lunedì 28 giugno 2010

In qualsiasi caso




“Non fa niente…”, aveva detto qualcuno dentro al negozio. La signora Lucia aveva finto di rimettere a posto sugli scaffali quella fila di camicette che sbadatamente aveva fatto cadere sul pavimento, ma la vergogna che aveva provato di fronte al negoziante e agli altri clienti era tale che ormai non ri...usciva a far niente se non peggiorare le cose. Così aveva preso uno dei capi, probabilmente della misura sbagliata, pagandolo in fretta alla cassa e prodigando molti sorrisi impacciati, poi finalmente era uscita da lì, come improvvisamente liberata da una sala delle torture. Le capitava sempre più spesso di compiere gesti non razionali, di inciampare sui gradini di casa per esempio, come se in tutti quegli anni non avesse ancora memorizzato dove fossero. Ne aveva anche parlato al suo medico, ma lui aveva minimizzato, era normale avere dei periodi così, per suo parere. Ma la signora Lucia si sentiva sempre più preoccupata, e più si impegnava a cercar di tenere sotto controllo le sue sbadataggini, più pareva che quelle, quasi a dispetto, le capitassero. Anche se i suoi figli erano già grandi e avevano una vita per conto proprio, lei, vivendo da sola dopo la morte per incidente di suo marito, non si sentiva un’anziana, anzi, certe volte le pareva di vivere una nuova giovinezza, tanto le prendeva la voglia di uscire, di fare delle cose, di incontrare persone. Così, per cercare di vedere più chiaro in quel fastidio che provava quasi ogni giorno, si era fatta fare tutta una serie di analisi approfondite presso una clinica privata, senza passare da altre mani, solo lei e quel professore tanto gentile, che le aveva detto di tornare quel pomeriggio per i suoi risultati. Lei era andata per tempo, e con una vaga apprensione, ma convinta di stare in buona salute, aveva atteso il suo turno in una saletta con le luci soffuse. La ragazza sorridente le aveva detto che sarebbero stati sufficienti dieci minuti, e la signora Lucia aveva guardato il suo orologio, già proiettandosi in qualcosa che poteva fare quando fosse uscita da lì, con la cartella dei suoi risultati. “Si sieda, la prego…” aveva detto il professore gestendo la sua professionalità al meglio. “Non ci sono buone notizie…”, aveva aggiunto. “Lei ha un tumore, un tumore al cervello, e purtroppo di un tipo per il quale non è proprio pensabile intervenire. Si può curare, però, tenere sotto controllo, cercare di ritardarne la crescita quanto più è possibile, affrontare con coraggio, da donna forte quale lei è, un futuro fatto di altre analisi, di indagini ulteriori e continue, di medicina preventiva ad ogni livello, e lasciare che il suo corpo reagisca alle medicine”. La signora Lucia era uscita frastornata, come se quello che le era appena stato detto fosse riferito ad un’altra persona, e lei, sdoppiandosi, potesse ancora sostenere quello che le aveva detto il suo medico: “capita a tutti di avere dei periodi così…”. Però era tornata a casa senza riuscire a distogliere neanche un attimo i pensieri da quelle parole del professore, che sempre di più le parevano una sentenza finale, e quella batosta adesso sembrava fatta apposta per stritolare il periodo della sua vita in cui si sentiva più libera, più saggia, più convinta di sé, adesso che le giornate erano sgombre da tante cose di cui aveva dovuto occuparsi in passato. Poi si sedette, prese lentamente un libro di cui aveva iniziato la lettura qualche giorno più addietro, disposta ad immergersi in un’altra realtà, e le parve, sin dalle prime parole che le capitarono sotto agli occhi, meraviglioso, scritto in maniera davvero encomiabile. Ecco, pensò, così voglio essere, adesso che sono cosciente, che tocco con mano quello che presto mi capiterà: innamorata della mia vita, di ciò da cui sono circondata, curiosa degli altri, di chi riesce ad avere una sensibilità così alta. Non voglio rinchiudermi nella mia malattia, nel mio farmi pena da sola; ho bisogno di essere aperta, ascoltare ciò che dicono tutti, interpretare ogni realtà, perché è solo così che sarò continuamente certa di vivere, di interpretare il tempo che mi è stato concesso. Solo così sarò sicura di essere, qualsiasi cosa accadrà.

Bruno Magnolfi

domenica 27 giugno 2010

Ordinarie tensioni esistenziali .


Era inutile cercare ancora di dormire, era impossibile. I pensieri sorvolavano il letto come grosse nubi minacciose, aggrovigliate tra di loro. Senza neppure motivi apparenti, la tranquillità era irrimediabilmente perduta.

Bruno Magnolfi

sabato 26 giugno 2010

Una morale da rivedere.



