mercoledì 31 agosto 2011

Il percorso meteorologico.



Lei sa di essere una persona seria, se ne rende conto ogni volta che si ferma con garbo a parlare con le persone che conosce, con i vicini che abitano in quella stessa strada leggermente fuori mano dove abita anche lei, o anche con i suoi colleghi di lavoro, in quei lunghi corridoi del palazzo di uffici dove si reca ogni giorno con puntualità. Sa che per lei l’età giusta è ormai trascorsa, ma anche se è rimasta da sola senza essere riuscita a costruire, così come aveva sperato, una relazione duratura, questo non ha, tra i suoi pensieri, quasi alcuna importanza.

Ritiene fondamentale invece riuscire ad organizzare bene il suo tempo, dedicare le sue energie alle cose che le piacciono, ripetere costantemente i gesti e i comportamenti che conosce a menadito, e di cui è convinta praticamente che non possa esistere possibilità per migliorarli. Così si sente bene, perfettamente a proprio agio quando si siede da sola sul divano della sua piccola casa, e ritiene di aver fatto ogni volta tutto ciò che si era prefissata: anche se nessuno le telefona o passa a farle visita, non ha alcuna importanza, pensa; lei sta bene, la sua coscienza è a posto, il suo percorso è stabilito, e niente o quasi può intervenire per variarlo.

Poi apre l’armadio e osserva i suoi vestiti: ritiene di non aver niente di adatto se vuole uscire vestita in modo da sentirsi veramente a proprio agio, così come neppure un paio di scarpe, tra tutte quelle che possiede, le paiono adeguate; non sa da cosa nascono questi suoi precisi sentimenti, però sa che la sua è un’esigenza che sente nel profondo, impossibile aggirarla. Infine indossa i capi che le appaiono come i meno peggio, ed esce di casa, senza neppure sapere con certezza verso dove vuole dirigersi. Sale sopra un mezzo pubblico, gira per le strade senza meta, infine si ritrova nei pressi della stazione ferroviaria. Si siede sopra una panchina, osserva le persone in partenza che si affrettano ai binari, prova un impulso mal contenibile a partire, anche se non farebbe mai una cosa di quel genere.

Quindi si alza per tornare verso la sua casa, ma immagina qualcuno che la fermi, le dica qualcosa che lei in un primo momento non riesce neppure a comprendere: il percorso che si compie in certi casi è minimale, dice la persona; ma questo non ha alcuna importanza: è dentro di noi che le cose hanno un senso, un equilibrio apparentemente perfetto che sembra non abbia bisogno di nient’altro. Ma l’attimo importante è quando si verifica uno scarto, si interrompe quella completezza che ci pareva ferrea, inamovibile.

Lei resta ferma, in piedi, per un attimo lunghissimo, infine se ne torna quasi di fretta verso casa, cerca di lasciare quel pensiero alle sue spalle, tenta di tenerlo distante, di pedinarlo mentre corre verso l’autobus. Sembra che niente adesso sia giusto nella sua giornata, che il suo percorso personale abbia subito ora una vera e proprio interruzione. Entra in casa e si siede, il suo barometro sul muro dice che domani la giornata sarà probabilmente infastidita da una pioggia debole; non importa, pensa lei, metterò il mio piccolo ombrello pieghevole dentro la borsa.

Bruno Magnolfi


sabato 27 agosto 2011

In volo, sopra la gente.



Iniziai a volare in un giorno qualsiasi, proprio quando meno me lo sarei aspettato. Mi ero seduto in campagna sopra un muretto, ed ero rimasto lì, ad osservarmi attorno e a meditare sui miei guai. Poi mi ero sollevato in piedi per osservare qualcosa giù per la collina, in fondo alla strada sterrata che si andava a congiungere con quella principale che portava al mio paese, due chilometri più avanti. Mi ero sollevato lentamente quasi senza accorgermene, fino a posizionarmi a tre o quattro metri dal suolo. Muovevo le braccia come se nuotassi immerso in un’acqua trasparente, e avanzavo con calma, con naturalezza, come se una forza incomprensibile mi tenesse in quella posizione, e mi permettesse di librarmi.

Più tardi rimisi i piedi sulla terra e tornai a casa. Sorridevo tra me di quel segreto, custodendolo come una cosa rara, e mi permettevo di osservare tutti quanti con un sottile senso di superiorità che precedentemente non avevo mai provato. Nei giorni seguenti proseguii sempre da solo con i miei esercizi, scoprendo che soltanto da quel muretto riuscivo a spiccare il volo, ma ad ogni prova, senza alcuno sforzo, riuscivo ad ottenere sempre buoni risultati. Ogni volta, tornando a casa, mi sentivo sempre più distante e superiore nei confronti dei vicini di casa e di tutti i miei tanti conoscenti, ed avevo iniziato a provare quasi un senso di pena per coloro che continuavano a salutarmi con semplicità, come sempre avevano fatto, ignari delle differenze intervenute nel frattempo.

In seguito, come capita spesso per tante cose, tutto quanto, e persino in troppo poco tempo, divenne una semplice abitudine: non mi sentivo più neanche particolarmente superiore agli altri, ed anzi, avevo iniziato in breve a provare un certo nervosismo, pensando soprattutto che quel che avevo messo a punto con la mia tecnica, non potesse servirmi nel futuro praticamente a niente. Così avevo iniziato a riflettere su una buona scusa per richiamare tutti quanti fino lì, di fronte a quel muretto che mi permetteva di lievitare in aria, senza dire niente delle mie capacità, ma le cose si dimostrarono più difficili di quel che avrei pensato, e anche quando cominciai a dire che per me era una cosa di importanza decisiva, molti di quelli del paese con cui avevo parlato, giusto per convincerli delle mie buone ragioni, mi rispondevano che avevano altro da portare avanti, e che non avevano tempo per seguirmi e dedicarsi a me.

Alla fine riuscii a reclutare solamente tre persone, ma a me parvero decisamente sufficienti, considerando che quando si sarebbe diffusa la notizia del prodigio, tutti gli altri sarebbero corsi per assistere al miracolo coi loro stessi occhi. Fu al momento che quei tre erano lì a guardarmi, proprio nel momento in cui ero già salito in piedi sopra a quel muretto, che sentii qualcosa dentro di me che non mi parve del tutto convincente. Rimasi lì, difatti, ed i miei piedi non ne vollero sapere di staccarsi dalle pietre. Gli altri non riuscivano neanche a capire a che cosa gli era stato chiesto di assistere, così io iniziai a scongiurarli di credermi sulla parola, che riuscivo veramente a spiccare il volo, e che era già accaduto tante volte, addirittura ogni giorno per dei mesi, addirittura fino al pomeriggio precedente a quel giorno per me infausto.

Se ne andarono senza neppure dire niente, scuotendo la testa e lasciandomi ai miei guai, e a me prese quasi una crisi isterica pensando a quello che mi stava succedendo. Non passò molto tempo, provavo avversione persino nel tornarmene a casa, e quando poi le autorità del paese mi dovettero rinchiudere, io non riuscii neppure ad obiettare qualche cosa: in fondo era giusto così, pensavo; meglio finire segregato piuttosto che cercare di convincere quei paesani delle mie buone ragioni, tanto più che probabilmente nessuno di loro mi avrebbe mai creduto, neppure se davanti ai loro occhi fossi entrato tutto intero dentro a una nuvola, lasciandoli per terra come sciocchi. Sapevo solo io che cosa avevo fatto e quali erano state fino a poco prima le mie capacità, e in fondo per me questo era già decisamente sufficiente.

