martedì 28 febbraio 2012

Soltanto questione di tempo.



Resto immobile, quanto più mi è possibile, fermo, ad osservare il silenzio nella mia stanza, gli oggetti di sempre che mi circondano, questa luce al crepuscolo che cerca ancora di dipingere tutte le cose con colori sempre più scuri, mentre poco per volta prosegue a ritirarsi via, fuori dalla finestra, e poi ancora indietro, fino a raggiungere, laggiù, il profilo dell’orizzonte. La mia solitudine non è spaventosa, anzi, è l’unico momento in cui posso pensare e immaginare. Soltanto ieri sono corso di nuovo da lei, nella stessa esatta maniera come mi ero riproposto di non fare mai più. Sono sicuro che lei non meriti la mia dedizione, le mie attenzioni, ma cosa importa, mi chiedo, piuttosto che proseguire a nuotare in questo vuoto che spesso mi pesa, va bene anche così.

E’ un comportamento stupido il mio, è evidente a chiunque che dovrei sforzarmi di cambiare, mostrarmi più distaccato ai suoi occhi, meno assiduo di come proseguo imperterrito ad essere. Lei mi guarda, con sguardo perlopiù indifferente, come fosse incapace di provare delle vere e proprie emozioni, ed i suoi comportamenti in genere si limitano a trattare tutto con un certo distacco. Ma non è sempre così, io lo so, ci sono dei casi in cui il suo autocontrollo si fa meno serrato, e riesce a dimostrarsi addirittura sensibile.

Ecco, forse è proprio questo che mi proietta sempre in avanti: la speranza; anzi, la coscienza, almeno per qualche occasione, di riuscire a sentirla vicina, con me, anche se questo avviene per motivi che non sono ancora riuscito a capire. Ho cercato di provocarla, qualche volta, darle della sfinge, oppure della falsa persona enigmatica, ma non ho ottenuto mai alcun risultato, come se questi fossero argomenti senza importanza. Certe volte mi sono sfogato con gli amici di sempre, al caffè, e loro hanno detto tante volte che devo ribellarmi, che non è il caso di continuare così.

Ma io vado avanti, e anche ieri sono uscito di corsa per riuscire ad incontrarla lungo il tratto di strada vicino casa sua. Passo da lì quasi per caso, la riconosco, la saluto, mi offro di accompagnarla. Lei mi sorride, mi saluta, lascia che le parli di qualcosa senza interrompermi, guardando avanti a sé, mentre cammina. Quando arriviamo, lei mi osserva un momento, mi lascia un attimo di tempo, giusto per dirle che mi piacerebbe passare la serata con lei, ma risponde subito no, poi mi saluta e rientra, in quell’appartamento dove abita con la sua madre anziana.

Qualche volta le ho chiesto se potevo telefonarle, ma lei ha sempre detto sottovoce che era meglio evitarlo. Così anch’io torno a casa, camminando lentamente con la testa sempre piena di nuovi pensieri, mi fermo al caffè a salutare qualcuno, lascio che scherzino, che dicano qualcosa per prendermi in giro, poi arrivo al mio appartamento e di nuovo sento di essere lì, immobile, senza alcuna differente possibilità. Mi dispero, qualche volta, senza neppure sapere bene il perché, ma quasi sempre sono contento almeno di averla veduta, di essere riuscito a parlarle. Sono sicuro che le cose dovranno cambiare, ne sono convinto: è soltanto una questione di tempo, e infine la mia costanza vedrà sicuramente una variazione importante.

Bruno Magnolfi

mercoledì 22 febbraio 2012

Un'immagine persa per sempre.



Lui la guarda, senza insistenza. Lei, bionda, con appena un filo di trucco sugli occhi, sorseggia il suo cappuccino con calma, quasi con disinteresse, poi dice sottovoce qualcosa all’amica che le siede vicino, e mai, per nessuna ragione, va ad incrociare lo sguardo con l’uomo che le siede quasi di fronte, nella saletta del bar. Lui apre il giornale, sfoglia qualche pagina, scorre alcune notizie, senza soffermarsi su nessuna in particolare. Forse desidererebbe non essere calamitato dal viso di quella ragazza, ma è quasi più forte di sé, deve quasi obbligarsi per non tornare a guardarla. Nel grande locale, clienti di qualsiasi genere, entrano ed escono: nulla di diverso si nota, nei loro comportamenti, da ciò che ci si potrebbe aspettare.

