lunedì 30 dicembre 2013

A volte può darsi.



            Può darsi delle volte che lei durante la notte si alzi dal letto, vada in cucina, si versi un po' d'acqua da bere, e osservi fuori dalla finestra le luci dei lampioni lungo la strada, restando come colpita da quel chiarore rosato nell'aria dato dalle lampade del casello autostradale poco lontano, osservando tutto quanto dal suo piccolo appartamento periferico dove si è ritrovata alla fine ad abitare da sola, senza neppure il conforto di una vista migliore. Qualche volta si guarda allo specchio nella sua camera: si trova ancora in forma, un bel figurino, la faccia ancora da giovinetta, ma poi sorride e trascorre le sue serate a guardare qualche programma trasmesso in televisione.
Può darsi che ci sia un suo vicino di casa che qualche volta l'osserva mentre lei passa velocemente lungo il cortile: la saluta cortesemente quando la incontra, e lei gli risponde alla stessa maniera, ma sempre senza mai incoraggiarlo, perché ogni volta che cammina sopra quel selciato polveroso, sente in qualche modo che il suo vicino è lì, da qualche parte, forse alla finestra, la sta guardando, probabilmente fa pure delle congetture di qualche tipo sopra di lei, e chissà con il pensiero fino dove sia già riuscito a spingersi, se ci riflette davvero non osa neppure pensarlo.
Può darsi poi che lei ami questa sua solitudine, specialmente alla domenica quando non deve andare neppure a lavorare. Guarda la sua casa, il frigorifero, sa di avere tutto ciò che le serve per trascorrere una giornata come si deve. Poi prova qualche vecchio vestito, mi sta ancora bene pensa, prima o dopo ci sarà l'occasione  per metterlo ancora. La sua cucina è pulita, tutto è in ordine, si può permettere di stare seduta a leggere un libro o a pensare qualcosa, a pensare che magari questa sua vita di adesso più o meno è forse la stessa di quella che in qualche modo ha sempre desiderato.
Può darsi che lei ogni tanto esca con una sua amica, vada ad un cinema, per esempio, ma più volentieri in giro per la città a visitare negozi e a guardare vetrine; parlare del più e del meno, lasciare che i suoi pensieri sgorghino senza ritegno tramite le parole, come se ci fosse una strada aperta, diritta, forse un modo per sfogarsi del tutto fino a sentirsi migliore; poi però si sente sempre un po' stringere il cuore quando torna da sola con l'autobus verso il suo appartamento. Non c'è niente di male, ha fatto un po' tardi, non c'è neppure il suo vicino a guardarla rientrare.
Può darsi che il giorno seguente provi una grande fatica per alzarsi ed andare al lavoro. Dà un'occhiata a quell'alba rosata fuori dalla finestra della cucina, mentre si prepara qualcosa per colazione, e non riesce neppure a distinguere se è il sole che sorge o sono ancora i lampioni della notte lungo l'autostrada poco lontano; sa solo che ha di fronte una giornata intera da vivere, e che tornerà con i piedi ormai gonfi, stanca, sfinita, e magari ci sarà ancora il vicino di casa a guardarla mentre passa svelta lungo quegli ultimi metri. Forse lei stasera lo saluterà con un'enfasi maggiore di qualsiasi altra volta, pensa per scherzo; si fermerà un attimo con lui per dirgli qualcosa, magari soltanto per fargli presente che non vede l'ora di farsi un caffè, di gustarlo con tutta la calma e la tranquillità ritrovata, e può pure darsi che gli chieda se gli va di prenderne una tazza anche a lui.

Bruno Magnolfi

sabato 16 novembre 2013

Occasione persa.

            
Stufo di tutto, stanco da morire, brancolo la sera tardi lungo una strada che neppure riconosco. Succede di dover ammettere un errore, ma adesso tutto quanto sembra inutile, persino la faticosa correzione di quello sbaglio. Se ci penso credo addirittura di potermi rallegrare dell’aver perso poco per volta i miei punti di riferimento, tanto da riflettere che tutto d'ora in avanti sarà semplicemente da ricostruire, come qualsiasi altra cosa da rifare, scartata ormai l'originale, come non rispondente alle attese.
Mi fermo davanti ad un cinema chiuso, osservo i manifesti del film in programmazione. Non conosco questa pellicola, non ho mai sentito parlare né del regista né degli attori. Mi chiedo come sia possibile che tutto giri in questa maniera, che io abbia perso poco per volta il contatto con la realtà minuta, e che le cose seguano un percorso così diverso dal mio. Si ferma un uomo, vede che sono attratto da questi cartelloni, mi chiede cosa ne pensi, ed io gli dico che c'è qualcosa che non capisco in quelle informazioni, che mi sembrano quasi di una natura diversa dalla mia. L'uomo dice ridendo che è tutto uguale,  che non c'è da preoccuparsi. Poi spiega la storia del film, lo ha visto sere fa, dice: tratta di un amore difficile tra un uomo ed una donna, un rapporto come ce ne sono in giro di infiniti. Lo lascio parlare, lui spiega che l'idea buona che porta avanti la trama sta nel fatto che le cose tra l'uomo e la donna scivolano via senza alcun impegno, come se ogni vicenda che si snoda non fosse neppure cercata, né dall’uno né dall’altra.
Forse è questa la differenza, penso: evitare di concentrarsi sugli accadimenti sotto agli occhi di chiunque è migliorativo, a differenza di ciò che ho sempre creduto. Così dico: forse mi piacerebbe vedere il film, ma non ho mai il tempo per dedicarmi a questo genere di cose. Lui annuisce con la testa, sorride come chi sa perfettamente dove andrà a cadere l’argomento, ed io improvvisamente vorrei quasi allontanarmi, ritrovare quella solitudine che mi pareva un elemento prezioso nella mia serata, ma lui all'improvviso dice che può narrarmi tutta la storia di questa pellicola, se voglio, tutta la vicenda descritta là dentro; certo, chiarisce, non sarà come assistere alla proiezione, però quasi. Gli dico che va bene, posso stare ad ascoltarlo senza alcun problema, ma poi ci ripenso: se mi capitasse in seguito di andare al cinema, magari con qualche amico, gli dico con una certa serietà, probabilmente dovrei andare a vedere un altro film, perché di questo ormai ne saprei già a sufficienza, tanto da sembrarmi una ripetizione starlo a vedere. Lui ci pensa, dice che forse ho ragione, e aggiunge che un film narrato è comunque un'altra cosa. Si, è vero, dico, comunque siamo d'accordo.
Quando vado via lui mi saluta con un gran sorriso: sono bravo a raccontare, dice. Ci credo, fo io, forse mi piacerebbe sentirtelo fare, se solo avessi tempo, se soltanto ci fosse la possibilità per me di stare ad ascoltarti. Lui dice che non ha importanza, la contemporaneità prevede tempi stretti per questo genere di cose: forse dovremmo prenderci tutti una pausa qualche volta, ma poi ride, proprio mentre si allontana. 

Bruno Magnolfi

domenica 10 novembre 2013

In giro, assieme alle nuvole.