Bruno Magnolfi


La verità incomprensibile



Il locale non era affollato. La signora Lucia si era seduta ad un tavolino in fondo all’ampia sala del bar principale del suo quartiere, e si era fatta servire dal cameriere una fumante tazza di the con del limone. Era bello prendersi una pausa del genere ogni tanto, pensava; lasciare che le cose scorressero un po’ senza preoccuparsene troppo. Le piaceva anche star lì a guardare le persone che entravano e uscivano da quel locale, ma senza curiosità, solo per il gusto di passare in rassegna espressioni e modi di fare che la facevano sentir viva, in un luogo privilegiato di osservazione.

Un uomo e una donna, molto più giovani di lei, erano entrati quasi con timidezza dentro a quel bar, e con calma erano andati a sedersi proprio vicino al tavolino della signora Lucia. La ragazza, spostando la sedia, le aveva lievemente sorriso, come per un senso di rispetto per quel rito del the in cui la signora sembrava occupata, poi aveva detto qualcosa sottovoce, senza riferirsi a nessuno in particolare, come per un commento neutrale. La signora Lucia dapprima aveva risposto con un accenno del capo, poi aveva distolto il suo sguardo per tornare a sorseggiare la sua bevanda.

L’uomo aveva detto una frase a voce bassa, poco dopo, probabilmente chiedendo alla ragazza la sua ordinazione per il cameriere, e lei aveva risposto in modo un po’ goffo, guardandosi attorno, come nervosamente a cercare un’ispirazione dallo stesso locale. Infine avevano chiesto al cameriere di portare loro dei toast, del succo di frutta, del vino e anche un caffè. Poi lui aveva preso un mano della ragazza tenendola in mezzo alle sue, sopra al piano del tavolo, accarezzandola con delicatezza, e continuando a guardarla negli occhi. Lei si era schernita, aveva sussurrato qualcosa, poi era tornata a guardare la porta del bar, attenta ad ogni persona che entrava.

Non era passato molto tempo, la signora Lucia stava già pensando di andarsene, la serata cominciava a scurirsi e a lei faceva piacere rientrare prima che per strada fossero accesi i lampioni. Era entrato qualcuno da cui la ragazza non voleva probabilmente farsi vedere, e così, all’improvviso, aveva mostrato una grande agitazione: si era abbassata, nascondendosi dietro al tavolino, come per mettere a posto una scarpa o qualcosa del genere, aveva poi armeggiato a viso basso con la sua borsetta rimasta sopra una sedia vicina, e infine aveva voltato la testa verso la signora Lucia, coprendosi il viso alla meglio con la lista delle consumazioni.

Il cameriere era arrivato subito dopo appoggiando sul tavolo dei due i piattini con le ordinazioni, ma la ragazza aveva fatto cenno al compagno di volersene andare. L’uomo era sbottato dicendo qualcosa probabilmente di poco elegante, e lei gli aveva assestato un piccolo pugno a una spalla, come a mostrare quanto distanti fossero i loro pensieri. Infine si era alzata, di fretta, aveva ripreso la sua borsetta e in un attimo aveva infilato la porta, sparendo senza dire nient’altro.

L’uomo era rimasto come paralizzato; poi, lentamente, si era voltato verso la signora Lucia, come a cercare una solidarietà del tutto improbabile. Oggi le donne sono diventate per me assolutamente incomprensibili, disse; la signora Lucia si limitò a guardargli la faccia, l’espressione spaurita che aveva, gli occhi slavati e persi dietro ad una verità per lui inconcepibile, ma non disse niente.

Bruno Magnolfi


mercoledì 24 agosto 2011

Lontano dalle opinioni comuni.



Quasi ogni sera, attraverso i muri sottili di quella palazzina di recente costruzione, si sentiva quella coppia litigare, tanto da non provare più, per quelle urla continue e quegli strepiti, una vera e propria meraviglia. Al contrario, era stato proprio quel silenzio improvviso, iniziato alla metà del mese e proseguito per diverse settimane, a proporre a tutto il vicinato una vera e propria variazione dei comportamenti di quei giovani sposini, una novità talmente inusuale da destare molta curiosità nelle famiglie di tutto il condominio.

Qualcuno dei coinquilini si era spinto poi a valutare con maggiore attenzione, soffermandosi sul pianerottolo davanti a quel loro portoncino, ogni più piccolo segno che potesse assumere rilievo in quella vicenda, senza però riuscire a trovare niente di diverso rispetto al periodo precedente, ed altri avevano lanciato più di uno sguardo alle finestre di quell’appartamento che si affacciavano proprio sulla strada, ma tali indagini sommarie non avevano condotto proprio a niente, se non a constatare che nulla di rilevante doveva essere accaduto, anche se la curiosità di tutti proseguiva ad imperare. Ogni mattina ambedue gli occupanti della casa, presa in affitto da non più di sette o otto mesi, uscivano presumibilmente per andare a lavorare, anche se con orari leggermente differenti, ed ogni sera rientravano quasi contemporaneamente, tenendo in apparenza un comportamento così ordinario, adesso che pareva filassero in perfetto accordo, da destare in chi teneva d’occhio ogni loro movimento, più di un fondato sospetto.

Ormai dai loro muri, quando i due sposi si trovavano in casa, si sentivano provenire soltanto deboli rumori e quasi mai una parola o un accenno di discussione, come se al periodo precedente fosse seguita una tregua forte e duratura che teneva tutti nel dubbio e nell’attesa di qualche nuovo evento. Solo la televisione, nella normale consuetudine di tutto il resto del quartiere, regnava incontrastata in quella casa, sintonizzata generalmente negli orari giusti sui canali che trasmettevano i notiziari nazionali.

Il vicinato, naturalmente, per non apparire troppo ansioso, evitava di parlare di quella materia lungo le scale e nelle zone comuni, ma nel chiuso delle famiglie quello era velocemente diventato quasi un argomento d’obbligo, tanto da spingere qualcuno, senza peraltro ricavarne alcuna novità, a chiederne notizia allo stesso amministratore del loro condominio, un uomo grigio e piccolo che si vedeva di rado lì nei pressi, però sempre vestito elegantemente, dispensatore di complimenti e di saluti verso tutti.

L’epilogo avvenne in un pomeriggio afoso della fine di quell’agosto, quando tutti erano ormai rientrati dalle loro brevi vacanze, ed erano velocemente ritornati ad appoggiare il proprio orecchio alle pareti, nella speranza di captare qualche segno di quei vecchi litigi che avevano riempito di soddisfazione tante monotone serate. L’ora era quella del tardo pomeriggio, quando i bambini, sotto al controllo delle mamme, si fermavano a giocare nei giardinetti davanti alla loro palazzina, e gli uomini, tornando a casa dai rispettivi luoghi di lavoro, si fermavano volentieri a scambiare qualche parola di fronte al loro condominio. I due improvvisamente si erano affacciati alla finestra, appoggiando gli avambracci sopra al davanzale e meravigliando tutti, qualcuno immaginando fosse una finta, per la serenità di cui riuscivano improvvisamente a dare mostra. C’era stato un attimo d’attesa, naturalmente, mentre tutti, di tre quarti, con apparente disinteresse, avevano continuato, senza perdere una virgola, a tenerli d’occhio; poi quelli avevano accostato con lentezza le imposte della loro finestra, come per ritirarsi nell’appartamento, ma in realtà mostrando con soddisfazione, a tutto il vicinato là riunito, un cartello che campeggiava attaccato sull’esterno di quelle semplici persiane: affittasi, diceva, quasi come uno schiaffo a tutto il condominio, e forse, a ben vedere, a quell’intero quartiere.

Bruno Magnolfi



La libertà oltre il molo.