Poi succede qualcosa: le due donne, dopo una pausa, ricominciano a parlare tra loro, si comunicano delle frasi che sembrano di una certa importanza, però un sicuro dissidio pare si sia fatto strada nelle loro parole, e pur sottovoce, arriva l’eco di qualche punto stizzito nella loro conversazione. Lui alza gli occhi da quel giornale, e incrocia lo sguardo di lei, soltanto un momento; solo quella piccola cosa appare già sufficiente per far allargare all’uomo un leggero sorriso, quasi un compiacimento. Il suo giornale perde in quell’attimo ogni attrattiva: adesso la donna dalla bionda capigliatura appare seria, quasi imbronciata, con la mente che si spinge lontano da lì, come se quasi tutto, intorno al suo sguardo, avesse perso di qualsiasi interesse.

L’uomo si sente con lei, si interroga mentre ordina un altro aperitivo analcolico, si rende conto di come tutto giochi a sfidare, in qualche maniera, quel suo viso meraviglioso che continua a stargli davanti, quasi come a ricordare che alcune espressioni riescono quasi da sole a farsi scolpire nel marmo, o nei ricordi, senza bisogno di altro. Il suo pensiero scivola lento: quella bionda è sempre più oggetto là attorno, come nella logica contemporanea, e se lei non riesce a sentirsi all’altezza della situazione che riesce a creare, allora è fuori dal gioco, non può aspirare più a niente. Per un attimo a lui sembra la donna più bella e più espressiva che abbia mai visto, poi si interroga se è questa la cosa maggiormente importante da ricercare in una persona, anche se ne è attratto. Esce dal ruolo, quasi disperato, si volta verso i clienti che continuano ad affollare il locale, vorrebbe essere solo, riuscire a pensare qualcosa con calma, mentre si sente vicino ad una novità che non affrontava da tempo, ma che tende a sfuggirgli, di nuovo, e forse stavolta per sempre.

Le due donne si alzano, il cameriere va loro incontro per farsi pagare la consumazione, e intanto infilano i propri soprabiti, lei si muove lentamente, con noncuranza. Infine scivolano via, quasi senza rumore. Il tardo pomeriggio trascolora in un tramonto insignificante, filtrato dalle tendine del bar, lui si alza quasi senza coscienza delle azioni che compie. Va verso la porta, si piazza quasi di fronte alla bionda che prosegue imperterrita ad ignorarlo. L’aria trema per un attimo, quasi surriscaldata dall’emozione. Qualcosa si rompe, lei si ferma, lo vede, l’osserva con un certo distacco, torce leggermente la bocca in una specie di smorfia, e in un solo momento sembra già un’altra persona, i capelli appaiono di paglia, il suo viso non è più quello di un attimo prima.

Lui si sposta, lascia che le due donne lo superino, sente un malessere salirgli, come se gli girasse la testa. Si apre la grande porta vetrata, esce la donna, l’altra la segue, lui, imbambolato, va dietro di loro, senza più alcuna coscienza di ciò che va fatto. Vorrebbe fermare quella bionda ipnotica, sentirne la voce, avere certezza di ciò che sta accadendo, ma il cameriere lo segue, dice: signore, si è dimenticato di pagare gli aperitivi. Ha ragione, dice lui; si volta un attimo per rientrare dentro al locale, però vuole vedere la direzione che lei sta prendendo, non vuol perdere di vista la bionda, deve guardare dov’è, questa è la cosa più importante in questo momento. Si gira, con la mano già sopra la maniglia del bar, ma la bionda è sparita, sul marciapiede non c’è più nessuno.

Bruno Magnolfi

lunedì 20 febbraio 2012

Senza respiro (ripresa cinematografica n. 10).




