lunedì 31 dicembre 2012

Buon Anno

“I pensieri sono perle false finché non si trasformano in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo”Gandhi

domenica 30 dicembre 2012

Chiuso dentro un pensiero.

            
            Era uscito dal locale quasi con stizza. Aveva perduto a carte, anche se questo in fondo non era particolarmente importante. Però non era riuscito ad essere il giocatore di sempre, spiritoso, brillante, di compagnia. Si era lasciato andare anche ad un piccolo sfogo contro la sfortuna che secondo il suo parere lo aveva perseguitato per tutta la sera, e questo non era da lui.
            Così era uscito dal circolino con l’impellente necessità di starsene solo, ma quel nervosismo che aveva accumulato lo faceva ancora star male. Perciò si era incamminato verso la stazione ferroviaria, giusto per guardare qualche treno in partenza e prendersi un caffè in quel bar quasi anonimo, in mezzo a qualche faccia che probabilmente non aveva mai visto.
            Ma alla fine si era ritrovato ad osservare la parte lucida dei binari, ad essere stanco senza il coraggio di tornarsene a casa, e ad avere sonno senza la possibilità di andare a dormire. Un barbone gli si era avvicinato senza neppure chiedergli niente, e lui aveva sopportato con indifferenza quella presenza, senza la volontà di allontanarsi o di dire qualcosa.
            Poi era arrivato un treno locale, fermandosi con un certo stridore dei freni, qualche passeggero era sceso dai vagoni e lui era rimasto ancora quasi impassibile. Non c’era alcun senso in ciò che stava pensando, eppure non riusciva neppure a riflettere qualcosa di minimamente diverso. Osservava gli sportelli aperti di quel convoglio come una possibilità di fuga da tutto, repentina, irrazionale, inspiegabile, e questa era l’unica idea che riusciva ad avere.
            Infine il barbone all’improvviso gli aveva chiesto sottovoce dei soldi, come se ognuno prima o dopo dovesse pur fare la propria parte: prima che parta, aveva detto, me lo lascia uno spicciolo? Ma lui lo aveva guardato a lungo senza rispondere, quasi incantato; e infine, come lasciando affiorare alle labbra un pensiero sofferto, aveva detto semplicemente: mi dispiace, in tasca ho soltanto il biglietto del treno, nient’altro; e con queste parole era salito senza più indugi.

mercoledì 26 dicembre 2012

Stretta dai sogni.

            
            E’ soltanto il risveglio il vero problema. Io dormo e sogno, ed il mio mondo in questa fase meraviglia per la sua ricchezza.
La donna in genere inizia la sua giornata per automatismi, assaporando a volte, insieme alla consapevolezza del giorno reale, il gusto residuo che certe volte trattiene del suo assopimento. Qualche volta, proprio per questo, lei ha addirittura provato ad annotare ciò che riesce a ricordare di quei suoi sogni, ma non è mai riuscita a restituire minimamente qualcosa di quei sapori. Così affronta la realtà, esce da casa e osserva gli altri sopra il suo autobus, quasi come figure fantastiche imprigionate all’interno di un ruolo.
            Va da suo padre, quasi ogni giorno, a tenergli compagnia un’ora o due, a sbrigare qualche faccenda per lui, a rendersi conto con attenzione del suo stato corrente. Lui abita da solo la sua vecchiaia, non troppo distante da casa della donna, e trascorre le giornate in silenzio, seduto accanto alla finestra, come in attesa di qualcosa. Lei si muove in fretta, gli fa delle domande, a volte gli racconta qualche piccolo fatto, ma non gli parla mai dei suoi sogni e di come tutto sia diverso quando questi si snodano di notte nella sua mente addormentata ma vigile.
            Anche la donna vive nell’attesa, e intanto inganna le giornate portando avanti ciò che le sembra più naturale. Suo padre non le chiede mai niente di sé, forse per pudore, forse perché secondo lui tutta la vita è soltanto riuscire ad essere concreti, realizzati nello scandire il tempo nei giusti attimi. Lei non si sofferma quasi mai ad osservarlo, però qualche volta gli tocca un braccio, o una mano ruvida, lo sfiora come per sentirne la corporalità. Le giornate si assomigliano tutte in questa maniera, eppure ciascuna ha una sua peculiarità, una qualche caratteristica propria.
            Lei torna a casa, rivedrà suo padre la mattina seguente, gli porterà qualcosa di buono da mangiare, forse, starà di nuovo con lui, a tenergli un po’ di compagnia, perché certe volte ha paura che la solitudine per lui poco a poco diventi un disturbo o un malore. Nel pomeriggio si occuperà della sua famiglia, del marito, della sua casa. Sarà esattamente ciò che ognuno si aspetta che sia, senza minimamente cercare qualcosa di diverso. Certe volte poi la donna si siede a pensare, senza un oggetto preciso a cui riferirsi, e immagina tutta la sua giornata come una lunga pausa di sospensione nell’attesa dei sogni che coroneranno come sempre il suo sonno notturno.
            In molte occasioni le pare una forma solo egoistica la sua, ma non può farci niente. La rende felice quel suo pensiero, e la coscienza che tutto il suo tempo prima o poi terminerà in quel cullarsi di immagini oniriche, per lei è più importante di tante altre cose; ed anche se sa che i suoi sogni sono solamente proiezioni positive della sua fantasia, ugualmente è contenta soltanto al pensiero che la sua mente riuscirà ancora a vagare in quei suoi mondi fantastici, e forse questo, anche se non è sufficiente a darle una serenità che comunque non riesce quasi mai ad avere, sa che è comunque qualcosa di estremamente importante, almeno per lei.
            Bruno Magnolfi

Arriva Natale...


Distanza di sicurezza

             
            Ero entrato nel piccolo appartamento alle spalle di quella signora che neppure conoscevo, ma alla quale avevo spiegato, con poche parole pronunciate sottovoce sulla porta, di essere un amico del figlio, e di avere notizie di lui. Ristagnava un vago odore di minestra nell’aria, e forse di chiuso e di mobili vecchi. Ero stato fatto sedere presso il tavolo del salottino, e la signora, in piedi, tenendosi le mani, mi aveva presentato rapidamente a sua figlia, una ragazza non bella e forse timida, che era rimasta in disparte e in silenzio, alzando appena il suo sguardo giusto un momento.
            Avevo spiegato con poche parole di non essere propriamente un amico, ma anzi di avere conosciuto Armando solo nell’arco di due o tre giorni, quando casualmente ci eravamo ritrovati insieme, a fronteggiare una situazione complessa quale quella di sopravvivere in qualche maniera in una terra straniera. Per me era stata solo una condizione momentanea, dicevo, ma lui non aveva più documenti, e per questo motivo mi aveva spiegato che non poteva arrischiarsi a varcare il confine e rientrare nella sua patria; e d’altra parte neppure cercare un lavoro era qualcosa in cui potesse facilmente confidare. Così stava vivendo alla giornata, spiegavo alle due donne, senza più un soldo né un indirizzo a cui farsi spedire un aiuto da voi o da chiunque altro.
            La signora sembrava comprendere perfettamente le mie parole, anzi, sembrava che fosse già preparata ad un rapporto del genere, tanto che fermò ad un tratto le mie parole giusto per chiedermi di quale città si stesse parlando e in che situazione fisica avevo trovato il suo Armando. Dissi che lui stava bene, almeno in apparenza, soltanto cercava di non dare troppo nell’occhio, e quindi si spostava continuamente, tanto da non permettermi di sapere con esattezza se attualmente fosse ancora nello stesso luogo in cui lo avevo lasciato, oppure no. In ogni caso è una persona che sa cavarsela, dissi con forza, sicuramente troverà la maniera di uscire da quella situazione.
            La signora era rimasta in silenzio sulle mie ultime parole, tanto che per uscire da quell’aria di imbarazzo che pareva aleggiare, stavo per alzarmi e prendere congedo da lei e da sua figlia, quando quest’ultima disse qualcosa, come parlando tra sé: voglio andare da lui, spiegò con una smorfia del viso; ho bisogno di vederlo di persona, o almeno di andare a cercarlo, anche se ho capito che non sarà facile. Dissi in due parole che era una faccenda complicata e pericolosa, che sconsigliavo vivamente, ma lei insisteva, quasi come una ripicca, o forse un proprio bisogno di staccarsi per un po’ di tempo da quella casa. In ogni caso spiegai con precisione dove avevo lasciato Armando l’ultima volta che lo avevo veduto, per il resto, dissi, ci vuole soltanto un po’ di fortuna.
            Quindi mi alzai, mi accorsi che la signora stava rigidamente in silenzio, come conservando una grande dignità, e ugualmente mi accompagnò verso la porta senza aggiungere una sola parola. La figlia, al contrario di ogni mia aspettativa, iniziò a dire che in quella casa c’era bisogno di Armando, che lei lo doveva trovare, che non poteva esserci nessuna soluzione diversa, quello era il suo compito, quella la missione a cui era chiamata. La signora mi guardò un momento negli occhi come a spiegare con uno sguardo ciò che non poteva con le parole, io le strinsi la mano ed uscii, ma fu mentre scendevo le scale che sentii urlare: lo amo, è un amico di Armando, voglio dedicargli la vita, andremo insieme a trovare mio fratello, lui saprà dove dirigersi. Raggiunsi la strada allontanandomi velocemente da lì, poi, più tardi, quando mi ritrovai con Armando, gli dissi soltanto che le cose che mi aveva precedentemente fatto presente, purtroppo non sembravano affatto cambiate. 
            Bruno Magnolfi

domenica 16 dicembre 2012

Sofia.