La strada di asfalto grigio scendeva lentamente fino al piccolo porto marittimo, in un caldo di polvere, di erba secca e generale sentore di gasolio. All’attracco non c’era quasi mai più di una nave alla volta, due in situazioni eccezionali, e sul molo alcuni vecchi si ostinavano a pescare a bolentino dei pescetti senza troppa importanza, ma più per passare il tempo che per sentirsi davvero utili a qualcosa. Il caldo estenuante, sottovento al promontorio, pareva quasi un’ironia nei confronti di qual mare scuro e intenso che si frangeva in schiuma bianca solo oltre mezzo miglio fuori al largo, in una striscia ricca di vento, di correnti fresche e di senso di libertà, lungo quel solco immaginario che lasciavano le navi appena se ne andavano.

In bicicletta, praticamente ogni giorno, lui scendeva, tenendosi sui freni, fino giù alla marineria, cercando qualcuno con cui scambiare quattro parole che spesso si moltiplicavano, fino a replicare i medesimi argomenti di altre volte, discorrendo delle scarsissime novità che venivano registrate in quei dintorni, e nell’attesa di risalire col fresco della sera fino al poggio riarso che dominava quella piccola insenatura naturale, quasi nascosta al mare aperto da quel braccio di roccia, come un gigante che ne cautelasse una preziosa intimità.

Solitamente lui entrava con calma nell’unico caffè all’aperto, quando non si fermava ancora prima, e si sedeva su di una seggiola di alluminio rivestito, conservando l’aria di chi può permettersi una pausa, ma con un’espressione quasi da introverso, il cappello sulla fronte e la camicia azzurra, da marinaio in attesa. Quel pomeriggio di fine agosto sembrava poi che tutte le persone che normalmente frequentava si fossero tenute bene alla larga da quel piazzale accanto al porto, e lui non si era quasi accorto di quella donna abbronzata, seduta a un tavolo, unica presenza nel caffè, vestito lungo, aderente, bianco sulla pelle, proprio come la schiuma delle onde.

Prese il giornale rimasto sgualcito dalla mattina sopra al tavolo, poi volse la testa verso di lei, proprio mentre la donna diceva al cameriere di servirle per favore un’altra vodka fredda. Cercò qualcosa nel suo vocabolario mentale che potesse corrergli in aiuto, al fine di allungare una parola o una battuta, ma non trovò assolutamente niente, troppa distanza, pur con tanto dispiacere, lo separava da una persona di quel tipo. Fu lei ad essergli d’aiuto, come captando qualcuna di quelle sue lente vibrazioni, e disse solo: non si dovrebbe mai bere con tutto questo caldo, come fosse una frase riferita più a se stessa che a qualcuno pronto ad ascoltarla, ma così lui si sentì di replicare: certe volte però si può essere giustificati.

Lei si sollevò dal suo tavolo, prese il bicchierino e andò a sedersi da lui, proprio lì accanto. Lo guardò un momento, poi appuntò lo sguardo verso il mare aperto là di fronte, assaporando un altro piccolo sorso, come fosse l’ultimo. Quando andarono via, camminando lentamente insieme sulla strada, lui non si accorse di aver dimenticato persino la sua bicicletta, abbandonandola accanto allo stesso marciapiede. Il cameriere del caffè, che lo conosceva da oltre vent’anni, venne fuori da sotto gli ombrelloni, oltre il perimetro dei cespugli mezzi secchi dentro ai grandi vasi di cemento, giusto per guardare quelle figure allontanarsi quasi incredulo; poi scosse la testa, pensò tra sé che forse in ognuno di noi c’è sempre qualcosa di dormiente, qualcosa che neppure riusciamo a immaginare, e infine riprese il suo lavoro, riflettendo che in fondo non era accaduto davvero niente di speciale, mentre forse la vita scivolava via, fino a prendere il largo, sotto ai suoi occhi.

Bruno Magnolfi

venerdì 19 agosto 2011

(Profilo n. 13). Incontenibile mare.



Cammino lentamente lungo la strada, mi fermo un momento ad osservare il negozio della signora Maria, poi proseguo fino alla fermata degli autobus. Non c’è nessuno, mi siedo sopra la panca metallica, ogni dieci minuti arriva un mezzo pubblico, scendono due o tre persone e se ne vanno svelte per i fatti propri. Osservo tutto ciò che si muove attorno a me, il tempo sembra proprio corra parallelo a questi semplici elementi ordinari; le auto che transitano, l’autobus che sbuffa quando apre le porte pneumatiche, le persone che hanno occhi soltanto per le proprie preoccupazioni.

Il tempo, ecco, tutto questo tempo la cui quantità, in una sola volta, inebria come un mare scuro e profondo, e che qui invece è scandito goccia per goccia nella trasparenza inefficace della quotidianità. Mi alzo, torno indietro fino al negozio della signora Maria, ne guardo la vetrina fermandomi, lei forse mi vede, vorrebbe sorridermi, penso, ma non lo fa, o non lo fa ancora. Ci conosciamo da trent’anni, penso mentre la guardo; io passo ogni giorno da qui, ne osservo il profilo, lei sa di piacermi anche se non ci siamo scambiati mai una sola parola.

Ma oggi è diverso, penso: lei viene verso la porta vetrata, la apre, esce sul marciapiede, dice buongiorno, poi continua a guardarmi negli occhi. Mi dispiace, dico io sottovoce, di darle tutto questo fastidio; ma non riesco proprio a fare a meno di comportarmi così. Lo so, dice la signora Maria; poco per volta ho continuato ad affezionarmi ai suoi modi, alla maniera di fermarsi davanti al negozio, alle sue rughe profonde, da uomo saggio, con quegli occhietti vivi che osservano sicuramente molto di più di tutto quello che vedono. Non so come ringraziarla, dico io, di queste parole. Mi piacerebbe tenerle la mano, starle vicino, anche soltanto sentirla respirare, sapere che qualcosa brilla ancora dentro di noi, nonostante la nostra età già avanzata. Non siamo ancora diventati sterili come sono ormai tutti, dico io, sappiamo gioire delle piccole cose, un semplice gesto apre ancora per noi tutte le porte. Lei continua a guardarmi, ma non dice niente.

La signora Maria non risponde a questi pensieri, resta là dietro a quel suo bancone dentro al negozio, impegnata con qualche cliente, però si lascia guardare, mi permette di fare dei sogni su qualsiasi cosa io mi senta di desiderare; forse ride di me certe volte, penso, e delle mie fantasie in cui lei viene fuori, sul marciapiede, mi viene incontro, quasi fermando per un attimo questo stupido tempo che prosegue per sempre a sgocciolare fuori con ritmicità da un contenitore di mare dentro al mio povero cuore; poi lei dice soltanto: lo so, lo sento tutto quello che scorre, non potrebbe essere in altra maniera.

Bruno Magnolfi


mercoledì 17 agosto 2011

-Il diradarsi delle ombre .


Fermo nel letto, immobilizzato da lunga malattia, l’uomo da solo pensava alla sua vita, sicuramente confinata, per tutto il suo futuro, soltanto in alcune delle molte attività che lui aveva svolto fino a poco prima. La sua paralisi, seppur parziale, non gli avrebbe più permesso di esercitare tantissime delle cose in cui normalmente si era da sempre impegnato, e questo era già più che sufficiente a procuragli un notevole abbattimento morale.

Fuori da lì il mondo procedeva come sempre, indifferente a quei suoi problemi, e lui, forse per egoismo, sentiva adesso fortissimo l’ostacolo insormontabile che lo separava dalle tante cose che da adesso non sarebbe più riuscito a compiere. Poi però, ad un tratto, si era vergognato di quei suoi pensieri, aveva riflettuto meglio le cose, forse cercando di affrontarle da un punto di vista differente, ed aveva compreso in un lampo che non avrebbe più dovuto confinare le sue idee in ciò che il suo corpo non sarebbe più stato capace di eseguire, bensì doveva impegnarsi in quegli aspetti del pensiero che precedentemente aveva tralasciato.