Lei sale sulla corriera con modi quasi consunti, guardandosi attorno in modo sommario; prende posto sul sedile che le piace di più, accanto ad un finestrino, e si sistema con calma proprio mentre il mezzo riparte. Ci sono molte persone a viaggiare con lei, ma c’è qualcuno che prosegue ad osservarla con attenzione da dietro, ne studia i dettagli, i piccoli gesti, probabilmente pronto a seguirla appena scenderà da quella vettura. Lei, quasi per abitudine, estrae dalla borsa un libro tascabile, ne cerca la pagina giusta, inizia a leggere, forse per sentirsi lontano da lì. Scorrono i minuti e anche i chilometri della campagna, intervallati da borghi di case: tutto scivola fuori dai finestrini, come la pellicola di un film anche troppo realistico. Qualcuno sale ancora sul mezzo pubblico, ma la maggior parte dei passeggeri, ad ogni fermata, sa che ormai è arrivata a destinazione, considerata l’ora serale, e poco per volta la vettura si svuota. Alle spalle di tutti, il tramonto segna di arancio quel panorama ordinario.
La donna lascia che tutto prosegua, quasi indifferente alle abitudini che giornate pressoché identiche hanno reso ormai priva di sensibilità; poi però ripone il suo libro, osserva fuori, per un momento, gli ultimi sprazzi di luce prima che la sera, tra pochi minuti, renda buio tutto quanto, e infine, con gesto femminile, si sistema la gonna, chiude i bottoni del suo soprabito, sa che la prossima fermata è la sua, si sente pronta per scendere. La corriera rallenta, lei si alza, altri due o tre passeggeri si sollevano quasi contemporaneamente dietro di lei. Tutti scendono il gradino di quel mezzo pubblico, uno dietro l’altro, qualcuno saluta il conducente, il pendolarismo compie ormai l’ultimo atto della giornata. La donna cammina sul marciapiede con passo svelto sopra i suoi tacchi, qualcuno continua ad andarle dietro, sono poche le centinaia di metri che la separano dalla sua abitazione, ma sufficienti per essere raggiunta da una persona che continua a seguirla. Lei non si volta, prosegue imperterrita a camminare, anche se avverte una presenza inquietante dietro di sé. Poi, alle sue spalle, qualcuno dice netto e a voce bassa il suo nome.
Allora si ferma, si gira di scatto, come ormai consapevole quasi di quel suo destino, forse ha riconosciuto la voce, probabilmente la sua immaginazione ha già formato una figura nella sua mente, e soltanto i suoi occhi adesso possono darne conferma. I due si guardano, si osservano per qualche secondo, fermi, a distanza di quattro o cinque metri; la luce di un lampione rischiara la scena. Non c’è niente da dire, a lei spunta inarrestabile una lacrima, lui trattiene con sacrificio tutte le parole che avrebbe da dirle; poi arretra di un passo, di due; infine si volta, superando la sua volontà, lei non fa niente per cercare di fermarlo. La nostalgia di un tempo passato è fortissima, ma non c’è alcun significato nel cercare qualcosa che dia una variazione pur minima a quello stato di cose.
Nessun saluto, neppure un gesto, soltanto il vedersi per uno sparuto momento da soli, alla fine di un giorno qualsiasi, come qualcosa che resti sospeso, un non detto, forse neppure pensato, il coraggio della fantasia che si spinge più avanti, oltre la concretezza di qualsiasi altra cosa, il senso di ciò che sarebbe potuto avvenire, forse anche avvenuto davvero, ma in una dimensione diversa. Infine il distacco, che resta la cosa più dolce e più dolorosa di tutte: inarrestabile, eppure così forte da fermare il respiro.

giovedì 16 febbraio 2012

(Profilo n. 16). Solo una vecchia.

Non mi interessa molto dare retta ai discorsi di tutti. Preferisco rimanere in disparte, accennare un saluto o un sorriso ogni tanto, e lasciar perdere qualsiasi altra cordialità. Qualcuno mi ha riferito bonariamente che ho la faccia cattiva, e che, da un tipo come sono io, ci si aspettano le cose peggiori. Non lo so, forse è vero, forse hanno dei buoni motivi per dire così: certi giorni odio il mondo, me la prendo con tutti gli oggetti che mi trovo a portata di mano, e a volte mi perdo a cercare di capire perché piccole cose quotidiane ambiscono mettersi quasi regolarmente di traverso, fino a farmi rimpiangere di essere uscito dal letto al mattino.

Non sono per niente capace a sbrigarmela con i problemi che si incontra ogni giorno. Esco di casa, cammino per le solite strade, e mi sembra che tutto sia ostile, come se un’asprezza di fondo affinasse una specificità nei miei confronti. Così sono sempre nervoso, teso, pronto a reagire, a dibattermi all’interno di questa realtà, per cercare una soluzione il più immediata possibile, nei confronti dei problemi che mi trovo di fronte.