Mi avevano sistemato in un letto della corsia, nel reparto di medicina generale; gli infermieri erano stati bravi e veloci, anche se si erano subito dileguati. Gli altri cinque ammalati della mia camera pareva fossero là dentro da sempre: mi avevano osservato in silenzio, io ero rimasto immobile nella stessa posizione in cui ero stato messo, voltando soltanto lo sguardo, per qualche momento, verso l’unica grande finestra che c’era, per osservare quel piccolo pezzo di cielo che restava inquadrato in fondo alla stanza, oltre la parete slavata. Dopo un po’ era sopraggiunta la dottoressa con un infermiere, mi avevano fatto qualche domanda, mi avevano anche toccato e rigirato su tutti i lati.
Ero caduto a terra svenuto, così, all’improvviso, mentre ero in giro quasi senza far niente, con le mani dentro le tasche, a spasso lungo le strade del mio quartiere, e ciò era segno evidente, secondo loro, che qualcosa si stava compromettendo dentro al mio organismo. Adesso però, passato lo spavento osservato a specchio negli occhi della gente, tra i barellieri dell’autoambulanza, mi sentivo bene, o meglio non provavo alcun dolore, ma la paura che la mia vita cambiasse, da quel momento in avanti, era forte, intensa, superiore ad ogni altro pensiero. Dovevano farmi una serie di analisi, aveva detto la dottoressa, sondare a fondo le risposte del mio sistema vitale, capire cosa nascondesse quell’apparenza neutrale, quasi indifferente nello svolgere funzioni oppure no.
Poi se n’erano andati, lasciandomi da solo come a galleggiare, insieme al mio letto bianco, su un mare oscuro e sconosciuto che tendeva a infiltrarsi dentro di me e tra le coperte in cui ero avvolto. Non ero mai stato dentro quell’ospedale, ma se non mi sembrava all’apparenza del tutto ostile, in ogni caso non faceva nascere, nella mia mente, alcuna curiosità. Di fronte a me, due ammalati, avevano parlato sottovoce tra loro, poi era ritornato il silenzio. Si avvertiva soltanto un ronzio persistente, un rumore che sembrava provenire dai muri stessi, come se un grosso motore elettrico, nascosto da qualche parte, desse l’energia sufficiente a tenere in vita quell’edificio, forse anche i degenti, forse ogni più piccolo elemento di cui era composta tutta quanta quella struttura.
Fuori dalla finestra era passata lentamente una nuvola, io avevo pensato alla mia casa, ai miei passatempi, alle mie giornate, pur vuote, eppure estremamente preziose. Mi ero rannicchiato sotto alle coperte, quasi per ritrovare una dimensione più intima, mi ero addirittura coperto la testa. Erano trascorsi ancora abbondanti e lunghi minuti senza che niente accadesse, avevo anche riflettuto se fosse il caso di addormentarmi, oppure semplicemente restarmene lì in quel modo inerte.
Infine, di colpo, mi ero scoperto, avevo messo i piedi fuori dal letto, inforcate un paio di pantofole, e in un attimo ero già nel corridoio. Gli altri mi avevano osservato, senza dire nessuna parola. Io avevo scorso tutte le camere a destra e a sinistra, e un’infermiera mi aveva notato, ma non si era interessata di me, ed io avevo raggiunto velocemente uno degli ascensori. In un attimo, con il pigiama a righe di qualche taglia superiore alla mia, ero arrivato fino all’ingresso principale. Forse potevo andarmene, avevo pensato; forse potevo dare ancora un’occhiata al cielo pieno di nuvole. Ma la mia testa era confusa, all’improvviso una paura profonda e sconosciuta mi aveva colto, mentre ero già davanti alla grande porta vetrata che immetteva all’esterno.
Era troppo presto, non mi era stato possibile ancora farmi un’idea di tutto quanto; avevo bisogno di rendermi conto, di capire un po’ meglio cosa stesse accadendo. Osservavo le persone che entravano e uscivano continuamente, come se tutto fosse normale, poi avevo orientato il mio sguardo sul cielo: la porzione di nuvole che si intravedeva fuori dalle vetrate era grande, qualcuna tendeva a raddensarsi nel vento, altre si sfilacciavano come allungandosi. Decisi che non c’era altro da fare: dovevo tornare di sopra, attendere i risultati di tutte le analisi, fidarmi delle persone che lavoravano per la salute di tutti: poi, non ricordo più niente, caddi a terra di nuovo, nient’altro.
Bruno Magnolfi

domenica 20 ottobre 2013

Sfuggevolezze.

Sfuggevolezze.

            
Lei è tenera certe volte. Dice le sue cose quasi sottovoce ed è pronta normalmente ad abbassare lo sguardo solo per aver adoperato una parola inusuale o un'espressione forse troppo forte. Tutti sono pronti a dire di lei che è una persona dolce, salvo riuscire a conoscerla un po' meglio, ed accorgersi che non è del tutto come sembra, ed in qualche caso diventa quasi astiosa, esattamente come molte altre. A chiederle qualcosa intorno all’argomento della sua personalità o del suo carattere lei quasi sempre si schernisce, come se quelle non fossero domande ma veri e propri complimenti. Torna abbastanza normale a molti del suo giro chiederle cosa pensi quando se ne sta in disparte, o anche perché le sue espressioni spesso sembrino fuori dal contesto, come se stesse crucciandosi, oppure addirittura divertendosi di qualcosa chiaro ed evidente solamente a lei.
In ogni caso lui attende  che sia un po' più sola e in disparte durante quella festicciola a suo parere stanca e risaputa, e ad un certo punto, forse per la curiosità che ha sempre suscitato in lui, le si avvicina sorridendo, senza neanche sapere né per cosa ridere, e né che cosa dirle. Lei lo facilita, lo conosce di vista ormai da un pezzo, amico di altri amici, giri ordinari di comuni conoscenze, così gli chhttp://magnonove.blogspot.it/iede se ha una normale sigaretta da offrirle. Certo, era da un pezzo non ti incontravo in giro, fa lui proseguendo nel sorriso, e lei fa la sua solita espressione di scherno, mentre si fa accendere......continua su http://magnonove.blogspot.it/.

giovedì 17 ottobre 2013

Attesa.

L'illustrazione è stata tratta dal racconto breve "Attesa" di Bruno Magnolfi . Per leggere tutta  la storia vai su http://magnonove.blogspot.it/


 Lo so che non va bene restare qui senza fare niente. Però sto aspettando una telefonata, una semplice telefonata che sono sicuro cambierà molte cose di questo giorno e forse del mio futuro. Mi alzo, vado in cucina e mi verso un bicchiere d’acqua. Comunque sia mi sento bene mentre resto qui, anche se posso apparire come mezzo paralizzato in quest’attesa. Di fatto però si tratta semplicemente di sospendere i pensieri, lasciare che i minuti con la loro lentezza scorrano assolutamente tranquilli, senza inciampi, srotolando un presente quasi perfetto, vuoto e senza impegni, e tutto è a posto.
Forse non giungerà neppure una vera e propria telefonata, rifletto....

mercoledì 25 settembre 2013

domenica 22 settembre 2013

Via dalla mia vita

http://magnonove.blogspot.it/2010/08/via-dalla-mia-vita.html

Via dalla mia vita.

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lunedì 16 settembre 2013

Accoglienza.

            
            Mi rannicchio su un comodo sedile imbottito in fondo a questo vagone del treno locale, ci sono pochi passeggeri a quest’ora, e ascolto con attenzione il ritmo delle ruote che scorrono sopra ai binari, lasciando che tutti i miei problemi volino fuori da qui assieme all’aria che accarezza all’esterno le lamiere di metallo, le parti meccaniche, le maniglie delle porte, il vetro dei finestrini. C’è persino qualcosa di familiare in un luogo pubblico come questo, qualcosa che adesso mi pare persino protettivo, anche se capisco perfettamente quanto il mio comportamento si mantenga su un equilibrio un po’ precario, a cavallo tra intimità e incomprensione.
            Non so neppure da cosa stia fuggendo davvero, sono salito qua sopra quasi senza pensare: forse per un momento mi aveva attraversato soltanto la voglia puerile di andarmene dai soliti luoghi di sempre. Via dalla città, ho riflettuto, una corsa serale nella vasta provincia ad affrontare qualcosa di nuovo, di diverso, ecco il ragionamento di base. Adesso aspetto soltanto di avvistare la divisa del controllore, poi credo mi chiuderò a chiave dentro la ritirata qui accanto, e scenderò di gran corsa alla prima fermata del convoglio, quando il personale di servizio apre le porte e va sul marciapiede, perché non ho alcun biglietto, non ho valigia, non ho neppure i documenti personali, sono un niente, penso, forse soltanto un fastidio.
            Avrò freddo più tardi, uscirò da una piccola stazione di paese e affronterò una piazza qualsiasi, con due o tre persone che parlano e un caffè ancora aperto, e camminerò in fretta, allora, come rincorrendo qualcosa che neanche immagino, lasciandomi alle spalle la maggior parte possibile di tutto, senza pormi alcuna domanda. Cadrò per la stanchezza in un angolo, quando la notte si farà sentire di più, e chiuderò gli occhi girando lo sguardo verso l’interno, ma non per cercare in me la chiarezza, ma soltanto per ritrovare me stesso, almeno ancora una volta. Domani, con la luce del giorno, qualcosa probabilmente accadrà, e qualcuno forse si sentirà solidale con me. 
            Per adesso il treno procede, sembra quasi sospeso nell’aria, poi frena apparentemente con delicatezza, e qualcuno si avvicina dalla mia parte, mi osserva senza insistenza, poi dice qualcosa che però non riesco a comprendere. Sono sporco, immagino, ho la faccia scura e la barba di cinque o sei giorni, chiunque guardandomi riesce a capire di quale categoria io sia parte. Poi rifletto più a fondo: no, non lo so quale sia la stazione prossima, anzi non ne ho la minima idea, non so neppure verso dove ci stiamo realmente dirigendo. L’uomo di fronte a me mi regala un’altra semplice occhiata, poi guarda il tabellone in alto che indica tutto il tragitto.
            Torno a rannicchiarmi proprio come prima, ma adesso la mia intimità se n’è andata, così cerco qualcosa dentro una delle tasche di questa giacca bisunta, ma non trovo niente. L’uomo si volta, torna indietro lungo il corridoio colorato, il treno sta per fermarsi, guardo in giro se per caso ci fosse il controllore, ma all’improvviso sento di essere solo, forse come mai mi sono sentito. Siamo fermi, le porte pneumatiche scorrono, scendo sul marciapiede, sotto la pensilina, e dietro di me c’è ancora quell’uomo. Non si preoccupi, mi dice, questa è la stazione di un paese accogliente.