Certo, questa era la strada: c’erano tanti argomenti di cui poteva ancora occuparsi, forse avrebbe potuto addirittura scoprire nuovi interessi, nuovi aspetti della realtà a cui non si era mai in nessun modo dedicato; sicuramente la maniera peggiore di reagire a ciò che era successo, sarebbe stata quella di isolarsi nella sua nuova condizione, piangendo dei bei tempi in cui poteva fare tutto, anche se il tutto era sempre stato qualcosa di sfuggente, un elemento quasi sottovalutato e diluito tra i tanti aspetti della quotidianità. La parte destra del suo corpo adesso non rispondeva più ai suoi comandi cerebrali, soltanto camminare o essere autonomo diventavano fatti quasi impossibili. Sentiva forte il morso crudele dell’esistenza, ma non voleva abbandonarsi al dolore e ad uno stupido rimpianto, non potevano essere questi i freni alla sua vita.

I suoi pensieri erano lucidi adesso, e se tutti i muscoli, le membra, tutto il suo corpo, non voleva più rispondere alla sua volontà e alla sua mente, ciò doveva assumere un significato marginale: lui era vivo, e la sua vita avrebbe trovato le forme per mostrarsi, per interagire con le cose e anche con gli altri. Poi era entrato nella camera il suo amico, quello di sempre, con il suo sorriso commosso e forse quasi sciocco, i gesti minimi che mostravano la partecipazione al suo dolore. Non preoccuparti, gli aveva subito detto l’uomo; è solo un’altra esperienza quella che adesso sta iniziando. Una nuova fase della vita, forse anche migliore rispetto a tante altre.

Bruno Magnolfi


lunedì 15 agosto 2011

Terra bruciata.



Pioveva da giorni, ed io ero entrato nei magazzini dei formaggi all’ingrosso tanto per dare un’occhiata. Sapevo che là dentro ultimamente, tanto per non farsi notare, si ritrovavano spesso alcuni della banda per cui lavoravo, ed entrare là dentro quel giorno, pur con il cappello sugli occhi, era per me un po’ come sfidare la sorte, considerato che non mi ero più fatto vedere da loro nelle ultime due o tre settimane. Ero entrato nella sala principale mentre la gente trattava le partite di cacio di qualsiasi genere e tipo, e l’odore nell’aria era talmente accentuato che si faceva quasi fatica persino a respirare.
Sul tavolato dove si camminava alcuni passavano con i carrelli pieni di forme, e si sentivano le suole delle scarpe scivolare sull’untuosità dei formaggi, così tutto appariva precario e instabile, quasi che niente là dentro fosse stabilito una volta per tutte. Avevo girellato osservando il personale che continuava a trattare sui prezzi, poi avevo sentito qualcuno che diceva qualcosa da dietro le mie spalle, come per invitarmi a voltare la faccia. Mi ero girato quanto bastava, ed erano lì, tutti quanti, cinque o sei componenti della banda con cui avevo lavorato per quasi due anni, e mi guardavano con calma e intanto sorridevano, con il loro classico modo di prendere tutti per i fondelli.
La prima parola era la loro, io mi potevo soltanto preparare per giustificarmi, tenermi pronto con parole adeguate per dire che ero venuto lì apposta a cercarli, e per informarli che da domani avrei ripreso il lavoro come sempre, che tutto era a posto, ma loro sembravano parlare senza cercare di riferirsi proprio a me, come se volessero continuare soltanto a sorridere e a dire a voce alta che non c’era proprio niente da fare, prima o poi in quella città ci si imbatteva in chiunque, e altre cose del genere. Davvero?, disse poi Sandro sempre ridendo e sempre con la sua solita impossibile ironia, quando spiegai le mie buone ragioni e che sarei tornato al lavoro, perché ero stato malato ma che adesso stavo meglio, ero venuto fin lì proprio per dirglielo. Lui continuava a sorridere con la sua faccia da schiaffi, con le mani sprofondate dentro alle tasche del suo bel vestito di seta, e proseguendo a guardarmi, senza far altro.
Fai un salto in ufficio, più tardi, magari nel tardo pomeriggio, disse con finta serietà, capace che hai giusto bisogno di un paio di spiccioli per rimetterti in sesto: passi da lì tipo stasera, poi ci vediamo domani al solito posto. Feci subito cenno di si, capivo che erano tutti arrabbiati con me, così dissi grazie, ma sottovoce, e Sandro mi sfiorò leggermente una spalla, poi si abbassò, visto che era molto più alto di me, e in un orecchio mi disse di aspettare là dentro ancora un’oretta, di tener d’occhio una certa persona che mi fu indicata, e poi tutti quanti se ne andarono via.
In tutto quel tempo da quando non mi ero più presentato da loro avevo cercato di entrare in un’altra banda locale, perché i modi di Sandro e dei suoi non mi piacevano più: Sandro era capace di tutto, mi facevano paura quei suoi modi, però ero sicuro che lui non fosse informato di niente, se avesse saputo qualcosa per me sarebbe stato un bel guaio, ma da quel che mi avevano fatto capire tutto pareva essere filato via liscio. Al pomeriggio, come mi avevano detto, avevo preso la macchina per andare da Sandro, ma dopo i primi cinquanta metri mi ero subito accorto che i freni erano andati. Era stato qualcuno dei suoi ragazzi, non c’era alcun dubbio, l’avvertimento era ben studiato, visto che la mia strada era leggermente in discesa. Al semaforo rosso andai ad immettermi sul viale chiudendo gli occhi e piegando repentinamente sulla mia destra, ed un’auto riuscì per un soffio a schivarmi, strombazzando e sbandando sull’asfalto bagnato.
Poco più avanti c’era un meccanico, così alla meglio mi fermai lì davanti e gli chiesi di riparare la macchina per il giorno seguente. All’ufficio, come lo chiamavano tutti, arrivai con un autobus, continuava a piovere senza fermarsi, ed io oramai mi sentivo tutto bagnato. Sandro fece chiudere la porta, io credevo che dopo lo scherzo dei freni tutto fosse concluso, invece mi presero in due per le spalle, e lui, con quel suo solito odioso sorriso venne verso di me con una siringa caricata chissà con che cosa. Si fece sotto con calma, poi mi graffiò il viso con l’ago, lasciandomi uscire qualche goccia di sangue, e poi mi infilzò la siringa sopra la spalla, alla base del collo, mentre continuavo con tutte le forze a cercare di divincolarmi.
Il giorno seguente mi svegliai in un posto all’aperto, vicino ai binari, poco lontano dalla stazione dei treni, così barcollando salii sul primo convoglio che passava da lì, e senza neppure chiedermi niente andai via, fuori dai piedi.
Bruno Magnolfi

domenica 14 agosto 2011

Al cospetto di un pensiero diverso.





Corrado entra in casa, si siede, aspira la tranquillità che emana dalle sue cose, da quegli oggetti comuni da cui è circondato. Immagina qualcuno, là dentro, accanto a lui, un personaggio qualsiasi, inventato, che si muova lentamente lungo la parete, e che semplicemente osservandolo sia in grado di ricavare un giudizio su quella sua solitudine, quelle abitudini, quel continuo cercare la protezione delle mura di casa. Lo vede, sta fermo, lo guarda. Lui si volta, sa perfettamente che se riesce a distrarsi il suo personaggio svanisce, riappare soltanto nei casi in cui resta immobile e non ha niente di cui occuparsi. Allora si siede, il suo personaggio è lì, accanto a lui, sembra che dica tra sé: il vento muove le foglie degli alberi, sulle strade la gente s’incontra, dentro ai locali alcuni si sentono bene a scambiare opinioni tra loro.

