lunedì 31 dicembre 2012
Buon Anno
“I pensieri sono perle false finché non si
trasformano in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel
mondo”Gandhi
domenica 30 dicembre 2012
Chiuso dentro un pensiero.
Era uscito
dal locale quasi con stizza. Aveva perduto a carte, anche se questo in
fondo non era particolarmente importante. Però non era riuscito ad
essere il giocatore di sempre, spiritoso, brillante, di compagnia. Si
era lasciato andare anche ad un piccolo sfogo contro la sfortuna che
secondo il suo parere lo aveva perseguitato per tutta la sera, e questo
non era da lui.
Così era
uscito dal circolino con l’impellente necessità di starsene solo, ma
quel nervosismo che aveva accumulato lo faceva ancora star male. Perciò
si era incamminato verso la stazione ferroviaria, giusto per guardare
qualche treno in partenza e prendersi un caffè in quel bar quasi
anonimo, in mezzo a qualche faccia che probabilmente non aveva mai
visto.
Ma alla
fine si era ritrovato ad osservare la parte lucida dei binari, ad essere
stanco senza il coraggio di tornarsene a casa, e ad avere sonno senza
la possibilità di andare a dormire. Un barbone gli si era avvicinato
senza neppure chiedergli niente, e lui aveva sopportato con indifferenza
quella presenza, senza la volontà di allontanarsi o di dire qualcosa.
Poi era
arrivato un treno locale, fermandosi con un certo stridore dei freni,
qualche passeggero era sceso dai vagoni e lui era rimasto ancora quasi
impassibile. Non c’era alcun senso in ciò che stava pensando, eppure non
riusciva neppure a riflettere qualcosa di minimamente diverso.
Osservava gli sportelli aperti di quel convoglio come una possibilità di
fuga da tutto, repentina, irrazionale, inspiegabile, e questa era
l’unica idea che riusciva ad avere.
Infine il
barbone all’improvviso gli aveva chiesto sottovoce dei soldi, come se
ognuno prima o dopo dovesse pur fare la propria parte: prima che parta,
aveva detto, me lo lascia uno spicciolo? Ma lui lo aveva guardato a
lungo senza rispondere, quasi incantato; e infine, come lasciando
affiorare alle labbra un pensiero sofferto, aveva detto semplicemente:
mi dispiace, in tasca ho soltanto il biglietto del treno, nient’altro; e
con queste parole era salito senza più indugi.
mercoledì 26 dicembre 2012
Stretta dai sogni.
E’ soltanto il risveglio il vero problema. Io dormo e sogno, ed il mio mondo in questa fase meraviglia per la sua ricchezza.
La
donna in genere inizia la sua giornata per automatismi, assaporando a
volte, insieme alla consapevolezza del giorno reale, il gusto residuo
che certe volte trattiene del suo assopimento. Qualche volta, proprio
per questo, lei ha addirittura provato ad annotare ciò che riesce a
ricordare di quei suoi sogni, ma non è mai riuscita a restituire
minimamente qualcosa di quei sapori. Così affronta la realtà, esce da
casa e osserva gli altri sopra il suo autobus, quasi come figure
fantastiche imprigionate all’interno di un ruolo.
Va da suo
padre, quasi ogni giorno, a tenergli compagnia un’ora o due, a sbrigare
qualche faccenda per lui, a rendersi conto con attenzione del suo stato
corrente. Lui abita da solo la sua vecchiaia, non troppo distante da
casa della donna, e trascorre le giornate in silenzio, seduto accanto
alla finestra, come in attesa di qualcosa. Lei si muove in fretta, gli
fa delle domande, a volte gli racconta qualche piccolo fatto, ma non gli
parla mai dei suoi sogni e di come tutto sia diverso quando questi si
snodano di notte nella sua mente addormentata ma vigile.
Anche la
donna vive nell’attesa, e intanto inganna le giornate portando avanti
ciò che le sembra più naturale. Suo padre non le chiede mai niente di
sé, forse per pudore, forse perché secondo lui tutta la vita è soltanto
riuscire ad essere concreti, realizzati nello scandire il tempo nei
giusti attimi. Lei non si sofferma quasi mai ad osservarlo, però qualche
volta gli tocca un braccio, o una mano ruvida, lo sfiora come per
sentirne la corporalità. Le giornate si assomigliano tutte in questa
maniera, eppure ciascuna ha una sua peculiarità, una qualche
caratteristica propria.
Lei torna a
casa, rivedrà suo padre la mattina seguente, gli porterà qualcosa di
buono da mangiare, forse, starà di nuovo con lui, a tenergli un po’ di
compagnia, perché certe volte ha paura che la solitudine per lui poco a
poco diventi un disturbo o un malore. Nel pomeriggio si occuperà della
sua famiglia, del marito, della sua casa. Sarà esattamente ciò che
ognuno si aspetta che sia, senza minimamente cercare qualcosa di
diverso. Certe volte poi la donna si siede a pensare, senza un oggetto
preciso a cui riferirsi, e immagina tutta la sua giornata come una lunga
pausa di sospensione nell’attesa dei sogni che coroneranno come sempre
il suo sonno notturno.
In molte
occasioni le pare una forma solo egoistica la sua, ma non può farci
niente. La rende felice quel suo pensiero, e la coscienza che tutto il
suo tempo prima o poi terminerà in quel cullarsi di immagini oniriche,
per lei è più importante di tante altre cose; ed anche se sa che i suoi
sogni sono solamente proiezioni positive della sua fantasia, ugualmente è
contenta soltanto al pensiero che la sua mente riuscirà ancora a vagare
in quei suoi mondi fantastici, e forse questo, anche se non è
sufficiente a darle una serenità che comunque non riesce quasi mai ad
avere, sa che è comunque qualcosa di estremamente importante, almeno per
lei.
Bruno Magnolfi
Distanza di sicurezza
Ero entrato nel piccolo appartamento alle spalle di quella signora che
neppure conoscevo, ma alla quale avevo spiegato, con poche parole
pronunciate sottovoce sulla porta, di essere un amico del figlio, e di
avere notizie di lui. Ristagnava un vago odore di minestra nell’aria, e
forse di chiuso e di mobili vecchi. Ero stato fatto sedere presso il
tavolo del salottino, e la signora, in piedi, tenendosi le mani, mi
aveva presentato rapidamente a sua figlia, una ragazza non bella e forse
timida, che era rimasta in disparte e in silenzio, alzando appena il
suo sguardo giusto un momento.
Avevo spiegato con poche parole di non essere propriamente un amico, ma
anzi di avere conosciuto Armando solo nell’arco di due o tre giorni,
quando casualmente ci eravamo ritrovati insieme, a fronteggiare una
situazione complessa quale quella di sopravvivere in qualche maniera in
una terra straniera. Per me era stata solo una condizione momentanea,
dicevo, ma lui non aveva più documenti, e per questo motivo mi aveva
spiegato che non poteva arrischiarsi a varcare il confine e rientrare
nella sua patria; e d’altra parte neppure cercare un lavoro era qualcosa
in cui potesse facilmente confidare. Così stava vivendo alla giornata,
spiegavo alle due donne, senza più un soldo né un indirizzo a cui farsi
spedire un aiuto da voi o da chiunque altro.
La signora sembrava comprendere perfettamente le mie parole, anzi,
sembrava che fosse già preparata ad un rapporto del genere, tanto che
fermò ad un tratto le mie parole giusto per chiedermi di quale città si
stesse parlando e in che situazione fisica avevo trovato il suo Armando.
Dissi che lui stava bene, almeno in apparenza, soltanto cercava di non
dare troppo nell’occhio, e quindi si spostava continuamente, tanto da
non permettermi di sapere con esattezza se attualmente fosse ancora
nello stesso luogo in cui lo avevo lasciato, oppure no. In ogni caso è
una persona che sa cavarsela, dissi con forza, sicuramente troverà la
maniera di uscire da quella situazione.
La signora era rimasta in silenzio sulle mie ultime parole, tanto che
per uscire da quell’aria di imbarazzo che pareva aleggiare, stavo per
alzarmi e prendere congedo da lei e da sua figlia, quando quest’ultima
disse qualcosa, come parlando tra sé: voglio andare da lui, spiegò con
una smorfia del viso; ho bisogno di vederlo di persona, o almeno di
andare a cercarlo, anche se ho capito che non sarà facile. Dissi in due
parole che era una faccenda complicata e pericolosa, che sconsigliavo
vivamente, ma lei insisteva, quasi come una ripicca, o forse un proprio
bisogno di staccarsi per un po’ di tempo da quella casa. In ogni caso
spiegai con precisione dove avevo lasciato Armando l’ultima volta che lo
avevo veduto, per il resto, dissi, ci vuole soltanto un po’ di fortuna.
Quindi mi alzai, mi accorsi che la signora stava rigidamente in
silenzio, come conservando una grande dignità, e ugualmente mi
accompagnò verso la porta senza aggiungere una sola parola. La figlia,
al contrario di ogni mia aspettativa, iniziò a dire che in quella casa
c’era bisogno di Armando, che lei lo doveva trovare, che non poteva
esserci nessuna soluzione diversa, quello era il suo compito, quella la
missione a cui era chiamata. La signora mi guardò un momento negli occhi
come a spiegare con uno sguardo ciò che non poteva con le parole, io le
strinsi la mano ed uscii, ma fu mentre scendevo le scale che sentii
urlare: lo amo, è un amico di Armando, voglio dedicargli la vita,
andremo insieme a trovare mio fratello, lui saprà dove dirigersi.
