mercoledì 25 settembre 2013

domenica 22 settembre 2013

Via dalla mia vita

http://magnonove.blogspot.it/2010/08/via-dalla-mia-vita.html

Via dalla mia vita.

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lunedì 16 settembre 2013

Accoglienza.

            
            Mi rannicchio su un comodo sedile imbottito in fondo a questo vagone del treno locale, ci sono pochi passeggeri a quest’ora, e ascolto con attenzione il ritmo delle ruote che scorrono sopra ai binari, lasciando che tutti i miei problemi volino fuori da qui assieme all’aria che accarezza all’esterno le lamiere di metallo, le parti meccaniche, le maniglie delle porte, il vetro dei finestrini. C’è persino qualcosa di familiare in un luogo pubblico come questo, qualcosa che adesso mi pare persino protettivo, anche se capisco perfettamente quanto il mio comportamento si mantenga su un equilibrio un po’ precario, a cavallo tra intimità e incomprensione.
            Non so neppure da cosa stia fuggendo davvero, sono salito qua sopra quasi senza pensare: forse per un momento mi aveva attraversato soltanto la voglia puerile di andarmene dai soliti luoghi di sempre. Via dalla città, ho riflettuto, una corsa serale nella vasta provincia ad affrontare qualcosa di nuovo, di diverso, ecco il ragionamento di base. Adesso aspetto soltanto di avvistare la divisa del controllore, poi credo mi chiuderò a chiave dentro la ritirata qui accanto, e scenderò di gran corsa alla prima fermata del convoglio, quando il personale di servizio apre le porte e va sul marciapiede, perché non ho alcun biglietto, non ho valigia, non ho neppure i documenti personali, sono un niente, penso, forse soltanto un fastidio.
            Avrò freddo più tardi, uscirò da una piccola stazione di paese e affronterò una piazza qualsiasi, con due o tre persone che parlano e un caffè ancora aperto, e camminerò in fretta, allora, come rincorrendo qualcosa che neanche immagino, lasciandomi alle spalle la maggior parte possibile di tutto, senza pormi alcuna domanda. Cadrò per la stanchezza in un angolo, quando la notte si farà sentire di più, e chiuderò gli occhi girando lo sguardo verso l’interno, ma non per cercare in me la chiarezza, ma soltanto per ritrovare me stesso, almeno ancora una volta. Domani, con la luce del giorno, qualcosa probabilmente accadrà, e qualcuno forse si sentirà solidale con me. 
            Per adesso il treno procede, sembra quasi sospeso nell’aria, poi frena apparentemente con delicatezza, e qualcuno si avvicina dalla mia parte, mi osserva senza insistenza, poi dice qualcosa che però non riesco a comprendere. Sono sporco, immagino, ho la faccia scura e la barba di cinque o sei giorni, chiunque guardandomi riesce a capire di quale categoria io sia parte. Poi rifletto più a fondo: no, non lo so quale sia la stazione prossima, anzi non ne ho la minima idea, non so neppure verso dove ci stiamo realmente dirigendo. L’uomo di fronte a me mi regala un’altra semplice occhiata, poi guarda il tabellone in alto che indica tutto il tragitto.
            Torno a rannicchiarmi proprio come prima, ma adesso la mia intimità se n’è andata, così cerco qualcosa dentro una delle tasche di questa giacca bisunta, ma non trovo niente. L’uomo si volta, torna indietro lungo il corridoio colorato, il treno sta per fermarsi, guardo in giro se per caso ci fosse il controllore, ma all’improvviso sento di essere solo, forse come mai mi sono sentito. Siamo fermi, le porte pneumatiche scorrono, scendo sul marciapiede, sotto la pensilina, e dietro di me c’è ancora quell’uomo. Non si preoccupi, mi dice, questa è la stazione di un paese accogliente.

            Bruno Magnolfi

domenica 15 settembre 2013

Orribile mondo.

