui lui era rimasto: credi spesso che non possono riuscire ad esistere due opinioni differenti su un medesimo argomento, e questo è un tuo problema culturale, di impostazione esistenziale. Dici di no e conservi la tua posizione fino alla nausea, neppure rendendoti conto che in questo modo si va a porre spesso un contenzioso puramente tecnico.

Lui aveva sorriso sollevandosi dalla sua poltrona, aveva velocemente intercettato le braccia abbandonate di lei e le aveva accarezzate, come a cercare un compromesso su tutta la questione. Poi le aveva sfiorato il viso con le labbra, ma la freddezza di lei lo aveva portato quasi subito a desistere da quei suoi vezzi. Dopo si era voltato verso il tavolo, si era acceso lentamente una sigaretta, infine aveva detto: forse hai ragione, intorno a tutte le cose a cui tengo non riesco ad avere un’opinione differente da quella che il tempo mi ha fatto maturare; sono convinto dei miei pensieri, perciò non vedo la possibilità di dover riflettere in un altro modo. Però ti ho ascoltato, ed ho capito che anche tu hai pensato molto in questi ultimi tempi al nostro futuro.

Lei era tornata a sedersi senza averne voglia, aveva guardato nel folto degli alberi perimetrali che a quell’ora tendeva velocemente a scurire, come cercando qualcosa che non c’era, si era voltata verso di lui, lo aveva guardato per un attimo come prendendo tempo e alla fine aveva detto: deciderò io, allora, per tutti e due; tu non riesci ad avere chiaro a quale punto ormai ci siamo spinti; dobbiamo cambiare, velocemente, non si può più restare qui a guardare la nostra vita che scorre, senza fare niente.

Bruno Magnolfi

martedì 24 maggio 2011

La solitudine di tutti.



Normalmente mi limito a girare ogni sera lungo le due o tre stradine principali del mio paese, camminando lentamente ma con tenacia, un passo dietro l’altro sul lastricato vecchio e in alcuni punti anche malmesso, tra le salite e le discese che caratterizzano tutta la piccola zona storica. Nella piazzetta principale, proprio sotto al grande loggiato, si apre il luminoso Caffè Centrale, un grande bar pasticceria sempre affollato, specialmente a quell’ora, generalmente frequentato da clientela maschile, dai più in vista del luogo, che spesso si fanno servire agli eleganti tavolini all’esterno, e se ne rimangono lì a parlare, a guardarsi attorno e spesso a salutare qualcuno che passa nella piazza.

Io me ne tengo alla larga da quell’ambiente, mi sembra che la mia solitudine non debba essere confusa con altro, e le mie passeggiate siano semplicemente un momento di riflessione, tutt’al più un aggiornamento sugli altri che incontro a volte, quasi una carrellata dei gesti e degli sguardi che si possono notare in tante persone certe serate, anche se poi in definitiva sono sempre un po’ gli stessi. Cammino, arranco su queste vecchie pietre, e mi pare di non aver bisogno di nient’altro, niente comunque che assomigli a quella socialità affettata che si può notare e che rilevo nei pressi del Caffè Centrale.

Sono talmente convinto delle mie posizioni, nonostante tutti in paese mi conoscano perlomeno di vista, che questa sera, al contrario di come faccio sempre, ho indossato la mia giacca per la domenica, non saprei neppure dire il perché visto che è soltanto mercoledì, e in questo modo, ben sicuro di me e delle mie capacità, sono uscito da casa per andarmene diretto verso il loggiato, nella piazzetta principale. C’erano i soliti, naturalmente, qualcuno mi ha guardato, due o tre mi hanno rivolto un saluto piuttosto incoraggiante. Sono entrato dentro al Caffè Centrale, ho ordinato un aperitivo, poi sono andato a sedermi ad uno dei tavolini che rimangono all’esterno. Qualcuno mi ha detto qualcosa di spiritoso, io ho sorriso ma non ho risposto.