Come un aquilone senza corda e una farfalla senza ali, mia madre mi ha insegnato a volare con i sogni.

domenica 9 dicembre 2012

Sofia.

"Ogni bambino che nasce è in qualche misura un genio, così come un genio resta in qualche modo un bambino." (Arthur Schopenhauer)
 

giovedì 6 dicembre 2012

Malamore.

Le donne provano la temperatura del ferro da stiro toccandolo. Brucia ma non si bruciano. Respirano forte quando l’ostetrica dice «non urli, non è mica la prima». Imparano a cantare piangendo, a suonare con un braccio che pesa come un macigno per la malattia, a sciare con le ossa rotte. Portano i figli in braccio per giorni in certe traversate del deserto, dei mari sui barconi, della città ai piedi su e giù per gli autobus. Le donne hanno più confidenza col dolore. Del corpo, dell’anima. È un compagno di vita, è un nemico tanto familiare da esser quasi amico, è una cosa che c’è e non c’è molto da discutere. Ci si vive, è normale. Strillare disperde le energie, lamentarsi non serve. Trasformandolo, invece: ecco cosa serve. Trasformare il dolore in forza. Ignorarlo, domarlo, metterlo da qualche parte perché lasci fiorire qualcosa. È una lezione antica, una sapienza muta e segreta: ciascuna lo sa.

Maria Malibran, leggendario mezzosoprano, che impara a nascondere le lacrime durante le terribili lezioni di canto inflitte dal padre. Jaqueline du Pré che suona come un angelo il violoncello e sorride a ogni fitta alle ossa del braccio malato, il braccio che finirà per ucciderla. Denise Karbon che scia ingessata, Vanessa Ferrari che volteggia con una frattura al piede. La prostituta bambina che chiude gli occhi e pensa al prato della sua casa nei campi. La giovane donna che si lascia insultare e picchiare dal suo uomo perché pensa che quella sua violenza sia una debolezza: pensa di capirne le ragioni, di poterle governare, alla fine. Pensa che lui sia fragile quando strilla e quando alza le mani: si calmerà, basterà lasciargli il tempo, si placherà. La compagna del genio, la donna di Picasso che, lei sola, ne conosce e ne tollera le miserie: in questo più forte e più grande di lui. L’artista straordinaria che si lascia soggiogare in una vita ordinaria e la trasforma in poesia, la donna ordinaria che fa dei suoi giorni un capolavoro di pazienza. Le migliaia, milioni di donne che vivono ogni giorno sul crinale di un baratro e che anziché sottrarsi quando possono, quelle che possono, ci passeggiano in equilibrio: un numero da circo straordinario, questo di tentare di addomesticare la violenza la violenza degli uomini qualche volta andando a cercarla, persino. Perché è un antidoto, perché è un prezzo, perché non si può fare diversamente, perché il tempo che viviamo è questo e chiede uno sforzo d’ingegno per conciliare la propria autonomia con l’altrui brutale insofferenza.

Le storie che ho raccolto sono scie luminose, stelle cadenti che illuminano a volte molto da lontano una grande domanda: cosa ci induce a non respingere, anzi a convivere con la violenza? Perché sopporta chi sopporta, e come fa? Quanto è alta la posta in palio? Alcune soccombono, molte muoiono, moltissime dividono l’esistenza con una privata indicibile quotidiana penitenza. Alcune ce la fanno, qualche altra trova nell’accettazione del male le risorse per dire, per fare quel che altrimenti non avrebbe potuto. Grandissimi talenti sono sbocciati da uno sfregio. Altrettanto grandi sono stati spenti. Per mille che non hanno nome, una cambia il corso della storia. Sono, alla fine, gesti ordinari. Chiunque può capirlo misurandolo su di sé. Sono esercizi di resistenza al dolore.

«Le femmine servono ai cuccioli» dice il bambino seduto davanti alla tv, danno un documentario sugli animali. Poi ripete: «Lo sai mamma? Le femmine servono perché devono fare i cuccioli, i maschi da soli non li possono fare».

Non c’è dubbio, i maschi da soli non possono. Però le femmine non «servono» solo a fare i cuccioli, penso di rispondere. Non dico niente, invece. Ci sono cose che non si spiegano con le parole. Lo capirà, lo vedrà, lo imparerà strada facendo. Certo, bisogna sempre ricominciare da capo. A ogni generazione di nuovo. Dimostrare, convincere. A cosa servono le femmine? Sembra proprio, nelle parole di un bambino, l’origine di tutte le questioni. Non sono sicura che a fare la stessa domanda a cento adulti, uomini e donne, si otterrebbero risposte convincenti. «Servono a far più bella la vita» mi ha risposto un amico credendo di dire cosa gradita, immagino sentendosi galante. Deve essere qui il cuore di tutto. Siamo proprio certi che le femmine servano a qualcos’altro che a fare i cuccioli, a rendere piacevole l’esistenza altrui? E loro, le donne, dietro le parole e i gesti di una sicurezza ogni giorno esibita in pubblico ne sono davvero convinte in privato? Cosa sono disposte a offrire a sopportare in cambio della possibilità di dimostrare che no, non servono solo a fare i cuccioli né ad allietare con la loro deliziosa presenza le impegnative vite altrui? Ma soprattutto, perché in fondo sentono, anche quando non lo dicono, di doverlo dimostrare?

Vorrei poter dire che se devi uscire alle cinque per un impegno improrogabile e alle cinque meno dieci la persona con cui dividi l’esistenza ti pone una questione epocale da cui dipende l’esito della tua giornata, della settimana e della vita, ecco, quella è una prova di forza, una forma sottile di violenza che si esercita nel celebre quesito: dimostrami che cosa è più importante per te. Perché si sa che l’amore viene prima di tutto, per le donne è certamente così. Perché se hai interessi fuori, più importante deve essere sempre, tuttavia, l’interesse dentro. Perché se un uomo può dire scusami ma ho da fare, e dimenticarsi l’anniversario, la spesa, la festa di compleanno del bambino, la consegna a domicilio, una donna no, non può farlo. O meglio: può, ma paga un prezzo.

Dolore e forza delle donne in Malamore
L'ultimo saggio di Concita De Gregorio

La notte in città

            
            Allungo una mano nel buio insonne della mia camera. Avverto il vuoto, e l’aria ferma, assieme a quel senso di protezione e di silenzio dato dalle pareti mentre racchiudono lo spazio finito di questa stanza. Mi metto seduto sul bordo del letto, non mi interessa neppure sapere che ore siano, mi basta immaginarmi sperduto come sono tra i sogni e il riposo di tutta la gente che abita questa città. Vorrei spingermi fino ad una finestra, osservare dai vetri la strada vuota rischiarata da qualche lampione, ma non lo faccio, resto qui a pensare al miglior comportamento da seguire appena si sarà fatto giorno.
            Sono una persona comune, penso; uno qualsiasi che persegue una lotta di sopravvivenza per riuscire a conservare se stesso; uno come tutti, un altro tra coloro che si ritengono capaci di avere ancora pensieri propri. Non voglio però sentirmi in balia della solita angoscia di cui soffrono gli altri, voglio reagire, immaginarmi qualcosa di diverso per la giornata che vado ad affrontare, magari sentirmi capace di riflettere a fondo sui gesti e le espressioni che mi appaiono di fronte, quali elementi da interpretare ed a cui almeno provare a dare un significato.
            Resto seduto sul letto, nel buio, ma immagino la stanza, non riuscendo a vederla, molto più grande di quanto lo sia veramente, e mi sento quasi sperduto in questa specie di capannone industriale dove è stato collocato per me questo giaciglio. L’aria adesso sa di lavoro, di persone che affrontano dei sacrifici, di gesti consuetudinari portati avanti nella ricerca di qualcosa che almeno sia di sollievo a questo niente di cui siamo fatti. Osservo il procedere delle cose che mi circondano, tutto mi sembra un assurdo, tanto vale distogliere la mente da questi pensieri.
            Vado alla finestra, la apro, lascio che il freddo mi punga la pelle, ma ancora non riesco a sentire la solidarietà che vorrei manifestare verso tutti coloro che avverto in tutte le case che ho intorno. Mi vesto, scendo per strada, mi pare che adesso tutto sia vivo, che attenda soltanto il momento in cui l’ingranaggio riparte, che la macchina ritrovi il suo moto. Corro, mi metto ad urlare lungo la via come fossi uscito completamente di senno. Nessuno mi ferma, vado avanti a sentire il freddo della notte sopra la faccia, sento la disperazione farsi largo nella mia testa. Infine mi fermo, mi accuccio per terra, spossato: spesso la realtà è incomprensibile, penso; adesso mi sento figlio di questa incomprensibilità, e anche di tutta questa follia.
            Bruno Magnolfi

mercoledì 5 dicembre 2012

Un saluto frettooso.