            
            Le strade del quartiere sono quelle di sempre, inutile percorrerle sperando di trovarvi qualcosa di nuovo. Teresa sa di essere anziana, ma continua a camminare ugualmente, osservando le poche persone che incontra sui marciapiedi, il suo giro ormai è praticamente dettato da un semplice automatismo, e da quando il medico le ha quasi imposto di farsi quella camminata ogni pomeriggio per almeno un’ora, lei ha percorso praticamente tutti i tracciati possibili attorno alla sua abitazione, anche se tutto questo affannarsi certe volte le appare insulso e persino un po’ inutile. Va avanti comunque, evitando addirittura di rifletterci troppo, e passa e ripassa dai medesimi posti, osserva i portoni chiusi dei condomini, i vecchi muri coperti di scritte assurde e perlopiù incomprensibili, i platani immobili lungo il viale, e tira diritto anche se incrocia ogni tanto qualcuno che conosce almeno di vista: lascia un saluto, certo, a volte un sorriso, ma poi va avanti senza scambiare neppure una parola, perché il medico le ha detto che non deve interrompersi, deve mantenere costante quel ritmo del passo.
            Teresa cammina, va avanti a compiere i giri di sempre, ma un uomo la ferma, le chiede qualcosa, lei non porta mai con sé la sua borsa, alla sua età sa che qualcuno potrebbe cercare di strappargliela, ma quello insiste con strani discorsi, poi la spinge contro un portone, le assesta uno schiaffo, dice che vuole i suoi soldi e che non gli importa se lei non ne ha: andiamo assieme fino al tuo appartamento, le dice in modo violento, e intanto di nascosto le mostra un coltello. Teresa piange, ha paura, abbassa la testa, dice va bene, si avvia verso casa con l’uomo al suo fianco, ma intanto si guarda attorno, cerca un possibile aiuto da qualcuno che forse conosce, ma tutti adesso tirano dritto, non la notano neanche, e poi sanno che con lei non ci si deve neppure fermare.
            I due arrivano così davanti al portone del suo condominio, Teresa apre alla svelta con la sua chiave, dice all’uomo che può aspettarla dabbasso, se vuole, lei andrà a prendere quello che ha dentro casa, e tornerà subito, ma l’uomo non si fida, le va dietro, entra anche lui in malo modo nel piccolo appartamento del primo piano; e all’improvviso, una volta ormai dentro casa, lei si rivolta: vai via, gli dice fissandolo dura con determinazione; guarda dove abito, lo vedi da te che non posso aver soldi, ho soltanto qualche ricordo che per me ha un valore molto maggiore di quello che tu potresti farti pagare. Potrei essere la tua mamma, gli dice, e tu appena uscito da qui con le mie povere cose, potresti pentirti profondamente di quello che hai fatto, anche se sarebbe ormai tardi, e non riusciresti più a tornartene indietro.
            L’uomo resta immobile, forse un filo leggero di vergogna lo attraversa, e allora cerca di dire semplicemente che è disperato, che non sa più come fare per mangiare qualcosa, e se è arrivato a quel punto è soltanto perché non trova altre strade. Teresa lo guarda, si rende conto che ciò che dice è la verità, così alla fine tira fuori da un cassetto un ciondolo d’oro: ecco gli dice, posso darti questo, non è legato a niente della mia vita, ma a te può esserti utile. All’uomo gli si riempiono gli occhi di lacrime, dice che forse adesso non vorrebbe neppure accettare, ma alla fine lo prende, si gira, non sa proprio come accomiatarsi a quel punto, se ringraziarla o se correre via, perché ormai si sente del tutto confuso; mi scusi, dice soltanto alla fine: certe volte sembra di vivere soltanto in mezzo ad un mondo schifoso, ma in altri casi si comprende che non è sempre così.

            Bruno Magnolfi

venerdì 13 settembre 2013

Perfetto. (Pausa n. 5).