Raggiunsi la strada allontanandomi velocemente da lì, poi, più tardi,
quando mi ritrovai con Armando, gli dissi soltanto che le cose che mi
aveva precedentemente fatto presente, purtroppo non sembravano affatto
cambiate.
Bruno Magnolfi
domenica 16 dicembre 2012
Sofia.
Come un aquilone senza corda e una farfalla senza ali, mia madre mi ha insegnato a volare con i sogni.
domenica 9 dicembre 2012
Sofia.
"Ogni bambino che nasce è in qualche misura un genio, così come
un genio resta in qualche modo un bambino." (Arthur Schopenhauer)
giovedì 6 dicembre 2012
Malamore.
Le donne provano la temperatura del ferro da stiro toccandolo. Brucia ma
non si bruciano. Respirano forte quando l’ostetrica dice «non urli, non
è mica la prima». Imparano a cantare piangendo, a suonare con un
braccio che pesa come un macigno per la malattia, a sciare con le ossa
rotte. Portano i figli in braccio per giorni in certe traversate del
deserto, dei mari sui barconi, della città ai piedi su e giù per gli
autobus. Le donne hanno più confidenza col dolore. Del corpo,
dell’anima. È un compagno di vita, è un nemico tanto familiare da esser
quasi amico, è una cosa che c’è e non c’è molto da discutere. Ci si
vive, è normale. Strillare disperde le energie, lamentarsi non serve.
Trasformandolo, invece: ecco cosa serve. Trasformare il dolore in forza.
Ignorarlo, domarlo, metterlo da qualche parte perché lasci fiorire
qualcosa. È una lezione antica, una sapienza muta e segreta: ciascuna lo
sa.
Maria Malibran, leggendario mezzosoprano, che impara a nascondere le lacrime durante le terribili lezioni di canto inflitte dal padre. Jaqueline du Pré che suona come un angelo il violoncello e sorride a ogni fitta alle ossa del braccio malato, il braccio che finirà per ucciderla. Denise Karbon che scia ingessata, Vanessa Ferrari che volteggia con una frattura al piede. La prostituta bambina che chiude gli occhi e pensa al prato della sua casa nei campi. La giovane donna che si lascia insultare e picchiare dal suo uomo perché pensa che quella sua violenza sia una debolezza: pensa di capirne le ragioni, di poterle governare, alla fine. Pensa che lui sia fragile quando strilla e quando alza le mani: si calmerà, basterà lasciargli il tempo, si placherà. La compagna del genio, la donna di Picasso che, lei sola, ne conosce e ne tollera le miserie: in questo più forte e più grande di lui. L’artista straordinaria che si lascia soggiogare in una vita ordinaria e la trasforma in poesia, la donna ordinaria che fa dei suoi giorni un capolavoro di pazienza. Le migliaia, milioni di donne che vivono ogni giorno sul crinale di un baratro e che anziché sottrarsi quando possono, quelle che possono, ci passeggiano in equilibrio: un numero da circo straordinario, questo di tentare di addomesticare la violenza la violenza degli uomini qualche volta andando a cercarla, persino. Perché è un antidoto, perché è un prezzo, perché non si può fare diversamente, perché il tempo che viviamo è questo e chiede uno sforzo d’ingegno per conciliare la propria autonomia con l’altrui brutale insofferenza.
Le storie che ho raccolto sono scie luminose, stelle cadenti che illuminano a volte molto da lontano una grande domanda: cosa ci induce a non respingere, anzi a convivere con la violenza? Perché sopporta chi sopporta, e come fa? Quanto è alta la posta in palio? Alcune soccombono, molte muoiono, moltissime dividono l’esistenza con una privata indicibile quotidiana penitenza. Alcune ce la fanno, qualche altra trova nell’accettazione del male le risorse per dire, per fare quel che altrimenti non avrebbe potuto. Grandissimi talenti sono sbocciati da uno sfregio. Altrettanto grandi sono stati spenti. Per mille che non hanno nome, una cambia il corso della storia. Sono, alla fine, gesti ordinari. Chiunque può capirlo misurandolo su di sé. Sono esercizi di resistenza al dolore.
«Le femmine servono ai cuccioli» dice il bambino seduto davanti alla tv, danno un documentario sugli animali. Poi ripete: «Lo sai mamma? Le femmine servono perché devono fare i cuccioli, i maschi da soli non li possono fare».
Non c’è dubbio, i maschi da soli non possono. Però le femmine non «servono» solo a fare i cuccioli, penso di rispondere. Non dico niente, invece. Ci sono cose che non si spiegano con le parole. Lo capirà, lo vedrà, lo imparerà strada facendo. Certo, bisogna sempre ricominciare da capo. A ogni generazione di nuovo. Dimostrare, convincere. A cosa servono le femmine? Sembra proprio, nelle parole di un bambino, l’origine di tutte le questioni. Non sono sicura che a fare la stessa domanda a cento adulti, uomini e donne, si otterrebbero risposte convincenti. «Servono a far più bella la vita» mi ha risposto un amico credendo di dire cosa gradita, immagino sentendosi galante. Deve essere qui il cuore di tutto. Siamo proprio certi che le femmine servano a qualcos’altro che a fare i cuccioli, a rendere piacevole l’esistenza altrui? E loro, le donne, dietro le parole e i gesti di una sicurezza ogni giorno esibita in pubblico ne sono davvero convinte in privato? Cosa sono disposte a offrire a sopportare in cambio della possibilità di dimostrare che no, non servono solo a fare i cuccioli né ad allietare con la loro deliziosa presenza le impegnative vite altrui? Ma soprattutto, perché in fondo sentono, anche quando non lo dicono, di doverlo dimostrare?
Vorrei poter dire che se devi uscire alle cinque per un impegno improrogabile e alle cinque meno dieci la persona con cui dividi l’esistenza ti pone una questione epocale da cui dipende l’esito della tua giornata, della settimana e della vita, ecco, quella è una prova di forza, una forma sottile di violenza che si esercita nel celebre quesito: dimostrami che cosa è più importante per te. Perché si sa che l’amore viene prima di tutto, per le donne è certamente così. Perché se hai interessi fuori, più importante deve essere sempre, tuttavia, l’interesse dentro. Perché se un uomo può dire scusami ma ho da fare, e dimenticarsi l’anniversario, la spesa, la festa di compleanno del bambino, la consegna a domicilio, una donna no, non può farlo. O meglio: può, ma paga un prezzo.
Dolore e forza delle donne in Malamore
Maria Malibran, leggendario mezzosoprano, che impara a nascondere le lacrime durante le terribili lezioni di canto inflitte dal padre. Jaqueline du Pré che suona come un angelo il violoncello e sorride a ogni fitta alle ossa del braccio malato, il braccio che finirà per ucciderla. Denise Karbon che scia ingessata, Vanessa Ferrari che volteggia con una frattura al piede. La prostituta bambina che chiude gli occhi e pensa al prato della sua casa nei campi. La giovane donna che si lascia insultare e picchiare dal suo uomo perché pensa che quella sua violenza sia una debolezza: pensa di capirne le ragioni, di poterle governare, alla fine. Pensa che lui sia fragile quando strilla e quando alza le mani: si calmerà, basterà lasciargli il tempo, si placherà. La compagna del genio, la donna di Picasso che, lei sola, ne conosce e ne tollera le miserie: in questo più forte e più grande di lui. L’artista straordinaria che si lascia soggiogare in una vita ordinaria e la trasforma in poesia, la donna ordinaria che fa dei suoi giorni un capolavoro di pazienza. Le migliaia, milioni di donne che vivono ogni giorno sul crinale di un baratro e che anziché sottrarsi quando possono, quelle che possono, ci passeggiano in equilibrio: un numero da circo straordinario, questo di tentare di addomesticare la violenza la violenza degli uomini qualche volta andando a cercarla, persino. Perché è un antidoto, perché è un prezzo, perché non si può fare diversamente, perché il tempo che viviamo è questo e chiede uno sforzo d’ingegno per conciliare la propria autonomia con l’altrui brutale insofferenza.
Le storie che ho raccolto sono scie luminose, stelle cadenti che illuminano a volte molto da lontano una grande domanda: cosa ci induce a non respingere, anzi a convivere con la violenza? Perché sopporta chi sopporta, e come fa? Quanto è alta la posta in palio? Alcune soccombono, molte muoiono, moltissime dividono l’esistenza con una privata indicibile quotidiana penitenza. Alcune ce la fanno, qualche altra trova nell’accettazione del male le risorse per dire, per fare quel che altrimenti non avrebbe potuto. Grandissimi talenti sono sbocciati da uno sfregio. Altrettanto grandi sono stati spenti. Per mille che non hanno nome, una cambia il corso della storia. Sono, alla fine, gesti ordinari. Chiunque può capirlo misurandolo su di sé. Sono esercizi di resistenza al dolore.
«Le femmine servono ai cuccioli» dice il bambino seduto davanti alla tv, danno un documentario sugli animali. Poi ripete: «Lo sai mamma? Le femmine servono perché devono fare i cuccioli, i maschi da soli non li possono fare».