Silenzio, l’orologio sul muro ticchetta le ore per proprio conto, Corrado si alza, la serata fuori dalla finestra appare bella, non c’è alcuna ragione per trattenersi ancora tra le mura domestiche: il suo personaggio è presente, adesso è seduto con le braccia rilasciate sopra le gambe, sembra aver assunto un atteggiamento diverso, come se non trovasse più necessario rompere l’intimità della casa per lasciare entrare quel tanto di fresco, di inesplicato, di novità che le strade della città sembrano offrire.

Corrado si sente preoccupato: qualche volta la sua solitudine è superiore a qualsiasi altra realtà, e anche uscendo, andandosene in giro in mezzo alla gente, le cose non sembrano cambiare, anzi, certe volte quella sensazione angosciosa sembra acuirsi. Si muove per casa indeciso su tutto, poi capisce, dallo scatto della serratura nel portoncino, che la sua vicina del piano di sopra è rientrata. Resta attento a qualsiasi rumore, la sente muoversi lungo le tre stanze dell’appartamento identico al suo, la segue da un vano a quell’altro, gli riesce persino di vederla tanto è concentrato intorno a tutti quei suoi comportamenti.

Infine cala il silenzio, Corrado disperato guarda il suo personaggio che lo osserva a sua volta, sembra quasi che uno di loro non riesca a rendersi conto di quel vuoto improvviso, come se il tempo, invece di prendersi una semplice pausa, si fosse interrotto del tutto. Corrado si alza, adesso sente il bisogno di fare qualcosa, allora indossa la giacca, il peso rassicurante delle chiavi dentro una tasca, la voglia improvvisa di lasciare là dentro tutto quanto: esce chiudendo con cura il portoncino del suo appartamento, senza avvertire dentro la testa neppure un pensiero su ciò che sta componendosi.

Poi si immobilizza sul pianerottolo, osserva le scale che scendono e salgono, quasi smette di respirare tanto la spinta che prova è ormai determinata: in un attimo, senza neppure riuscire a rendersi conto davvero di ciò che lo spinge, è davanti alla porta della sua vicina, al piano di sopra. Appoggia con accortezza l’orecchio sul legno, analizza ogni rumore che percepisce, resta lì a lungo come incapace di qualsiasi altra cosa, fino a quando il suo personaggio, con modi lenti e rassicuranti, gli si para davanti, lo prende per mano, lo riporta nel suo appartamento. Corrado adesso si sente più tranquillo, ma quella solitudine sa che lo sta frastornando, si convince in un attimo che deve finire, che deve smetterla di starsene lì, lo ha promesso a qualcuno, a quel personaggio che non lo abbandona, che è sempre con lui e non lo tradirà mai, probabilmente, per nessuna buona ragione.

Bruno Magnolfi


sabato 13 agosto 2011

Un luogo non solo per me.



Certe volte immagino di starmene qua, in questa piccola stanza senza finestra, e nel debole chiarore di una lampadina gialla e un po’ fioca, raccogliere i pensieri che più mi tormentano. Lo so che fuori da qui mi prendono in giro, dicono di me che sono ritardato, ma a me non importa, sono sempre stato così, non saranno certo gli altri con quei loro stupidi e strampalati discorsi a farmi cambiare. Però tutti mi lasciano sempre da solo, non vogliono mai che io stia con loro.

Su una parete, in questa stanza, c’è qualcosa che mi rende un po’ inquieto, un disegno, un cartone colorato attaccato ad un chiodo. Non si capisce cosa si sia cercato di raffigurare, si vede distintamente il profilo di una persona, ma il segno non è stato preciso, e tutto è confuso, come una macchia di tanti colori scuri e indistinti. Mi piace osservare il cartone attaccato sul muro, è come se ogni volta che torno a guardarlo ci trovassi dentro qualcosa di diverso, quasi il disegno stesso cambiasse ogni volta. Sono attratto da quello che vedo, ma ne ho anche paura, volto lo sguardo, ma poi torno immancabilmente con gli occhi verso il disegno.

In questa piccola stanza non si sente neppure un rumore, neanche una voce, soltanto qualche scricchiolio che ogni tanto esce da un angolo ingombro di vecchi giornali. Qui dentro ci posso entrare ogni volta che voglio, senza preoccuparmi di niente, chiudo un attimo gli occhi e sono subito qui, alla faccia di tutti coloro che hanno sempre da dire qualcosa di me e dei miei modi. Loro non lo sanno che io ho la mia stanza dove venire a pensare, credono che io sia uno qualsiasi, e invece non si rendono conto che prima o poi riuscirò a capire il disegno e a uscire da qui con le idee tutte in fila, le riflessioni più giuste di tutti.

Se qualcuno di quelli che mi prendono in giro mi portasse qualche volta con sé, mi lasciasse parlare, mi ascoltasse davvero, forse racconterei del disegno, del cartone attaccato sul muro e della stanza dove spesso mi trovo. Ma a nessuno interessa mai niente di me, sembra sempre che la mia presenza dia noia, provochi soltanto disagio e bisogno di prendere in giro. Non lo so, certe volte mi pare che l’unico posto per me sia la stanza dove alcune volte mi piazzo, ma c’è sempre quel cartone con la persona disegnata che mi spinge prima o poi fuori da lì. Io cerco di resistere, guardo il disegno, tento di superare quella paura che mi prende, ma poi tutto sparisce, torno alle mie solite cose, anche se sento che già mi manca quel senso di completezza che provo soltanto qui dentro.

Prima o poi, ne sono sicuro, riuscirò a capire chi è la persona che è stata raffigurata su quel cartone: forse sta proprio lì tutto l’enigma della mia stanza e del resto. Sono sicuro che riuscirò presto a scoprire tutto quanto quello che serve, lo dirò a tutti, e forse qualcuno di loro mi seguirà per riuscire a vedere quello che sarò riuscito finalmente a capire, ed allora dovranno ricredersi, rimarranno sicuramente stupiti, e così, una volta per tutte, cambieranno la loro opinione.

Bruno Magnolfi


venerdì 12 agosto 2011

(Profilo n. 12). Nessuna alternativa.