           
            In fondo non ha poi alcuna importanza questa bramosia di comprendere, di interpretare al meglio queste giornate e anche tutta questa stagione. Non importa affatto essere o sentirsi all’altezza di questi momenti, riflette Corrado mentre rientra al molo con la sua piccola barca a vela dallo scafo di legno. Il vento quel pomeriggio è girato lentamente verso ovest come molte altre volte ha già fatto, ma questo non significa per nulla che domani sarà una cattiva giornata, pensa, oppure estremamente ventosa. E’ così, pensa ancora Corrado allentando la scotta, proprio nella stessa maniera per cui anche se credo che il mio continuare ad uscire in barca sia solamente per una assodata abitudine, ciò non significa che poi non sia bello farlo, magnifico anzi, come star qui in questo momento a respirare l’aria di mare, e questa brezza così dolce e piacevole.
            Sul piccolo molo c’è sua moglie ad attenderlo, perché lei in genere è ansiosa, e quando Corrado fa qualche bordo con la sua piccola barca, lei non lo perde di vista, spesso aiutandosi anche con un vecchio binocolo. Si sente anziano lui, a volte stanco, ed anche se rimprovera sempre sua moglie di essere una persona terribilmente cocciuta in quel suo non volerlo mai perdere di vista neanche un momento, sa bene che se non fosse per lei probabilmente avrebbe da un pezzo tirato in secco lo scafo, lasciando semplicemente il fasciame ad allentarsi al sole d’estate sopra l’invasatura.
            Gli piace anche sapere che c’è, che lo osserva, anche se sa che per nessun motivo al mondo lei metterà mai piede sopra la sua piccola barca. E’ come se sua moglie ritenesse del tutto necessario, nella personalità di suo marito, quel suo misurarsi periodico durante la bella stagione, con quei venti non sempre troppo leggeri, e quella vela che a volte si gonfia a dismisura e sbanda lo scafo, fino a impegnare l’uomo quasi al suo limite. Lui a volte ci pensa, e non riesce a comprendere completamente a quale necessità corrisponda tutto quel comportamento: sa però che è così, quasi come un elemento acritico dei loro modi di essere, difficilmente modificabili.
            Lei certe volte lo aiuta quando rientra al molo di attracco: gli tiene la prua al vento mentre lui cala la vela e sfila la scotta dai bozzelli, e allenta la drizza, ripone il timone, la deriva e tutte le altre attrezzature prima di fissare la cima alla bitta di ormeggio, per poi rientrare con lui nella loro casetta d’estate poco distante. Ma lui quest’anno, per parecchi giorni, ha lasciato la barca attraccata al molo quasi senza neppure guardarla: Corrado pensa, riflette con attenzione, attende che sua moglie forse gli chieda qualcosa, lo incoraggi ad armare lo scafo e ad uscire, ma lei non lo fa. Da pensionati quali sono ambedue, mantengono un ritmo di vita monotono, orari dei pranzi e delle cene sempre gli stessi, comportamenti che sono quasi fotocopie gli uni degli altri; e lui adesso si intestardisce ad attendere un segno, forse gli basterebbe una sola parola, oppure che lei affrontasse una volta per tutte l’argomento di quella sua barca, ma in questo attendere Corrado invece le parla di tutto, compra del pesce al mercato, le propone aperitivi al caffè, passeggiate romantiche lungo la riva del mare e tante altre cose del genere, ma niente di quanto vorrebbe succede davvero.       
La fine dell’estate poi si fa avanti senza che Corrado, da molte settimane, sia più uscito a farsi un giretto con quella sua barca. Allora va al molo da solo e incolla sopra la prua un cartello che ha preparato: vendesi, recita quel piccolo rettangolo di cartone, poi se ne torna nella loro casetta di legno. Lei non chiede niente, trascorrono in questa maniera ancora due giorni, poi lui torna al molo, sempre in solitudine, quasi a sincerarsi che la sua barca ancora galleggi. Il cartello però non c’è più, qualcuno lo ha tolto con attenzione, asportando ogni residuo della colla e del nastro che era servito per tenerlo attaccato. Corrado riflette, ma quella sera si sente silenzioso, non dice quasi niente a sua moglie, anche se cenano insieme e poi vanno a passeggiare sul mare come fanno ogni sera.
            Il giorno seguente però lui tira giù dalla rimessa la vela e tutte le attrezzature della sua barca, giusto forse per far prendere a quelle cose un po’ d’aria, e con quei sacchi sopra le braccia si predispone ad andarsene al molo. Sua moglie lo guarda, poi delicatamente lo tira a sé con un mezzo sorriso, e infine lo bacia sopra la bocca: non serve altro, pensa lui, è tutto perfetto così.

            Bruno Magnolfi

lunedì 9 settembre 2013

Conferma di ogni dubbio. (Pausa n. 4).