Non c’è dubbio, i maschi da soli non possono. Però le femmine non «servono» solo a fare i cuccioli, penso di rispondere. Non dico niente, invece. Ci sono cose che non si spiegano con le parole. Lo capirà, lo vedrà, lo imparerà strada facendo. Certo, bisogna sempre ricominciare da capo. A ogni generazione di nuovo. Dimostrare, convincere. A cosa servono le femmine? Sembra proprio, nelle parole di un bambino, l’origine di tutte le questioni. Non sono sicura che a fare la stessa domanda a cento adulti, uomini e donne, si otterrebbero risposte convincenti. «Servono a far più bella la vita» mi ha risposto un amico credendo di dire cosa gradita, immagino sentendosi galante. Deve essere qui il cuore di tutto. Siamo proprio certi che le femmine servano a qualcos’altro che a fare i cuccioli, a rendere piacevole l’esistenza altrui? E loro, le donne, dietro le parole e i gesti di una sicurezza ogni giorno esibita in pubblico ne sono davvero convinte in privato? Cosa sono disposte a offrire a sopportare in cambio della possibilità di dimostrare che no, non servono solo a fare i cuccioli né ad allietare con la loro deliziosa presenza le impegnative vite altrui? Ma soprattutto, perché in fondo sentono, anche quando non lo dicono, di doverlo dimostrare?
Vorrei poter dire che se devi uscire alle cinque per un impegno improrogabile e alle cinque meno dieci la persona con cui dividi l’esistenza ti pone una questione epocale da cui dipende l’esito della tua giornata, della settimana e della vita, ecco, quella è una prova di forza, una forma sottile di violenza che si esercita nel celebre quesito: dimostrami che cosa è più importante per te. Perché si sa che l’amore viene prima di tutto, per le donne è certamente così. Perché se hai interessi fuori, più importante deve essere sempre, tuttavia, l’interesse dentro. Perché se un uomo può dire scusami ma ho da fare, e dimenticarsi l’anniversario, la spesa, la festa di compleanno del bambino, la consegna a domicilio, una donna no, non può farlo. O meglio: può, ma paga un prezzo.
Dolore e forza delle donne in Malamore
L'ultimo saggio di Concita De Gregorio
La notte in città
Allungo
una mano nel buio insonne della mia camera. Avverto il vuoto, e l’aria
ferma, assieme a quel senso di protezione e di silenzio dato dalle
pareti mentre racchiudono lo spazio finito di questa stanza. Mi metto
seduto sul bordo del letto, non mi interessa neppure sapere che ore
siano, mi basta immaginarmi sperduto come sono tra i sogni e il riposo
di tutta la gente che abita questa città. Vorrei spingermi fino ad una
finestra, osservare dai vetri la strada vuota rischiarata da qualche
lampione, ma non lo faccio, resto qui a pensare al miglior comportamento
da seguire appena si sarà fatto giorno.
Sono una
persona comune, penso; uno qualsiasi che persegue una lotta di
sopravvivenza per riuscire a conservare se stesso; uno come tutti, un
altro tra coloro che si ritengono capaci di avere ancora pensieri
propri. Non voglio però sentirmi in balia della solita angoscia di cui
soffrono gli altri, voglio reagire, immaginarmi qualcosa di diverso per
la giornata che vado ad affrontare, magari sentirmi capace di riflettere
a fondo sui gesti e le espressioni che mi appaiono di fronte, quali
elementi da interpretare ed a cui almeno provare a dare un significato.
Resto
seduto sul letto, nel buio, ma immagino la stanza, non riuscendo a
vederla, molto più grande di quanto lo sia veramente, e mi sento quasi
sperduto in questa specie di capannone industriale dove è stato
collocato per me questo giaciglio. L’aria adesso sa di lavoro, di
persone che affrontano dei sacrifici, di gesti consuetudinari portati
avanti nella ricerca di qualcosa che almeno sia di sollievo a questo
niente di cui siamo fatti. Osservo il procedere delle cose che mi
circondano, tutto mi sembra un assurdo, tanto vale distogliere la mente
da questi pensieri.
Vado alla
finestra, la apro, lascio che il freddo mi punga la pelle, ma ancora non
riesco a sentire la solidarietà che vorrei manifestare verso tutti
coloro che avverto in tutte le case che ho intorno. Mi vesto, scendo per
strada, mi pare che adesso tutto sia vivo, che attenda soltanto il
momento in cui l’ingranaggio riparte, che la macchina ritrovi il suo
moto. Corro, mi metto ad urlare lungo la via come fossi uscito
completamente di senno. Nessuno mi ferma, vado avanti a sentire il
freddo della notte sopra la faccia, sento la disperazione farsi largo
nella mia testa. Infine mi fermo, mi accuccio per terra, spossato:
spesso la realtà è incomprensibile, penso; adesso mi sento figlio di
questa incomprensibilità, e anche di tutta questa follia.
Bruno Magnolfi
mercoledì 5 dicembre 2012
Un saluto frettooso.
Forse, in
tanti anni, ho soltanto cercato delle varianti, degli argomenti
alternativi, delle possibilità differenti, che mi permettessero di non
vedere quello che ero veramente, pensa Ernst; e tutto questo almeno fino
a quando non ho conosciuto te, che mi hai fatto scoprire, soltanto con
uno sguardo, la semplice umanità da cui ero composto.
Poi lui
esce dalla stanza, s’incammina verso la strada che lo attende, non si
volta indietro, ciò che aveva da dire lo ha già detto, chiude la porta
alle sue spalle ed improvvisamente ha la coscienza di essere da solo,
come se questo stato fosse un vantaggio e non un limite. Guarda la
campagna che si snoda avanti a sé, respira l’aria fresca che lo
accompagnerà, e infine si avvia, senza alcun ripensamento.
Lei lo
osserva con distacco dalla sua finestra: quando lo rivedrà saranno
ambedue diversi, non si può far niente per evitare tutto questo; tanto
vale cercare di raccogliere tutti quei piccoli elementi positivi che
possono quasi per gioco essere rimasti impigliati nella personalità di
ognuno, e in questo modo archiviare il vissuto sotto l’egida
dell’esperienza, perché nient’altro è possibile pretendere.
Bruno Magnolfi
martedì 4 dicembre 2012
Solamente un ragazzo a cavallo.
Non so,
dice lei; forse ci potrei pensare. E’ strana certe volte Rita quando
parla di alcuni argomenti. Non riesci a capire se una cosa le vada
oppure no, pensa lui mentre guarda da qualche altra parte per non
dimostrarle di essere leggermente deluso. Certe volte lei lascia delle
pause piene di interrogativi, lui si sente quasi imbarazzato in quei
casi, anche se proprio non saprebbe neppure dire effettivamente per
quale motivo.
Poi
all’improvviso Rita lo abbraccia, forse per rassicurarlo, ma è come se
non lo toccasse nemmeno, tanto il suo comportamento appare impalpabile,
quasi incomprensibile. E in un orecchio gli dice: va bene, come se
l’entusiasmo che lui aveva inserito nella sua proposta di prima, non
fosse ormai irrimediabilmente perduto.
Rita si
siede sul letto della sua camera, in silenzio. Non è un invito, lui lo
sa bene, ma soltanto un comportamento come un altro, una maniera forse
per prendere tempo, per vedere che cosa potrà dire lui adesso. Invece
lui va verso la finestra, guarda fuori qualcosa mentre continua a tenere
aperta tra le mani una rivista di arte dove ci sono, in molte pagine,
una serie infinita di riproduzioni di altrettanti dipinti; il soggetto è
un ragazzo a cavallo che galoppa come solo il vento può fare, tanto da
plasmare le forme e i colori di tutto, quasi un’espressione di nuovo
futurismo, portato in questa maniera fino al paradosso.
A lui
piace passare il tempo con Rita in quella stanza, gli sembra l’ambito
dove possa capitare di tutto, e difatti, se ancora ci pensa, tante cose
sono accadute là dentro, quasi fosse un vero spazio teatrale, un
ambiente all’interno del quale tutto o quasi possa essere ammesso. Lei
dice: usciamo; ma sottovoce, quasi parlasse soltanto a se stessa. Lui le
risponde in modo ambiguo, come se davvero ne avesse gran voglia, ma
qualcosa fosse capace di trattenerlo là dentro.
Hai
visto?, fa lui mostrando a Rita le illustrazioni che aveva osservato.
Non mi piace, risponde lei senza aggiungere altro. Forse sarebbe
possibile parlare a lungo di queste immagini, pensa lui muovendo qualche
passo dentro la stanza e richiudendo la sua rivista. Ma non ha forse
alcuna importanza; gli torna a mente la domenica precedente, quando loro
due sono andati a vedere il mare in burrasca, e stringendola a sé gli è
quasi venuto da piangere, tanto sentiva che lei era lì, con lui, non
come adesso.
D’accordo,
dice alla fine, quasi con una leggerissima forma di rassegnazione:
usciamo. Rita si alza, lo guarda, forse si attende qualcosa d’altro,
magari cerca soltanto di studiare il suo comportamento. Raccoglie la
rivista d’arte che lui ha lasciato sul letto, dice: portiamo anche
questa, così parliamo di quelle immagini che ti hanno colpito. Lui la
guarda, sa che è quello il suo vero abbraccio, così sorride, e le dice:
va bene, vorrei anche parlare di noi, qualche volta, anche se credo
proprio non mi sarà mai possibile. Ma forse non ha alcuna importanza,
pensa; spesso le nostre sono soltanto parole destinate a sfumare in modo
confuso nei concetti che esprimono, tanto da lasciarne nell’aria appena
un’interpretazione possibile. E poi davvero, cosa importa: va bene
così.