Poi si è avvicinata una mia vecchia conoscenza, mi ha fatto i complimenti per la giacca, mi ha salutato con calore, infine mi ha lasciato sorseggiare il mio aperitivo, lasciandomi da solo dopo avermi stretto la mano. Ecco, ciò di cui avevo sentito la necessità all’improvviso si è manifestato: mi sentivo bene in mezzo a questa gente, continuavo ad ascoltare tutti che parlavano tra loro, qualcuno che rideva, ma questo non aveva neppure troppa importanza; niente di ciò che sono sempre stato andava perso in quell’ambiente, pur in mezzo a loro, dentro a quel locale quasi fulcro di tutto il mio paese. Non è importante il mio starmene distaccato, camminare in solitudine e guardare gli altri di sottecchi: ciò che conta è che sono uno come tutti, e che non ho bisogno di sottolineare qualche differenza per sentirmi diverso o addirittura migliore. Tornerò qualche volta a sedermi al Caffè Centrale, ho pensato mentre me ne andavo: in fondo l’aperitivo non era affatto male, e anche la compagnia si è mostrata più cortese e piacevole di quanto avrei supposto.

Bruno Magnolfi

martedì 17 maggio 2011

Buio e basta.



Avevo chiuso gli occhi; ciò nonostante numerose luci avevano continuato ad affollare il mio campo visivo, un sipario buio costellato da punti illuminanti tutti identici. Intorno a me sentivo gli alberi del viale che lasciavano le loro foglie muoversi sotto alla brezza leggera che spirava senza una precisa direzione, il traffico era scarso, un giorno come gli altri, provavo un’improvvisa voglia di chiuso, di solitudine, di intimità, una concessione non permissibile. Un senso di malato mi pareva avesse inondato tutta la mia persona: le mani lungo i fianchi mi sembravano odiosamente piene di sangue pesante e raddensato, le mie gambe continuavano a muoversi soltanto per una sorta di abitudine. La mia testa pulsava, senza neppure pensieri veri e propri, ma come in assenza di controllo, ruotando in mezzo a un niente assurdo, che avrei desiderato il più possibile evitare.

Chiudere gli occhi ogni tanto era quasi un atteggiamento di autodifesa, non proprio un vero desiderio di non esserci, piuttosto un fare finta che quella parte di città storpiasse nella mia mente la sua natura, fino a risultare alla mia vista un posto differente da com’era, un altro luogo, anche se non meglio definito. Le luci fluttuavano nel buio del mio campo visivo, sotto alle mie palpebre abbassate, riuscivo ad osservarne la scia mentre si muovevano in maniera lenta, come animate da una vita propria, corpi luminosi che continuavano a irradiare la loro presenza da distanze inaccertabili.

Muovevo i miei passi lungo il bordo di un qualcosa che assomigliava sempre più al filo di un rasoio, un punto di equilibrio assolutamente incerto e instabile: non mandavo avanti un piede con la coscienza di ciò che sarebbe potuto accadere al passo successivo. Tutto si completava nella manifestazione di una sola azione, non di due o cinque oppure cento: il futuro era soltanto quello possibile entro il raggio di un secondo, forse due, quasi esclusivamente in tempo reale, il presente stretto, il resto non era rivestito di importanza. Pensare, progettare, parole senza alcun significato, che lasciavano soltanto la coscienza dolorosa di un’incapacità macchinata ad arte, che era meglio seguire in modo esatto.

Continuavo a chiudere gli occhi per qualche frazione di secondo, tutto mi pareva in qualche modo più accettabile così, ma non perdevo il senso della mia presenza sul viale: mi sentivo osservata in ogni momento, forse da dietro quelle braci di sigaretta così distanti da brillare giusto per un attimo, e poi sparire. Non c’era altro: il vuoto pneumatico dell’impossibilità di qualsiasi altra scelta era evidente, tanto valeva cercare di immaginare il buio in qualche modo, privo di quelle luci che continuavano ad affollare il mio bisogno di non essere.