Come era già accaduto altre volte, perfino il giorno precedente la festa patronale del paese, mentre sistemavo accanto al marciapiede la mia motocicletta, avevo visto un gruppo di persone che bisbigliava indubbiamente qualcosa sul mio comportamento, guardandomi e commentando i miei gesti, i miei modi, la mia persona. A me interessavano ben poco i discorsi fatti da certa gente, così fino ad allora mi ero sempre preoccupato soltanto delle mie faccende, lasciando il vicinato ai suoi sterili e monotoni discorsi, anche se, a lungo andare, iniziavo a sentirmi piuttosto infastidito da quei loro modi.
Lo sapevo benissimo cosa pensassero tutti di me: ero uno strano, forse troppo magro, sempre vestito di scuro, abitavo da solo e restavo sempre in silenzio, non mi fermavo mai a parlare con nessuno di loro, e anzi, spesso scansavo tutte le persone che parevano osservarmi perennemente con la coda dell’occhio, forse per tenermi maggiormente sotto controllo. Probabilmente qualcuno di loro aveva addirittura paura di me, che potessi avere dei poteri malefici nei loro confronti, per esempio, ma nessuno, in quei dieci mesi da quando abitavo in quella casa, aveva cercato di dirmi qualcosa intorno a quegli argomenti. Avevo una rendita e non lavoravo, così questo fatto, agli occhi di quegli sciocchi paesani, era forse ancora più pesante del resto.
Sistemata la motocicletta ero entrato nella mia casa, un’abitazione grande e ben fatta che avevo ereditato da uno zio morto diversi anni prima, e qualcuno mi aveva seguito con lo sguardo fino a quando non avevo richiuso il portone, ma inizialmente non mi ero preoccupato per nulla: niente di diverso dal solito, avevo pensato; tutti si aspettano qualcosa da me che non sanno neppure cosa sia, e proprio per questo forse hanno paura dei miei gesti, del mio modo di guardare le cose, dei miei comportamenti. Ma una volta salite le scale interne e arrivato nella mia stanza preferita, avevo osservato attentamente la strada scansando leggermente le tendine della finestra, e avevo visto che loro erano ancora là, e sembrava complottassero qualcosa, forse stavano decidendo di affrontarmi una volta per tutte, e magari avvertirmi che in quel paese non ero assolutamente ben visto e che forse era meglio se me ne andavo al più presto possibile.
Ma io non volevo darla vinta a quella gente senza cervello, anche se mi sentivo ben stufo di tutte quelle faccende, usavo la mia motocicletta per farmi dei giri in campagna quasi ogni giorno, qualche volta arrivavo in città, e il resto del tempo lo passavo in casa mia a dipingere, a leggere e a prendere appunti: non davo proprio fastidio a nessuno. Ma capivo però che un comportamento del genere non era con facilità tollerato, e adesso che si annunciava la festa patronale di quel paese, il sospetto che potessi in qualche modo amareggiarla con la mia presenza o con qualche sistema che solo io potevo conoscere, secondo loro, si era sicuramente fatto più forte.
Quando tornai ad uscire di casa vidi che la mia motocicletta era stata gettata per terra, quasi un avvertimento per quello che sarebbe potuto accadermi, così mi limitai a rimetterla in piedi e ad assicurarmi che non ci fossero danni; decisi subito che per dare un dispiacere a qualcuno, nonostante non fossi credente, avrei partecipato senz’altro alla festa cattolica del giorno seguente, detti un’occhiata alla strada che adesso appariva deserta, misi in moto e andai a fare i miei giri. Non era simpatico quello che stava accadendo, ma non sapevo in nessuna maniera come contrastare quel comportamento di aperto disprezzo verso di me.
Infine decisi di andare a parlarne col parroco. Lo trovai in chiesa che stava preparando gli addobbi per San Lorenzo, e lui non disse niente di nuovo, era a conoscenza di cosa stesse accadendo, soltanto mi pregò di avere pazienza e di tenermi a distanza per il giorno seguente, cosa che mi fece imbestialire ancora di più. Il mattino del giorno di festa mi alzai molto presto, caricai sulla mia motocicletta un bagaglio leggero e me ne andai: avrei chiesto in seguito a qualcuno di mia conoscenza di venire con un furgone a prendere il resto della mia roba; la casa potevo metterla in vendita anche da subito. Nient’altro mi pareva possibile.
Bruno Magnolfi

giovedì 11 agosto 2011

L'organizzazione imperfetta.



Si contavano in numero elevato coloro che non si erano neppure presentati all’ultimo appuntamento: il dirigente aveva parlato di una realtà deludente e malata (aveva proprio usato questa parola), e di una situazione della quale non riusciva neppure a dare una definizione esauriente, tanto si sentiva indignato. Giancarlo stava lì, assieme agli altri, con le mani sprofondate dentro alle tasche, e gli sembrava, in quella riunione all’aperto, che le nuvole in cielo volassero via veloci come aeroplani, e che qualcosa sfuggisse per sempre a quel bisogno generale di analisi delle cose.

L’orario della mensa nell’insediamento non era stato cambiato, nonostante parecchie lamentele, e lui andando via dall’assembramento si diresse per abitudine da quelle parti, anche se non aveva minimamente appetito. L’appuntamento era stato fissato per un giorno della settimana seguente, ognuno dei presenti doveva cercare di convincere gli altri a non disertarlo, - è di fondamentale importanza -, aveva tuonato il loro dirigente. Un buon numero di persone era già presente nelle sale da pranzo, così Giancarlo si era allontanato a passo deciso, ma senza una meta.

Infine era andato a sdraiarsi sul bordo di un fosso poco lontano, e aveva osservato da lì una nuvola bianca che si dissolveva con rapidità. Gli avevano gridato qualcosa, subito dopo, e lui aveva immediatamente provato un senso di colpa, quindi si era alzato, era andato agli uffici e aveva chiesto un colloquio, ma gli era stato risposto che in quel periodo, considerato ciò che stava accadendo, non si stava dando alcun seguito a quel servizio, a meno che non fosse stato un caso di incontrovertibile urgenza.

Lui si sentiva deluso e vuoto di tutto, non ne aveva ancora parlato con anima viva, ma era sicuro che quella organizzazione perfetta stesse incrinandosi senza rimedio, forse non doveva neppure pensarci, perché a chiedere in giro, come sempre accadeva, gli avrebbero sicuramente risposto così: c’era già chi se ne stava occupando. Perciò era tornato al suo negozio di prodotti biologici, e si era reso conto che con appena dodici azioni delle sue mani riusciva ad aprire l’esercizio, pronto ad accogliere il primo acquirente, senza che niente fosse tralasciato.

I suoi clienti ultimamente desideravano tutti qualcosa per dormire e dimenticare, e lui a tutti proponeva degli infusi di una radice in realtà quasi priva di effetti, ma che stava facendo miracoli in chi ci credeva. Coloro che non venivano al suo negozio evidentemente erano rosi dal dubbio, e lui era tenuto a segnalare ogni acquisto sospetto, registrando il numero di matricola dei suoi clienti, e quindi, per sottrazione, anche coloro che apparentemente non avevano bisogno di nulla.

Giancarlo dovette attendere poco avanti che arrivasse qualcuno, e un buon numero di persone affollarono il negozio per tutto quel pomeriggio. Il suo lavoro era quasi metodico, tutto andava avanti come ogni giorno, le risposte erano sempre le stesse, salvo usare qualche espressione diversa tanto per dare un senso di novità ai suoi prodotti. Poi, quasi alla fine del turno, in un momento in cui non c’erano altri clienti, entrarono due persone con il distintivo dell’organizzazione. Dissero che il colloquio richiesto da lui straordinariamente gli era stato concesso, doveva dire subito a loro qual’era il problema da cui si sentiva gravato.

Giancarlo spiegò che era solamente una sciocchezza, una cosa così marginale che non valeva neanche la pena parlarne, ma i due si insospettirono, gli intimarono di chiudere in fretta il negozio e lo portarono via, forse per convincerlo ad un trasferimento. Nessuno ne seppe più niente.

Bruno Magnolfi


martedì 9 agosto 2011

Oltre ogni partenza .(Bionda, naturalmente).


Oltre ogni partenza (Bionda, naturalmente).

Era appena l’alba quando l’uomo, dalla finestra di casa sua, aveva visto salpare la nave petroliera che per giorni era stata alla fonda in quello spicchio di mare. Aveva provato per questo come uno strano dispiacere, una specie di sofferenza da nostalgia per quella presenza silenziosa a cui improvvisamente scopriva di essersi come affezionato, e che ora evidentemente perdeva, senza alcuna diversa possibilità. Si fece la barba, si guardò a lungo dentro lo specchio, poi tornò ad osservare dalla finestra: la nave ormai era quasi un punto nero sopra l’orizzonte, immerso in una leggera foschia rotta soltanto da un pennacchio quasi indistinto di fumo grigio.

Andò in cucina, si preparò del caffè e fece colazione; infine tornò a riflettere su come avrebbe potuto essere stata la sua vita se, come tante volte aveva desiderato, fosse partito, come altri avevano fatto, da quel piccolo posto di mare, magari negli anni giusti, quando le cose erano relativamente più facili, ma si ritrovò, una volta di più, a sorridere amaramente di sé e delle sue incapacità, senza riuscire a immaginare niente di diverso dalle solite faccende. Non c’erano state grandi scelte durante la sua vita, le cose gli si erano sempre presentate una dietro l’altra, e lui era andato avanti senza avere fatto mai un progetto più ampio e articolato: il suo dispiacere era quello di non avere mai neanche tentato qualcosa di diverso, però adesso non ci poteva forse fare niente.

