sabato 16 novembre 2013

Occasione persa.

            
Stufo di tutto, stanco da morire, brancolo la sera tardi lungo una strada che neppure riconosco. Succede di dover ammettere un errore, ma adesso tutto quanto sembra inutile, persino la faticosa correzione di quello sbaglio. Se ci penso credo addirittura di potermi rallegrare dell’aver perso poco per volta i miei punti di riferimento, tanto da riflettere che tutto d'ora in avanti sarà semplicemente da ricostruire, come qualsiasi altra cosa da rifare, scartata ormai l'originale, come non rispondente alle attese.
Mi fermo davanti ad un cinema chiuso, osservo i manifesti del film in programmazione. Non conosco questa pellicola, non ho mai sentito parlare né del regista né degli attori. Mi chiedo come sia possibile che tutto giri in questa maniera, che io abbia perso poco per volta il contatto con la realtà minuta, e che le cose seguano un percorso così diverso dal mio. Si ferma un uomo, vede che sono attratto da questi cartelloni, mi chiede cosa ne pensi, ed io gli dico che c'è qualcosa che non capisco in quelle informazioni, che mi sembrano quasi di una natura diversa dalla mia. L'uomo dice ridendo che è tutto uguale,  che non c'è da preoccuparsi. Poi spiega la storia del film, lo ha visto sere fa, dice: tratta di un amore difficile tra un uomo ed una donna, un rapporto come ce ne sono in giro di infiniti. Lo lascio parlare, lui spiega che l'idea buona che porta avanti la trama sta nel fatto che le cose tra l'uomo e la donna scivolano via senza alcun impegno, come se ogni vicenda che si snoda non fosse neppure cercata, né dall’uno né dall’altra.
Forse è questa la differenza, penso: evitare di concentrarsi sugli accadimenti sotto agli occhi di chiunque è migliorativo, a differenza di ciò che ho sempre creduto. Così dico: forse mi piacerebbe vedere il film, ma non ho mai il tempo per dedicarmi a questo genere di cose. Lui annuisce con la testa, sorride come chi sa perfettamente dove andrà a cadere l’argomento, ed io improvvisamente vorrei quasi allontanarmi, ritrovare quella solitudine che mi pareva un elemento prezioso nella mia serata, ma lui all'improvviso dice che può narrarmi tutta la storia di questa pellicola, se voglio, tutta la vicenda descritta là dentro; certo, chiarisce, non sarà come assistere alla proiezione, però quasi. Gli dico che va bene, posso stare ad ascoltarlo senza alcun problema, ma poi ci ripenso: se mi capitasse in seguito di andare al cinema, magari con qualche amico, gli dico con una certa serietà, probabilmente dovrei andare a vedere un altro film, perché di questo ormai ne saprei già a sufficienza, tanto da sembrarmi una ripetizione starlo a vedere. Lui ci pensa, dice che forse ho ragione, e aggiunge che un film narrato è comunque un'altra cosa. Si, è vero, dico, comunque siamo d'accordo.
Quando vado via lui mi saluta con un gran sorriso: sono bravo a raccontare, dice. Ci credo, fo io, forse mi piacerebbe sentirtelo fare, se solo avessi tempo, se soltanto ci fosse la possibilità per me di stare ad ascoltarti. Lui dice che non ha importanza, la contemporaneità prevede tempi stretti per questo genere di cose: forse dovremmo prenderci tutti una pausa qualche volta, ma poi ride, proprio mentre si allontana. 

Bruno Magnolfi

domenica 10 novembre 2013

In giro, assieme alle nuvole.



