martedì 31 luglio 2012

Al varco della soglia.



Adesso lui è solo, mentre sale i tre gradini che immettono al portoncino della sua abitazione, un modesto appartamento in una strada marginale della città di Elva. Ha la testa piena di pensieri e ripercorre frettolosamente ciò che ha cercato di spiegare quel pomeriggio a Renato, il suo più caro amico, davanti ad un paio di birre, seduti ad un tavolo del locale di Piero.

Non è molto convinto, effettivamente, di ciò che ha cercato di spiegargli, ma l’altro ha lasciato che lui dicesse tutto ciò che aveva in testa, ed è come se lui avesse cercato, nei suoi gesti, negli accenni, dalle occhiate, se non proprio dalle parole che si sono scambiati, una conferma a tutti quei propositi che gli ha fatto presente. Voglio andarmene da qui, gli ha detto senza mezzi termini, in fondo ognuno di noi ha il diritto di sentirsi sconfitto alla fine di un percorso della propria vita, e ciò che gli resta più di tutto quanto, forse è soltanto la voglia di impegnarsi per ricominciare tutto dall’inizio, magari proprio in un altro posto, dove nessuno ti conosce. Renato ha sorseggiato la sua birra, in silenzio, mentre lui continuava a parlare.

Ma adesso lui sale le scale, è sicuro di avere riferito tutto quanto al suo amico Renato, e questo lo fa sentire meglio, senza ombra di dubbio; ma non aver notato in lui neppure l’ombra della condivisione dei suoi propositi, ma aver ricevuto soltanto parole di conforto e di conferma per la sua situazione, gli ha fatto nascere in testa dei punti interrogativi che forse neppure aveva in precedenza. Forse è così, pensa; forse le proprie convinzioni e l’entusiasmo che spesso le sostiene, devono essere più forti di tutto, persino dei pensieri di chi ti conosce bene, di chi non ti direbbe mai qualcosa solo per il gusto di farti sentire strano, diverso, ancora più solo nelle tue scelte personali.

Poi si ferma un attimo: quella scale e il portoncino della casa in affitto che potrebbe già lasciare libera da lì a pochi giorni, gli paiono improvvisamente il simbolo di qualcosa che adesso non si risolve a varcare, e allora aspetta, attende come un segnale, o qualcosa dentro di sé che gli conceda la forza di cui ha bisogno. Riflette, non trova un vero sostegno a cui attaccarsi, ma forse è sempre stato così per chiunque si sia trovato in una situazione analoga.

Adesso lui è immobile, come impegnato a cercare qualcosa che non trova dentro alle sue tasche, così ripensa di nuovo al suo amico Renato, alle parole che si sono scambiati, e le sue idee appaiono ancora più torbide, prive completamente di quella chiarezza di cui avrebbe in questo momento la necessità. Infine il pensiero gli cade sulle due birre medie che si sono scolati al tavolino del locale di Piero: ha pagato lui la consumazione, perciò non sente alcun debito nei confronti di nessuno. Non è molto, pensa, ma forse è già qualcosa, e adesso gli basta almeno questo, sentirsi in qualche modo maggiormente a posto, e se non altro più libero di fare le sue scelte, persino già lontano dal sottile disaccordo del suo amico Renato.

Bruno Magnolfi


domenica 29 luglio 2012

Verso il vuoto (ripresa cinematografica n. 14).

Ho percorso a piedi un breve tratto di strada lungo il marciapiede deserto, poi mi sono fermato. Le case e le basse palazzine intorno sembrano osservarmi mediante le loro finestre, ma a me non interessa, conosco il mio percorso, non sono certo questi i motivi per desistere e lasciare che la paura si mostri come un ostacolo insormontabile ai miei passi. Vado avanti, lentamente, pensando con fermezza alla direzione che sto tenendo.

Infine incontro un uomo, mi ferma e mi chiede qualcosa in una lingua che non conosco, ed io gli rispondo come posso, gesticolando, mostrando delle espressioni perplesse sul viso: non so, dico, non capisco, ma l’altro insiste. Ne nasce della confusione, quasi un piccolo alterco, poi immagino, con un guizzo di fantasia, che quell’uomo voglia soltanto sapere che ore siano, o qualcosa del genere, così guardo l’orologio, piego il braccio verso di lui, in modo da fargli vedere il quadrante, e che veda bene in quale posizione sono posizionate le lancette.

Quello, con serietà, mi prende il braccio con la sua mano forte stringendo sopra al mio polso, guardandomi direttamente negli occhi: senor, dice in spagnolo, no esta bien, no esta bien. Che cosa, chiedo, che cosa vuol dire, non so altro, non so niente di ciò che lei vuol sapere.

L’altro mi lascia, si tocca leggermente il viso con una mano, allunga un passo lontano da me, poi, senza più neanche guardarmi, si allontana, perplesso, se ne va. Rimango immobile, continuo per un attimo ad osservarlo mentre si allontana, infine mi volto verso la direzione che avevo preso, ma mi accorgo soltanto dopo pochi passi, che non c’è niente davanti a me, soltanto il vuoto, un terribile, pauroso vuoto di cui non mi ero accorto per niente.