La mia vicina di casa è una vecchia curiosa che fuma una sigaretta dietro quell’altra, e se ne sta sulla porta del suo appartamento proprio per farsi gli affari del vicinato. Mi è insopportabile, neppure riesco a salutarla, tanto gradirei non trovarmela lì, su quel pianerottolo, quando rientro. Ma lei aspira una boccata di fumo e dice qualcosa con quella maniera di chi la sa tutta, e per questo motivo è capace di prenderti in giro e di ridere dietro ai tuoi affanni.

Io neanche la guardo, tiro fuori la chiave di casa quando ritorno, e apro in fretta la porta, ma a lei non le basta, e così dice subito alle mie spalle: abbiamo fatto più tardi stasera; oppure: stamattina abbiamo dimenticato la lampada accesa nel corridoio, si vedeva, da sopra la soglia, un filo di luce. Io non dico niente, lascio che parli di quello che vuole, con quella maniera impersonale di riferirsi, come a voler segnalare che lei si accorge di tutto, ma che è pronta a tollerare ogni cosa, sempre che non le si faccia dei torti. Perciò la sopporto, ma certe volte sento di raggiungere il limite.

Così quando mi muovo per casa cerco di non fare troppo rumore, perché immagino che quella vecchia sia pronta a seguire con l’orecchio i miei movimenti, a immaginare cosa io stia facendo e cose del genere. Un giorno esco, chiudo la porta e lei è lì, come al solito, mentre sta tranquillamente fumando. Mi avvicino a lei, la spingo con forza per una spalla e la faccio cadere per terra. Lei inizia ad urlare ed io me ne vado. Quando torno è ancora lì, che mi aspetta. Dice: se provi a toccarmi solo un’altra volta, io ti denuncio. Mi guarda con gli occhi cattivi, di chi lo farebbe davvero. Io non rispondo, apro la porta e rientro.

Oggi non c’era, la sua porta era accostata, così le ho bussato, e quando è arrivata ho detto a voce bassa, senza perifrasi, che se lei mi dice ancora qualcosa l’ammazzo. Le ho parlato con lo sguardo serio e cattivo di chi è perfettamente convinto di quello che dice; lei mi ha osservato con la faccia un po’ spaventata, si è portata alla bocca tremante una delle sue sigarette e l’ha accesa. Con calma mi sono mosso, ho sceso le scale, e prima di arrivare alla fine, mi sono lasciato andare ad una risata sonora, esagerata, quasi da pazzo. Per strada, la serata mi è parsa migliore.

Bruno Magnolfi

Un oggetto qualsiasi.



Dopo essere rimasto in piedi, fermo per diversi minuti, era andato quasi di malavoglia a sedersi sulla sua poltroncina preferita, sistemandosi con calma e stendendo gli avambracci sopra i braccioli, facendosi immobile, come alla ricerca di un pensiero che riuscisse ad occupargli la mente. Infine era dovuto tornare, poco dopo, ad alzarsi di nuovo, senza un vero motivo, forse solo per appoggiare una spalla alla parete comune del salottino e della cucina, dentro al suo appartamento, proprio soltanto per restarsene lì, quasi paralizzato, come incapace di qualsiasi altra cosa. Avrebbe potuto accendere la radio, perdersi nell’ascolto di qualche programma musicale, oppure, sintonizzandosi su un’altra stazione, apprendere le ultime notizie della cronaca o della politica; ma gli pareva perfettamente adeguato quel silenzio, quella pacatezza completa, e così cercava di starsene immobile ancora quanto gli era possibile, quanto riusciva a resistere, non fosse altro almeno che per quei pochi minuti, i quali, per qualche motivo sconosciuto al momento, gli apparivano così fondamentali.