Durante una notte terribile una persona qualsiasi da sola correva braccata da pesanti giudizi. Nessuno aveva mai voluto veramente il suo male, però dubbi sulla sua condotta, ironie sui comportamenti, insistenze sui motivi dei suoi gesti, l’avevano portata poco per volta ad allontanarsi da tutti. ...Non sapeva dove avrebbe potuto trovare riparo, in quali luoghi la valutazione di sé sarebbe risultata meno importante, ininfluente ai fini della sua vita. Eppure fuggiva, e fuggendo mostrava il valore delle parole che l’avevano colpita, perseguitata, ridotta a brancolare nel buio alla ricerca di una calma anche interiore. Giovanna osservava alcuni ragazzi giocare in mezzo alla strada mentre aspettava l’autobus da sola, in un mano una busta di plastica, nell’altra il biglietto. Sette fermate e sarebbe discesa, come ogni sera, per andarsi a infilare in quel grosso palazzo di uffici dove svolgeva quel suo lavoro, da quasi tre anni. Faceva le pulizie, dalle sei alle nove, insieme a diverse colleghe, ognuna il suo piano, il proprio settore, divise in modo che ognuna fosse responsabile di ciò che faceva e non ci fossero chiacchiere e perdite di tempo. Conosceva gli uffici e le scrivanie della sua zona ormai a menadito, tanto da interpretare gusti e abitudini degli impiegati che nell’arco della giornata lavoravano lì, con il cestino della carta a destra o a sinistra, la scrivania riordinata o lasciata com’era, la sedia allineata o discosta, in un dialogo di oggetti che certe volte l’aveva persino divertita. Lavorava a testa bassa, da sola, in silenzio, ma era una bella ragazza, Giovanna, a qualcuno pareva impossibile che non avesse fatto un po’ di carriera. Uno degli impiegati che una sera aveva fatto più tardi l’aveva notata, poco tempo più addietro, e si era subito fatto trovare in ufficio altre volte, spudoratamente per parlare con lei, per fare la sua conoscenza. All’impresa delle pulizie già non si parlava di altro, e Giovanna aveva chiesto al suo responsabile di cambiarla di piano, ma le altre si erano opposte, e tutto era diventato sempre più complicato. Ma una volta Giovanna, che aveva trovato ancora quell’impiegato a aspettarla, con decisione era andato da lui, lo aveva guardato negli occhi, giusto per dirgli le cose com’erano, che doveva smetterla di farsi trovare ancora lì, per favore. Il giorno seguente tutti sapevano che quell’impiegato era stato con lei, non era difficile, diceva lui, bastava aspettarla. Così per lei quella era l’ultima sera di lavoro in quel palazzo di uffici. Aveva dato le dimissioni al mattino, alla sede della sua impresa, ma le avevano chiesto di lavorare ancora quel giorno se non voleva passare dei guai, e Giovanna si era lasciata convincere. Aveva iniziato il suo turno puntuale, si era subito accorta che quella persona non c’era, così si era sentita tranquilla. Ma dopo poco era entrata dentro a un ufficio con il suo carrello attrezzato, e aveva visto che seduto ad attenderla c’era un altro impiegato, un collega del primo, e lei si era sentita sporca, perduta, infangata da gente priva di qualsiasi decente criterio. Così lo aveva ignorato, era uscita da quella stanza spostandosi in una successiva, e quando quello era andato da lei, le era venuto da piangere, ma l’impiegato non aveva capito il suo stato, e aveva sorriso, quasi scambiando quel gesto di lei per timidezza, per un pudore che era certo, con qualche semplice trucco, avrebbe velocemente perduto, mostrandosi quello che era realmente.

Bruno Magnolfi

giovedì 24 giugno 2010

Il pontile sull'orizzonte.



Il pontile si allungava sul mare, starsene lì senza far niente era come scivolare sul tempo. I pescatori se n’erano andati, qualche lento gabbiano incrociava poco distante in una bava di vento da ponente. Anche la nave non c’era più all’orizzonte, ormai da un giorno o anche due, ma aveva impresso così forte la sua presenza in quella zona di mare, che ora pareva che una nebbiolina leggera cercasse di colmare quel vuoto, e qualcosa ancora ci fosse, anche solo per un puro meccanismo di fantasia. Era bello guardare quel punto d’infinito e immaginarlo senza problemi: cattivi rapporti interpersonali, stupide liti, oggetti insignificanti trattati come preziosità. L’esistenza del mondo ne stava al di sopra, era evidente.

Un uomo si era avvicinato con lentezza, lasciando scricchiolare le assi di legno sotto ai suoi piedi. Aveva osservato il mare scuro in quel tramonto di sole, aveva annusato l’aria come fanno solo i vecchi marinai, poi aveva abbassato la testa ed era rimasto lì, appoggiato al corrimano, come sopra al ponte di una nave. Poi, senza spostarsi, aveva tirato fuori dalla tasca un foglio di carta, lo aveva tenuto per qualche momento tra le mani, e infine aveva permesso che la brezza se lo portasse con sé sottovento, sfarfallando un po’ dentro l’aria, e infine lasciando che la carta si adagiasse sopra le onde delicate dell’acqua.