          

           
            Forse, in tanti anni, ho soltanto cercato delle varianti, degli argomenti alternativi, delle possibilità differenti, che mi permettessero di non vedere quello che ero veramente, pensa Ernst; e tutto questo almeno fino a quando non ho conosciuto te, che mi hai fatto scoprire, soltanto con uno sguardo, la semplice umanità da cui ero composto.
            Poi lui esce dalla stanza, s’incammina verso la strada che lo attende, non si volta indietro, ciò che aveva da dire lo ha già detto, chiude la porta alle sue spalle ed improvvisamente ha la coscienza di essere da solo, come se questo stato fosse un vantaggio e non un limite. Guarda la campagna che si snoda avanti a sé, respira l’aria fresca che lo accompagnerà, e infine si avvia, senza alcun ripensamento.
            Lei lo osserva con distacco dalla sua finestra: quando lo rivedrà saranno ambedue diversi, non si può far niente per evitare tutto questo; tanto vale cercare di raccogliere tutti quei piccoli elementi positivi che possono quasi per gioco essere rimasti impigliati nella personalità di ognuno, e in questo modo archiviare il vissuto sotto l’egida dell’esperienza, perché nient’altro è possibile pretendere.
            Bruno Magnolfi

martedì 4 dicembre 2012

La curiosità dei bambini è elemento indispensabile per conoscere ed esplorare il mondo che li circonda..

Solamente un ragazzo a cavallo.

            
            Non so, dice lei; forse ci potrei pensare. E’ strana certe volte Rita quando parla di alcuni argomenti. Non riesci a capire se una cosa le vada oppure no, pensa lui mentre guarda da qualche altra parte per non dimostrarle di essere leggermente deluso. Certe volte lei lascia delle pause piene di interrogativi, lui si sente quasi imbarazzato in quei casi, anche se proprio non saprebbe neppure dire effettivamente per quale motivo.
            Poi all’improvviso Rita lo abbraccia, forse per rassicurarlo, ma è come se non lo toccasse nemmeno, tanto il suo comportamento appare impalpabile, quasi incomprensibile. E in un orecchio gli dice: va bene, come se l’entusiasmo che lui aveva inserito nella sua proposta di prima, non fosse ormai irrimediabilmente perduto.
            Rita si siede sul letto della sua camera, in silenzio. Non è un invito, lui lo sa bene, ma soltanto un comportamento come un altro, una maniera forse per prendere tempo, per vedere che cosa potrà dire lui adesso. Invece lui va verso la finestra, guarda fuori qualcosa mentre continua a tenere aperta tra le mani una rivista di arte dove ci sono, in molte pagine, una serie infinita di riproduzioni di altrettanti dipinti; il soggetto è un ragazzo a cavallo che galoppa come solo il vento può fare, tanto da plasmare le forme e i colori di tutto, quasi un’espressione di nuovo futurismo, portato in questa maniera fino al paradosso.
            A lui piace passare il tempo con Rita in quella stanza, gli sembra l’ambito dove possa capitare di tutto, e difatti, se ancora ci pensa, tante cose sono accadute là dentro, quasi fosse un vero spazio teatrale, un ambiente all’interno del quale tutto o quasi possa essere ammesso. Lei dice: usciamo; ma sottovoce, quasi parlasse soltanto a se stessa. Lui le risponde in modo ambiguo, come se davvero ne avesse gran voglia, ma qualcosa fosse capace di trattenerlo là dentro.
            Hai visto?, fa lui mostrando a Rita le illustrazioni che aveva osservato. Non mi piace, risponde lei senza aggiungere altro. Forse sarebbe possibile parlare a lungo di queste immagini, pensa lui muovendo qualche passo dentro la stanza e richiudendo la sua rivista. Ma non ha forse alcuna importanza; gli torna a mente la domenica precedente, quando loro due sono andati a vedere il mare in burrasca, e stringendola a sé gli è quasi venuto da piangere, tanto sentiva che lei era lì, con lui, non come adesso.
            D’accordo, dice alla fine, quasi con una leggerissima forma di rassegnazione: usciamo. Rita si alza, lo guarda, forse si attende qualcosa d’altro, magari cerca soltanto di studiare il suo comportamento. Raccoglie la rivista d’arte che lui ha lasciato sul letto, dice: portiamo anche questa, così parliamo di quelle immagini che ti hanno colpito. Lui la guarda, sa che è quello il suo vero abbraccio, così sorride, e le dice: va bene, vorrei anche parlare di noi, qualche volta, anche se credo proprio non mi sarà mai possibile. Ma forse non ha alcuna importanza, pensa; spesso le nostre sono soltanto parole destinate a sfumare in modo confuso nei concetti che esprimono, tanto da lasciarne nell’aria appena un’interpretazione possibile. E poi davvero, cosa importa: va bene così.
            Bruno Magnolfi

giovedì 29 novembre 2012

Donna di fiume

  La casa sul fiume pareva come solcare incessantemente le acque, indirizzando la prua non verso una vera e propria direzione, ma quasi auspicando un mare remoto che doveva esserci per forza laggiù, da qualche parte, in fondo a quella corrente. Lei dalla finestra del primo piano osservava il tremolare dell’erba lungo la riva, mentre attendeva con impazienza il suo ritorno, come ogni sera, la cena pronta nel forno, la volontà solita di rompere al più presto possibile quella insopportabile solitudine, immersa completamente dentro l’attesa.
            Poi sentiva la macchina arrivare sul retro, lo sportello sbattuto, le scarpe sopra i tambureggianti gradini di legno. Avrebbe sempre voluto urlare in quel momento, inscenare un dolore che non sapeva neanche lei da dove potesse provenire, se non da ognuno di quei pomeriggi dolenti, silenziosi, marcati solo dal viaggio, dallo spostamento costante e continuo di tutta la sua abitazione, controcorrente, non verso il mare, ma verso le montagne lontane, dove stavano le sorgenti di tutte le cose. L’acqua scorreva al suo fianco, la navigazione era lenta e costante, certe volte l’orizzonte pareva quasi a portata di mano.
            Era felice del suo ritorno, certo, ma dentro a quel sentimento qualcosa sembrava assorbirne ogni dimostrazione, come se il tempo solitario appena trascorso ne reclamasse per sé almeno una parte. Quello era il momento più difficile del giorno, quel veloce trapasso da una stato a quell’altro: qualsiasi cosa sarebbe stata migliore potendo evitare quell’attimo. Certe volte aveva voglia di piangere, in altre occasioni era andata persino a nascondersi, come ad evitare una fase che il suo spirito non riusciva a sorreggere. Si sentiva raggiunta in quel momento, affiancata da lui, come se il suo lento percorrere il fiume avesse trovato in quell’attimo qualcosa capace di farle piegare la testa, inchinata ad una specie di volontà superiore.
            Certe volte si sentiva soltanto come una bambina; non ne aveva mai parlato con lui: lui l’abbracciava, le sussurrava piccole dolci frasi, mostrava la sua gioia, forse gli sembrava di incarnare ogni volta il ritorno dell’eroe senza meriti, quello che torna e basta, come è giusto che sia, lasciando alle spalle, con indifferenza, una battaglia vinta oppure perduta. Lei certe volte sentiva la sua presenza ancora distante, ma lasciava che tutto scorresse con naturalezza, come il fiume là accanto, anche se il suo inconfessato dolore pareva gonfiare poco per volta il suo stato, spingerla via, come un vento impetuoso, lontano il più possibile da quella terribile attesa.
            Infine tutto accadde come per caso: lei uscì di casa per non sentire quel morso, seguì incantata l’onda del fiume che quel giorno pareva lasciarla navigare in maniera molto più libera di quanto si fosse mai immaginata, e quando lui tornò a casa, semplicemente, lei non c’era più.
            Bruno Magnolfi

domenica 25 novembre 2012

Questo steccato cadente (dialogo n. 9).