Non c’era niente che potesse fare in concreto, lo sapeva, ne era cosciente, questo era il punto: niente che desse dimostrazione del suo sentirsi vivo, utile in qualche maniera, capace di elaborare soluzioni. Cercava di ricordare qualcosa, qualcosa che gli desse la spinta utile alle sue necessità del momento, ma all’improvviso gli pareva proprio che niente di particolarmente importante, degno di essere conservato nella memoria, fosse mai semplicemente accaduto in tutta la sua lunga esistenza

Lentamente, quasi senza rendersene conto, era scivolato in cucina, si era versato un bicchiere colmo d’acqua, e aveva iniziato a berne dei piccoli sorsi, pur senza aver sete. Qualcosa dovrà pur succedere, aveva pensato, non può continuare tutto così, all’infinito. Gli pareva che nulla potesse intervenire davvero ad interrompere quel senso profondo di niente che lo stava trascinando verso la mancanza totale di qualsiasi entusiasmo, eppure sentiva ancora dentro di sé la forza per ribellarsi a quel vuoto che continuava a circondarlo, e a renderlo prigioniero, anche se non riusciva a immaginare la maniera per ribellarsi. Qualcuno aveva improvvisamente suonato alla porta, come per dare una sciabolata a quei pensieri così inconcludenti, e lui si era spostato, quasi per una reazione spontanea, verso l’ingresso del suo appartamento: aveva socchiuso il battente, senza gran convinzione, ed aveva osservato con interesse la persona che si era trovato davanti, lasciando con gentilezza, pur senza conoscerla, che la ragazza che aveva di fronte gli dicesse buongiorno, senza ombra di falsità, nella cornice di un largo sorriso. L’aveva fatta subito accomodare, in fondo non aveva niente da perdere, e per parlare meglio si erano spostati nel salottino, erano andati a sedersi, quasi una di fronte a quell’altro, e lei aveva iniziato a dire qualcosa, quello che probabilmente le stava più a cuore.

Avevano discusso pacatamente, per un certo tempo, su alcuni argomenti generali, lei aveva subito insistito su temi che a lui risultavano abbastanza familiari, fino a quando gli aveva mostrato il contratto con il quale, firmandolo, lui si sarebbe impegnato ad acquistare una serie di grafiche d’autore delle quali gli stava mostrando delle semplici raffigurazioni, materiali originali firmati e numerati, autentici, opere assolutamente di pregio. In fondo non era difficile dire di si, che tutto andava bene, mostrarsi contento di quella opportunità che gli veniva offerta addirittura in casa sua. Anche se non aveva scelto lui tutto quanto, se non era andato a cercare niente di ciò che adesso gli veniva proposto, eppure ogni cosa appariva perfetta, non trovava niente su cui recriminare.

Infine le cose si erano sistemate, lei era uscita dalla porta con il medesimo sorriso con cui era entrata, e lui si era sentito migliore, capace ancora di valutare positivamente le proprie esperienze. Quando ormai, rimasto solo, era tornato a sedersi sulla sua poltroncina, si era sentito improvvisamente sicuro di avere acquisito qualcosa che non osava neppure sperare: era contento di quella opportunità a cui aveva aderito con entusiasmo, e poi la ragazza gli aveva lasciato, forse senza volerlo, inconsciamente con ogni probabilità, quasi per lasciargli un segno di sé, la penna con cui aveva annotato i suoi dati e con la quale lui aveva firmato quei fogli: un oggetto da poco prezzo, senz’altro, ma per lui, in quel momento, di uno strano, particolare, inestimabile valore.

Bruno Magnolfi

sabato 11 febbraio 2012

Scena n. 22. Sipario chiuso.



Non mi frega niente di te,avevo detto puntandogli un coltello alla gola. Lui allora, pur continuando a tremare, aveva smesso per un attimo di supplicare e di ripetere le solite frasi sulla famiglia e tutte le altre cose del genere, ma aveva piagnucolato ancora qualcosa che io non mi ero neppure premurato di stare a capire. Lo avevo in pugno, questo era il punto, quel maledetto signorino beneducato dal colletto bianco e la cravatta era mio, lo dominavo, ci potevo praticamente fare ciò che volevo.

Fin da quando ero entrato là dentro, ero sicuro che niente sarebbe potuto andare in maniera diversa, i clienti della banca non avrebbero avuto la possibilità neanche di accorgersi di quanto stava accadendo, e per me essere riuscito a cogliere il direttore della filiale da solo dentro al suo ufficio, semplicemente prendendo un appuntamento telefonico con un falso nome apparentemente importante, era stato un vero colpo di genio. Gli avevo subito detto che il mio complice era in quello stesso momento nella sua abitazione, con la sua famiglia, anche se non era vero, e lui se l’era bevuta, ed adesso non poteva far niente, nient’altro che eseguire alla lettera tutte le indicazioni che gli stavo impartendo.