Bruno Magnolfi

domenica 15 maggio 2011

Ipotesi inconsuete

L’uomo si era affacciato alla finestra del suo appartamento, al secondo dei tre piani di un palazzo dalla facciata piuttosto anonima, senza particolari caratteristiche. La ragazza, che aveva probabilmente fatto suonare il campanello del suo piccolo appartamento, restando sopra al marciapiede, sembrava adesso attratta da qualcosa, forse soltanto dei rumori che provocavano dei bambini in un cortile proprio lì accanto, e quando infine aveva deciso di voltare lo sguardo verso le finestre in alto da dove l’uomo si era affacciato, si era subito come resa conto che probabilmente doveva avere sbagliato l’indirizzo.

Aveva detto qualcosa, lei, dal basso, che il suo interlocutore non era riuscito neanche a comprendere, ma probabilmente era stato tale il modo, così cortese e sorridente, con il quale aveva in qualche maniera cercato di spiegarsi dalla strada, che quest’ultimo era rientrato, per andare con solerzia a premere l’interruttore tramite il quale si apriva il portone del palazzo. Il sole di quel tardo pomeriggio era piacevole, l’uomo si era sentito bene per quell’attimo in cui si era affacciato alla finestra della sua cucina, tanto da chiedersi perché non lo avesse fatto prima, non foss’altro che per starsene a guardare le persone che scorrevano lungo i marciapiedi, e a registrare quelle vetture, poche a dire la verità, che passavano ogni tanto in quella strada di quel quartiere fuori mano.

La ragazza era entrata nel portone, lo aveva richiuso alle sue spalle, quindi aveva preso le scale con calma, e si era soffermata per un attimo sul pianerottolo del primo piano, l’uomo l’aveva ben vista mentre ne studiava la fisionomia e soprattutto il passo con cui stava salendo, quasi troppo lento ad essere sinceri, ed osservandone i capelli, l’abbigliamento, persino le scarpe. Infine lei aveva ripreso a salire quegli ultimi scalini, proprio nel momento in cui l’uomo aveva provato un moto come di fastidio per quella cosa che stava capitando e gli faceva senz’altro solo perdere del tempo. Lei, continuando la sua ascesa lungo quelle ultime due rampe, aveva proseguito ad osservare solo i gradini avanti a sé, e soltanto quando era giunta a pochi passi di distanza aveva sollevato lo sguardo verso di lui, che era rimasto immobile, quasi con curiosità ad attenderla.

L’uomo aveva già scartato dentro di sé alcune possibilità: non poteva essere una venditrice di prodotti, quella ragazza, non aveva alcun bagaglio; non poteva neppure essere una sua lontana parente, non ne aveva lui di quell’età; neppure poteva darsi svolgesse lavoro come fattorino o come portatrice di messaggi, non c’era nel suo vestiario alcun riferimento ad un compito del genere; ed oltretutto nessuno di quel settore si sarebbe posto a salire le scale con quella lentezza. Così sembrava non esistesse proprio alcuna possibilità, se non qualcosa che sfuggiva alla normale comprensione. Forse, tornando alla prima impressione che lui con giudizio aveva avuto, era quasi sul punto di sentirsi ormai convinto che quella donna avesse, per sua disgrazia, sbagliato l’indirizzo, e forse stava già pensando di interromperle la fatica di salire quegli ultimi due o tre gradini, di avvertirla dell’errore, insomma, quando lei, guardandolo con un sorriso, quasi con semplicità, ebbe a dire soltanto: sono la nuova inquilina del terzo piano; mi scusi, ma non possiedo ancora la chiave del portone principale.

Bruno Magnolfi

venerdì 13 maggio 2011

Succede, qualche volta.