            Bruno Magnolfi

domenica 15 settembre 2013

Orribile mondo.

            
            Le strade del quartiere sono quelle di sempre, inutile percorrerle sperando di trovarvi qualcosa di nuovo. Teresa sa di essere anziana, ma continua a camminare ugualmente, osservando le poche persone che incontra sui marciapiedi, il suo giro ormai è praticamente dettato da un semplice automatismo, e da quando il medico le ha quasi imposto di farsi quella camminata ogni pomeriggio per almeno un’ora, lei ha percorso praticamente tutti i tracciati possibili attorno alla sua abitazione, anche se tutto questo affannarsi certe volte le appare insulso e persino un po’ inutile. Va avanti comunque, evitando addirittura di rifletterci troppo, e passa e ripassa dai medesimi posti, osserva i portoni chiusi dei condomini, i vecchi muri coperti di scritte assurde e perlopiù incomprensibili, i platani immobili lungo il viale, e tira diritto anche se incrocia ogni tanto qualcuno che conosce almeno di vista: lascia un saluto, certo, a volte un sorriso, ma poi va avanti senza scambiare neppure una parola, perché il medico le ha detto che non deve interrompersi, deve mantenere costante quel ritmo del passo.
            Teresa cammina, va avanti a compiere i giri di sempre, ma un uomo la ferma, le chiede qualcosa, lei non porta mai con sé la sua borsa, alla sua età sa che qualcuno potrebbe cercare di strappargliela, ma quello insiste con strani discorsi, poi la spinge contro un portone, le assesta uno schiaffo, dice che vuole i suoi soldi e che non gli importa se lei non ne ha: andiamo assieme fino al tuo appartamento, le dice in modo violento, e intanto di nascosto le mostra un coltello. Teresa piange, ha paura, abbassa la testa, dice va bene, si avvia verso casa con l’uomo al suo fianco, ma intanto si guarda attorno, cerca un possibile aiuto da qualcuno che forse conosce, ma tutti adesso tirano dritto, non la notano neanche, e poi sanno che con lei non ci si deve neppure fermare.
            I due arrivano così davanti al portone del suo condominio, Teresa apre alla svelta con la sua chiave, dice all’uomo che può aspettarla dabbasso, se vuole, lei andrà a prendere quello che ha dentro casa, e tornerà subito, ma l’uomo non si fida, le va dietro, entra anche lui in malo modo nel piccolo appartamento del primo piano; e all’improvviso, una volta ormai dentro casa, lei si rivolta: vai via, gli dice fissandolo dura con determinazione; guarda dove abito, lo vedi da te che non posso aver soldi, ho soltanto qualche ricordo che per me ha un valore molto maggiore di quello che tu potresti farti pagare. Potrei essere la tua mamma, gli dice, e tu appena uscito da qui con le mie povere cose, potresti pentirti profondamente di quello che hai fatto, anche se sarebbe ormai tardi, e non riusciresti più a tornartene indietro.
            L’uomo resta immobile, forse un filo leggero di vergogna lo attraversa, e allora cerca di dire semplicemente che è disperato, che non sa più come fare per mangiare qualcosa, e se è arrivato a quel punto è soltanto perché non trova altre strade. Teresa lo guarda, si rende conto che ciò che dice è la verità, così alla fine tira fuori da un cassetto un ciondolo d’oro: ecco gli dice, posso darti questo, non è legato a niente della mia vita, ma a te può esserti utile. All’uomo gli si riempiono gli occhi di lacrime, dice che forse adesso non vorrebbe neppure accettare, ma alla fine lo prende, si gira, non sa proprio come accomiatarsi a quel punto, se ringraziarla o se correre via, perché ormai si sente del tutto confuso; mi scusi, dice soltanto alla fine: certe volte sembra di vivere soltanto in mezzo ad un mondo schifoso, ma in altri casi si comprende che non è sempre così.

            Bruno Magnolfi

venerdì 13 settembre 2013

Perfetto. (Pausa n. 5).

           
            In fondo non ha poi alcuna importanza questa bramosia di comprendere, di interpretare al meglio queste giornate e anche tutta questa stagione. Non importa affatto essere o sentirsi all’altezza di questi momenti, riflette Corrado mentre rientra al molo con la sua piccola barca a vela dallo scafo di legno. Il vento quel pomeriggio è girato lentamente verso ovest come molte altre volte ha già fatto, ma questo non significa per nulla che domani sarà una cattiva giornata, pensa, oppure estremamente ventosa. E’ così, pensa ancora Corrado allentando la scotta, proprio nella stessa maniera per cui anche se credo che il mio continuare ad uscire in barca sia solamente per una assodata abitudine, ciò non significa che poi non sia bello farlo, magnifico anzi, come star qui in questo momento a respirare l’aria di mare, e questa brezza così dolce e piacevole.
            Sul piccolo molo c’è sua moglie ad attenderlo, perché lei in genere è ansiosa, e quando Corrado fa qualche bordo con la sua piccola barca, lei non lo perde di vista, spesso aiutandosi anche con un vecchio binocolo. Si sente anziano lui, a volte stanco, ed anche se rimprovera sempre sua moglie di essere una persona terribilmente cocciuta in quel suo non volerlo mai perdere di vista neanche un momento, sa bene che se non fosse per lei probabilmente avrebbe da un pezzo tirato in secco lo scafo, lasciando semplicemente il fasciame ad allentarsi al sole d’estate sopra l’invasatura.
            Gli piace anche sapere che c’è, che lo osserva, anche se sa che per nessun motivo al mondo lei metterà mai piede sopra la sua piccola barca. E’ come se sua moglie ritenesse del tutto necessario, nella personalità di suo marito, quel suo misurarsi periodico durante la bella stagione, con quei venti non sempre troppo leggeri, e quella vela che a volte si gonfia a dismisura e sbanda lo scafo, fino a impegnare l’uomo quasi al suo limite. Lui a volte ci pensa, e non riesce a comprendere completamente a quale necessità corrisponda tutto quel comportamento: sa però che è così, quasi come un elemento acritico dei loro modi di essere, difficilmente modificabili.
            Lei certe volte lo aiuta quando rientra al molo di attracco: gli tiene la prua al vento mentre lui cala la vela e sfila la scotta dai bozzelli, e allenta la drizza, ripone il timone, la deriva e tutte le altre attrezzature prima di fissare la cima alla bitta di ormeggio, per poi rientrare con lui nella loro casetta d’estate poco distante. Ma lui quest’anno, per parecchi giorni, ha lasciato la barca attraccata al molo quasi senza neppure guardarla: Corrado pensa, riflette con attenzione, attende che sua moglie forse gli chieda qualcosa, lo incoraggi ad armare lo scafo e ad uscire, ma lei non lo fa. Da pensionati quali sono ambedue, mantengono un ritmo di vita monotono, orari dei pranzi e delle cene sempre gli stessi, comportamenti che sono quasi fotocopie gli uni degli altri; e lui adesso si intestardisce ad attendere un segno, forse gli basterebbe una sola parola, oppure che lei affrontasse una volta per tutte l’argomento di quella sua barca, ma in questo attendere Corrado invece le parla di tutto, compra del pesce al mercato, le propone aperitivi al caffè, passeggiate romantiche lungo la riva del mare e tante altre cose del genere, ma niente di quanto vorrebbe succede davvero.       
La fine dell’estate poi si fa avanti senza che Corrado, da molte settimane, sia più uscito a farsi un giretto con quella sua barca. Allora va al molo da solo e incolla sopra la prua un cartello che ha preparato: vendesi, recita quel piccolo rettangolo di cartone, poi se ne torna nella loro casetta di legno. Lei non chiede niente, trascorrono in questa maniera ancora due giorni, poi lui torna al molo, sempre in solitudine, quasi a sincerarsi che la sua barca ancora galleggi. Il cartello però non c’è più, qualcuno lo ha tolto con attenzione, asportando ogni residuo della colla e del nastro che era servito per tenerlo attaccato. Corrado riflette, ma quella sera si sente silenzioso, non dice quasi niente a sua moglie, anche se cenano insieme e poi vanno a passeggiare sul mare come fanno ogni sera.
            Il giorno seguente però lui tira giù dalla rimessa la vela e tutte le attrezzature della sua barca, giusto forse per far prendere a quelle cose un po’ d’aria, e con quei sacchi sopra le braccia si predispone ad andarsene al molo. Sua moglie lo guarda, poi delicatamente lo tira a sé con un mezzo sorriso, e infine lo bacia sopra la bocca: non serve altro, pensa lui, è tutto perfetto così.