Bruno Magnolfi

Verso il vuoto (ripresa cinematografica n. 14).



Ho percorso a piedi un breve tratto di strada lungo il marciapiede deserto, poi mi sono fermato. Le case e le basse palazzine intorno sembrano osservarmi mediante le loro finestre, ma a me non interessa, conosco il mio percorso, non sono certo questi i motivi per desistere e lasciare che la paura si mostri come un ostacolo insormontabile ai miei passi. Vado avanti, lentamente, pensando con fermezza alla direzione che sto tenendo.

Infine incontro un uomo, mi ferma e mi chiede qualcosa in una lingua che non conosco, ed io gli rispondo come posso, gesticolando, mostrando delle espressioni perplesse sul viso: non so, dico, non capisco, ma l’altro insiste. Ne nasce della confusione, quasi un piccolo alterco, poi immagino, con un guizzo di fantasia, che quell’uomo voglia soltanto sapere che ore siano, o qualcosa del genere, così guardo l’orologio, piego il braccio verso di lui, in modo da fargli vedere il quadrante, e che veda bene in quale posizione sono posizionate le lancette.

Quello, con serietà, mi prende il braccio con la sua mano forte stringendo sopra al mio polso, guardandomi direttamente negli occhi: senor, dice in spagnolo, no esta bien, no esta bien. Che cosa, chiedo, che cosa vuol dire, non so altro, non so niente di ciò che lei vuol sapere.

L’altro mi lascia, si tocca leggermente il viso con una mano, allunga un passo lontano da me, poi, senza più neanche guardarmi, si allontana, perplesso, se ne va. Rimango immobile, continuo per un attimo ad osservarlo mentre si allontana, infine mi volto verso la direzione che avevo preso, ma mi accorgo soltanto dopo pochi passi, che non c’è niente davanti a me, soltanto il vuoto, un terribile, pauroso vuoto di cui non mi ero accorto per niente.

Bruno Magnolfi

sabato 28 luglio 2012

Compagni di giochi (profilo n. 20)



C’eravamo velocemente rifugiati, insieme ad una ragazzona di nome Anna conosciuta soltanto pochi minuti prima, in una specie di rimessa abbandonata, con la porta completamente divelta, che rimaneva lungo la strada principale, e ci eravamo accucciati in un angolo all’interno cercando di riordinare tutte le nostre idee. Gli spari provenienti dalla vicina collina sembravano diretti soltanto verso il piccolo paese che ci eravamo lasciati alle spalle, io e Ettore, e la soluzione migliore, almeno per il momento, pareva proprio quella di rimanersene lì, nella semioscurità, ad attendere che l’attacco cessasse.

A sera non avvertivamo più alcuno sparo, e ci sentivamo ormai pronti ad abbandonare quel rifugio. Anna ci aveva raccontato di essere scappata dalla parte sbagliata quando era iniziato tutto, ed adesso avrebbe voluto tornare verso casa, nel paese, per rendersi conto che cosa fosse successo ai suoi genitori e alla sua famiglia. Le altre volte, diceva, eravamo sempre andati tutti insieme nel bosco poco lontano, dove c’è un grande capanno nascosto tra la vegetazione, e si può stare anche più giorni. Probabilmente sono tutti lì. L’accompagnammo, con circospezione, dopo che il sole era tramontato, ed effettivamente trovammo tutti ormai in casa e in buona salute.

Ci ringraziarono per Anna, ci dettero da mangiare qualche cosa, poi insistettero per farci passare la notte da loro, sistemati alla meglio in una stanza vuota. Dalla finestra la luna rischiarava la strada, così decidemmo una sorveglianza a turno, per evitare di lasciarci sorprendere nel sonno. Tutto pareva filare liscio, ma ad un tratto Anna bussò alla porta lievemente. Disse che voleva venire insieme a noi il giorno seguente, dovunque andassimo, non voglio più stare qui senza far niente, disse: mi piacerebbe raggiungere gli altri, dare una mano, sentirmi utile. Ettore le spiegò che avevamo bisogno del consenso di suo padre, non poteva fuggirsene così, senza alcuna spiegazione, ma lei sostenne che ne aveva già parlato con i suoi, era maggiorenne, e su quel punto loro lasciavano a lei ogni decisione.

Partimmo presto, all’alba, costeggiando tra gli alberi la strada principale, Anna era silenziosa, camminava dietro di noi e spesso si voltava, a guardarci le spalle e forse a dare un’ultima occhiata al suo paese. Si fece una sosta in un fienile abbandonato, dividendoci un pezzo di pane e del formaggio che avevamo. Ettore chiese qualcosa alla ragazza, giusto per parlare, ma lei non disse niente, pareva adesso molto più forte e decisa in ciò che stava facendo, pareva convinta non ci fosse alcun bisogno di spiegare niente.