Bruno Magnolfi
giovedì 29 novembre 2012
Donna di fiume
La casa
sul fiume pareva come solcare incessantemente le acque, indirizzando la
prua non verso una vera e propria direzione, ma quasi auspicando un mare
remoto che doveva esserci per forza laggiù, da qualche parte, in fondo a
quella corrente. Lei dalla finestra del primo piano osservava il
tremolare dell’erba lungo la riva, mentre attendeva con impazienza il
suo ritorno, come ogni sera, la cena pronta nel forno, la volontà solita
di rompere al più presto possibile quella insopportabile solitudine,
immersa completamente dentro l’attesa.
Poi
sentiva la macchina arrivare sul retro, lo sportello sbattuto, le scarpe
sopra i tambureggianti gradini di legno. Avrebbe sempre voluto urlare
in quel momento, inscenare un dolore che non sapeva neanche lei da dove
potesse provenire, se non da ognuno di quei pomeriggi dolenti,
silenziosi, marcati solo dal viaggio, dallo spostamento costante e
continuo di tutta la sua abitazione, controcorrente, non verso il mare,
ma verso le montagne lontane, dove stavano le sorgenti di tutte le cose.
L’acqua scorreva al suo fianco, la navigazione era lenta e costante,
certe volte l’orizzonte pareva quasi a portata di mano.
Era felice
del suo ritorno, certo, ma dentro a quel sentimento qualcosa sembrava
assorbirne ogni dimostrazione, come se il tempo solitario appena
trascorso ne reclamasse per sé almeno una parte. Quello era il momento
più difficile del giorno, quel veloce trapasso da una stato a
quell’altro: qualsiasi cosa sarebbe stata migliore potendo evitare
quell’attimo. Certe volte aveva voglia di piangere, in altre occasioni
era andata persino a nascondersi, come ad evitare una fase che il suo
spirito non riusciva a sorreggere. Si sentiva raggiunta in quel momento,
affiancata da lui, come se il suo lento percorrere il fiume avesse
trovato in quell’attimo qualcosa capace di farle piegare la testa,
inchinata ad una specie di volontà superiore.
Certe
volte si sentiva soltanto come una bambina; non ne aveva mai parlato con
lui: lui l’abbracciava, le sussurrava piccole dolci frasi, mostrava la
sua gioia, forse gli sembrava di incarnare ogni volta il ritorno
dell’eroe senza meriti, quello che torna e basta, come è giusto che sia,
lasciando alle spalle, con indifferenza, una battaglia vinta oppure
perduta. Lei certe volte sentiva la sua presenza ancora distante, ma
lasciava che tutto scorresse con naturalezza, come il fiume là accanto,
anche se il suo inconfessato dolore pareva gonfiare poco per volta il
suo stato, spingerla via, come un vento impetuoso, lontano il più
possibile da quella terribile attesa.
Infine
tutto accadde come per caso: lei uscì di casa per non sentire quel
morso, seguì incantata l’onda del fiume che quel giorno pareva lasciarla
navigare in maniera molto più libera di quanto si fosse mai immaginata,
e quando lui tornò a casa, semplicemente, lei non c’era più.
Bruno Magnolfi
domenica 25 novembre 2012
Questo steccato cadente (dialogo n. 9).
Il vecchio sta fermo sopra la veranda mentre osserva Peter che si
avvicina costeggiando un tratto ancora in piedi dello steccato di
fronte. Non pensa niente in particolare, sa soltanto che tra poco
rientrerà in casa per versarsi un altro bicchiere di vino rosso. Peter
lo osserva distrattamente camminando con lentezza, e ad un tratto sente
squillare dentro la tasca il telefono portatile, risponde, e senza
fermarsi ascolta qualcuno che gli parla direttamente dentro l’orecchio.
Poi interrompe la comunicazione con un grugnito, si ferma e dice
soltanto: avrei bisogno di un favore, con una voce forse un po’ troppo
alta se avesse continuato a parlare al telefono, ma non molto forte per
convincere il vecchio che sta davvero riferendosi a lui.
Difatti il vecchio non risponde né dice qualcosa, limitandosi a
guardare una striscia di terra lontana sopra la spalla dello scocciatore
che gli è quasi di fronte. Peter dice: se mi prestate il vostro furgone
arrivo in paese e tra un’ora al massimo sono già di ritorno. Ho forato
una gomma sulla strada principale, oltre quegli alberi, e quella di
scorta è completamente sgonfiata.
Un po’ di vento scivola sull’erba e sugli alberi senza rumore, il
vecchio sogna il suo bicchiere di vino, adesso è sicuro che tra qualche
momento starà seduto nella cucina di casa a vuotarselo in gola; riflette
che lui non ha alcun furgone da prestare, suo figlio non tornerà prima
di sera, ma oltre questo pensiero non gli interessa neppure rispondere.
Peter si avvicina di altri tre o quattro passi, ma all’improvviso ha
come la sensazione che l’uomo sull’uscio di casa abbia a portata di mano
un fucile carico, così torna a fermarsi, forse capisce che non otterrà
un bel niente dal vecchio, e infine pensa al volo che probabilmente sarà
meglio per lui lasciar perdere tutto.
Attende mezzo minuto, si accende una sigaretta, poi concede un’ultima
occhiata al vecchio impassibile, e infine si volta per allontanarsi.
Appoggia una mano sopra al paletto dello steccato, guarda attorno se ci
sono altre case poco distanti, poi aspira una boccata di fumo. In molti
passano da queste parti, dice il vecchio, non so cosa cercano, forse c’è
qualcosa laggiù, oltre la fila degli alberi. Ho sempre badato ai fatti
miei, dice ancora il vecchio, però non mi piace che qualcuno superi
questo steccato, per quanto sia marcio e mezzo caduto. Non aiuto
nessuno, sono abituato a stare da solo per il tempo di ogni giornata, e
tutti i pensieri girano nella testa per conto proprio quando si vive
così; ma in ogni caso non voglio lasciare che qualcuno interrompa i miei
modi di essere, non lo permetterò, sono così e non voglio cambiare.
Peter torna ad osservarlo, non si aspettava una tirata del genere,
anche se il vecchio non si è riferito a nessuno, quasi avesse pensato
qualcosa per sé dicendola al vento con voce alta. Sa che non ha bevuto
la storia della gomma ed il resto, però pensa qualcosa che possa
concedergli un’altra possibilità. Posso ripassare quando tornerà vostro
figlio, dice tanto per mostrargli che è un osso duro. Il vecchio non lo
ascolta neppure, però misura la faccia del forestiero forse per la prima
volta, osserva i suoi atteggiamenti, perfino il modo come è vestito.
Alla fine, con calma, estrae il suo fucile, prende la mira e spara di
striscio ad un braccio di Peter. Quello cade urlando qualcosa, poi si
rialza tenendosi la spalla, bestemmiando qualcosa mentre già si
allontana, e imprecando contro tutto ciò che gli viene a mente in quel
momento, come se avesse soltanto fatto uno stupido sbaglio.
Poi il vecchio rientra, si siede, versa mezzo bicchiere di vino dalla
bottiglia e ne beve subito un sorso. La vita è fatta di risposte, pensa;
il resto sono soltanto chiacchiere insulse.
Bruno Magnolfi
venerdì 23 novembre 2012
Incontro.
Cesare era entrato dentro al portone del palazzo dove abitava, lo aveva
richiuso alle sue spalle, poi era rimasto lì, indeciso su ciò che aveva
veramente voglia di fare. Qualcuno, proprio in quel momento, era sceso
di fretta lungo le scale di quel palazzo, aveva percorso quel tratto di
ingresso rallentando l’andatura, guardato Cesare con un’espressione
crucciata e anche con una certa insistenza, e poi lo aveva superato,
aprendo l’uscio che dava sulla strada e sparendo in un attimo.
Lui non aveva mai visto quella donna, o forse non si ricordava di lei,
anche se gli era parsa sicura di sé in quei pochi gesti, quasi abitasse
in un appartamento dei piani superiori, e conoscesse bene il suo vicino
di casa, tanto da concedergli quell’occhiata esauriente, anche se
nessuna parola era uscita dalla sua bocca; in quell’attimo in cui lei
gli era passata vicino era come accaduto qualcosa di strano, Cesare
adesso ne aveva coscienza, come se una parte di lui avesse cessato di
essere nella stessa maniera di sempre, lasciando quasi lo spazio
sufficiente per qualcosa di nuovo.
Cesare ormai da tempo si era reso conto di essere stufo di raccontare a
tutti la solita storia della sua vita, anche se ogni volta che lo
faceva gli pareva che piccoli dettagli si modificassero nel suo
raccontare, plasmandosi in funzione delle parole che ogni volta trovava
più adatte alle sue descrizioni. Però, la maggior parte delle volte,
quando si impegnava a spiegare le vicende che aveva vissuto, aveva
sempre voglia che qualcuno gli chiedesse ancora qualcosa, magari anche
con una certa insistenza, in modo da ritrovarsi costretto a scavare, ad
attingere ad ogni particolare dentro se stesso, fino a trovare qualcosa
che forse fino ad oggi gli era probabilmente quasi sfuggito.