Mi avevano sistemato in un letto della corsia, nel reparto di medicina generale; gli infermieri erano stati bravi e veloci, anche se si erano subito dileguati. Gli altri cinque ammalati della mia camera pareva fossero là dentro da sempre: mi avevano osservato in silenzio, io ero rimasto immobile nella stessa posizione in cui ero stato messo, voltando soltanto lo sguardo, per qualche momento, verso l’unica grande finestra che c’era, per osservare quel piccolo pezzo di cielo che restava inquadrato in fondo alla stanza, oltre la parete slavata. Dopo un po’ era sopraggiunta la dottoressa con un infermiere, mi avevano fatto qualche domanda, mi avevano anche toccato e rigirato su tutti i lati.
Ero caduto a terra svenuto, così, all’improvviso, mentre ero in giro quasi senza far niente, con le mani dentro le tasche, a spasso lungo le strade del mio quartiere, e ciò era segno evidente, secondo loro, che qualcosa si stava compromettendo dentro al mio organismo. Adesso però, passato lo spavento osservato a specchio negli occhi della gente, tra i barellieri dell’autoambulanza, mi sentivo bene, o meglio non provavo alcun dolore, ma la paura che la mia vita cambiasse, da quel momento in avanti, era forte, intensa, superiore ad ogni altro pensiero. Dovevano farmi una serie di analisi, aveva detto la dottoressa, sondare a fondo le risposte del mio sistema vitale, capire cosa nascondesse quell’apparenza neutrale, quasi indifferente nello svolgere funzioni oppure no.
Poi se n’erano andati, lasciandomi da solo come a galleggiare, insieme al mio letto bianco, su un mare oscuro e sconosciuto che tendeva a infiltrarsi dentro di me e tra le coperte in cui ero avvolto. Non ero mai stato dentro quell’ospedale, ma se non mi sembrava all’apparenza del tutto ostile, in ogni caso non faceva nascere, nella mia mente, alcuna curiosità. Di fronte a me, due ammalati, avevano parlato sottovoce tra loro, poi era ritornato il silenzio. Si avvertiva soltanto un ronzio persistente, un rumore che sembrava provenire dai muri stessi, come se un grosso motore elettrico, nascosto da qualche parte, desse l’energia sufficiente a tenere in vita quell’edificio, forse anche i degenti, forse ogni più piccolo elemento di cui era composta tutta quanta quella struttura.
Fuori dalla finestra era passata lentamente una nuvola, io avevo pensato alla mia casa, ai miei passatempi, alle mie giornate, pur vuote, eppure estremamente preziose. Mi ero rannicchiato sotto alle coperte, quasi per ritrovare una dimensione più intima, mi ero addirittura coperto la testa. Erano trascorsi ancora abbondanti e lunghi minuti senza che niente accadesse, avevo anche riflettuto se fosse il caso di addormentarmi, oppure semplicemente restarmene lì in quel modo inerte.
Infine, di colpo, mi ero scoperto, avevo messo i piedi fuori dal letto, inforcate un paio di pantofole, e in un attimo ero già nel corridoio. Gli altri mi avevano osservato, senza dire nessuna parola. Io avevo scorso tutte le camere a destra e a sinistra, e un’infermiera mi aveva notato, ma non si era interessata di me, ed io avevo raggiunto velocemente uno degli ascensori. In un attimo, con il pigiama a righe di qualche taglia superiore alla mia, ero arrivato fino all’ingresso principale. Forse potevo andarmene, avevo pensato; forse potevo dare ancora un’occhiata al cielo pieno di nuvole. Ma la mia testa era confusa, all’improvviso una paura profonda e sconosciuta mi aveva colto, mentre ero già davanti alla grande porta vetrata che immetteva all’esterno.
Era troppo presto, non mi era stato possibile ancora farmi un’idea di tutto quanto; avevo bisogno di rendermi conto, di capire un po’ meglio cosa stesse accadendo. Osservavo le persone che entravano e uscivano continuamente, come se tutto fosse normale, poi avevo orientato il mio sguardo sul cielo: la porzione di nuvole che si intravedeva fuori dalle vetrate era grande, qualcuna tendeva a raddensarsi nel vento, altre si sfilacciavano come allungandosi. Decisi che non c’era altro da fare: dovevo tornare di sopra, attendere i risultati di tutte le analisi, fidarmi delle persone che lavoravano per la salute di tutti: poi, non ricordo più niente, caddi a terra di nuovo, nient’altro.
Bruno Magnolfi