            
            Il vecchio sta fermo sopra la veranda mentre osserva Peter che si avvicina costeggiando un tratto ancora in piedi dello steccato di fronte. Non pensa niente in particolare, sa soltanto che tra poco rientrerà in casa per versarsi un altro bicchiere di vino rosso. Peter lo osserva distrattamente camminando con lentezza, e ad un tratto sente squillare dentro la tasca il telefono portatile, risponde, e senza fermarsi ascolta qualcuno che gli parla direttamente dentro l’orecchio. Poi interrompe la comunicazione con un grugnito, si ferma e dice soltanto: avrei bisogno di un favore, con una voce forse un po’ troppo alta se avesse continuato a parlare al telefono, ma non molto forte per convincere il vecchio che sta davvero riferendosi a lui.
            Difatti il vecchio non risponde né dice qualcosa, limitandosi a guardare una striscia di terra lontana sopra la spalla dello scocciatore che gli è quasi di fronte. Peter dice: se mi prestate il vostro furgone arrivo in paese e tra un’ora al massimo sono già di ritorno. Ho forato una gomma sulla strada principale, oltre quegli alberi, e quella di scorta è completamente sgonfiata.
            Un po’ di vento scivola sull’erba e sugli alberi senza rumore, il vecchio sogna il suo bicchiere di vino, adesso è sicuro che tra qualche momento starà seduto nella cucina di casa a vuotarselo in gola; riflette che lui non ha alcun furgone da prestare, suo figlio non tornerà prima di sera, ma oltre questo pensiero non gli interessa neppure rispondere. Peter si avvicina di altri tre o quattro passi, ma all’improvviso ha come la sensazione che l’uomo sull’uscio di casa abbia a portata di mano un fucile carico, così torna a fermarsi, forse capisce che non otterrà un bel niente dal vecchio, e infine pensa al volo che probabilmente sarà meglio per lui lasciar perdere tutto.
            Attende mezzo minuto, si accende una sigaretta, poi concede un’ultima occhiata al vecchio impassibile, e infine si volta per allontanarsi. Appoggia una mano sopra al paletto dello steccato, guarda attorno se ci sono altre case poco distanti, poi aspira una boccata di fumo. In molti passano da queste parti, dice il vecchio, non so cosa cercano, forse c’è qualcosa laggiù, oltre la fila degli alberi. Ho sempre badato ai fatti miei, dice ancora il vecchio, però non mi piace che qualcuno superi questo steccato, per quanto sia marcio e mezzo caduto. Non aiuto nessuno, sono abituato a stare da solo per il tempo di ogni giornata, e tutti i pensieri girano nella testa per conto proprio quando si vive così; ma in ogni caso non voglio lasciare che qualcuno interrompa i miei modi di essere, non lo permetterò, sono così e non voglio cambiare.
            Peter torna ad osservarlo, non si aspettava una tirata del genere, anche se il vecchio non si è riferito a nessuno, quasi avesse pensato qualcosa per sé dicendola al vento con voce alta. Sa che non ha bevuto la storia della gomma ed il resto, però pensa qualcosa che possa concedergli un’altra possibilità. Posso ripassare quando tornerà vostro figlio, dice tanto per mostrargli che è un osso duro. Il vecchio non lo ascolta neppure, però misura la faccia del forestiero forse per la prima volta, osserva i suoi atteggiamenti, perfino il modo come è vestito. Alla fine, con calma, estrae il suo fucile, prende la mira e spara di striscio ad un braccio di Peter. Quello cade urlando qualcosa, poi si rialza tenendosi la spalla, bestemmiando qualcosa mentre già si allontana, e imprecando contro tutto ciò che gli viene a mente in quel momento, come se avesse soltanto fatto uno stupido sbaglio.
            Poi il vecchio rientra, si siede, versa mezzo bicchiere di vino dalla bottiglia e ne beve subito un sorso. La vita è fatta di risposte, pensa; il resto sono soltanto chiacchiere insulse.

            Bruno Magnolfi

venerdì 23 novembre 2012

Incontro.

            
            Cesare era entrato dentro al portone del palazzo dove abitava, lo aveva richiuso alle sue spalle, poi era rimasto lì, indeciso su ciò che aveva veramente voglia di fare. Qualcuno, proprio in quel momento, era sceso di fretta lungo le scale di quel palazzo, aveva percorso quel tratto di ingresso rallentando l’andatura, guardato Cesare con un’espressione crucciata e anche con una certa insistenza, e poi lo aveva superato, aprendo l’uscio che dava sulla strada e sparendo in un attimo.
            Lui non aveva mai visto quella donna, o forse non si ricordava di lei, anche se gli era parsa sicura di sé in quei pochi gesti, quasi abitasse in un appartamento dei piani superiori, e conoscesse bene il suo vicino di casa, tanto da concedergli quell’occhiata esauriente, anche se nessuna parola era uscita dalla sua bocca; in quell’attimo in cui lei gli era passata vicino era come accaduto qualcosa di strano, Cesare adesso ne aveva coscienza, come se una parte di lui avesse cessato di essere nella stessa maniera di sempre, lasciando quasi lo spazio sufficiente per qualcosa di nuovo.
            Cesare ormai da tempo si era reso conto di essere stufo di raccontare a tutti la solita storia della sua vita, anche se ogni volta che lo faceva gli pareva che piccoli dettagli si modificassero nel suo raccontare, plasmandosi in funzione delle parole che ogni volta trovava più adatte alle sue descrizioni. Però, la maggior parte delle volte, quando si impegnava a spiegare le vicende che aveva vissuto, aveva sempre voglia che qualcuno gli chiedesse ancora qualcosa, magari anche con una certa insistenza, in modo da ritrovarsi costretto a scavare, ad attingere ad ogni particolare dentro se stesso, fino a trovare qualcosa che forse fino ad oggi gli era probabilmente quasi sfuggito.
            Lui aveva pensato spesso al passato, riflettuto con calma sui molteplici aspetti, e aveva sempre ripercorso le sue vicende come dando un’occhiata ad una serie di immagini, come fossero tante figure statiche della sua mente, file di oggetti quasi sospesi nel tempo; ma adesso, nel silenzio scuro dell’ingresso del suo condominio, all’improvviso gli sembrava che d’ora in avanti niente di tutto questo, assolutamente nulla di quanto credeva di aver costruito sulla base delle sue semplici esperienze, potesse essere più assolutamente possibile.
            Cesare ad un tratto sapeva di dover fare qualcosa come cercare di arrestare quella rapida perdita, quella grave mancanza che iniziava già a farsi sentire, così cercava di far forza sul suo coraggio, spingersi in avanti, affrontare la nuova realtà, e accostarsi al portone, aprirlo con energia, uscire velocemente sul marciapiede. Quella donna era ancora lì che lo stava aspettando, certo, non poteva essere in altra maniera. Lui la guardava, gli pareva che niente fosse sbagliato, ogni elemento era perfetto, tutto collimava come travasando ogni aspetto che aveva coltivato fino ad allora in quel semplice piccolo attimo.
            La donna si era voltata di nuovo verso di lui, non più per osservarlo, ma per farsi osservare, per lasciare che la mente di Cesare costruisse un percorso completo di identificazione, memorizzando e confrontando ogni dettaglio. Lui si era avvicinato, non molto, poi era rimasto fermo, stupefatto, all’improvviso incapace persino di parlare. Sarebbe stato meglio aver finto un’indifferenza completa, pensava; sarebbe stato meglio avesse corso su per le scale, continuava a pensare; sarebbe stato meglio qualsiasi altra cosa, ne era certo: ma lei adesso era lì, e questo era un fatto del tutto impossibile da disconoscere.

            Bruno Magnolfi

giovedì 22 novembre 2012

Involucri concentrici.