            Bruno Magnolfi

lunedì 9 settembre 2013

Conferma di ogni dubbio. (Pausa n. 4).

          

            Montemerani era rimasto in silenzio mentre lo specialista di malattie neurologiche scorreva con attenzione quei venti o trenta fogli in cui erano state vergate da altri suoi colleghi le caratteristiche della sua poco comprensibile patologia. Provava una leggera tensione restando seduto davanti a quella scrivania, ma i suoi familiari, che tanto avevano insistito per quell’ennesimo consulto, erano riusciti a spingerlo fin lì nonostante il forte sospetto che anche in questo caso si sarebbe fatto un altro buco nell’acqua, e nulla di buono, con molta probabilità, anche stavolta ne sarebbe uscito fuori.
            Lei, signor Montemerani, come si classificherebbe, gli aveva chiesto di punto in bianco, dopo parecchi minuti, il luminare, dandogli una veloce occhiata e ritornando, in attesa di risposta, a ripassare di nuovo quelle carte che continuava ad avere tra le mani. Dopo, era trascorsa una pesante pausa di silenzio, forse quasi più lunga di quello che appariva necessario, e in quella fase lui come ammalato aveva cercato di raccogliere quasi tutte le proprie idee, concentrandosi sulla risposta che era meglio fornire a quest’altro rompiscatole blasonato, pur sfuggendogli, e con un certo dispiacere, il senso proprio di una domanda di quel genere.
            Non aveva mai pensato prima di allora di doversi ascrivere ad una qualche categoria di persone o addirittura di ammalati, di ritrovarsi ad etichettare se stesso come facente parte di una certa schiera, individui probabilmente tutti simili tra loro, come immaginava, riconoscibili magari per certe caratteristiche o per evidenti particolarità, quasi una serie di oscure figure magari a lui semplicemente estranee, ma che all’improvviso, nella sua fantasia, parevano voltare la faccia tutti assieme, e lui con loro, per mostrare un’espressione praticamente identica, o addirittura evidenziando quasi una sottile maschera sul volto, ognuna uguale all’altra.
            Continuava ancora a pensare, il Montemerani, quando l’altro alzava lo sguardo indagatore su di lui, quasi a rendersi conto effettivamente di quanto tempo avesse necessità quel paziente antipatico a rispondere. Allora lui, praticamente per reazione, affondava d’improvviso il suo sguardo solitamente sfuggente, fino oltre quegli occhiali insulsi cerchiati d’oro che aveva di fronte, e biascicava sottovoce quanto in genere si sentisse semplicemente estraneo a tutto quanto. Il medico proseguiva a guardarlo senza assumere un’espressione definibile, forse addirittura cercando di mostrare la sua incredulità a quelle parole, e infine insisteva: estraneo, in quale senso? Faccia un esempio della sua giornata tipo, Montemerani, cerchi di farmi comprendere meglio il suo pensiero.
            Lui si prendeva così ancora del tempo, ma adesso si sentiva persino alleggerito, avendo con questa uscita già detto molto di se stesso, secondo i suoi parametri. All’improvviso si sentiva soddisfatto di essere riuscito ad aggirare l’ostacolo in quel modo, tanto da ritrovarsi una piccola dose di coraggio aggiuntivo, e mormorare con semplicità: per me essere qui o in un altro luogo, praticamente, è la medesima cosa. L’altro faceva scricchiolare le carte, quasi a cercare di comprendere se quel paziente avesse veramente voglia di guarire o no dalle sue piccole manie, ma proprio in quell’attimo Montemerani, ormai a suo agio, si alzava dalla sedia, accomodava sopra la sua faccia un debolissimo sorriso, e in un attimo si voltava per raggiungere la porta dello studio e quindi andarsene.
            Dove va, gli aveva chiesto quasi incredulo ai propri occhi, pur dietro i suoi occhiali, il professore; ma Montemerani a quel punto non si degnava neppure di rispondergli, e ormai raggiunta la porta e scivolato dentro al corridoio di quella clinica, semplicemente alzava un po’ di più le spalle, lasciando dietro a sé l’interezza di quei dubbi che aveva sparso anche sopra la scrivania del luminare, sollevato per essere riuscito perfettamente, anche in questo caso, a confermarli tutti.


            Bruno Magnolfi

domenica 1 settembre 2013

Maschera d'uomo

           
            Certe rare volte mi fermo a pensare. E’ come se mi sforzassi così facendo di essere qualcuno che so perfettamente di non essere, e in questo sforzo accarezzassi quasi l’idea di poter assomigliare a un uomo migliore. In seguito naturalmente sorrido di questi pensieri, ci passo sopra e mando avanti le mie attività di ogni giorno. I ragazzi che lavorano con me credo mi temano, o almeno abbassano immediatamente lo sguardo quando rimprovero loro qualcosa. Nel nostro mestiere non ci possono essere incertezze, ognuno deve sapere perfettamente cosa sta facendo, e soprattutto deve decidere in fretta se ogni cosa da fare sia quella giusta, la più adeguata, senza tirarsi mai indietro.
            Facciamo traslochi al nero, utilizzando per il trasporto soltanto un vecchio furgone scassato. La nostra pubblicità è il passaparola, ci chiamano soltanto le famiglie dei disgraziati che possono spendere poco, che vogliono risparmiare sulle tasse, molto spesso gente sfrattata che piange a lasciare le stanze dove ha abitato una vita, e certe volte capita che qualcuno di loro voglia pagare ancora meno di quanto chiediamo: una volta sistemate le cose non si fanno trovare, oppure cercano di darci degli assegni scoperti, dei soldi falsi, insomma tentano di tirarci una fregatura, ma quando intervengo personalmente tutto in genere si sistema abbastanza alla svelta.
            I ragazzi a volte credono che dentro di me io abbia una crudeltà innata, una capacità di risultare inflessibile anche di fronte a situazioni così strappalacrime, ma non è vero, perché in realtà io cerco soltanto di portare avanti il principio secondo cui i patti vanno sempre e comunque rispettati. Non scherzo quasi mai con i miei ragazzi, questo è vero, ma soltanto perché cerco di conservare una gerarchia tra di noi, la capacità di starsene ognuno al suo posto. Il primo di loro che sgarra, naturalmente, perde il lavoro. Anche chi si fa male viene mandato via, perché il tipo che non sta attento a quello che fa non va bene per questo mestiere. Siamo tutti iscritti nelle liste di disoccupazione, non facciamo un mestiere, siamo senza lavoro, stiamo solo in attesa che qualcuno ci trovi un posto, un lavoro qualsiasi, un’attività migliore di questa.
            Quando stiamo sistemando la mobilia e ci accorgiamo che in giro c’è qualche divisa, ad esempio, smettiamo immediatamente di andarcene su e giù per le scale, e ci disperdiamo il più in fretta possibile, ognuno per sé, per poi ritrovarci un’ora più tardi sul marciapiede di prima, controllando con attenzione che tutto adesso sia a posto. Ma anche se ci prendono tutti quanti con la roba sopra le braccia, siamo assolutamente pronti a dire che stiamo dando semplicemente una mano a un amico. Non c’è niente di male, ci aiutiamo tra noi, questo diciamo.
            Poi un giorno arriva un tizio, dice che in questo quartiere si deve pagare per fare traslochi. Lo guardo, i miei muscoli sono allenati, non credo di avere paura di nessuno. Mi fa vedere un coltello nel corridoio del condominio e allora abbasso la testa, i ragazzi stanno dietro di me, quando quello va via dicono che non avrei potuto fare nient’altro. Allora mi fermo ancora a pensare, forse domani non lavoriamo, dico agli altri, ci vuole una pausa ogni tanto. Prendo il furgone e me ne vado. Arrivo a casa alla svelta, da solo, ma non me la sento di salire le scale. Qualcosa inizia a incrinarsi, penso; lo sapevo che prima o poi doveva succedere. Nella mia testa ci sono tutte le facce di quei disgraziati che devono andarsene dalla loro casa. Sono fortunato, rifletto, nessuno per adesso mi manda via da queste due stanze. Ma non può durare, lo sento, qualcosa deve cambiare: sono stufo di fare il cattivo con tutti; sono stanco di pretendere soldi e di odiare la gente; ci deve pur essere, penso da solo, la possibilità anche per me di mostrare come sono davvero.