Forse non sarebbe stata quella la maniera giusta per risolvere i miei guai, pensavo mentre entravo dentro a quel piccolo ufficio postale del paese, proprio lungo la strada provinciale. Neppure mi affrettai, non ce n’erano motivi, attesi con pazienza, guardando certe carte, che tutti fossero usciti da quell’unico locale, quasi all’ora di chiusura, e che fosse rimasta soltanto quella figura d’uomo dietro al bancone, seduta al suo sportello, solerte nel timbrare qualche cosa. Lo guardavo mentre lui distrattamente mi chiedeva di cosa avessi mai bisogno, ma io ero vigile e osservavo già dietro di lui quel muro anonimo con appoggiati solo un armadio semplice insieme a uno scaffale, con la porta socchiusa sul fondo, proprio nel mezzo, alle sue spalle.

Dissi buongiorno, solo per una sorta di abitudine, senza ironia, mentre già gli puntavo alla faccia il taglierino. Lui non disse niente, non si mosse, e questa momentanea assenza di ordinari sentimenti forse innervosì i miei gesti. Immaginai in un attimo la sua vita, il suo lavoro sicuro, il suo ruolo monotono e importante nel paese, e ne ebbi disgusto, non so perché, forse per quell’invidia che nasceva dal contrasto con la mia esistenza senza regole. Avevo proprio chiare le mie idee fino ad un momento prima, come tutto il proseguo della storia, ma ogni cosa adesso pareva così ordinaria che cercavo in qualche modo di far emergere un dettaglio. Non so neppure in fondo perché cercai qualcosa che rompesse quello stallo insopportabile che si era profilato, ma il mio gesto frettoloso solo per caso andò proprio a tagliargli la carne della faccia, senza che potessi fare molto per impedirne il compimento.

Forse l’uomo urlò, non saprei dirlo, forse rimase incredulo e impaurito di quel sangue che in un attimo sporcava il suo consumato posto di lavoro. Mentalmente ricominciai daccapo quel percorso che mi aveva portato proprio fino lì, ed anche in una seconda ipotesi riflettevo che avrei desiderato far sparire l’uomo alla mia vista, come se non fosse mai esistito, via dalla mia strada. Eppure tutto era ormai iniziato, non potevo far niente per fermare il corso delle cose, così quando vidi la donna farsi sulla porta alle spalle di quel suo collega e giungere assordante il rumore di quella sirena, forse l’unica protezione contro la gente come me, non riuscii più neanche a pensare, e restai lì, pietrificato, solo a guardare quel luogo senza senso, e quell’uomo che in mezzo vi danzava, unico elemento mobile di tutto quanto il quadro.

Parlai all’uomo allora, gli urlai che doveva darmi i soldi, e lui reggendosi la faccia aprì il cassetto e mi gettò sul banco tutto ciò che conteneva. Ebbi un moto d’odio per quella persona che rovesciava così il suo disinteresse per i miei problemi, la mia vita, il mio difficoltoso esistere, liquidandomi con qualche banconota, così pensai di infierire ancora su di lui, come contro la rappresentazione di ciò che mi lasciava estraneo al mondo, ma mi trattenni. Andava tutto storto, pensavo, pochi soldi, la sirena che richiamava l’attenzione di tutto quel paese e delle guardie: mi avrebbero acciuffato, ne ero già convinto. Pensai ad un gesto che riscattasse quei miei errori, che ne trovasse un senso, forse, ma non seppi pensarne neanche una traccia, così tornai ad uscire sulla strada provinciale, proprio da dove ero arrivato, svuotato ormai di qualsiasi desiderio.

Cercai di fuggire allora, com’era normale che facessi, il resto non voglio neppure ricordarlo.

Bruno Magnolfi

domenica 8 maggio 2011

Tra madre e figlio


La mamma ed io avevamo i nostri miti, i nostri linguaggi segreti, i nostri scherzi rituali…. Jean Paul Sartre

Supplica a mia madre



E' difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:

è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata

alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame

d'amore, dell'amore di corpi senza anima.

Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu

sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

........

poesia di Pier Paolo Pasolini

venerdì 6 maggio 2011

Un motivo per guarire.