            
            Avendo comunque coscienza che stavo dormendo, ho fatto un sogno talmente realistico da avere paura che il mio risveglio ne neutralizzasse ogni esperienza acquisita. Infine, com’era del tutto inevitabile, la giornata ordinaria ha preso come sempre il sopravvento sul resto, e così mi sono fatto la barba, mi sono vestito, e come ogni mattina sono uscito da casa. Prima di andare ad infilarmi nell’ufficio dove lavoro da ben dodici anni, mi sono fermato in un caffè, ho preso un cornetto, un cappuccino, e mi sono seduto a sfogliare un giornale a disposizione dei clienti.
            Nelle pagine centrali si parlava di qualcosa che mi è parso estremamente interessante: si trattava di una persona che era riuscita ad annotare tutti i sogni fatti nell’arco di anni, tanto da costituire uno scaffale pieno di quaderni con le storie vissute soltanto con la mente nell’attimo stesso del suo riposo. L’articolo sosteneva che questa persona, rileggendo in seguito il materiale che giorno per giorno aveva accumulato, ad un tratto si era accorta che c’era un senso preciso che animava quei sogni, quasi un filo rosso che legava tutte quelle storie e quelle parole, tanto da spingerla a trarne un libro completo, voluminoso, quasi un ciclo di romanzi.
            Mi è parso subito un incoraggiamento alla vita quell’articolo, come se tutto fosse sempre possibile, anche nel momento di intimità massima come dormire. Ho tardato ancora prima di andare a rinchiudermi nel mio ufficio, ho pensato a lungo agli aspetti che poteva delineare un’esperienza del genere. Ho guardato la strada fuori dai vetri, ho seguito con lo sguardo qualche passante di fretta che inseguiva qualcosa; mi sono soffermato a mettere fuori fuoco le immagini che giungevano via via davanti ai miei occhi, e ad estraniarmi almeno in parte dal luogo pubblico dove restavo ancora seduto. Il cameriere mi ha toccato una spalla: sta bene?, mi ha chiesto, io gli ho sorriso e mi sono alzato dal tavolino.
            L’aria fredda della mattina sembrava adesso soltanto un ricordo lontano di qualcosa che all’inizio appariva forse piacevole, ma che dopo pochi minuti era già un’altra cosa: la consapevolezza della forza che si poteva avere dentro se stessi pareva spingermi lontano da tutto, come se non fossi più una vera parte dell’intero ingranaggio già in movimento. Ero vicino all’edificio dove mi recavo per il mio lavoro, ma nella realtà mi sentivo lontano da lì, proiettato dietro a pensieri che non avevo mai fatto, come se la mia mente in autonomia avesse preso il controllo completo delle scelte da fare.
            Con lentezza estenuante mi avvicinavo al palazzo di uffici, cosciente di essere già in forte ritardo: un’indifferenza completa continuava a determinare i miei movimenti; le persone attorno si muovevano con rapidità, le auto, i mezzi pubblici, tutto quanto era proiettato in un vortice che non faceva più parte di me, come mi fossi sganciato da tutto, e all’improvviso sentissi una forte lontananza da ciò che ero stato, e che di fatto avrei dovuto essere ancora.  
            Gli ultimi passi prima di arrivare al lavoro si facevano sempre più estenuanti, gettandomi in un torpore colmo di disagio, quasi la ricerca faticosa di resistere prima di tornare ad essere l’uomo di sempre. Forse, d’improvviso, avrei voluto addirittura recuperare del tempo, magari mettermi a correre, ma pareva impossibile, come se le mie gambe non fossero adatte ad una sfida del genere. Infine ho avvertito vicinissimo un suono elettronico che continuava a trillare, e così, di soprassalto, mi sono svegliato davvero.

            Bruno Magnolfi

martedì 20 novembre 2012

Una donna con la sua bicicletta. 2

            
            Soltanto pochi anni fa tutto mi sembrava ancora possibile. Avevo acquistato una bicicletta nuova, ed avevo iniziato a girare per tutte le strade di questa città che, per un motivo od un altro, non ero stata capace in tanto tempo di frequentare. Voltavo un angolo ad un incrocio, e improvvisamente scoprivo una prospettiva del tutto nuova, una fila di alberi lungo un viale, delle facciate di case particolari, dei vecchi muri di pietra, incanto di una cultura attenta anche al punto di vista di un qualsiasi anonimo viaggiatore.
            Pedalavo con calma, mi fermavo, entravo in qualche vecchia tabaccheria oppure da un droghiere, e mi pareva di respirare la mia città in ogni sua forma, quartiere dopo quartiere, un luogo dopo l’altro. Tornavo a casa, poi, e mi ritrovavo a pensare a tutto quello che ero riuscita a scoprire, e mi sentivo bene, contenta, parevano sufficienti queste piccole cose per vivere bene, sentirsi in perfetta armonia con questo agglomerato di vecchie case e di strade antiche. Abitavo da sola, non frequentavo nessuno, e anche se non avevo moltissimo tempo per questi miei giri, quando la giornata si mostrava propizia inforcavo la mia bicicletta e me ne andavo incontro alla città.
            Mi pareva poco per volta di conquistare qualcosa di particolarmente prezioso, e in questa maniera non mi sentivo mai sola, circondata com’ero da tutte quelle facce e quelle espressioni che incrociavo per strada nel mio pedalare. Un giorno però caddi a terra, non riesco ancora oggi a comprenderne bene il motivo. Avevo notato un uomo, lungo il viale, e ne ero stata attratta, inutile negarlo; e questo era successo nello stesso momento in cui avevo messo la ruota della mia bicicletta sopra una pietra sconnessa. Non mi ero fatta molto male, ma in molti erano accorsi, avevano cercato di rendersi utili fin troppo nel cercare di rialzarmi e farmi coraggio, ma quell’uomo che avevo notato non si era neppure sollevato dalla panchina dove stava seduto.
            Inizialmente avevo pensato fosse soltanto una scortesia da parte sua, ma una volta risalita sulla mia bicicletta, in considerazione di quanto era accaduto, mi era parso il suo un gesto atto solo ad evitare l’eccessiva curiosità che gli altri avevano mostrato. Così avevo ripreso con calma la mia pedalata, ma poco dopo mi ero sentita quasi in dovere di tornare sopra i miei passi, avvicinarmi alla panchina dove ancora si tratteneva quell’uomo, e ringraziarlo. Lui aveva sorriso, si era alzato dal suo posto, ed io avevo messo un piede a terra, fermandomi.
            Non si era poi fatta male, aveva detto lui sorridendo. Anch’io avevo sorriso, e l’uomo mi era venuto vicino, aveva sistemato la mia bicicletta accanto al marciapiede, poi mi aveva invitato a prendere qualcosa nel caffè accanto. Lo avevo seguito, ci eravamo presentati, ed avevamo fatto conoscenza. Ci eravamo dati appuntamento per il giorno seguente, e poi per il giorno dopo, e ancora per tutti i giorni a venire, lungo un tempo che andò avanti per molto. Lui mi aveva invitato da subito a salire sulla sua automobile, ed io avevo lasciato ben volentieri la bicicletta, andando insieme a lui a guardare quegli scorci della città che adesso avevo il piacere di mostrare anche a quell’uomo così attento ai particolari. Infine litigammo, iniziando a vederci sempre più raramente, e quando tirai fuori di nuovo la mia bicicletta, mi parve comunque di avere ormai perso qualcosa di importante, forse un vero rapporto d’affetto in cui avevo sperato, forse la concreta possibilità di non sentirmi più sola come molte volte era successo; oppure, all’improvviso, vedevo soltanto ormai tramontato anche lo spirito giusto per andarmene ancora a girare per la città senza una meta precisa.    

sabato 17 novembre 2012

Dialogo n. 8. Due, forse come altri due.



   
        Mi sento immerso in una situazione che non mi appartiene, eppure non ne soffro, credo anzi di poter sopportare a lungo tutta questa angoscia sottile che provo nel guardare gli altri, ascoltando perfino quelle risapute giustificazioni di chi si è adattato benissimo a tutto, e spesso sente anche il dovere di spiegare i suoi meravigliosi successi, il suo vivere bene, assolutamente integrato. Incontro ogni giorno persone così, hanno smesso quasi tutte ormai di nascondersi, adesso vagano in lungo e in largo quasi ridendo di tutti, ma quando incontrano qualcuno come me, pieno di rancori, senza alcun aggancio per mettersi davvero in carreggiata, cercano di stare apparentemente dalla sua stessa parte, fino però a farlo sentire, ad un certo punto, fuori da ogni logica, sbagliato, uno che non ha proprio capito come sia davvero starsene al mondo. Spargo quasi sempre indifferenza nei confronti di persone come queste, eppure sento forte da sempre un moto profondo di competizione verso di loro, quasi questo fosse un elemento fortemente radicato nella mia natura.
            Certe volte entro in un caffè per alleggerire questi miei pensieri, mi lascio servire una birra, anche più d’una, in certi casi, e resto lì, come in un angolo neutrale della realtà, dove certe logiche, almeno per quella mezz’ora o poco di più, sembrano non avere valore. E’ qui che ho incontrato quella ragazza, Francesca, un tipo di donna non bella, forse però interessante, leggermente maschile nei modi, come di chi, a furia di stare sulla difensiva, è riuscito a indurirsi, a corazzarsi con una pelle più spessa di qualsiasi avversità.
            Inutile leccarsi le ferite, le ho detto; e lei ha annuito. Forse sono una ragazza facile, ha spiegato, ma non mi concedo del tutto: trattengo tanto per me, anche se in fondo non ho molto da perdere, e questo mio modo di pormi ritengo per me sia una grande fortuna. Così siamo usciti da dentro al locale, abbiamo camminato insieme lungo le strade di sempre, cercando di avere degli occhi almeno un po’ differenti per osservare tutto ciò che già conoscevamo ampiamente. Ci siamo baciati con un certo stupore, come fosse una meravigliosa scoperta, oppure fingendo di avere ancora le capacità per sentirsi vicini, dallo stesso lato del mondo, migliori di tanti, anche se di quest’ultima cosa, a dire il vero, non abbiamo neppure saputo spiegarci il perché.  
            Sono trascorsi in questa maniera dei giorni, delle settimane, persino un paio di mesi, e le cose si sono complicate un poco per volta: vecchi problemi individuali mai risolti hanno messo in seria difficoltà la mia amicizia con Francesca, e la sua verso di me; il suo modo particolare di guardarmi mi ha fatto sentire sempre di più fuori dal mondo, come ancorato solo a delle pretese. Non abbiamo legami, le ho dovuto dire ad un tratto. E’ vero, ha risposto lei: ma se ci perdiamo adesso, non ci ritroveremo mai più.
            Così abbiamo provato un brivido comune, e allora ci siamo stretti, e abbiamo cercato in qualche maniera di superare quel momento negativo, perdendo in questo modo quel coraggio che ci faceva sentire diversi. Forse, proprio da quel momento, abbiamo iniziato a sentirci una coppia qualsiasi. Forse le nostre personalità non sono state capaci di quella coerenza che tanto ci premeva. Forse le cose si sono mostrate maggiormente ordinarie, risapute, quasi dozzinali. Ma in fondo che importa, abbiamo pensato: dobbiamo essere noi, persino quando sguazziamo in mezzo ai difetti.
            Bruno Magnolfi