La nave ad un tratto era sparita, ma lui si proiettava già con lei verso il porto di attracco, una grande città marinara, immaginava, e in questo modo si sentiva bene, quasi come se i suoi orizzonti realmente si allargassero. Scese giù in strada, ma fuori, sul lungomare, non c’era ancora nessuno, esclusa una donna che aveva notato già altre volte intorno a quell’ora, una turista che forse doveva soffrire di una leggera forma di insonnia, pensava lui adesso, o di preoccupazioni tali da non lasciarla riposare bene. La osservò senza interesse; lei vide lui, e parve soltanto per un momento che alcuni elementi dei loro differenti pensieri fossero in qualche modo comuni, come se anche quella donna bionda, esattamente come lui, si proiettasse con grande facilità verso chissà dove.

Buongiorno, disse lui, quando ormai erano vicini, e la donna rispose prontamente, sottovoce, ma con un’ombra di tristezza sopra al viso, come se i suoi pesanti pensieri non potessero risultare alleviati da nessuno, meno che mai da circostanze così casuali. Lei proseguiva la sua passeggiata solitaria, lui l’osservava allontanarsi, senza che niente di scambievole potesse inserirsi tra due persone in fondo così distanti come loro; e questo fu vero almeno fino a quando qualcosa di lei e della nave petroliera parve trovare una certa vicinanza di comportamento: l’uomo provò una fitta, un senso di disagio, quasi un bisogno di sentire vicino a sé qualcuno di cui non conoscesse nulla, un forestiero, forse, proprio come erano quella nave e quella donna, e di cui, proprio pur senza saperne nulla, non poteva negare di sentirsi improvvisamente attratto.

Scusi, disse; e lei si volse senza fretta, quasi immaginando il resto. Lui la guardò per alcuni momenti, lei si lasciò osservare; niente, concluse lui, volevo soltanto guardare nuovamente il suo viso, la sua espressione, ecco, forse per ricordarmene in modo più preciso in seguito, quando lei oramai sarà partita. La donna sorrise, poi riprese a camminare.

Bruno Magnolfi



sabato 6 agosto 2011

Solo per musicisti

Mi sento sbandato da mesi, giro per le strade con le mie bacchette preferite “Regaltip jazz” perennemente infilate dentro una tasca, sperando di trovare un ingaggio qualsiasi in questa città, finché non vedo sulla pagina di un giornale che c’è una piccola scuola di musica con sale prova sul retro di un locale famoso. Mi presento esattamente nella maniera come mi trovo, senza neppure darmi una ripulita, e parlo con il signor Martin, dirigente del locale e del resto, che dopo qualche domanda generica mi dice: va bene, e aggiunge che se non ho dove andare posso stare lì assieme agli altri, fino a quando non ci sarà la prova di ingresso alla scuola.

Il giorno successivo il signor Martin mi prende da una parte e senza dire niente mi rifila un pacco di dischi di vinile, come se fosse la lezione da fare. Passano altri giorni in cui io bighellono avanti e indietro facendo i miei paradiddle su un vecchio rullante e su qualsiasi superficie piana che trovo, fino a che spunta di nuovo il signor Martin che mi dice di salire dietro a una vecchia batteria Pearl sopra al palco, mentre lui mette su la registrazione di un pezzo senza capo né coda di Anthony Braxton ai fiati da solo.

Stacci dietro ragazzo, dice senza dare troppa importanza alla cosa, e così io cerco di fare del mio meglio, ma è quasi impossibile perché tutto mi scappa continuamente da qualsiasi parte, e io rullo e schiaccio quanto posso sul ride e sopra ai tom, ma il tempo è una concezione astratta in quel pezzo, così ad un tratto rallento, mi calmo e comincio poco alla volta a capire cosa ci sia veramente da fare. Inizio a concentrarmi su una mia cosa senza più rincorrere niente, invento in un lampo un tempo dispari senza accentarne la battuta, e ad un tratto mi accorgo che Braxton sta quasi venendomi dietro. Poi la registrazione finisce, il signor Martin è già andato via, ma io sento dentro una carica da aver bisogno di suonare per due ore filate.

Il giorno successivo il signor Martin mi fa salire di nuovo sullo sgabello, mi dice di suonare con calma qualcosa tanto per scaldarmi, e a un certo punto fa venire uno dei ragazzi con uno di quei bassi a cinque corde e una passione sfrenata sia per il funky che per Marcus Miller. Faccio del mio meglio appena attacca, ma sento subito che me la sto cavando benissimo, quello è velocissimo e virtuoso ma manovra su tempi facili anche se è sempre in levare, così faccio la stessa cosa e tutto funziona senza problemi.

Il signor Martin annuisce e fa cenno di smettere a un certo punto, dice: va bene; sa che conosco a menadito gli standards, e così adesso posso entrare nella sua scuola di jazz. Si va avanti per una decina di giorni ad un ritmo infernale, suonando e provando ad ogni ora possibile i pezzi più differenti, fino a che, durante una pausa, scopro su un manifesto che c’è il mio nome dentro a un quintetto per rivedere la roba di Coltrane in un concerto da fare nella serata seguente. Il signor Martin mi guarda con la coda dell’occhio e mi fa un cenno. Vado verso di lui, lui sorride, dice: non preoccuparti, segui il tuo istinto, andrà tutto benissimo.

Inizio a suonare regolarmente una volta la settimana in parecchi locali con quel quintetto, e anche in qualche teatro, poi si fa un piccolo tour che va avanti due mesi. Quando si torna il signor Martin ha appena avuto un colpetto, così lo andiamo a trovare in ospedale. Stiamo lì tutti assieme con i sorrisoni ed il resto, e lui dopo un po’ mi fa un cenno, io mi avvicino e lui dice un po’ sottovoce: ragazzo hai della stoffa. Nei giorni seguenti lui se ne va, e noi poco dopo ci chiudiamo dentro a una sala e registriamo il disco dei pezzi su cui abbiamo lavorato per tutto quel tempo.

Certe volte lo sogno, il signor Martin, mentre mi dà affettuosamente una pacca sopra la spalla e mi sorride. Non mi ha mai dato una pacca sopra la spalla, penso subito quando mi sveglio, ma a me piace ricordarlo così, come se avesse avuto per me anche quel gesto.

Bruno Magnolfi

venerdì 5 agosto 2011

La vita ancora da vivere.



Luciano aveva detto qualcosa tra sé, come se i suoi pensieri, ridotto ormai in quello stato da una malattia incurabile, traboccassero fuori in maniera autonoma dalla sua mente devastata dal dolore e dalla coscienza della sua situazione, riversandosi incontrollati su chi si trovava intorno a quel suo letto di casa e di moribondo. Aveva forse sognato qualcosa, in un attimo di vaga incoscienza di cui era preda ogni pochi minuti, ed in quei momenti aveva intravisto qualcuno portarlo via da quel letto, di corsa verso un ospedale poco lontano, dove non era mai stato durante quel calvario che ormai andava avanti da mesi, dove si ritenevano certi di poterlo ancora salvare.

Non c’era stato bisogno di niente, solo molti sorrisi incoraggianti, una iniezione risolutiva, e la sua forza, la voglia profonda di reagire a quello stato, come aveva detto qualcuno. Un’infermiera aveva accarezzato il suo viso, qualcun altro vicino aveva parlato della grande importanza di ridare fiato e calore alla sua persona. Lui aveva quasi provato la voglia di ridere, così aveva ripensato ai giorni salienti della sua vita, ma gli era parso improvvisamente di non avere neanche qualcosa degno di un vago ricordo. Proprio per questo, aveva subito pensato, devo reagire. Devo rimettermi per tutte le cose che non ho ancora fatto, per tutto quello che ho messo da parte per altri momenti, per tempi migliori.