Ecco, proprio in quell’esatto momento, dopo la concitazione iniziale, si era manifestato là dentro qualcosa che mi era parso perfino surreale, ed io, non so come, all’improvviso mi ero sentito del tutto rilassato, quasi come se tutto ormai fosse finito, che non ci fosse più nient’altro da fare, come se già fossi lontano da lì, con i miei soldi infilati dentro alle tasche e nella mia borsa, seduto magari in un rifugio in montagna, in pace e da solo, a godermi il sole brillante, il panorama, la quiete di una giornata perfetta, che immaginavo pienamente meravigliosa.

Non mi ero accorto di niente, continuavo a sognare queste mie cose mentre il direttore era lì, accanto a me, ormai ridotto al silenzio, quasi rassegnato alla sua condizione, ormai in mio pieno potere. Gli avevo chiesto di andare a prendere tutti i liquidi che riusciva a raggranellare, e lui, come un automa, aveva subito ubbidito senza ribattere, quasi come affrettando tutti i suoi gesti, tanta la voglia che anche lui doveva provare, di raggiungere velocemente la fine di tutta quella faccenda, di riuscire a guadagnare di nuovo quella tranquillità che nessuno doveva aver mai messo in discussione in tutta la sua vita precedente.

Gli avrei lasciato un segno col mio coltello ben affilato, un bel graffio profondo sul corpo, forse sul viso, in evidenza, tanto per dimostrargli, prima di uscire con tutti i miei soldi, che facevo sul serio, che non ero tipo da lasciarsi prendere in giro. In un primo momento, quando lui era andato a raggiungere la cassaforte, avevo pensato di mettermi dietro la porta, tanto per aspettare con una certa cautela il suo ritorno con le mie banconote, ma poi avevo sorriso tra me, sicuro di tutto, ed ero andato a sedermi dietro la sua scrivania, quasi a fingermi, almeno per quell’attimo, un uomo d’affari, una persona importante, un tizio pieno di soldi, come stavo sicuramente per diventare.

I due agenti mi avevano spianato le pistole sul muso, una volta entrati di colpo dentro l’ufficio, tanto da cogliermi così di sorpresa da non essere neppure riuscito a muovere un muscolo. Il direttore non c’era con loro, in quella stanza adesso c’ero soltanto io e quelle divise, e a me pareva impossibile che tutto finisse così, in quella maniera da stupidi; per questo, in un attimo, con tutta la forza che avevo, avevo affondato il mio coltello, che ancora tenevo con la mia mano destra, nella carne del mio braccio sinistro, perché era quella la punizione che mi meritavo, non ce ne poteva essere un’altra: tutto il resto per me in quel momento cadeva completamente di qualsiasi interesse, come il risveglio da un sogno, come scoprire un segreto che ti cambia la vita, come un sipario che si chiude a teatro su una scena finita. Il resto, adesso, era soltanto una cosa di altri.

Bruno Magnolfi

venerdì 10 febbraio 2012

Il ripristino della situazione precedente.


Poco distante da me, proprio davanti ai miei occhi, la realtà scorre senza alcuna difficoltà, come seguendo un percorso che non prevede incertezze. Gli alberi nel vento si incurvano, le persone per strada si stringono nei loro cappotti, ambiscono raggiungere le proprie abitazioni, rilassare i nervi tesi, uscire da situazioni ostiche, così impersonali, che tolgono qualcosa senza riuscire ad offrire niente nel cambio.

Vado in giro senza preoccuparmi di nulla, osservo i comportamenti delle persone che incontro, attendo quasi con impazienza che qualcuno mi chieda spiegazioni sul mio modo di pormi di fronte alle cose, o sulla maniera con cui considero tutto. Un uomo si ferma, mi osserva un momento, dice: oggi niente è una verità definita; ciò che appare spesso nasconde il contrario, ogni dato viene fatto credere legge, ma è soltanto per un tornaconto che è quasi divenuto usuale, tanto da risultare persino prevedibile. Non esiste un responso, tanto vale non credere niente.