Lui aveva pensato spesso al passato, riflettuto con calma sui
molteplici aspetti, e aveva sempre ripercorso le sue vicende come dando
un’occhiata ad una serie di immagini, come fossero tante figure statiche
della sua mente, file di oggetti quasi sospesi nel tempo; ma adesso,
nel silenzio scuro dell’ingresso del suo condominio, all’improvviso gli
sembrava che d’ora in avanti niente di tutto questo, assolutamente nulla
di quanto credeva di aver costruito sulla base delle sue semplici
esperienze, potesse essere più assolutamente possibile.
Cesare ad un tratto sapeva di dover fare qualcosa come cercare di
arrestare quella rapida perdita, quella grave mancanza che iniziava già a
farsi sentire, così cercava di far forza sul suo coraggio, spingersi in
avanti, affrontare la nuova realtà, e accostarsi al portone, aprirlo
con energia, uscire velocemente sul marciapiede. Quella donna era ancora
lì che lo stava aspettando, certo, non poteva essere in altra maniera.
Lui la guardava, gli pareva che niente fosse sbagliato, ogni elemento
era perfetto, tutto collimava come travasando ogni aspetto che aveva
coltivato fino ad allora in quel semplice piccolo attimo.
La donna si era voltata di nuovo verso di lui, non più per osservarlo,
ma per farsi osservare, per lasciare che la mente di Cesare costruisse
un percorso completo di identificazione, memorizzando e confrontando
ogni dettaglio. Lui si era avvicinato, non molto, poi era rimasto fermo,
stupefatto, all’improvviso incapace persino di parlare. Sarebbe stato
meglio aver finto un’indifferenza completa, pensava; sarebbe stato
meglio avesse corso su per le scale, continuava a pensare; sarebbe stato
meglio qualsiasi altra cosa, ne era certo: ma lei adesso era lì, e
questo era un fatto del tutto impossibile da disconoscere.
Bruno Magnolfi
giovedì 22 novembre 2012
Involucri concentrici.
Avendo comunque coscienza che stavo dormendo, ho fatto un sogno
talmente realistico da avere paura che il mio risveglio ne
neutralizzasse ogni esperienza acquisita. Infine, com’era del tutto
inevitabile, la giornata ordinaria ha preso come sempre il sopravvento
sul resto, e così mi sono fatto la barba, mi sono vestito, e come ogni
mattina sono uscito da casa. Prima di andare ad infilarmi nell’ufficio
dove lavoro da ben dodici anni, mi sono fermato in un caffè, ho preso un
cornetto, un cappuccino, e mi sono seduto a sfogliare un giornale a
disposizione dei clienti.
Nelle pagine centrali si parlava di qualcosa che mi è parso
estremamente interessante: si trattava di una persona che era riuscita
ad annotare tutti i sogni fatti nell’arco di anni, tanto da costituire
uno scaffale pieno di quaderni con le storie vissute soltanto con la
mente nell’attimo stesso del suo riposo. L’articolo sosteneva che questa
persona, rileggendo in seguito il materiale che giorno per giorno aveva
accumulato, ad un tratto si era accorta che c’era un senso preciso che
animava quei sogni, quasi un filo rosso che legava tutte quelle storie e
quelle parole, tanto da spingerla a trarne un libro completo,
voluminoso, quasi un ciclo di romanzi.
Mi è parso subito un incoraggiamento alla vita quell’articolo, come se
tutto fosse sempre possibile, anche nel momento di intimità massima come
dormire. Ho tardato ancora prima di andare a rinchiudermi nel mio
ufficio, ho pensato a lungo agli aspetti che poteva delineare
un’esperienza del genere. Ho guardato la strada fuori dai vetri, ho
seguito con lo sguardo qualche passante di fretta che inseguiva
qualcosa; mi sono soffermato a mettere fuori fuoco le immagini che
giungevano via via davanti ai miei occhi, e ad estraniarmi almeno in
parte dal luogo pubblico dove restavo ancora seduto. Il cameriere mi ha
toccato una spalla: sta bene?, mi ha chiesto, io gli ho sorriso e mi
sono alzato dal tavolino.
L’aria fredda della mattina sembrava adesso soltanto un ricordo lontano
di qualcosa che all’inizio appariva forse piacevole, ma che dopo pochi
minuti era già un’altra cosa: la consapevolezza della forza che si
poteva avere dentro se stessi pareva spingermi lontano da tutto, come se
non fossi più una vera parte dell’intero ingranaggio già in movimento.
Ero vicino all’edificio dove mi recavo per il mio lavoro, ma nella
realtà mi sentivo lontano da lì, proiettato dietro a pensieri che non
avevo mai fatto, come se la mia mente in autonomia avesse preso il
controllo completo delle scelte da fare.
Con lentezza estenuante mi avvicinavo al palazzo di uffici, cosciente
di essere già in forte ritardo: un’indifferenza completa continuava a
determinare i miei movimenti; le persone attorno si muovevano con
rapidità, le auto, i mezzi pubblici, tutto quanto era proiettato in un
vortice che non faceva più parte di me, come mi fossi sganciato da
tutto, e all’improvviso sentissi una forte lontananza da ciò che ero
stato, e che di fatto avrei dovuto essere ancora.
Gli ultimi passi prima di arrivare al lavoro si facevano sempre più
estenuanti, gettandomi in un torpore colmo di disagio, quasi la ricerca
faticosa di resistere prima di tornare ad essere l’uomo di sempre.
Forse, d’improvviso, avrei voluto addirittura recuperare del tempo,
magari mettermi a correre, ma pareva impossibile, come se le mie gambe
non fossero adatte ad una sfida del genere. Infine ho avvertito
vicinissimo un suono elettronico che continuava a trillare, e così, di
soprassalto, mi sono svegliato davvero.
Bruno Magnolfi
martedì 20 novembre 2012
Una donna con la sua bicicletta. 2
Soltanto pochi anni fa tutto mi sembrava ancora possibile. Avevo
acquistato una bicicletta nuova, ed avevo iniziato a girare per tutte le
strade di questa città che, per un motivo od un altro, non ero stata
capace in tanto tempo di frequentare. Voltavo un angolo ad un incrocio, e
improvvisamente scoprivo una prospettiva del tutto nuova, una fila di
alberi lungo un viale, delle facciate di case particolari, dei vecchi
muri di pietra, incanto di una cultura attenta anche al punto di vista
di un qualsiasi anonimo viaggiatore.
Pedalavo con calma, mi fermavo, entravo in qualche vecchia tabaccheria
oppure da un droghiere, e mi pareva di respirare la mia città in ogni
sua forma, quartiere dopo quartiere, un luogo dopo l’altro. Tornavo a
casa, poi, e mi ritrovavo a pensare a tutto quello che ero riuscita a
scoprire, e mi sentivo bene, contenta, parevano sufficienti queste
piccole cose per vivere bene, sentirsi in perfetta armonia con questo
agglomerato di vecchie case e di strade antiche. Abitavo da sola, non
frequentavo nessuno, e anche se non avevo moltissimo tempo per questi
miei giri, quando la giornata si mostrava propizia inforcavo la mia
bicicletta e me ne andavo incontro alla città.
Mi pareva poco per volta di conquistare qualcosa di particolarmente
prezioso, e in questa maniera non mi sentivo mai sola, circondata
com’ero da tutte quelle facce e quelle espressioni che incrociavo per
strada nel mio pedalare. Un giorno però caddi a terra, non riesco ancora
oggi a comprenderne bene il motivo. Avevo notato un uomo, lungo il
viale, e ne ero stata attratta, inutile negarlo; e questo era successo
nello stesso momento in cui avevo messo la ruota della mia bicicletta
sopra una pietra sconnessa. Non mi ero fatta molto male, ma in molti
erano accorsi, avevano cercato di rendersi utili fin troppo nel cercare
di rialzarmi e farmi coraggio, ma quell’uomo che avevo notato non si era
neppure sollevato dalla panchina dove stava seduto.
Inizialmente avevo pensato fosse soltanto una scortesia da parte sua,
ma una volta risalita sulla mia bicicletta, in considerazione di quanto
era accaduto, mi era parso il suo un gesto atto solo ad evitare
l’eccessiva curiosità che gli altri avevano mostrato. Così avevo ripreso
con calma la mia pedalata, ma poco dopo mi ero sentita quasi in dovere
di tornare sopra i miei passi, avvicinarmi alla panchina dove ancora si
tratteneva quell’uomo, e ringraziarlo. Lui aveva sorriso, si era alzato
dal suo posto, ed io avevo messo un piede a terra, fermandomi.
Non si era poi fatta male, aveva detto lui sorridendo. Anch’io avevo
sorriso, e l’uomo mi era venuto vicino, aveva sistemato la mia
bicicletta accanto al marciapiede, poi mi aveva invitato a prendere
qualcosa nel caffè accanto. Lo avevo seguito, ci eravamo presentati, ed
avevamo fatto conoscenza. Ci eravamo dati appuntamento per il giorno
seguente, e poi per il giorno dopo, e ancora per tutti i giorni a
venire, lungo un tempo che andò avanti per molto. Lui mi aveva invitato
da subito a salire sulla sua automobile, ed io avevo lasciato ben
volentieri la bicicletta, andando insieme a lui a guardare quegli scorci
della città che adesso avevo il piacere di mostrare anche a quell’uomo
così attento ai particolari. Infine litigammo, iniziando a vederci
sempre più raramente, e quando tirai fuori di nuovo la mia bicicletta,
mi parve comunque di avere ormai perso qualcosa di importante, forse un
vero rapporto d’affetto in cui avevo sperato, forse la concreta
possibilità di non sentirmi più sola come molte volte era successo;
oppure, all’improvviso, vedevo soltanto ormai tramontato anche lo
spirito giusto per andarmene ancora a girare per la città senza una meta
precisa.
sabato 17 novembre 2012
Dialogo n. 8. Due, forse come altri due.