Al pomeriggio arrivammo in un paese abbastanza grande, la gente girava per strada anche se con circospezione, e noi entrammo in una bettola per avere notizie e per bere qualcosa. Fu lì che ci arrestarono, senza sparare neanche un colpo, uscendo da dietro come fulmini. Vedevamo Anna che si dimenava, urlava che non c’entrava niente con noi, era soltanto lì per caso, ma a niente valsero i suoi sforzi. La portarono via, caricandola su un’auto in malo modo senza darle alcuna possibilità, e soltanto dopo, sempre con maniere violente, chiesero a me e a Ettore come l’avevamo conosciuta. Dicemmo la verità, e poco dopo ci lasciarono liberi. Si seppe in seguito che lei era stata da bambina la compagna di giochi di un sanguinario pezzo grosso del regime, la sua condanna era nell’aria, anche se Anna probabilmente non aveva alcuna colpa. Tornammo indietro per dare una spiegazione alla famiglia, ma non trovammo più nessuno, come se quelle case dove avevamo trascorso la notte precedente, non fossero mai state abitate. Ripartimmo frastornati, niente sembrava fare più paura di quell’incomprensibile realtà.

Bruno Magnolfi

sabato 21 luglio 2012

Senza un'altra possibilità.



Senedin, aveva detto sottovoce Senedin di là dalla parete di plastica della baracca; ed io, dopo un po’, avevo tossito leggermente, giusto per fargli rendere conto che non era da solo, e soprattutto che non era bello parlare tra sé in quella maniera. Ma lui aveva continuato per qualche altra volta nello stesso modo, come fosse la cosa più normale del mondo, disinteressandosi di me e della mia tosse, proseguendo come a chiamare una persona accanto a lui con il suo stesso nome.

Non volevo pensare tra me qualcosa di sbagliato, così avevo aspettato con pazienza ancora qualche minuto, quindi avevo detto a voce alta che questo cantiere ci stava ammazzando: Senedin, avevo detto, dobbiamo cercare di farglielo capire al caposquadra, non possiamo continuare ancora molto con il caldo di luglio a lavorare tutti i giorni per dodici ore così come stiamo facendo. Ma lui non aveva risposto niente, come a dimostrare che non era il caso di stare troppo a rompere le scatole al caposquadra o al geometra in un momento come quello.

Certe volte non lo capisco proprio Senedin; ha un orgoglio da vendere, quando gli va, e poi, senza neanche un motivo preciso, ecco che abbassa la testa come un qualsiasi operaio appena arrivato, proprio lui, che posti come questo dove siamo adesso ne ha girati più di tutti.

Nella baracca non ti puoi muovere di un passo, il pavimento scricchiola in maniera esagerata, mostrando esattamente, anche a chi non va di guardare, dove sei e cosa stai facendo. Senedin invece sembra muoversi in silenzio, di là, quasi come un gatto, ma io so che cosa pensa, cosa immagina dentro di sé: neppure a lui va bene di lavorare tutte quelle ore anche se le pagano al nero e con i soldi veri, senza assegno. Non si può ammazzare di lavoro un uomo, gi dico certe volte. Cosa c’entriamo noi con i problemi dello stato di avanzamento dei lavori, della contabilità da presentare e tutte le altre storie che ci racconta il caposquadra? Ma Senedin cerca sempre di capire tutti, perciò non commenta e abbassa la testa, come facciamo anche noialtri in fondo.

Tutte pecore, a volte gli dico, ma soltanto per provocarlo un po’, però lui mi guarda ed annuisce, come a spiegarmi che il primo pecorone sono proprio io, che forse non capisco, semplicemente non capisco niente di tutta quella faccenda Senedin, dico ancora mentre mi sistemo sdraiato sopra la mia branda di qua dalla parete; ma mi rendo conto che lui non ha voglia di parlare, forse non è il momento, devo soltanto avere più pazienza, aspettare che lui dica qualcosa, che è tutto a posto, per esempio, o che non dobbiamo parlare troppo del cantiere, come a volte dice. Però dopo un’altra mezz’ora il silenzio regna ancora dentro la baracca: si sta male senza scambiarsi i pensieri, le opinioni; così dico: domani i ferraioli finiscono con l’armatura del pilone, dobbiamo iniziare ad allestire i pannelli delle casseforme, tanto per dire. Lui non risponde niente, e dopo un attimo ripete ancora: Senedin, come se fosse l’unica cosa rimasta da dire. Mi alzo, vado di là e vedo che si sta guardando dentro al suo piccolo specchio per la barba. Che stai facendo, dico, ti sei perso nella tua immagine? Lui mi guarda, come arrivasse da un altro pianeta, poi risponde: no, cerco solo di vedere un operaio che deve tirare avanti in questo modo, e che non ha proprio nessun’altra possibilità.

Bruno Magnolfi