Osservo qualcosa in fondo alla strada, annuisco; mi sposto ad osservare una pubblicità sopra un muro: forse ha ragione, penso, ogni elemento serve a qualcuno, e tutti insieme ruotano su una giostra infernale. Vado avanti, il senso di angoscia mi pare si acuisca se cerco di comprendere qualcosa di più, così torno indietro, verso la stessa persona che mi ha parlato poco prima, e cerco con lui di essere scherzoso, di alleggerire le cose.

Va bene, dice qualcuno dietro di noi; è giusto lasciare ogni preoccupazione al di fuori, possiamo andare in un bar, bere una birra, parlare di niente e sentirsi in sintonia completa, dimenticandoci di tutto e divertendoci di fronte alla nostra capacità di sentirsi al di fuori. Ci avviamo, si entra dentro al locale, ma all’improvviso a me sembra che le cose non stiano in piedi, almeno così come sono state impostate; mi guardo attorno, quasi senza interesse, poi, dentro una tasca, scopro di avere un piccolo coltello tagliente. Lo estraggo con espressione rabbiosa, dico a tutti i presenti che non c’è niente di cui scherzare e ridere, le cose adesso si sono fatte notevolmente più serie, non può essere altrimenti.

Stanno tutti in silenzio, nessuno ha voglia di dire alcunché, lasciano che io me ne vada, che raggiunga di nuovo la strada e le mie convinzioni: nessuno mi segue, sanno che sono solo, che non avrò vita facile, probabilmente riuscirò a mettermi in guai certi, anche peggiori di quelli di adesso, tanto vale che corra come voglio quella mia corsa, poco per volta l’inevitabile si parerà davanti ai miei occhi, non ci sarà più alcuna possibilità per tornarsene indietro.

Cerco di fuggire senza sapere per dove e neppure da cosa, ma sono sicuro che la conservazione dei geni di cui sono composto dipende soltanto da me, dai miei comportamenti, dalla capacità che riuscirò a manifestare di essere superiore alle difficoltà ordinarie del mondo contemporaneo: diversificarmi dagli altri, modificare il mio stato, trovare un significato più alto nei miei atteggiamenti, nei pensieri che adotto. Non ho niente alle spalle: tutto si gioca in questo futuro.

Bruno Magnolfi

domenica 5 febbraio 2012

Ci si innamora cosi.

Ci si innamora così, cercando nella persona amata il punto a nessuno rilevato, che è dato in dono solo a chi scruta, ascolta con amore. Ci si innamora da vicino, ma non troppo, ci si innamora da un angolo acuto un poco in disparte in una stanza, presso una tavolata, seduto su un gradino mentre gli altri ballano. (Erri De Luca)

sabato 4 febbraio 2012

Ho visto anche degli zingari felici

E' vero che dalla finestra non riusciamo a vedere la luce perchè la notte vince sempre sul giorno e la notte sangue non ne produce.E' vero che la nostra aria diventa sempre più ragazzina e si fa correre dietro lungo strade senza uscita.E' vero che non riusciamo a parlare e che parliamo sempre troppo.
E' vero,sputiamo per terra quando vediamo passare un gobbo,un tredici o un ubriaco.
O quando non vogliamo incrinare il meraviglioso equilibrio di un odiosità senza fine di una felicità senza il peggio.
E' vero che non vogliamo pagare la colpa di non avere colpe e che preferiamo morire.
Piuttosto che abbassare la faccia,è vero,cerchiamo l'amore sempre nelle braccia sbagliata.
E' vero che non vogliamo cambiare il nostro inverno in estate,è vero che i poeti ci fanno paura.Perchè i poeti accarezzano troppo le gobbe,amano l'odore delle amarmi,odiano la fine della giornata.Perchè i poeti aprano sempre la loro finestra anche se noi diciamo che è una finestra sbagliata.
E' vero che non ci capiamo,che non parliamo mai in due la stessa lingua.
E abbiamo paura del buio e anche della luce,è vero,che abbiamo tanto da fare che non facciamo mai niente.
E' vero che spesso la strada sembra un inferno,una voce in cui non riusciamo a stare insieme,dove non riconosciamo mai i nostri fratelli.E' vero che beviamo il sangue dei nostri padri e odiamo tutte le nostre donne e tutti i nostri amici.
Ma ho visto anche degli zingari felici corrersi dietro,far l'amore e rotolarsi per terra.Ho visto anche degli zingari felici in piazza Maggiore a ubriacarsi di luna,di vendetta e di guerra.

di Claudio Lolli.