            Bruno Magnolfi 

venerdì 30 agosto 2013

Sensibilità premiata.

            In questo momento non c’è nessuno nel piccolo locale, e da sola la ragazza del bar riordina tazze e bicchieri dietro al suo bancone. Poco movimento in questa stagione, pensa, e con quei pochi clienti che circolano là dentro bisogna essere particolarmente cortesi, incoraggianti, capaci di rendere un qualsiasi caffè, una birra, oppure un bicchierino, qualcosa di più di una semplice pausa. Lei ogni tanto osserva la strada oltre la vetrina, e le pare quasi che tutto il mondo là fuori sia da qualche tempo più distante di sempre, come se un diaframma inamovibile separasse l’interno dall’esterno di quella bettola dove lavora ormai da quattro anni. E’ soltanto una sensazione, pensa cercando di sorridere tra sé di quelle sue sciocchezze, ma se il suo futuro sembra ormai così delineato, se è ben consapevole che se anche tra qualche tempo non lavorasse più in quel locale sarebbe semplicemente per occuparsi in un posto del tutto simile, quel sentimento che prova adesso è cosciente che probabilmente non l’abbandonerà mai più.
Entra un uomo che non ha mai visto, dice buongiorno, e lei, e asciugandosi le mani al grembiulino, chiede subito con garbo cosa possa servirgli. Una birra, dice il tizio senza aggiungere altro, poi si siede ad un tavolino voltando quasi le spalle al bancone, probabilmente per osservare meglio la strada dalla vetrata che gli rimane accanto. La ragazza versa la birra con accuratezza, in modo che si formi poca schiuma, mette il calice sopra un piccolo vassoio e lo porta fino al tavolo. Poi, dopo un sorriso, riprende la sua posizione dietro al bancone, ma il suo interesse adesso è attratto esattamente da ciò che è intento ad osservare l’uomo, quasi a voler anticipare quel che sembra attendere lui, forse una donna, pensa, forse un amico.
            Trascorrono i minuti, ma niente accade, l’uomo ha quasi finito la sua birra, sembra nervoso, ma prosegue ad osservare la strada squadrando le persone che passano lungo il marciapiede. Infine si alza, paga la sua birra, saluta la ragazza e fa per uscire, ma qualcuno lo ferma proprio sulla porta, quindi rientra insieme a lui, lo lascia sedere allo stesso tavolino di poc’anzi, e mentre sembra quasi trattarlo con severità, si sistema comunque a sedere di fronte a lui, in attesa di essere servito. La ragazza si avvicina, sorride ai due invitandoli ad ordinare, il nuovo arrivato chiede soltanto un caffè, e l’uomo di prima semplicemente un bicchiere d’acqua.
            Hanno ambedue uno strano comportamento, lei non capisce neppure come sia meglio comportarsi, ma cerca semplicemente di essere gentile e sorridente. Loro parlano, ma estremamente sottovoce, come a scambiarsi quasi dei segreti. Alla fine vanno via, fanno un semplice gesto di saluto, lei vede da dietro al bancone che hanno lasciato i soldi sopra al tavolino, ma continua a seguire con lo sguardo i due mentre escono dal suo locale e si allontanano. Poi va a liberare il tavolino, e si accorge solo allora che sotto al posacenere le è stata lasciata una grossa mancia, perfino esagerata, quasi quanto lei riesca a guadagnare in una intera giornata di lavoro. Allora si precipita a guardare meglio i due uomini mentre si stanno allontanando, loro si voltano dalla strada quasi intuendo di essere osservati, dicono qualcosa tra di loro, forse le fanno un ulteriore cenno, quasi alla ricerca di un saluto speciale da lasciarle, poi alla fine però spariscono alla vista.
            Bruno Magnolfi

mercoledì 28 agosto 2013

Senza capo né coda.

            
            Lui scende le scale quasi di corsa, entra in auto, attraversa il quartiere e imbocca il casello autostradale, direzione nord. Si ferma dopo mezz’ora in un’area di ristoro, ordina un caffè, si siede ad un tavolino e ripensa all’espressione dolce di lei mentre stava dormendo. Lei, svogliatamente, senza alcuna preoccupazione, si alza dal letto dopo un po’, accende la radio, si fa una doccia, poi va a sedersi e lascia che i suoi pensieri scorrano nella sua mente senza neppure provare a interromperli. Dopo giorni di caldo e tempo immobile, adesso si è alzato il vento, ed a lei questo sembra proprio il segno che andava aspettando, senza neppure aver saputo fino ad allora che attendeva qualcosa.
            Lui si sente come in mezzo ad un guado, non ha più alcuna voglia di spingersi avanti, ma non prova neppure una vera necessità di tornarsene indietro. Alla fine aspetta semplicemente la prossima persona che entrerà dentro al locale: se è un uomo, pensa, farà una cosa; se invece è una donna, farà l’altra. Infine si alza, paga la consumazione, rientra nella sua macchina, percorre il tratto autostradale fino al primo casello, e poi torna indietro.
            Lei lo aspetta, sa perfettamente di vederselo arrivare addirittura in quella stessa mattina, e anche se ancora non ha deciso come farsi trovare, sa che resterà in silenzio, per permettergli di dire tutto ciò che ha pensato di loro due. Non ha alcuna importanza essersi visti o meno per tutto quel periodo, a suo parere; ciò che conta davvero è adesso, ciò che può avvenire in questa giornata qualsiasi, e non perché debba succedere qualcosa di particolare, ma soltanto perché le pare che qualcosa nell’aria abbia deciso così per loro due.
            Poi si trucca leggermente davanti allo specchio, indossa un vestito elegante con indifferenza, cerca una borsa adatta alle scarpe, e infine esce, senza nessuna preoccupazione se non dove andare, senza riflettere sui veri motivi che la portano fuori di casa. Comunque ha il telefono con sé, e questo le pare già sufficiente.
            Lui parcheggia lungo la strada, riflette per un attimo restando seduto nell’auto, infine si muove, cammina lungo il marciapiede e raggiunge il portone del condominio dove abita lei. Suona il campanello, attende diversi secondi, torna a premere con decisione il piccolo pulsante, ma al citofono non risponde nessuno. Si volta, torna perplesso verso la sua macchina, ma si ferma, poi attraversa la strada, osserva con calma i clienti dentro i negozi e i caffè della zona. Immagina di incontrarla per caso, magari riuscire ad osservarla attraverso una vetrina mentre lei non lo vede, ma per quanto continui a cercarla, di lei non sembra ci sia alcuna traccia.
            La giornata scorre, lui torna indietro, sale sulla sua auto, fa il giro completo delle strade di quell’isolato; poi se ne va. Lei sopra l’autobus osserva più volte il suo telefono portatile, senza trovarvi alcun mutamento. Quando decide che è l’ora di tornarsene a casa, si sforza di rimanere in giro ancora per qualche decina di minuti, camminando a caso senza una meta. Qualcosa non gira perfettamente nella loro relazione, pensano separatamente ambedue. Non importa, riflettono: ci saranno altre occasioni, altre giornate, altre possibilità, ed anche se probabilmente non sarà mai più la medesima cosa, avranno altro tempo da dedicare con grande impegno a tutte queste sciocchezze.