Ma la stanza di quell’ospedale velocemente era svanita, Luciano aveva aperto per un attimo gli occhi ritrovandosi nella sua camera, quella dove aveva passato tante delle sue notti, il luogo dove forse si era sempre sentito maggiormente a suo agio rispetto a qualsiasi altro posto, e così si era mosso leggermente sotto a quelle lenzuola, aveva cercato di apprezzare una volta di più il suo trovarsi ancora là dentro, quasi incapace adesso di desiderare di meglio. Era stato allora che i suoi pensieri avevano avuto un sussulto: aveva aperto la bocca, si era ricordato qualcosa, aveva provato il desiderio di dire una parola alla quale precedentemente non aveva dato importanza, ma che adesso pareva fondamentale.

Vuole parlare, aveva detto qualcuno, tiriamolo su, aiutiamolo. A lui era venuta a mente una ragazza che aveva perso di vista tanti anni prima, ma che adesso pareva parlargli dentro a un orecchio, come se fosse lì, con l’espressione di allora, con la stessa bellissima voce, e lui adesso provava tutta la voglia di rispondere a quel forte richiamo, dire subito a lei le cose che gli erano parse superflue in altri momenti, ma che ora parevano tutte rifiorire nella sua mente, quasi a fargli ancora provare sensazioni lontane.

Velocemente però tutto parve svanire, se non quell’affanno sempre più forte, quella concretezza del male che tornava a martellare il suo corpo, a renderlo incapace di qualsiasi altra cosa che non fosse soffrire senza rimedio. Poi Luciano la vide di nuovo quella ragazza, era lì, accanto a lui, gli diceva di farsi coraggio, che tutto ciò che non era stato capace di dire e di fare era soltanto una parte poco importante. Ciò che sei stato invece non è marginale, diceva; il tuo percorso si è definito insieme ai tuoi gesti, ai tuoi pensieri, ai tuoi desideri. Non importa ciò che è rimasto apparentemente incompiuto o non fatto; era così che le cose dovevano andare, la tua vita è sia ciò che sei stato, che ciò che avresti desiderato di essere.

Bruno Magnolfi

mercoledì 3 agosto 2011

Fortunata stagione di bel tempo.

Dentro di me non c’è niente. Certe volte giro per le strade, incontro qualcuno che conosco, mi fermo per scambiare due parole. Chiedo agli altri come vadano le cose, mi informo se ci sono delle novità, parlo del tempo, delle faccende usuali che si dicono sempre in queste situazioni. Poi riprendo la mia passeggiata. Però spesso vorrei tornare indietro, stringere la mano alle persone con le quali mi sono fermato per parlare, ringraziarle, dire loro parole affettuose, che dimostrino la mia vicinanza a tutte loro che hanno dimostrato rispetto per le mie idee e per il mio tempo. Rido tra me sommessamente, sono contento che i miei comportamenti restino nei limiti dell’insospettabile, che i miei pensieri veri non si mostrino mai, in nessun caso.

Qualcuno poi mi parla di sé, delle difficoltà che ha avuto ultimamente con la salute o con gli affari, ed io annuisco, lascio che le cose si spieghino da sole, restino su un piano comune sul quale tutti ci sentiamo coinvolti e dalla stessa parte. Osservo i gesti di chi parla, le sue espressioni nel definire il sopruso della burocrazia sul cittadino, o la sfortuna per essere incappato in una situazione ai limiti del concepibile. Mi aspetto sempre che qualcosa in tutto questo travalichi la normalità, che mi si chieda un impegno certo, immediato, costruttivo.

Guardo qualcosa più avanti sulla strada: penso che oltre la manciata di parole che ci siamo scambiati sopra questo marciapiede non possiamo fare altro, è ben evidente. Comprendo l’afflizione dalla quale ci si può sentire preda in certi casi, ma è impossibile cambiare delle semplici regole più che definite: ognuno può parlare con tutti quanti di sé e delle proprie disgrazie, può farlo fino anche alla nausea, ma è da solo quando si tratta di affrontarle nel concreto. Proseguo a camminare e sono contento che nessuno oggi mi abbia chiesto soldi o persino parte del mio tempo: non si può approfittare di una conoscenza o di una amicizia per cose del genere, è bene che chiunque se lo metta bene in testa. Per questo vorrei ringraziare ognuna delle persone che ho incontrato, ringraziare tutti coloro che non hanno avuto il cattivo gusto di chiedermi qualcosa: il tempo era bello anche quest’oggi, ho pensato sorridendo, cosa mai dovremo chiedere di più?

Bruno Magnolfi


martedì 2 agosto 2011

La traccia di niente.


Ho visto una lunga nuvola bianca e sfilacciata oggi, quasi uno strappo a dividere due metà di qualcosa, un prima e un dopo, per esempio, come se invece di una gradualità quasi aritmetica il tempo avesse avuto all’improvviso un’interferenza inspiegabile, qualcosa che ne avesse calcato un vero e proprio spartiacque; così pensava il signor Guido mentre tornava a casa a piedi con il suo passo cadenzato, come ogni venerdì, dopo essersi congedato dai pochi colleghi ancora rimasti sul posto di lavoro.

Tutto in apparenza è identico, pensava, eppure qualcosa di impalpabile vibra dentro l’aria, come un elemento imprevisto all’interno di una composizione chimica, che sembra inerte inizialmente, ed invece corrompe rapidamente tutto il resto. Si era fermato, il signor Guido, in apparenza per osservare distrattamente una vetrina, ma in realtà perché improvvisamente affannato, con una leggera sudorazione sulla fronte, quasi che qualcosa si fosse messo in moto dentro di lui, qualcosa che non riusciva neppure a controllare.

Quella nuvola gli provocava un inspiegabile malessere, quasi fosse un segno messo lì solo per lui, e tanto se ne sentiva scombussolato da non avere il coraggio di tornare a riguardarlo. Dentro al negozio, oltre la vetrina davanti alla quale era rimasto immobile, alcune persone stavano acquistando qualcosa, e lo avevano notato: lo sguardo perso, la faccia stravolta, le braccia abbandonate lungo i fianchi come di chi non ha neanche la forza per compiere un gesto o altro. Si sente male, ha bisogno di qualcosa?, disse la commessa affacciatasi alla porta.

Il signor Guido non rispose, pur comprendendo con chiarezza che qualcuno stava riferendosi indubbiamente a lui; si limitò a girare lo sguardo verso quella voce, poi disse, con parole strascicate: signorina, ha visto quella nuvola?, indicando appena con un dito verso l’alto. La commessa sorridendo volse gli occhi per un attimo verso la porzione di cielo che si vedeva dalla strada, poi tornò a guardarlo. Non c’è nessuna nuvola, disse; oggi il cielo è limpido. Forse è questo sole e il caldo che le hanno fatto un brutto scherzo?

L’uomo non commentò queste parole, si limitò a scostarsi e a riprendere lentamente a camminare, senza neppure salutare o ringraziarla. E’ tutto come ormai accade spesso in questi ultimi tempi, pensava tra sé il signor Guido mentre arrancava con passo malfermo lungo il marciapiede: ognuno vede qualcosa di diverso, qualcosa che poco per volta lo distanzia da tutti gli altri, ed anche se cerca di parlarne, le sue parole si perdono in un balbettio insignificante. Non c’è niente da aggiungere, dobbiamo rassegnarci: ognuno è solo nei propri convincimenti, impossibile anche mostrarne le evidenti tracce.

Bruno Magnolfi