domenica 11 novembre 2012

In mezzo a tutto.

            
            Respiro con maggiore profondità, cerco di calmarmi dopo che ho colpito a mani nude, con una violenza che adesso, dopo pochi minuti, quasi non mi riconosco neppure, qualcuno che in fondo, forse semplicemente, proprio come me, stava immerso in questa calca incredibile. Sono convinto di aver messo in quel colpo tutta la rabbia repressa che sono riuscito a far emergere in me da questo periodo difficile, quasi la consapevolezza di un momento praticamente senza speranza  che mi ha dettato quel gesto terribile, come fosse un atto definitivo, quasi dipendesse da quello lo sviluppo di un futuro maggiormente accettabile sia per me che per gli altri.
            Adesso mi sono rifugiato nella nicchia di questo portone, guardo la manifestazione che continua a sfilare lungo la strada, mentre qualcuno, laggiù davanti, tira sassi e maneggia le spranghe; altri corrono, in molti sembrano disperati forse del loro stesso spavento, altri, al contrario, semplicemente spaventati dalla loro assurda disperazione. Alcune vetrine sono state spaccate e tutto intorno sembra parlare di violenza, ma soprattutto i celerini continuano a fronteggiare chiunque, come una moderna falange, in un assoluto e minaccioso assetto da guerra, quasi una sfida, una provocazione. Vedo qualcuno a terra già manganellato, giace sopra l’asfalto nelle nuvole dei lacrimogeni, mentre altri tentano di soccorrerlo pur nel caos generale.
            Provo a respirare con maggiore normalità nel mio fazzoletto, ma mi sento stanco, esausto, mi fanno male gli occhi e le gambe per la corsa assurda che ho fatto, e sento un forte dolore anche alla mano sanguinante con cui ho sferrato quel pugno; ricordo soltanto una faccia nemica ad un passo da me, e quella minuta porzione di tempo per decidere tutto: il mio bisogno di scaricare la rabbia coltivata da mesi sopra quell’espressione, senza chiedermi niente, senza interrogarmi su altro, colpire e basta, senza pensare.
            Guardo tutti mentre continuano a girare in quel carosello: ognuno sembra soltanto preoccupato di sé, della propria incolumità, ed io mi rendo conto, nella confusione pazzesca, di aver perso completamente di vista quegli altri, quelle persone con le quali all’inizio avevo raggiunto la mia postazione, alle spalle dello striscione, e come adesso io non riesca più neanche a capire cosa sia meglio che faccia, che senso abbia per me continuare a stare qui o cercare di andarmene, magari sparire prima che tutto degeneri ulteriormente. Mi rannicchio quanto posso sopra questo portone, poi spingo leggermente con la schiena, ma senza nessuna intenzione, e quello si apre.
            Entro titubante in quel grande ingresso buio, riaccosto il portone e mi avvicino al muro; poi rimango lì, a respirare quella calma irreale, quel relativo silenzio, quell’aria buona per i polmoni. Forse vorrei che qualcun altro mi raggiungesse, penso velocemente che non posso restare da solo proprio in questo momento, ho voglia di sapere cosa succede in mezzo alla strada, mi sento terribilmente vigliacco a restare qui immerso in quest’ombra. Ad un tratto si accende la luce elettrica che va ad illuminare improvvisamente un ambiente anche più caldo e piacevole di quello che mi ero immaginato, con una grande scalinata che si apre sul fondo; resto immobile un attimo, attendo gli eventi con gli occhi sgranati, infine scende con lentezza una ragazzina di dodici o tredici anni, con qualcosa dentro una mano. Mi guarda, forse ancora più intimidita di me, allunga un passo, lentissimo, poi dice soltanto: signore, le ho portato un po’ d’acqua da bere.
            Bruno Magnolfi

giovedì 8 novembre 2012

Una strada di pioggia


I colori dell’acquarello erano trasparenti, leggerissimi, e i contorni del disegno una linea sottile che appena tratteggiava le cose. Quasi non esisteva senso nel disegnare, se non quel dolce lasciarsi andare ad una fantasia leggera, che superava qualsiasi intento, riusciva a prendere la mano e lasciare che la forma sul foglio acquistasse la vita, diventasse colore, forma, illustrazione. Non c’era senso nel fare un disegno qualsiasi, la semplice rappresentazione di un’immagine vista. La cosa che toglieva il respiro era quel cercare di interpretare un piccolo, infinitesimale, minuscolo frammento di vita, un pensiero esile e sottile fino a quel momento celato dietro a chissà quali altri pensieri, mescolato dentro a chissà quali altri ragionamenti ordinari, perso dietro a miriadi di altre cose, magari più appariscenti, più forti, più importanti di tutto, eppure ammantate di sciocchezze senza rimedio. Un gesto affettuoso che dura lo spazio di un attimo, e si prolunga nel tempo in modo imprevisto, incorniciato nonostante il suo bisogno di essere una cosa qualsiasi, senza importanza. Questo stava dentro al disegno, e solo guardandolo spiegava da solo quanto era riuscito a scrollare da sé la facilità di cadere in percorsi già visti, elementi sicuri di cose più consuete. Lui lo aveva veduto il disegno, ne aveva assaporato in un attimo la freschezza piacevole, ne era rimasto colpito pur senza comprendere il motivo trainante da cui ne era attratto. Poi, una volta uscito dalla galleria d’arte, aveva fatto un giro in quella serata piovosa, camminando sui lucidi marciapiedi sotto al suo ombrello, con calma, ripensando al disegno, a quell’acquarello che pareva parlasse di sé, della sua vita, dei suoi pensieri. Aveva riflettuto a lungo su che cosa gli ricordasse quella figura di donna fermata in un gesto così naturale, con l’espressione del viso leggermente ammiccante, come di chi ha dentro di sé un lungo percorso alle spalle, un itinerario difficile, forse sofferto, una strada impervia affrontata e forse non completamente percorsa. Poi era entrato dentro a un caffè, si era accostato al bancone e si era fatto servire un liquore, qualcosa che riuscisse a scuoterlo un po’. Alcune persone a fianco e dietro di lui parlavano di cose ordinarie scambiandosi brevi risate e conversando in modo piacevole. Infine lui aveva pagato la sua consumazione, augurato la buonasera al barista, e riaperto l’ombrello uscendo da dentro al locale. Fu allora che vide la donna, da sola, con un normale impermeabile stretto alla vita e i capelli non lunghi e ben pettinati. Camminava lungo la strada, con l’espressione di chi ha già affrontato più volte itinerari difficili, eppure serena, immedesimata nei suoi gesti così naturali. Era lei l’acquarello, ne era sicuro, era lei quel disegno denso di cose, di vita, di elementi minuti eppure ben forti nella sua espressione; era lei che adesso senza motivo riempiva con la sua presenza tutto lo spazio che c’era; era lei che senza ricordare qualcosa di preciso, parlava di sé, solo passando, solo camminando dove camminavano tutti; ed era lì, quasi per una magia, uscita dal quadro per dare colore a quei marciapiedi, a quella strada bagnata di pioggia.
Bruno Magnolfi

martedì 6 novembre 2012

Un attimo solo.