          

            Montemerani era rimasto in silenzio mentre lo specialista di malattie neurologiche scorreva con attenzione quei venti o trenta fogli in cui erano state vergate da altri suoi colleghi le caratteristiche della sua poco comprensibile patologia. Provava una leggera tensione restando seduto davanti a quella scrivania, ma i suoi familiari, che tanto avevano insistito per quell’ennesimo consulto, erano riusciti a spingerlo fin lì nonostante il forte sospetto che anche in questo caso si sarebbe fatto un altro buco nell’acqua, e nulla di buono, con molta probabilità, anche stavolta ne sarebbe uscito fuori.
            Lei, signor Montemerani, come si classificherebbe, gli aveva chiesto di punto in bianco, dopo parecchi minuti, il luminare, dandogli una veloce occhiata e ritornando, in attesa di risposta, a ripassare di nuovo quelle carte che continuava ad avere tra le mani. Dopo, era trascorsa una pesante pausa di silenzio, forse quasi più lunga di quello che appariva necessario, e in quella fase lui come ammalato aveva cercato di raccogliere quasi tutte le proprie idee, concentrandosi sulla risposta che era meglio fornire a quest’altro rompiscatole blasonato, pur sfuggendogli, e con un certo dispiacere, il senso proprio di una domanda di quel genere.
            Non aveva mai pensato prima di allora di doversi ascrivere ad una qualche categoria di persone o addirittura di ammalati, di ritrovarsi ad etichettare se stesso come facente parte di una certa schiera, individui probabilmente tutti simili tra loro, come immaginava, riconoscibili magari per certe caratteristiche o per evidenti particolarità, quasi una serie di oscure figure magari a lui semplicemente estranee, ma che all’improvviso, nella sua fantasia, parevano voltare la faccia tutti assieme, e lui con loro, per mostrare un’espressione praticamente identica, o addirittura evidenziando quasi una sottile maschera sul volto, ognuna uguale all’altra.
            Continuava ancora a pensare, il Montemerani, quando l’altro alzava lo sguardo indagatore su di lui, quasi a rendersi conto effettivamente di quanto tempo avesse necessità quel paziente antipatico a rispondere. Allora lui, praticamente per reazione, affondava d’improvviso il suo sguardo solitamente sfuggente, fino oltre quegli occhiali insulsi cerchiati d’oro che aveva di fronte, e biascicava sottovoce quanto in genere si sentisse semplicemente estraneo a tutto quanto. Il medico proseguiva a guardarlo senza assumere un’espressione definibile, forse addirittura cercando di mostrare la sua incredulità a quelle parole, e infine insisteva: estraneo, in quale senso? Faccia un esempio della sua giornata tipo, Montemerani, cerchi di farmi comprendere meglio il suo pensiero.
            Lui si prendeva così ancora del tempo, ma adesso si sentiva persino alleggerito, avendo con questa uscita già detto molto di se stesso, secondo i suoi parametri. All’improvviso si sentiva soddisfatto di essere riuscito ad aggirare l’ostacolo in quel modo, tanto da ritrovarsi una piccola dose di coraggio aggiuntivo, e mormorare con semplicità: per me essere qui o in un altro luogo, praticamente, è la medesima cosa. L’altro faceva scricchiolare le carte, quasi a cercare di comprendere se quel paziente avesse veramente voglia di guarire o no dalle sue piccole manie, ma proprio in quell’attimo Montemerani, ormai a suo agio, si alzava dalla sedia, accomodava sopra la sua faccia un debolissimo sorriso, e in un attimo si voltava per raggiungere la porta dello studio e quindi andarsene.
            Dove va, gli aveva chiesto quasi incredulo ai propri occhi, pur dietro i suoi occhiali, il professore; ma Montemerani a quel punto non si degnava neppure di rispondergli, e ormai raggiunta la porta e scivolato dentro al corridoio di quella clinica, semplicemente alzava un po’ di più le spalle, lasciando dietro a sé l’interezza di quei dubbi che aveva sparso anche sopra la scrivania del luminare, sollevato per essere riuscito perfettamente, anche in questo caso, a confermarli tutti.