Con lo sguardo basso, camminando con lentezza e scorrendo lungo gli interminabili corridoi dell’ospedale Policlinico, Lello, senza neppure avere in mente una meta precisa, lasciandosi sfiorare continuamente da parenti e amici che a quell’ora sono tutti in visita ai moltissimi ammalati che affollano i reparti, si sente confortato dall’idea che nessuno pare si preoccupi di lui. Si muove con circospezione, in ogni caso, soppesa ad ogni passo ogni dettaglio, evita di essere avvicinato da qualsiasi camice bianco che ogni tanto si trova ad incrociare, e se ne va avanti, senza neppure sapere verso dove, ma come muovendosi in una giungla infida, passando comunque in rassegna con attenzione i pericoli che incombono e le minacce che possono sussistere.

Non entra nelle camere, non gli piace vedere gli ammalati dentro ai letti, pallidi, sofferenti, spesso senza alcuna forza, lui si limita a pensare che ci sono, sono là, sotto alle coperte, a volte stanno ad occhi chiusi, in tanti casi parlano con qualcuno, cercano di sentirsi come gli altri, come quelli che sono lì, vicino a loro, però in piena salute. Scende le scale di servizio, Lello, sale sopra l’ascensore assieme ad altra gente, va a sedersi dentro una saletta, come molti, ma soltanto per un attimo, poi riprende instancabile con il suo girovagare silenzioso.

C’è una donna di cui si ricorda, Lello, e lui si sente consapevole che è il suo stesso viso quello che sta cercando adesso tra tutta quella gente, anche se forse non è neppure possibile che lei sia proprio lì, in quell’ospedale. Cecilia, ecco che ricorda anche il suo nome, una persona gentile, sorridente, che qualche tempo prima veniva a far visita a qualcuno che poi fu trasferito, un suo parente forse, e a volte lei lo incrociava, mentre Lello come al solito camminava lungo il corridoio, e gli chiedeva in certi casi qualcosa sulla sua salute, poi lo salutava in fretta, questo si, ma gli lasciava dentro alla memoria quel suo sguardo bello, comprensivo, che apparentemente durava solo un attimo, ma che per Lello proseguiva per dei giorni interi.

Qualcuno inizia già ad andarsene, l’orario delle visite sta quasi per finire, Lello si volta velocemente, prende l’ascensore e torna al piano terra, passa davanti alla portineria dove lo salutano, sembra proprio che tutti lo conoscano là dentro, anche se lui non risponde quasi mai. Poi, tramite un altro vasto corridoio, esce da quella clinica per rientrare nel reparto dove qualcuno lo sta già aspettando: sono queste le regole, il medico è stato persino troppo chiaro, soltanto un’ora per andare a muoversi in mezzo alle persone, non di più, poi Lello, come tutti lo chiamano in quell’ambiente, deve rientrare alla sezione chiusa, quella destinata agli psichiatrici.

Non lo sa il dottore che lui cerca Cecilia; crede che vada a girare dentro all’ospedale senza neppure avere un motivo preciso. Non importa, il dottore svolge il suo lavoro, probabilmente di tutto il resto non gli interessa neanche molto. Un giorno, tra tutta quella gente, Lello incontrerà la sua Cecilia, ne è più che sicuro, e sarà allora che correrà dal medico, e gli dirà che c’è riuscito, che è successo proprio quello per cui lui da tanti anni stava cercando di guarire: non importa se Cecilia lo avrà riconosciuto in quella confusione, per Lello sarà sufficiente averla vista, almeno un’altra volta.

Bruno Magnolfi

domenica 1 maggio 2011

Il lavoro del giardiniere.