            Bruno Magnolfi

lunedì 26 agosto 2013

Al centro del vuoto (ritratto n. 13).

Uno dei ragazzi le dice qualcosa a voce alta ridendo, Argenta senza fretta si volta all’indietro come sostenendo una parte, lascia in aria un’impercettibile pausa, poi fa segno di no con la testa, e riprende a camminare guardando avanti a sé in piena tranquillità, allontanandosi. Al pomeriggio generalmente arriva per ultima ed è sempre la prima ad andarsene via, qualcuno ogni tanto lo fa notare a voce alta, ma a lei non importa, i suoi orari quasi sempre sono quelli, e poi ha spesso qualcos’altro da fare, e a lei non dispiace allontanarsi quando tutto il gruppo è ancora lì, a far niente, senza neppure un motivo buono per tirare a far tardi in quel modo.
            Certe volte dicono di lei che è la più strana tra tutti, e forse lei ne è consapevole, ma quello ormai è il suo personaggio, quello che ha deciso da sempre di interpretare, e ci sono dei giorni in cui farebbe di tutto pur di non uscire neanche per un attimo da quella sua parte. Non cerca di nascondere alcun lato di sé, ma è consapevole come il suo tormento più forte alla fine sia proprio la noia, ed è per questo motivo che sta sempre a cercare di prevenire il momento in cui potrebbe iniziare a provarla. Qualcuno del gruppo evita persino di rivolgersi direttamente ad Argenta, forse soltanto per evitare le sue sparate taglienti ed il suo gusto polemico. Lei sorride, cerca di far pesare la sua presenza, anche se non le piace quasi mai essere al centro dell’attenzione.
            Gli altri, quando non c’è, dicono che la sua famiglia sia piena di soldi, e lei non nega mai questa notizia quando ne parlano, anche se sa perfettamente che non c’è niente di vero in quelle parole. Le piace la solitudine, forse ancora di più che starsene in mezzo a quella comitiva di sfaccendati, ed il resto del gruppo questo non riesce del tutto a comprenderlo. Certe volte a lei piace anche non farsi vedere per niente all’ora in cui si radunano tutti quanti davanti al solito chiosco di bibite dei giardinetti. Magari passa da lì lungo la strada adiacente con il suo motorino, saluta qualcuno con un cenno della mano, e tira diritto, consapevole di non avere una meta, ma fiduciosa di trovare in fretta un luogo interessante verso dove dirigersi. Spesso pensa che non le porterà mai niente di buono un comportamento del genere, ma non riesce ad agire in maniera diversa, e con tutta sincerità neppure lo vuole.
            Poi un giorno arriva, si siede in silenzio ad uno dei tavolinetti sopra la ghiaia, qualcuno dei ragazzi la saluta senza troppa enfasi. Lei prende una lattina di aranciata dal chiosco, torna a sedersi vicino agli altri, in silenzio, ma in due o tre si alzano, dicono che devono andare, ed altri affermano che vogliono accompagnarli, e in un attimo Argenta si ritrova da sola, senza che sia riuscita neppure a finire di bere quella sua lattina. Allora si alza, si sente stizzita anche se non vorrebbe, per la prima volta è da sola in un posto generalmente sempre pieno di gente. Getta la lattina con ancora un po’ d’aranciata dentro al cestone, si muove con incertezza, perplessa, infine torna lentamente verso il suo motorino, lo avvia, e senza alcuna convinzione riparte: forse non tornerà mai più in quel ritrovo di amici, pensa;  o almeno lascerà trascorrere un bel po’ di tempo prima di farsi vedere ancora da quelle parti. In ogni caso rifletterà molto a fondo su tutto quanto, di questo ne è più che sicura.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 31 luglio 2013

Real Alta Velocità. (Pausa n. 3

         
            Trascorro settimane di indifferenza verso tutto, rimanendo seduto in una vecchia poltrona sfondata davanti al televisore. Poi mi alzo, esco, salgo su un autobus ed arrivo diritto fino al capolinea, in una periferia assurda di palazzoni. In un condominio occupato da disgraziati salgo le scale ancora a cemento cercando un amico che sono sicuro abita qui. Sono stato in questo posto soltanto in una occasione, ma è la prima volta che sono da solo, e forse per questo mi sento osservato mentre ascolto parecchie voci che si esprimono urlando oltre i muri stonacati dei pianerottoli. Potrei benissimo essere sotto il tiro di una carabina ad aria compressa, penso, il cui sparo non è assolutamente mortale, ma è silenzioso, e se colpisce la zona dei testicoli può provocare dei danni irreparabili e tali da non farmi tornare mai più la voglia di farmi vedere in questi paraggi.
L’amico non c’è, mi dice un tizio che richiude subito dopo la porta senza darmi nessuna indicazione, ed io, sempre mostrando le mani ben lontane dal corpo e dalle tasche, ritorno da basso, e vado a sedermi su un muretto di mattoni accatastati poco distante in mezzo alla polvere, cercando di riflettere su ciò che posso fare di meglio. Nessun numero di telefono, nessuna rubrica in questo ambiente, posso solo tornare di nuovo. Una cicciona con la gonna troppo corta, mentre cammina per i fatti propri, dice che potrebbe farmi un pompino per cinque euro. Non ho soldi, rispondo, e osservo la mia figura svanire dietro la retina dei suoi occhi. La immagino mentre sputa per terra la sborra acquosa di qualche vecchio, ed un leggero urto di vomito mi prende, forse perché non mangio qualcosa di serio, che non siano i panini ketchup e maionese del Burgy, ormai da giorni.
            Dei ragazzi là attorno tirano in malo modo pedate a un pallone. Sembrano quasi violentemente cercare di svagarsi, ma il quotidiano è ad alta velocità, penso mentre li guardo: se questi ragazzi non riusciranno a cogliere il giusto momento saranno esclusi per sempre da tutto. Devo tornare per forza da queste parti domani, rifletto, a cercare l’amico magari in orario diverso da oggi. E’ un piccolo spacciatore, una persona tranquilla e cortese, se non riesco a farmi dare una mano da lui non ho altra scelta che borseggiare una vecchia. La realtà da queste parti sembra lasciare alle spalle una radiografia di se stessa ogni pochi minuti, e i risultati si possono quasi apprezzare sui monitor dei cellulari in mano e in tasca a chiunque in tutta la zona, anche se risultano un vezzo, degli oggetti praticamente inservibili e inutili, dei talismani contemporanei.
            Affronto un buon tratto a piedi tanto per perdere tempo e pensare a qualcosa, poi sosto ad una fermata per prendere l’autobus, assieme ad un paio di neri che continuano a parlare tra loro con voce persino troppo alta. Ammazzerei chi non sa stare al suo posto, rifletto, ma devo imparare la tolleranza come arma per fronteggiare ogni tipo di avversità. Studio i quartieri, le persone che vedo, tutta la città che scorre fuori dai vetri, poi scendo di corsa dal mezzo pubblico, quando avvisto ad un’altra fermata la ferrea divisa del controllore di biglietti.
            Attraverso l’intero quartiere pulcioso dove c’è la mia stanza, e poi torno immediatamente alla fida poltrona sfondata, giusto per accorgermi che il televisore è rimasto acceso per tutto il tempo, sintonizzato su un programma qualsiasi che mi pare di non avere mai visto. Meglio così, penso: alla fine è proprio come se non mi fossi mai mosso da qui. Devo continuare a studiare, rifletto, alla fine sono sicuro che mi risulterà assolutamente chiaro e evidente il percorso da fare.