            Bruno Magnolfi

domenica 1 settembre 2013

Maschera d'uomo

           
            Certe rare volte mi fermo a pensare. E’ come se mi sforzassi così facendo di essere qualcuno che so perfettamente di non essere, e in questo sforzo accarezzassi quasi l’idea di poter assomigliare a un uomo migliore. In seguito naturalmente sorrido di questi pensieri, ci passo sopra e mando avanti le mie attività di ogni giorno. I ragazzi che lavorano con me credo mi temano, o almeno abbassano immediatamente lo sguardo quando rimprovero loro qualcosa. Nel nostro mestiere non ci possono essere incertezze, ognuno deve sapere perfettamente cosa sta facendo, e soprattutto deve decidere in fretta se ogni cosa da fare sia quella giusta, la più adeguata, senza tirarsi mai indietro.
            Facciamo traslochi al nero, utilizzando per il trasporto soltanto un vecchio furgone scassato. La nostra pubblicità è il passaparola, ci chiamano soltanto le famiglie dei disgraziati che possono spendere poco, che vogliono risparmiare sulle tasse, molto spesso gente sfrattata che piange a lasciare le stanze dove ha abitato una vita, e certe volte capita che qualcuno di loro voglia pagare ancora meno di quanto chiediamo: una volta sistemate le cose non si fanno trovare, oppure cercano di darci degli assegni scoperti, dei soldi falsi, insomma tentano di tirarci una fregatura, ma quando intervengo personalmente tutto in genere si sistema abbastanza alla svelta.
            I ragazzi a volte credono che dentro di me io abbia una crudeltà innata, una capacità di risultare inflessibile anche di fronte a situazioni così strappalacrime, ma non è vero, perché in realtà io cerco soltanto di portare avanti il principio secondo cui i patti vanno sempre e comunque rispettati. Non scherzo quasi mai con i miei ragazzi, questo è vero, ma soltanto perché cerco di conservare una gerarchia tra di noi, la capacità di starsene ognuno al suo posto. Il primo di loro che sgarra, naturalmente, perde il lavoro. Anche chi si fa male viene mandato via, perché il tipo che non sta attento a quello che fa non va bene per questo mestiere. Siamo tutti iscritti nelle liste di disoccupazione, non facciamo un mestiere, siamo senza lavoro, stiamo solo in attesa che qualcuno ci trovi un posto, un lavoro qualsiasi, un’attività migliore di questa.
            Quando stiamo sistemando la mobilia e ci accorgiamo che in giro c’è qualche divisa, ad esempio, smettiamo immediatamente di andarcene su e giù per le scale, e ci disperdiamo il più in fretta possibile, ognuno per sé, per poi ritrovarci un’ora più tardi sul marciapiede di prima, controllando con attenzione che tutto adesso sia a posto. Ma anche se ci prendono tutti quanti con la roba sopra le braccia, siamo assolutamente pronti a dire che stiamo dando semplicemente una mano a un amico. Non c’è niente di male, ci aiutiamo tra noi, questo diciamo.
            Poi un giorno arriva un tizio, dice che in questo quartiere si deve pagare per fare traslochi. Lo guardo, i miei muscoli sono allenati, non credo di avere paura di nessuno. Mi fa vedere un coltello nel corridoio del condominio e allora abbasso la testa, i ragazzi stanno dietro di me, quando quello va via dicono che non avrei potuto fare nient’altro. Allora mi fermo ancora a pensare, forse domani non lavoriamo, dico agli altri, ci vuole una pausa ogni tanto. Prendo il furgone e me ne vado. Arrivo a casa alla svelta, da solo, ma non me la sento di salire le scale. Qualcosa inizia a incrinarsi, penso; lo sapevo che prima o poi doveva succedere. Nella mia testa ci sono tutte le facce di quei disgraziati che devono andarsene dalla loro casa. Sono fortunato, rifletto, nessuno per adesso mi manda via da queste due stanze. Ma non può durare, lo sento, qualcosa deve cambiare: sono stufo di fare il cattivo con tutti; sono stanco di pretendere soldi e di odiare la gente; ci deve pur essere, penso da solo, la possibilità anche per me di mostrare come sono davvero.


            Bruno Magnolfi