Certe
volte entro in un caffè per alleggerire questi miei pensieri, mi lascio
servire una birra, anche più d’una, in certi casi, e resto lì, come in
un angolo neutrale della realtà, dove certe logiche, almeno per quella
mezz’ora o poco di più, sembrano non avere valore. E’ qui che ho
incontrato quella ragazza, Francesca, un tipo di donna non bella, forse
però interessante, leggermente maschile nei modi, come di chi, a furia
di stare sulla difensiva, è riuscito a indurirsi, a corazzarsi con una
pelle più spessa di qualsiasi avversità.
Inutile
leccarsi le ferite, le ho detto; e lei ha annuito. Forse sono una
ragazza facile, ha spiegato, ma non mi concedo del tutto: trattengo
tanto per me, anche se in fondo non ho molto da perdere, e questo mio
modo di pormi ritengo per me sia una grande fortuna. Così siamo usciti
da dentro al locale, abbiamo camminato insieme lungo le strade di
sempre, cercando di avere degli occhi almeno un po’ differenti per
osservare tutto ciò che già conoscevamo ampiamente. Ci siamo baciati con
un certo stupore, come fosse una meravigliosa scoperta, oppure fingendo
di avere ancora le capacità per sentirsi vicini, dallo stesso lato del
mondo, migliori di tanti, anche se di quest’ultima cosa, a dire il vero,
non abbiamo neppure saputo spiegarci il perché.
Sono
trascorsi in questa maniera dei giorni, delle settimane, persino un paio
di mesi, e le cose si sono complicate un poco per volta: vecchi
problemi individuali mai risolti hanno messo in seria difficoltà la mia
amicizia con Francesca, e la sua verso di me; il suo modo particolare di
guardarmi mi ha fatto sentire sempre di più fuori dal mondo, come
ancorato solo a delle pretese. Non abbiamo legami, le ho dovuto dire ad
un tratto. E’ vero, ha risposto lei: ma se ci perdiamo adesso, non ci
ritroveremo mai più.
Così
abbiamo provato un brivido comune, e allora ci siamo stretti, e abbiamo
cercato in qualche maniera di superare quel momento negativo, perdendo
in questo modo quel coraggio che ci faceva sentire diversi. Forse,
proprio da quel momento, abbiamo iniziato a sentirci una coppia
qualsiasi. Forse le nostre personalità non sono state capaci di quella
coerenza che tanto ci premeva. Forse le cose si sono mostrate
maggiormente ordinarie, risapute, quasi dozzinali. Ma in fondo che
importa, abbiamo pensato: dobbiamo essere noi, persino quando sguazziamo
in mezzo ai difetti.
Bruno Magnolfi
domenica 11 novembre 2012
In mezzo a tutto.
Respiro
con maggiore profondità, cerco di calmarmi dopo che ho colpito a mani
nude, con una violenza che adesso, dopo pochi minuti, quasi non mi
riconosco neppure, qualcuno che in fondo, forse semplicemente, proprio
come me, stava immerso in questa calca incredibile. Sono convinto di
aver messo in quel colpo tutta la rabbia repressa che sono riuscito a
far emergere in me da questo periodo difficile, quasi la consapevolezza
di un momento praticamente senza speranza che mi ha dettato quel gesto
terribile, come fosse un atto definitivo, quasi dipendesse da quello lo
sviluppo di un futuro maggiormente accettabile sia per me che per gli
altri.
Adesso mi
sono rifugiato nella nicchia di questo portone, guardo la manifestazione
che continua a sfilare lungo la strada, mentre qualcuno, laggiù
davanti, tira sassi e maneggia le spranghe; altri corrono, in molti
sembrano disperati forse del loro stesso spavento, altri, al contrario,
semplicemente spaventati dalla loro assurda disperazione. Alcune vetrine
sono state spaccate e tutto intorno sembra parlare di violenza, ma
soprattutto i celerini continuano a fronteggiare chiunque, come una
moderna falange, in un assoluto e minaccioso assetto da guerra, quasi
una sfida, una provocazione. Vedo qualcuno a terra già manganellato,
giace sopra l’asfalto nelle nuvole dei lacrimogeni, mentre altri tentano
di soccorrerlo pur nel caos generale.
Provo a
respirare con maggiore normalità nel mio fazzoletto, ma mi sento stanco,
esausto, mi fanno male gli occhi e le gambe per la corsa assurda che ho
fatto, e sento un forte dolore anche alla mano sanguinante con cui ho
sferrato quel pugno; ricordo soltanto una faccia nemica ad un passo da
me, e quella minuta porzione di tempo per decidere tutto: il mio bisogno
di scaricare la rabbia coltivata da mesi sopra quell’espressione, senza
chiedermi niente, senza interrogarmi su altro, colpire e basta, senza
pensare.
Guardo
tutti mentre continuano a girare in quel carosello: ognuno sembra
soltanto preoccupato di sé, della propria incolumità, ed io mi rendo
conto, nella confusione pazzesca, di aver perso completamente di vista
quegli altri, quelle persone con le quali all’inizio avevo raggiunto la
mia postazione, alle spalle dello striscione, e come adesso io non
riesca più neanche a capire cosa sia meglio che faccia, che senso abbia
per me continuare a stare qui o cercare di andarmene, magari sparire
prima che tutto degeneri ulteriormente. Mi rannicchio quanto posso sopra
questo portone, poi spingo leggermente con la schiena, ma senza nessuna
intenzione, e quello si apre.
Entro
titubante in quel grande ingresso buio, riaccosto il portone e mi
avvicino al muro; poi rimango lì, a respirare quella calma irreale, quel
relativo silenzio, quell’aria buona per i polmoni. Forse vorrei che
qualcun altro mi raggiungesse, penso velocemente che non posso restare
da solo proprio in questo momento, ho voglia di sapere cosa succede in
mezzo alla strada, mi sento terribilmente vigliacco a restare qui
immerso in quest’ombra. Ad un tratto si accende la luce elettrica che va
ad illuminare improvvisamente un ambiente anche più caldo e piacevole
di quello che mi ero immaginato, con una grande scalinata che si apre
sul fondo; resto immobile un attimo, attendo gli eventi con gli occhi
sgranati, infine scende con lentezza una ragazzina di dodici o tredici
anni, con qualcosa dentro una mano. Mi guarda, forse ancora più
intimidita di me, allunga un passo, lentissimo, poi dice soltanto:
signore, le ho portato un po’ d’acqua da bere.
Bruno Magnolfi
giovedì 8 novembre 2012
Una strada di pioggia
I
colori dell’acquarello erano trasparenti, leggerissimi, e i contorni
del disegno una linea sottile che appena tratteggiava le cose. Quasi non
esisteva senso nel disegnare, se non quel dolce lasciarsi andare ad una
fantasia leggera, che superava qualsiasi intento, riusciva a prendere
la mano e lasciare che la forma sul foglio acquistasse la vita,
diventasse colore, forma, illustrazione. Non c’era senso nel fare un
disegno qualsiasi, la semplice rappresentazione di un’immagine vista. La
cosa che toglieva il respiro era quel cercare di interpretare un
piccolo, infinitesimale, minuscolo frammento di vita, un pensiero esile e
sottile fino a quel momento celato dietro a chissà quali altri
pensieri, mescolato dentro a chissà quali altri ragionamenti ordinari,
perso dietro a miriadi di altre cose, magari più appariscenti, più
forti, più importanti di tutto, eppure ammantate di sciocchezze senza
rimedio. Un gesto affettuoso che dura lo spazio di un attimo, e si
prolunga nel tempo in modo imprevisto, incorniciato nonostante il suo
bisogno di essere una cosa qualsiasi, senza importanza. Questo stava
dentro al disegno, e solo guardandolo spiegava da solo quanto era
riuscito a scrollare da sé la facilità di cadere in percorsi già visti,
elementi sicuri di cose più consuete. Lui lo aveva veduto il disegno, ne
aveva assaporato in un attimo la freschezza piacevole, ne era rimasto
colpito pur senza comprendere il motivo trainante da cui ne era
attratto. Poi, una volta uscito dalla galleria d’arte, aveva fatto un
giro in quella serata piovosa, camminando sui lucidi marciapiedi sotto
al suo ombrello, con calma, ripensando al disegno, a quell’acquarello
che pareva parlasse di sé, della sua vita, dei suoi pensieri. Aveva
riflettuto a lungo su che cosa gli ricordasse quella figura di donna
fermata in un gesto così naturale, con l’espressione del viso
leggermente ammiccante, come di chi ha dentro di sé un lungo percorso
alle spalle, un itinerario difficile, forse sofferto, una strada
impervia affrontata e forse non completamente percorsa. Poi era entrato
dentro a un caffè, si era accostato al bancone e si era fatto servire un
liquore, qualcosa che riuscisse a scuoterlo un po’. Alcune persone a
fianco e dietro di lui parlavano di cose ordinarie scambiandosi brevi
risate e conversando in modo piacevole. Infine lui aveva pagato la sua
consumazione, augurato la buonasera al barista, e riaperto l’ombrello
uscendo da dentro al locale. Fu allora che vide la donna, da sola, con
un normale impermeabile stretto alla vita e i capelli non lunghi e ben
pettinati. Camminava lungo la strada, con l’espressione di chi ha già
affrontato più volte itinerari difficili, eppure serena, immedesimata
nei suoi gesti così naturali. Era lei l’acquarello, ne era sicuro, era
lei quel disegno denso di cose, di vita, di elementi minuti eppure ben
forti nella sua espressione; era lei che adesso senza motivo riempiva
con la sua presenza tutto lo spazio che c’era; era lei che senza
ricordare qualcosa di preciso, parlava di sé, solo passando, solo
camminando dove camminavano tutti; ed era lì, quasi per una magia,
uscita dal quadro per dare colore a quei marciapiedi, a quella strada
bagnata di pioggia.
martedì 6 novembre 2012
Un attimo solo.