            Bruno Magnolfi


sabato 27 luglio 2013

Soffio di vita. (Bionda, naturalmente).

            
            Osservo da lontano la lunga fila di luci accese da poco sul litorale, in un’altra zona del golfo, e la sensazione visiva dell’esistenza di persone che si muovono, che stanno organizzando la loro serata, che magari in questo esatto momento si stanno già preparando per andarsene a cena, all’improvviso mi fa sentire tranquilla. E’ trascorso soltanto un anno da quando sono partita da questo luogo di mare e di villeggiatura a cui mi sento così intimamente legata, eppure non so perché mi sembra sia trascorso molto più tempo. Non è accaduto niente di fondamentale da allora, ma questo alla fine non ha troppa importanza, perché in fondo penso che le cose siano comunque andate avanti, ed anche le variazioni più impercettibili, quelle che certe volte davvero neppure si notano, spesso vadano apprezzate come fossero vere piccole rivoluzioni globali.
            Ho preso una camera nel medesimo albergo di un anno fa, ed un paio di persone mi hanno salutata con un certo calore riconoscendomi. Da qui riesco ancora a pensare intensamente a mia madre, al ricordo dei suoi silenzi apparenti, in realtà pieni di voce e di parole, mentre proseguo a camminare sul marciapiede della strada costiera. Credo proprio però che i miei sforzi interpretativi dei segni che conservo di lei, debbano adesso interrompersi, prima che il mio comportamento diventi una vera patologia; e credo proprio che la cosa migliore sia che tutto questo avvenga proprio qui, dove il suo sottile soffiarmi la verità in un orecchio, mi ha fatto scoprire tanto di lei e di me.
            Chissà dove sarà a quest’ora quella nave petroliera che l’estate passata era rimasta ancorata per giorni laggiù, vicino all’orizzonte, penso all’improvviso, quasi alla ricerca di un legame che adesso non c’è più. Forse queste cose hanno un suo tempo per esplicarsi, per chiarire qualcosa di sé; poi diventa inutile, addirittura dannoso cercarne ancora un aggiornamento: resta soltanto un filo di memoria, che non può essere né esatta né riduttiva, ma anzi, per certi versi può risultare capace di rendere tutto quanto nella nostra mente ancora più magico e ricco.
            Poi interrompo il cammino, mi volto lungo la strada e alla fine torno quasi frettolosamente verso la mia camera d’albergo. Probabilmente ho già visto tutto ciò che desideravo vedere, ho preso le decisioni che avevo da prendere, non ho necessità di spingermi ancora più avanti: dormirò in questo letto stanotte, domani mattina poi partirò, credo non abbia alcun senso trattenersi ancora in questi paraggi. Però vorrei lasciare qualcosa di me in questo luogo che tante cose, senza volerle, ha lasciato a me con grande naturalezza. C’è una candela bianca su un tavolinetto della mia camera: l’accendo, attendo con pazienza che la fiamma sia ben definita, che lasci fondere quel poco di cera che serve, poi la sollevo.
            La prendo, mi sposto, mi accosto allo specchio ovale incorniciato sulla parete, e avvicino il mio viso a quella superficie illuminata dalla fiammella; ecco, penso, adesso non sono più quella bionda che la mia stessa esistenza sembrava avermi voluto far essere, ho lasciato negli ultimi tempi che i miei capelli perdessero il colore delle tinture e riprendessero il loro tono naturale. Mi guardo ancora un momento, sostengo non calma la candela tra me e questo specchio, e infine, quasi con gli occhi chiusi, spengo la fiamma con un forte sbuffo di fiato. La cera calda spruzzata sopra lo specchio sarà la mia firma, il mio piccolo soffio di vita, tutto il ricordo di me e di questo passato, per quanto non possa resistere a lungo; e comunque il mio grazie a questo luogo di mare.

            Bruno Magnolfi

martedì 23 luglio 2013

Occasioni sfiorate. (Pausa n. 2)

Un uomo, seduto davanti ad un bar di paese, mi osserva senza interesse mentre percorro lentamente con la mia automobile la strada provinciale che attraversa quel gruppo di case e passa praticamente davanti ai suoi piedi. Sta lì, nel caldo estivo e indolente del primo pomeriggio, la tazzina di caffè già consumato sul piano del tavolino accanto a sé, le braccia a riposo, lo sguardo quasi perso nel niente. Rallento, accosto la macchina, mi fermo, scendo con flemma, torno indietro di quei pochi passi fino all’entrata del bar.
            Buongiorno, dico all’uomo da solo che sta evitando di guardarmi in modo diretto; lui allora mi concede una sbirciata con un minimo di cura, è sicuro che non mi conosce, forse non gli resto neppure troppo simpatico, penso, però bofonchia qualcosa pressoché incomprensibile come fosse un saluto. Posso offrirle un caffè, magari mentre ne prendo uno anche io, gli fo. Va bene, dice lui, e il cameriere incuriosito che guarda giusto in quell’attimo verso di me per valutare quali intenzioni io abbia, mette subito sotto pressione la macchina e procede al volo con il suo lavoro.
            Mi siedo dalla parte opposta del tavolino e assieme, io e l’uomo, guardiamo la strada praticamente deserta a quell’ora calda e un po’ uggiosa. Chissà quante cose sono successe lungo questa via, proprio davanti a queste case, fo io tanto per cercare di parlare. Lui annuisce, ma prosegue a restare in silenzio. Qualcosa è successo, dice alla fine, ma non è di alcun interesse pensare troppo a cose del genere, avvenute non so neanche più quanti anni fa. Una ragazza attraversava la strada, un giorno, sorridente, quasi di corsa, giusto per fermare me e il mio amico, non avevamo neppure vent’anni a quell’epoca, e poi dava un bacio frettoloso al mio amico, per poi andarsene, frettolosamente, nella stessa maniera come era arrivata.
            La conoscevamo di vista, ma non ci avevamo parlato neppure una volta; rimanemmo di stucco, incapaci di proseguire con le nostre cose come se nulla fosse successo. Nei giorni seguenti non accadde un bel niente, il mio amico era troppo timido per andare a cercarla o chiederle qualcosa incontrandola magari per caso. Così in seguito lei si era trovata un fidanzato e quel suo gesto era rimasto senza alcun seguito. Certe volte mi chiedo cosa avrei fatto io se fosse accaduta a me la medesima cosa. Lei era bella, la più bella di tutte le ragazze della nostra età, e il suo sorriso metteva quasi soggezione, ma io credo avrei superato qualsiasi timore, e sarei andato da lei, le avrei parlato, avrei cercato in ogni caso di dare un seguito a quella faccenda.
            Arrivano i caffè, mettiamo lo zucchero, giriamo nelle tazzine con i cucchiaini. Va bene, dico io, però non si può vivere soltanto di rimpianti, mentre mi porto alla bocca il primo piccolo sorso caldo e cremoso. Lo so, dice lui, ma poi non è successo più niente di buono, soltanto le solite cose che si possono immaginare con facilità. Beve il suo caffè guardando ancora la polvere sopra la strada, poi appoggia la tazzina sul tavolino, e dice ancora: non me ne importava un bel niente di quella ragazza, ma sapere che la mia vita avrebbe potuto prendere un svolta diversa, questo si che mi interessava, anche se all’epoca non lo sapevo neppure, non immaginavo che forse poteva essere quella la mia buona occasione. Infine si alza, mi ringrazia con un saluto appena accennato, quindi, senza un briciolo di fretta, se ne va. Attraversa la strada e fatti pochi passi entra dentro un portone sparendo alla vista.
Rifletto un momento su quanto mi ha detto, mi sembra davvero quasi incredibile rimanere ancorati ad un ricordo del genere, poi però lascio i soldi dei caffè al cameriere, mi alzo da quella sedia di plastica e riprendo per la mia strada. Adesso mi pare di vederla quella ragazza, mi fa quasi star male non essere stato lì, esattamente in quel momento, così mi fermo e mi volto; forse, in qualche maniera, penso tra me, la sto proprio cercando.