            
            Federico, dodici anni tra poco più di due mesi, corre a perdifiato dietro al pallone calciato in malo modo da un suo compagno di scuola, mentre insieme stanno giocando ai giardinetti del loro quartiere, durante un pomeriggio qualsiasi. Lo segue rotolare con gli occhi mentre inizia ad attraversare la strada, e nella fretta di raggiungerlo non si accorge affatto dell’auto che sopraggiunge. L’uomo alla guida canticchia una canzone trasmessa per radio: è tranquillo, quasi distratto, non si rende neppure conto del pallone che taglia la traiettoria della sua strada.
            E’ un attimo: improvvisamente ha la coscienza di qualcosa che rotola alla sinistra del suo parabrezza, lui stringe d’istinto le mani sopra al volante, volge gli occhi da quella parte, non si accorge per nulla di Federico che corre da destra per attraversargli la via, prosegue senza frenare, ma prova un brivido, una leggera ma potente sensazione di pericolo data dal semplice connubio che sta dentro la sua testa, come forse in quella di tutti: pallone – bambino.
            Non rallenta, trattiene forse il respiro, ma nel campo visivo appena alla sua destra intercetta qualcosa davanti alla macchina, vicinissimo, di sicuro qualcosa che sta dove non dovrebbe mai stare, ma ormai tutto sembra compiuto, è troppo tardi anche per avere un pensiero, il suo cervello è appena raggiunto da un piccolissimo impulso: tempo esaurito, dice quel lampo, nient’altro.
            Tutto si rallenta fino a fermarsi, l’uomo si vede proiettato fuori dall’auto, osserva se stesso e la macchina che sta guidando da tre o quattro punti di osservazione diversi, stringe ancora più forte le mani sopra al volante, vorrebbe forse chiudere gli occhi ma il respiro è azzerato, la radio pare trattenere soltanto una nota, o un accordo, prolungandolo in una specie di sospiro cavernoso, quasi disumano, come il rintocco metallico di una campana immersa in un liquido.
            La velocità della macchina è di poco superiore al limite per la guida in città, l’uomo si proietta in avanti nel tempo, immagina che avrebbe potuto procedere con più cautela, a velocità più moderata, con diversa attenzione, senz’altro maggiormente adeguata, avrebbe potuto evitare di farsi trovare distratto in un momento del genere, ma tutto adesso sembra ormai quasi concluso, il tempo esaurito non ammette una deroga, ciò che sta succedendo è già definito.
            Ritagliare quel piccolo frammento tra i tanti minuti, i secondi, le ore del giorno; eliminarlo del tutto dalla propria storia, da ciò che irrimediabilmente sarà appena tra un attimo. Fuori da lì, lontano, in una diversa dimensione, distante da tutto, la cancellazione completa di quel pezzetto di tempo, questi i lampi che scorrono in successione rapidissima nella sua mente, e infine le gomme dell’auto che stridono in una frenata tardiva, forse inutile, assolutamente ridicola, adesso.
            Tutto è immobile. L’uomo apre lo sportello ed esce dalla sua macchina: si sente già disperato, non può ancora neanche credere che tutto questo stia davvero accadendo, gira di corsa attorno al suo mezzo, in preda ad un dolore pazzesco, alla pazzia di un momento, ma Federico caduto a terra si rialza immediatamente, lo guarda, il suo viso è sbiancato, ma non si è fatto niente, soltanto un grande spavento. L’uomo lo guarda, lo abbraccia, non può evitare di piangere.
            Bruno Magnolfi

martedì 30 ottobre 2012

Pomeriggio ordinario.

            

            Eleonora lo osserva con un leggero sorriso; lui adesso è tranquillo, e lei si sente come rassicurata dall’umore nuovo che come sempre si è manifestato in lui dopo una pillola calmante ed il tè bevuto caldo e a piccoli sorsi. In fondo, secondo il suo parere, sta tutto lì il segreto per riuscire a tirare ancora avanti in qualche maniera, pensa con rassegnazione mentre gli sistema un cuscino sotto la testa. E’ testardo, lo sa, ed è del tutto inutile cercare di fargli comprendere delle motivazioni diverse da quelle che si è già formato nella sua mente.
            Lui sa di avere la possibilità di farsi scusare per aver alzato un po’ troppo la voce durante il loro pranzo, anche se è ancora convinto di avere avuto ogni ragione per comportarsi in quel modo. Adesso si assopirà per un’oretta sopra al divano, come sempre succede nei giorni in cui non ha da lavorare, poi le dirà con una certa dolcezza che si sente già meglio, e così probabilmente potrà chiederle di fare assieme, per esempio, una tranquilla passeggiata, a conclusione di quel pomeriggio. In fondo lei è la persona più comprensiva che lui conosca, pensa ancora con gli occhi già chiusi: saprà sicuramente scusarlo per essersi comportato in quella solita odiosa maniera.
            Eleonora in giorni del genere si accontenta di starsene di là in solitudine, se lui si assopisce, a pensare alle proprie cose e ad occuparsi di qualche piccola faccenda domestica. A lei piace rimanere da sola, e certe volte le pare quasi impossibile riuscire ad avere ancora una relazione vera con lui, se non fosse che giorni come questo lei li lascia sempre scorrere senza opporre alcuna resistenza, e quando invece lui, come capita spesso anche per molti giorni di seguito, si assenta per il suo lavoro, ecco che per Eleonora quelle lunghe pause diventano semplicemente la maniera più adatta a rigenerarsi.
            Lui prende fuoco su argomenti qualche volta anche stupidi, probabilmente per una sciocca gelosia repressa che coltiva da sempre, e allora Eleonora lo lascia dire tutto ciò che gli va, e lui si sfoga, senza quasi badare a ciò che riesce a tirare fuori dalla sua bocca: si intuisce come certe volte stia solo cercando la maniera per dirle anche altre cose che cova dentro di sé, cose più intime e ben più profonde, ma lei si limita ad ascoltarlo senza ribattere niente, lasciandolo in poco tempo quasi senza ulteriori argomenti. Certe volte lei pensa addirittura che lui abbia ragione su molte cose che dice, ma crede non avrebbe alcun senso manifestargli apprezzamento su cose del genere, così si trincera in un atteggiamento neutrale, frenandosi fino solo ad ascoltarlo, e basta.
            Eleonora qualche volta avrebbe anche voglia di parlare di loro due con qualcuno, spiegare la situazione che si è generata, ma normalmente si limita sempre a dire a tutte le persone che frequenta le cose più evidenti e scontate, e che tutto va bene, ogni cosa è sotto controllo, che tra di loro non ci sono mai problemi di nessun genere. Non sa per quale motivo si comporti così, ma sente di dover difendere qualcosa di importante in questa maniera, di proteggere un equilibrio raggiunto poco per volta, ed il resto di tutto quanto le pare soltanto formato da elementi di ben poco conto.
            Lui pensa che non potrebbe mai fare a meno della sua Eleonora, ma non le sa dire quanto lei sia importante per lui: certe volte alza la voce soltanto per amore, per dimostrarle che dietro a quelle sciocchezze per cui spesso si agita c’è soltanto tutta la sua voglia di stare con lei, anche nei giorni in cui, causa il lavoro, non gli è possibile, e di spiegarle però quanto lui si senta innamorato di lei. Poi apre gli occhi, sente la presenza di lei, si solleva da quel divano, la raggiunge di là: lei gli sorride, e lui pensa per un attimo di essere l’uomo più felice del mondo, così Eleonora si volta per preparargli un caffè e camuffare un’espressione di amarezza che non può proprio fargli vedere. E che lui probabilmente non s’immaginerà mai.