Federico,
dodici anni tra poco più di due mesi, corre a perdifiato dietro al
pallone calciato in malo modo da un suo compagno di scuola, mentre
insieme stanno giocando ai giardinetti del loro quartiere, durante un
pomeriggio qualsiasi. Lo segue rotolare con gli occhi mentre inizia ad
attraversare la strada, e nella fretta di raggiungerlo non si accorge
affatto dell’auto che sopraggiunge. L’uomo alla guida canticchia una
canzone trasmessa per radio: è tranquillo, quasi distratto, non si rende
neppure conto del pallone che taglia la traiettoria della sua strada.
E’ un
attimo: improvvisamente ha la coscienza di qualcosa che rotola alla
sinistra del suo parabrezza, lui stringe d’istinto le mani sopra al
volante, volge gli occhi da quella parte, non si accorge per nulla di
Federico che corre da destra per attraversargli la via, prosegue senza
frenare, ma prova un brivido, una leggera ma potente sensazione di
pericolo data dal semplice connubio che sta dentro la sua testa, come
forse in quella di tutti: pallone – bambino.
Non
rallenta, trattiene forse il respiro, ma nel campo visivo appena alla
sua destra intercetta qualcosa davanti alla macchina, vicinissimo, di
sicuro qualcosa che sta dove non dovrebbe mai stare, ma ormai tutto
sembra compiuto, è troppo tardi anche per avere un pensiero, il suo
cervello è appena raggiunto da un piccolissimo impulso: tempo esaurito,
dice quel lampo, nient’altro.
Tutto si
rallenta fino a fermarsi, l’uomo si vede proiettato fuori dall’auto,
osserva se stesso e la macchina che sta guidando da tre o quattro punti
di osservazione diversi, stringe ancora più forte le mani sopra al
volante, vorrebbe forse chiudere gli occhi ma il respiro è azzerato, la
radio pare trattenere soltanto una nota, o un accordo, prolungandolo in
una specie di sospiro cavernoso, quasi disumano, come il rintocco
metallico di una campana immersa in un liquido.
La
velocità della macchina è di poco superiore al limite per la guida in
città, l’uomo si proietta in avanti nel tempo, immagina che avrebbe
potuto procedere con più cautela, a velocità più moderata, con diversa
attenzione, senz’altro maggiormente adeguata, avrebbe potuto evitare di
farsi trovare distratto in un momento del genere, ma tutto adesso sembra
ormai quasi concluso, il tempo esaurito non ammette una deroga, ciò che
sta succedendo è già definito.
Ritagliare
quel piccolo frammento tra i tanti minuti, i secondi, le ore del
giorno; eliminarlo del tutto dalla propria storia, da ciò che
irrimediabilmente sarà appena tra un attimo. Fuori da lì, lontano, in
una diversa dimensione, distante da tutto, la cancellazione completa di
quel pezzetto di tempo, questi i lampi che scorrono in successione
rapidissima nella sua mente, e infine le gomme dell’auto che stridono in
una frenata tardiva, forse inutile, assolutamente ridicola, adesso.
Tutto è
immobile. L’uomo apre lo sportello ed esce dalla sua macchina: si sente
già disperato, non può ancora neanche credere che tutto questo stia
davvero accadendo, gira di corsa attorno al suo mezzo, in preda ad un
dolore pazzesco, alla pazzia di un momento, ma Federico caduto a terra
si rialza immediatamente, lo guarda, il suo viso è sbiancato, ma non si è
fatto niente, soltanto un grande spavento. L’uomo lo guarda, lo
abbraccia, non può evitare di piangere.
Bruno Magnolfi
martedì 30 ottobre 2012
Pomeriggio ordinario.
Eleonora lo osserva con un leggero sorriso; lui adesso è tranquillo, e
lei si sente come rassicurata dall’umore nuovo che come sempre si è
manifestato in lui dopo una pillola calmante ed il tè bevuto caldo e a
piccoli sorsi. In fondo, secondo il suo parere, sta tutto lì il segreto
per riuscire a tirare ancora avanti in qualche maniera, pensa con
rassegnazione mentre gli sistema un cuscino sotto la testa. E’ testardo,
lo sa, ed è del tutto inutile cercare di fargli comprendere delle
motivazioni diverse da quelle che si è già formato nella sua mente.
Lui sa di avere la possibilità di farsi scusare per aver alzato un po’
troppo la voce durante il loro pranzo, anche se è ancora convinto di
avere avuto ogni ragione per comportarsi in quel modo. Adesso si
assopirà per un’oretta sopra al divano, come sempre succede nei giorni
in cui non ha da lavorare, poi le dirà con una certa dolcezza che si
sente già meglio, e così probabilmente potrà chiederle di fare assieme,
per esempio, una tranquilla passeggiata, a conclusione di quel
pomeriggio. In fondo lei è la persona più comprensiva che lui conosca,
pensa ancora con gli occhi già chiusi: saprà sicuramente scusarlo per
essersi comportato in quella solita odiosa maniera.
Eleonora in giorni del genere si accontenta di starsene di là in
solitudine, se lui si assopisce, a pensare alle proprie cose e ad
occuparsi di qualche piccola faccenda domestica. A lei piace rimanere da
sola, e certe volte le pare quasi impossibile riuscire ad avere ancora
una relazione vera con lui, se non fosse che giorni come questo lei li
lascia sempre scorrere senza opporre alcuna resistenza, e quando invece
lui, come capita spesso anche per molti giorni di seguito, si assenta
per il suo lavoro, ecco che per Eleonora quelle lunghe pause diventano
semplicemente la maniera più adatta a rigenerarsi.
Lui prende fuoco su argomenti qualche volta anche stupidi,
probabilmente per una sciocca gelosia repressa che coltiva da sempre, e
allora Eleonora lo lascia dire tutto ciò che gli va, e lui si sfoga,
senza quasi badare a ciò che riesce a tirare fuori dalla sua bocca: si
intuisce come certe volte stia solo cercando la maniera per dirle anche
altre cose che cova dentro di sé, cose più intime e ben più profonde, ma
lei si limita ad ascoltarlo senza ribattere niente, lasciandolo in poco
tempo quasi senza ulteriori argomenti. Certe volte lei pensa
addirittura che lui abbia ragione su molte cose che dice, ma crede non
avrebbe alcun senso manifestargli apprezzamento su cose del genere, così
si trincera in un atteggiamento neutrale, frenandosi fino solo ad
ascoltarlo, e basta.
Eleonora qualche volta avrebbe anche voglia di parlare di loro due con
qualcuno, spiegare la situazione che si è generata, ma normalmente si
limita sempre a dire a tutte le persone che frequenta le cose più
evidenti e scontate, e che tutto va bene, ogni cosa è sotto controllo,
che tra di loro non ci sono mai problemi di nessun genere. Non sa per
quale motivo si comporti così, ma sente di dover difendere qualcosa di
importante in questa maniera, di proteggere un equilibrio raggiunto poco
per volta, ed il resto di tutto quanto le pare soltanto formato da
elementi di ben poco conto.
Lui pensa che non potrebbe mai fare a meno della sua Eleonora, ma non
le sa dire quanto lei sia importante per lui: certe volte alza la voce
soltanto per amore, per dimostrarle che dietro a quelle sciocchezze per
cui spesso si agita c’è soltanto tutta la sua voglia di stare con lei,
anche nei giorni in cui, causa il lavoro, non gli è possibile, e di
spiegarle però quanto lui si senta innamorato di lei. Poi apre gli
occhi, sente la presenza di lei, si solleva da quel divano, la raggiunge
di là: lei gli sorride, e lui pensa per un attimo di essere l’uomo più
felice del mondo, così Eleonora si volta per preparargli un caffè e
camuffare un’espressione di amarezza che non può proprio fargli vedere. E
che lui probabilmente non s’immaginerà mai.