            Bruno Magnolfi   

Occasioni sfiorate. (Pausa n. 2).

           

            Un uomo, seduto davanti ad un bar di paese, mi osserva senza interesse mentre percorro lentamente con la mia automobile la strada provinciale che attraversa quel gruppo di case e passa praticamente davanti ai suoi piedi. Sta lì, nel caldo estivo e indolente del primo pomeriggio, la tazzina di caffè già consumato sul piano del tavolino accanto a sé, le braccia a riposo, lo sguardo quasi perso nel niente. Rallento, accosto la macchina, mi fermo, scendo con flemma, torno indietro di quei pochi passi fino all’entrata del bar.
            Buongiorno, dico all’uomo da solo che sta evitando di guardarmi in modo diretto; lui allora mi concede una sbirciata con un minimo di cura, è sicuro che non mi conosce, forse non gli resto neppure troppo simpatico, penso, però bofonchia qualcosa pressoché incomprensibile come fosse un saluto. Posso offrirle un caffè, magari mentre ne prendo uno anche io, gli fo. Va bene, dice lui, e il cameriere incuriosito che guarda giusto in quell’attimo verso di me per valutare quali intenzioni io abbia, mette subito sotto pressione la macchina e procede al volo con il suo lavoro.
            Mi siedo dalla parte opposta del tavolino e assieme, io e l’uomo, guardiamo la strada praticamente deserta a quell’ora calda e un po’ uggiosa. Chissà quante cose sono successe lungo questa via, proprio davanti a queste case, fo io tanto per cercare di parlare. Lui annuisce, ma prosegue a restare in silenzio. Qualcosa è successo, dice alla fine, ma non è di alcun interesse pensare troppo a cose del genere, avvenute non so neanche più quanti anni fa. Una ragazza attraversava la strada, un giorno, sorridente, quasi di corsa, giusto per fermare me e il mio amico, non avevamo neppure vent’anni a quell’epoca, e poi dava un bacio frettoloso al mio amico, per poi andarsene, frettolosamente, nella stessa maniera come era arrivata.
            La conoscevamo di vista, ma non ci avevamo parlato neppure una volta; rimanemmo di stucco, incapaci di proseguire con le nostre cose come se nulla fosse successo. Nei giorni seguenti non accadde un bel niente, il mio amico era troppo timido per andare a cercarla o chiederle qualcosa incontrandola magari per caso. Così in seguito lei si era trovata un fidanzato e quel suo gesto era rimasto senza alcun seguito. Certe volte mi chiedo cosa avrei fatto io se fosse accaduta a me la medesima cosa. Lei era bella, la più bella di tutte le ragazze della nostra età, e il suo sorriso metteva quasi soggezione, ma io credo avrei superato qualsiasi timore, e sarei andato da lei, le avrei parlato, avrei cercato in ogni caso di dare un seguito a quella faccenda.
            Arrivano i caffè, mettiamo lo zucchero, giriamo nelle tazzine con i cucchiaini. Va bene, dico io, però non si può vivere soltanto di rimpianti, mentre mi porto alla bocca il primo piccolo sorso caldo e cremoso. Lo so, dice lui, ma poi non è successo più niente di buono, soltanto le solite cose che si possono immaginare con facilità. Beve il suo caffè guardando ancora la polvere sopra la strada, poi appoggia la tazzina sul tavolino, e dice ancora: non me ne importava un bel niente di quella ragazza, ma sapere che la mia vita avrebbe potuto prendere un svolta diversa, questo si che mi interessava, anche se all’epoca non lo sapevo neppure, non immaginavo che forse poteva essere quella la mia buona occasione. Infine si alza, mi ringrazia con un saluto appena accennato, quindi, senza un briciolo di fretta, se ne va. Attraversa la strada e fatti pochi passi entra dentro un portone sparendo alla vista.
Rifletto un momento su quanto mi ha detto, mi sembra davvero quasi incredibile rimanere ancorati ad un ricordo del genere, poi però lascio i soldi dei caffè al cameriere, mi alzo da quella sedia di plastica e riprendo per la mia strada. Adesso mi pare di vederla quella ragazza, mi fa quasi star male non essere stato lì, esattamente in quel momento, così mi fermo e mi volto; forse, in qualche maniera, penso tra me, la sto proprio cercando.


            Bruno Magnolfi   

sabato 20 luglio 2013

Senza colore.

   Un uomo non è mai del tutto libero, dicono, tantomeno se si chiama Ernesto, così come si chiama lui, e se come lui va tutti i giorni a piedi dalla sua catapecchia fino alla frazione Ramazzotti, per lavorare come bracciante, a giornata, come gli altri, nel podere di quei Conti Lanzi, proprietari dei terreni. C’è un caporale là sul posto, ogni mattina li aspetta, ed impartisce gli ordini, poche parole essenziali dette in malo modo, con voce rauca e decisa, con le maniere di chi considera quella manciata di lavoratori quasi una semplice nullità. Sono in cinque, a volte in sei, ma Ernesto è l’unico italiano, gli altri sono tutti senegalesi, conoscono poche parole nella lingua di quel caporale, ma ugualmente capiscono tutto alla perfezione.

            Ernesto non parla con nessuno, ascolta i comandi, ripete a volte le parole dentro di sé, poi abbassa la testa, mostrando segno che ha compreso, e subito si muove, prende gli attrezzi che gli servono, si mette a lavorare, insieme agli altri. Mentre suda sotto al sole pensa che fra qualche giorno sarà sabato, la sera indosserà la sua camicia pulita, andrà a piedi di nuovo, come tutti i giorni, fino alla frazione Ramazzotti, al circolino del paese, e passerà la sera a bere e a ridere insieme agli altri uomini. Al circolino i senegalesi non ci vanno, restano tutti nella loro stalla anche al sabato, e non si fanno mai vedere in giro quando gli uomini del posto hanno bevuto e parlano tra loro a voce alta.
            Ad Ernesto non importa, ride quando gli altri ridono, lascia che qualcuno lo prenda in giro come sempre, si sente ogni tanto al centro dell’attenzione e forse non gli importa d’altro, almeno al sabato. Però non gli piace quando qualcuno parla male dei senegalesi, e dice qualcosa contro di loro soltanto perché appaiono differenti. Non sono suoi amici quei ragazzi magri e neri, non ha molto da spartire con loro, lo sa bene, però quelli sudano sotto al sole insieme a lui, e questo per Ernesto è forse più importante d qualsiasi altro elemento.
            Sarai mica diventato come loro, gli dicono a volte al circolino, e lui quasi sempre se la ride. Poi però lo spingono fuori, durante un giorno forse un po’ diverso, e hanno la faccia brutta, gli dicono a muso duro che almeno quella sera lui deve andarsene da lì, sei soltanto come loro, gli ripetono, nessuno ride, e qualcuno da dietro gli assesta all’improvviso una legnata nella schiena. Ernesto cade subito a terra nella polvere della strada davanti al circolino, nessuno lo difende, nessuno gli chiede di rialzarsi, se ne vanno, e a lui pare impossibile che stia accadendo tutto questo.
            Ma non è tanto grave per una pelle dura come lui, si rialza da solo, se mette a camminare, si sente soltanto un po’ dolorante dappertutto, ma ce la fa a ritornare alle sue due stanze dove abita. Gli viene da piangere mentre percorre al buio tutto quel tratto di strada che lo separa dalla sua branda, c’è qualcosa sicuramente che non ha capito, qualcosa che non vuole proprio entrargli nella testa.  Adesso però si sente un po’ più amico dei senegalesi, loro sudano sotto al sole proprio come lui, e lui ha qualcosa da condividere con loro: andrà da loro la prossima volta, starà nella stalla dove stanno loro anche di sabato, e saprà che c’è qualcosa in più da accennare con la testa, anche se non ci sono le parole nella lingua giusta per spiegarsi.
            Starà lì con loro, nel buio di quella stalla dove abitano quei musi neri, e c’è quel sudare tutto il giorno che adesso li accomuna anche di più, e se quando qualche volta ci sarà da schierarsi da qualche parte, adesso Ernesto sa perfettamente da quale lato dovrà mettersi.

            Bruno Magnolfi