Giorgio era felice, non sapeva neppure spiegarsi bene il perché, ma gli sembrava che tutto quel giorno girasse nella maniera appropriata. La ghiaia scricchiolava sotto alla suola delle sue scarpe nel breve vialetto alberato che immetteva alla villa, ed oggi aveva deciso di iniziare le potature dei susini e degli albicocchi, un lavoro che si prospettava lungo e difficile, e forse avrebbe copiosamente sudato su e giù per la scala, ma questo era forse quanto gli piaceva di più: perdere quasi completamente il senso di tutte le cose, faticare da solo stringendo nelle mani quei sottili rami d’albero troppo svettanti, fino a sentirsi stremato in quei compiti semplici, in quelle attività che gli parevano certe volte poco più di una sciocchezza, che peraltro non gli impegnavano troppo la mente, quasi fossero un automatismo.

Certe volte, quando entrava timidamente, ma sempre per qualche importante motivo, appena con un piede, niente di più, con le sue scarpe così poco adatte, dentro all’ingresso di quella casa maestosa al centro del suo grande giardino, veniva subito colpito da quell’aria che si respirava là dentro, sempre un po’ tesa, con la signora dai modi spesso nervosi, l’ingegnere con il suo sguardo che pareva folgorare, i ragazzi sempre in silenzio, mai una risata serena, immobili nei loro atteggiamenti educati e composti. Giorgio lavorava da anni a quel loro giardino, tanto da conoscerlo come una parte stessa di sé, eppure continuava a sentire la grande distanza che lo separava da quei proprietari, come se fosse quasi impossibile ammettere di essere fatti ugualmente di carne e di ossa.

Ma a lui non importava, certe volte si sentiva talmente contento di quella sua vita, di quel contatto bellissimo e continuo con la natura e con le stagioni, da sentirsi capace di fare a meno del resto. E quel giorno un sole caldo e incoraggiante era sorto alle spalle di una sottile tramontana che aveva spirato per quasi tutta la notte: Giorgio lo sapeva che la giornata sarebbe stata bellissima, e quel primo sole caldo lo aveva piacevolmente accompagnato lungo il tratto di strada che lo separava dalla sua abitazione modesta fino a quel vasto giardino. Era presto, la villa pareva ancora immersa nel sonno, lui era andato nella sua rimessa, aveva tirato fuori gli utensili, aveva preparato tutti gli attrezzi per portare avanti il lavoro, poi si era fermato un momento sopra al piazzale di terra battuta.

La signora dalla finestra del primo piano lo stava guardando, lui per un attimo aveva fatto finta di niente, poi aveva alzato la testa e le aveva quasi gridato: buongiorno!, come a cercare di spartire con lei almeno una parte di quella felicità che si sentiva traboccare da tutte le parti. La signora aveva soltanto mosso una mano, senza cambiare l’espressione del viso, aveva mostrato con grande evidenza che per lei non sarebbe stata affatto una buona giornata, poi era rientrata dentro la stanza. Giorgio avrebbe voluto fare qualcosa per lei, mostrarle la strada per arrivare a farla sentire contenta, ma gli pareva impossibile, non sarebbe mai riuscito a spiegare a nessuno quale poteva essere quel suo segreto, se mai di segreto si poteva parlare. Infine si mosse verso il frutteto, e quando si accorse che la signora era uscita da casa e si era accostata dietro di lui quasi a spiarne le mosse, gli parve già un buon risultato.

Si volse Giorgio, proprio verso di lei che restava ferma a sette o otto passi da lui, la guardò con il suo sorriso di sempre, pensò per un attimo qualcosa da dirle, qualcosa di bello, di piacevole, forse di divertente, ma alla fine rimase in silenzio, quasi impercettibilmente turbato. Si poteva pensare, a giudicare dalla sua espressione, che la signora avesse voglia di piangere, chissà poi per quale motivo, pensava Giorgio, e chissà poi perché veniva proprio da lui che in fondo era soltanto un povero giardiniere. Lei intanto aveva continuato a guardarlo, aveva lasciato in aria una breve pausa, si era lisciata quasi per vizio il vestito, poi a voce bassa aveva detto soltanto: devi cercarti un altro lavoro, Giorgio; mio marito ha deciso che non servi più in questa casa.

Bruno Magnolfi