Bruno Magnolfi
domenica 28 ottobre 2012
Vicino al porto
Una
stessa immagine, un identico pensiero, tutto pare combaciare, come un
miracolo di sintonia. Basta un sospiro, si torna a fermare lo sguardo
nello stesso punto, immaginandoci lo stesso risultato, e invece qualcosa
si è mosso, c’è una variazione, e quegli aspetti non sono già più gli
stessi: è passato ancora un minuto, che dico, solo un momento, ed adesso
indubbiamente tutto è diverso. Inutile cercare di trattenere qualcosa:
il punto di vista muta, la luce trascolora, il pensiero va ad inciampare
in cose che prima non c’erano, e tutto in quell’attimo è ormai
differente, in un modo definitivo. “Il sole al tramonto giocava con i
vetri delle finestre, quelle stesse finestre delle case gialle
dell'ammiragliato”, pensava molti anni dopo la ragazza d’età più giovane
di quella che a all’epoca voleva dimostrare; si ricordava distintamente
di quel niente nella luce che cambiava in un momento qualsiasi
prospettiva. “Le piazzette vicine erano piene di bimbi rumorosi, con le
mamme dai vestiti colorati che portavano a spasso i piccoli con la
carrozzina, e le panchine erano gremite di gente, mentre si scorgevano
drappelli di uomini anziani in piedi, intenti a scommettere sempre su
qualcosa, e da una parte il gelataio ormai stanco rigovernava quel suo
chiosco. A volte, presa dai giochi, mi attardavo, e me ne accorgevo solo
quando ormai le luci all'interno delle case e lungo tutta la zona del
porto erano accese, e brillavano come cerchietti stellati di fette di
limone; e se poi alle luci facevano seguito i rintocchi delle campane
della chiesa di Santa Teresa, era davvero tardi, dovevo correre a casa, a
perdifiato, proprio nell'ora più bella; infatti a quell'ora
d'improvviso gli schiamazzi dei ragazzi e i garriti delle rondini
scemavano, e l'aria tornava a profumare di mare e di oleandro, e le
ragazze a coppie lentamente scendevano ad affollare il viale alberato,
fronteggiante la Villa; di lì a poco si sarebbe sentita la sirena,
quella che segnava l'ora della libera uscita dei marinai, ed i sogni
pensati con la coscienza, quelli che non confidavamo neppure tra di noi,
diventavano d’incanto ragazzi vestiti di bianco, bellissimi, con il
fascino della gente di fuori, di altra cultura, di diversa sensibilità,
differenti per forza dalle solite cose a cui si era abituati. Poi si
rientrava davvero, finalmente, ma ci sembrava d’improvviso tutto
diverso, davvero cambiato senza che neppure se ne capisse il motivo, e
l’unico elemento stabile, quello rimasto vero e immutato, proprio come
prima, era quel grumo di sogni spremuti e persi nel fondo di noi; e un
po’ avevamo pena di quella ragazza che aveva preso quei sogni troppo sul
serio…”.
Bruno Magnolfi
venerdì 26 ottobre 2012
Il mio manichino (ritratto n. 11).
Cammino
per strada, nella tarda serata. Ad un tratto vedo un uomo fermo a pochi
metri da me. Mi osserva come stesse in attesa, quasi pronto a scattare.
Non posso lasciargli credere che ho paura di lui, però siamo soli lungo
quel tratto di strada, ed i lampioni illuminano a malapena la scena.
Penso come sempre che non ho niente da perdere, ma non è facile
procedere come se tutto fosse normale, come se il naturale andamento
delle cose non prevedesse un inciampo di fronte a sé.
Mi fermo,
accendo una sigaretta e prendo tempo. Nell’atto di frugarmi dentro alla
tasca, avverto qualcosa che non avevo considerato: un piccolo temperino
che porto sempre con me. Vado avanti, ma torno a fermarmi di nuovo. Mi
volto all’indietro, non c’è nessuno; potrei tornare verso casa, penso,
oppure attraversare la strada, andarmene per i fatti miei. Sento sotto
la giacca la tensione che sale, non so se ho paura, forse vorrei
soltanto aver già affrontato quell’uomo ed essermi tolto quel peso.
Dico
qualcosa tra me, due o tre parole senza alcun significato, poi lascio
nell’aria un silenzio di due o tre secondi, e infine mi lascio andare in
una sonora risata. Intanto con la mano dentro la tasca apro il mio
temperino: mi sento pronto, posso ancora ridere, penso, non ho paura di
nulla. Mi fermo, osservo le dita che sostengono la mia sigaretta, poi
aspiro una profonda boccata di fumo. Mi viene da tossire, ma resisto.
Faccio ancora un passo in avanti, scruto qualcosa oltre la figura
maschile di fronte a me, ma è soltanto uno scuro cespuglio che sembra
assorbire luce e rumore.
Penso che
tutto abbia uno scopo; rifletto che ci saranno altre serate simili a
questa, potrò ancora camminare lungo la strada, non c’è niente di male
nel farsi una passeggiata. Cerco di oggettivare la situazione, e tutto
mi appare ridicolo, come se quanto sta per succedere fosse al di sopra
di me, oltre questa pochezza di cose da mandare avanti ogni giorno. Ho
ancora voglia di ridere, ma mi trattengo. Mi avvicino ancora di poco,
l’aria sembra più densa, così immagino che gli eventi ormai siano al
culmine del loro verificarsi.
Torno a
fermarmi, mi volto, sento di avere paura. Chi mi attende nasconde
qualcosa, qualcosa di me, ha già dentro le mani un elemento che forse mi
appartiene, anche se non so cosa sia. Devo fuggire, penso, allontanarmi
in fretta da tutto, ritrovare ciò che ero prima di questo momento,
azzerare tutte le cose, convincermi che nulla è mai accaduto. Mi cade la
sigaretta sul marciapiede, mi fermo di nuovo, ho l’affanno. L’oscura
figura che staglia il suo profilo nel buio è immobile, non tradisce
alcun sentimento.
Scappare,
penso, non posso far altro, anche se è tardi, il mio temperino è
inservibile, la mia razionalità forse non aiuta nessuno, tantomeno il
mio corpo che avanza come un automa. Mi fermo a tre o quattro metri,
apro la bocca per una risata nervosa, guardo quell’uomo e mi lascio
guardare, ormai non c’è più niente da poter portare al sicuro, tutto è
di fronte allo specchio, tutto è coinvolto in una mimica sospesa nel
tempo. Osservo meglio la faccia dell’uomo: è un manichino di polistirolo
sul suo piedistallo, abbandonato lì forse solo per fare uno scherzo.
Bruno Magnolfi
giovedì 25 ottobre 2012
Percorsi da evitare.
Da casa mia a quella della Letizia, la mia compagna di banco e amica di
sempre, non ci vogliono più di due o tre minuti camminando con
un’andatura normale. La mamma mi dice sempre di tirare diritto e di non
attraversare la strada per nessuna ragione quando vado da lei, ed io,
che sono sempre stata obbediente, faccio esattamente così, limitandomi a
percorrere il marciapiede e a voltare al primo angolo a destra e poi
ancora a destra all’incrocio con la prima via che si trova, senza badare
a nient’altro.
Però, lungo quella pavimentazione che costeggia la strada, sto sempre
ben attenta a non mettere mai le suole delle scarpe sulle connessioni
tra una pietra e quell’altra, e naturalmente cerco di non sfiorare
nemmeno, per nessuna ragione, i cordoli del marciapiede. Poi ho messo a
punto anche altri comportamenti, come quello di mettere avanti il piede
sinistro più volte del destro, operando ogni tanto un saltello che
riesce a farmi recuperare qualche passaggio. E naturalmente non evito
neanche di contare i passi totali che servono per arrivare fino alla
casa di Letizia, ed il fatto curioso è che ne impiego sempre qualcuno di
meno di quando ritorno indietro, come se in questo caso la mia falcata
fosse più corta.
Mi piace andare dalla mia amica, anche se quando sono da lei mi stufo
in fretta dei suoi soliti argomenti, del suo guardare costantemente la
televisione, del suo non parlar d’altro che dei capelli e dei suoi
vestiti, di come si presenterà a scuola il giorno seguente, e dei
personaggi che vede durante gli sceneggiati: la lascio dire, a me non
interessa un bel niente di quegli argomenti, però so che ho davanti
quattrocentotrentasei passi prima di giungere alla mia casa, e che
quando sarò lungo quel breve tratto dove alcune pietre sono rossastre,
dovrò saltellare su un piede per evitare di calpestarle. Certe volte,
quando ritorno, giro esternamente, con grande attenzione, intorno ai
pali che sostengono i lampioni stradali, ma a dire la verità questo
comportamento lo tengo soltanto in certe occasioni.
Ho provato a fare un disegno del mio percorso: poi mi sono cimentata
nel descrivere tutti i particolari che adotto, dando a ciascuno un
semplice numero di riferimento. Infine ho introdotto in tutto questo
delle varianti che sono applicabili in funzione del giorno della
settimana e dell’ora in cui esco da casa. Ne è venuto fuori un
guazzabuglio di fatti e di dati che in seguito ho cercato di
semplificare, dando a tutto quanto dei riferimenti che fossero
maggiormente evidenti, come ad esempio un colore per ogni funzione. Alla
fine ho cominciato anche ad inserire delle varianti a seconda del tipo
di saluto che fa la mia mamma quando esco da casa, e di quello della
Letizia quando arrivo da lei.
Sopra un quaderno ho iniziato ad elencare ogni dato che riesco a
dedurre dal mio comportamento durante quel solito tratto di strada, e
alla fine ho deciso di descrivere con poche parole ogni emozione che
riesco a provare a seconda delle varianti che riescono a manifestarsi
mentre cammino. Mia mamma ieri ha trovato il quaderno, lo ha sfogliato, e
infine lo ha portato a far vedere alla mia insegnante di matematica. Ne
devono aver parlato piuttosto a lungo, anche col direttore secondo me, e
alla fine mi hanno chiamato per dirmi senza mezzi termini che devo
smetterla di andare a piedi a casa di Letizia, perché questo non è
senz’altro qualcosa che faccia bene alla mia crescita. Naturalmente ho
risposto subito che per me andava benissimo.
Bruno Magnolfi
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