            Bruno Magnolfi

domenica 28 ottobre 2012

Vicino al porto

Una stessa immagine, un identico pensiero, tutto pare combaciare, come un miracolo di sintonia. Basta un sospiro, si torna a fermare lo sguardo nello stesso punto, immaginandoci lo stesso risultato, e invece qualcosa si è mosso, c’è una variazione, e quegli aspetti non sono già più gli stessi: è passato ancora un minuto, che dico, solo un momento, ed adesso indubbiamente tutto è diverso. Inutile cercare di trattenere qualcosa: il punto di vista muta, la luce trascolora, il pensiero va ad inciampare in cose che prima non c’erano, e tutto in quell’attimo è ormai differente, in un modo definitivo. “Il sole al tramonto giocava con i vetri delle finestre, quelle stesse finestre delle case gialle dell'ammiragliato”, pensava molti anni dopo la ragazza d’età più giovane di quella che a all’epoca voleva dimostrare; si ricordava distintamente di quel niente nella luce che cambiava in un momento qualsiasi prospettiva. “Le piazzette vicine erano piene di bimbi rumorosi, con le mamme dai vestiti colorati che portavano a spasso i piccoli con la carrozzina, e le panchine erano gremite di gente, mentre si scorgevano drappelli di uomini anziani in piedi, intenti a scommettere sempre su qualcosa, e da una parte il gelataio ormai stanco rigovernava quel suo chiosco. A volte, presa dai giochi, mi attardavo, e me ne accorgevo solo quando ormai le luci all'interno delle case e lungo tutta la zona del porto erano accese, e brillavano come cerchietti stellati di fette di limone; e se poi alle luci facevano seguito i rintocchi delle campane della chiesa di Santa Teresa, era davvero tardi, dovevo correre a casa, a perdifiato, proprio nell'ora più bella; infatti a quell'ora d'improvviso gli schiamazzi dei ragazzi e i garriti delle rondini scemavano, e l'aria tornava a profumare di mare e di oleandro, e le ragazze a coppie lentamente scendevano ad affollare il viale alberato, fronteggiante la Villa; di lì a poco si sarebbe sentita la sirena, quella che segnava l'ora della libera uscita dei marinai, ed i sogni pensati con la coscienza, quelli che non confidavamo neppure tra di noi, diventavano d’incanto ragazzi vestiti di bianco, bellissimi, con il fascino della gente di fuori, di altra cultura, di diversa sensibilità, differenti per forza dalle solite cose a cui si era abituati. Poi si rientrava davvero, finalmente, ma ci sembrava d’improvviso tutto diverso, davvero cambiato senza che neppure se ne capisse il motivo, e l’unico elemento stabile, quello rimasto vero e immutato, proprio come prima, era quel grumo di sogni spremuti e persi nel fondo di noi; e un po’ avevamo pena di quella ragazza che aveva preso quei sogni troppo sul serio…”.
Bruno Magnolfi

venerdì 26 ottobre 2012

Il mio manichino (ritratto n. 11).



           
            Cammino per strada, nella tarda serata. Ad un tratto vedo un uomo fermo a pochi metri da me. Mi osserva come stesse in attesa, quasi pronto a scattare. Non posso lasciargli credere che ho paura di lui, però siamo soli lungo quel tratto di strada, ed i lampioni illuminano a malapena la scena. Penso come sempre che non ho niente da perdere, ma non è facile procedere come se tutto fosse normale, come se il naturale andamento delle cose non prevedesse un inciampo di fronte a sé.
            Mi fermo, accendo una sigaretta e prendo tempo. Nell’atto di frugarmi dentro alla tasca, avverto qualcosa che non avevo considerato: un piccolo temperino che porto sempre con me. Vado avanti, ma torno a fermarmi di nuovo. Mi volto all’indietro, non c’è nessuno; potrei tornare verso casa, penso, oppure attraversare la strada, andarmene per i fatti miei. Sento sotto la giacca la tensione che sale, non so se ho paura, forse vorrei soltanto aver già affrontato quell’uomo ed essermi tolto quel peso.
            Dico qualcosa tra me, due o tre parole senza alcun significato, poi lascio nell’aria un silenzio di due o tre secondi, e infine mi lascio andare in una sonora risata. Intanto con la mano dentro la tasca apro il mio temperino: mi sento pronto, posso ancora ridere, penso, non ho paura di nulla. Mi fermo, osservo le dita che sostengono la mia sigaretta, poi aspiro una profonda boccata di fumo. Mi viene da tossire, ma resisto. Faccio ancora un passo in avanti, scruto qualcosa oltre la figura maschile di fronte a me, ma è soltanto uno scuro cespuglio che sembra assorbire luce e rumore.
            Penso che tutto abbia uno scopo; rifletto che ci saranno altre serate simili a questa, potrò ancora camminare lungo la strada, non c’è niente di male nel farsi una passeggiata. Cerco di oggettivare la situazione, e tutto mi appare ridicolo, come se quanto sta per succedere fosse al di sopra di me, oltre questa pochezza di cose da mandare avanti ogni giorno. Ho ancora voglia di ridere, ma mi trattengo. Mi avvicino ancora di poco, l’aria sembra più densa, così immagino che gli eventi ormai siano al culmine del loro verificarsi.
            Torno a fermarmi, mi volto, sento di avere paura. Chi mi attende nasconde qualcosa, qualcosa di me, ha già dentro le mani un elemento che forse mi appartiene, anche se non so cosa sia. Devo fuggire, penso, allontanarmi in fretta da tutto, ritrovare ciò che ero prima di questo momento, azzerare tutte le cose, convincermi che nulla è mai accaduto. Mi cade la sigaretta sul marciapiede, mi fermo di nuovo, ho l’affanno. L’oscura figura che staglia il suo profilo nel buio è immobile, non tradisce alcun sentimento.
            Scappare, penso, non posso far altro, anche se è tardi, il mio temperino è inservibile, la mia razionalità forse non aiuta nessuno, tantomeno il mio corpo che avanza come un automa. Mi fermo a tre o quattro metri, apro la bocca per una risata nervosa, guardo quell’uomo e mi lascio guardare, ormai non c’è più niente da poter portare al sicuro, tutto è di fronte allo specchio, tutto è coinvolto in una mimica sospesa nel tempo. Osservo meglio la faccia dell’uomo: è un manichino di polistirolo sul suo piedistallo, abbandonato lì forse solo per fare uno scherzo.
            Bruno Magnolfi

giovedì 25 ottobre 2012

Percorsi da evitare.

           
            Da casa mia a quella della Letizia, la mia compagna di banco e amica di sempre, non ci vogliono più di due o tre minuti camminando con un’andatura normale. La mamma mi dice sempre di tirare diritto e di non attraversare la strada per nessuna ragione quando vado da lei, ed io, che sono sempre stata obbediente, faccio esattamente così, limitandomi a percorrere il marciapiede e a voltare al primo angolo a destra e poi ancora a destra all’incrocio con la prima via che si trova, senza badare a nient’altro.
            Però, lungo quella pavimentazione che costeggia la strada, sto sempre ben attenta a non mettere mai le suole delle scarpe sulle connessioni tra una pietra e quell’altra, e naturalmente cerco di non sfiorare nemmeno, per nessuna ragione, i cordoli del marciapiede. Poi ho messo a punto anche altri comportamenti, come quello di mettere avanti il piede sinistro più volte del destro, operando ogni tanto un saltello che riesce a farmi recuperare qualche passaggio. E naturalmente non evito neanche di contare i passi totali che servono per arrivare fino alla casa di Letizia, ed il fatto curioso è che ne impiego sempre qualcuno di meno di quando ritorno indietro, come se in questo caso la mia falcata fosse più corta.
            Mi piace andare dalla mia amica, anche se quando sono da lei mi stufo in fretta dei suoi soliti argomenti, del suo guardare costantemente la televisione, del suo non parlar d’altro che dei capelli e dei suoi vestiti, di come si presenterà a scuola il giorno seguente, e dei personaggi che vede durante gli sceneggiati: la lascio dire, a me non interessa un bel niente di quegli argomenti, però so che ho davanti quattrocentotrentasei passi prima di giungere alla mia casa, e che quando sarò lungo quel breve tratto dove alcune pietre sono rossastre, dovrò saltellare su un piede per evitare di calpestarle. Certe volte, quando ritorno, giro esternamente, con grande attenzione, intorno ai pali che sostengono i lampioni stradali, ma a dire la verità questo comportamento lo tengo soltanto in certe occasioni.
            Ho provato a fare un disegno del mio percorso: poi mi sono cimentata nel descrivere tutti i particolari che adotto, dando a ciascuno un semplice numero di riferimento. Infine ho introdotto in tutto questo delle varianti che sono applicabili in funzione del giorno della settimana e dell’ora in cui esco da casa. Ne è venuto fuori un guazzabuglio di fatti e di dati che in seguito ho cercato di semplificare, dando a tutto quanto dei riferimenti che fossero maggiormente evidenti, come ad esempio un colore per ogni funzione. Alla fine ho cominciato anche ad inserire delle varianti a seconda del tipo di saluto che fa la mia mamma quando esco da casa, e di quello della Letizia quando arrivo da lei.
            Sopra un quaderno ho iniziato ad elencare ogni dato che riesco a dedurre dal mio comportamento durante quel solito tratto di strada, e alla fine ho deciso di descrivere con poche parole ogni emozione che riesco a provare a seconda delle varianti che riescono a manifestarsi mentre cammino. Mia mamma ieri ha trovato il quaderno, lo ha sfogliato, e infine lo ha portato a far vedere alla mia insegnante di matematica. Ne devono aver parlato piuttosto a lungo, anche col direttore secondo me, e alla fine mi hanno chiamato per dirmi senza mezzi termini che devo smetterla di andare a piedi a casa di Letizia, perché questo non è senz’altro qualcosa che faccia bene alla mia crescita. Naturalmente ho risposto subito che per me andava benissimo. 
            Bruno Magnolfi