Aveva continuato ad osservare quel foglio, per tutto il tempo che ancora era riuscito a vederne il chiarore, poi si era riscosso, e com’era venuto era andato. Quanto passato c’era da superare, da chiudere, una volta per tutte. Quante scuse ognuno di noi avrebbe dovuto presentare per qualcosa di non fatto, o non detto, o per incomprensioni minori che avevano dettato le vicende come elementi di prima grandezza. In fondo era quello un luogo giusto dove fare i conti con il proprio vissuto, né terraferma né mare, al cospetto di un orizzonte infinito solo qualche volta solcato da una nave scura e silenziosa, ma che adesso non c’era, non ingombrava per niente la prospettiva.

Bruno Magnolfi

martedì 22 giugno 2010

Un fiore senza memoria.





Sono annoiata, aveva detto lei senza alzare gli occhi dal libro. Lui si era voltato solo un attimo verso la poltrona sulla quale lei stava mezza sdraiata, poi era tornato ad osservare la strada di fronte, lungo il fiume della città. Non c’era molto movimento quel pomeriggio, probabilmente la gente sonnecchiava dentro alle case, proprio come facevano loro. Poi si era spostato per andare a cercare qualcosa dentro a un cassetto dello scrittoio, infine si era seduto. Forse se andassimo a fare una passeggiata mi passerebbe anche questo leggero mal di testa che mi tortura, aveva proseguito lei come parlando al suo libro. La luce, da dietro le tende della vetrata di quel salone, pareva come allargarsi là dentro, diffondendosi da tutte le parti come una materia trasparente e mielosa. Lui aveva preso una penna ed un foglio, e aveva scritto qualcosa, forse un appunto per il suo lavoro. Quando si era alzato dal tavolo era andato verso una delle due librerie da parete, e aveva cercato qualcosa tra gli scaffali chiusi dietro alle alte vetrine. Le giornate trascorse così mi sembrano infinite e prive di senso, aveva continuato lei dando voce a quei suoi pensieri. Poi si era riscossa, aveva appoggiato il suo libro su un tavolino da fumo, e si era sollevata lentamente, resistendo agli scatti nervosi con cui aveva voglia di muoversi. Si era avvicinata ai vetri, aveva girato una maniglia e socchiusa l’anta di un finestrone, come per assaporare il rumore che proveniva da fuori e far entrare il profumo del fiume. Dei ragazzi correvano ridendo lungo il marciapiede di fronte; il fiume, di là dalla spalletta, pareva il solito nastro grigiastro che andava a infilarsi sotto ai tre ponti in successione che si vedevano da quella prospettiva. Il resto era immobile, senza speranza. Lei si volse, nell’esatto momento in cui da dentro quel libro che lui aveva aperto restando in piedi accanto alla libreria, scivolava a terra un fiore secco, forse una rosellina rimasta schiacciata tra le pagine di quel volume per chissà quanti anni. Si avvicinò incuriosita mentre lui si chinava a raccogliere quell’insolito e delicato oggetto; poi, fermandosi appena ad un passo, cercò di scrutare l’espressione che pareva disegnarsi sul viso di lui, nell’osservare quel fiore. Una pausa di silenzio allargò i loro pensieri, nessuno aveva voglia di dire qualcosa. Infine un leggero colpo di vento spalancò l’anta del finestrone rimasta fino ad allora socchiusa, la tenda si mosse lentamente nell’aria, come se una mano invisibile ne avesse scorso i contorni, lei osservò quelle onde sinuose che si propagavano dentro al salone, poi pensò che qualcosa era entrato là dentro, o forse era uscito, chissà.

Bruno Magnolfi

Clandestino





Piegato su di me, con le braccia conserte, sdraiato in un angolo di questo vagone chiuso del primo treno merci su cui sono riuscito a salire, immagino alberi e case che sfilano intorno nella campagna sterminata di una regione qualsiasi. Sento la testa sempre più vuota, ascolto la mia vita ridotta ai minimi ...termini, lascio che il rumore fortissimo della terra che corre sotto di me mi faccia sentire leggero, quasi inconsistente. Qualche faccia mi passa davanti tra i miei pensieri, qualche espressione emerge dalla mia mente, tutto questo fa parte solo del mio passato, ma è lontano, perduto, io so che adesso sono qui, non conta nient’altro, e resto racchiuso in questa giacchetta logora che mi ripara dal freddo, anche se non so neppure dove realmente mi trovo, o dove sto andando. Non mi importa di niente, sento solo la vita dentro di me che vuol correre ancora, proprio come questo treno merci, disperato nella fuga tra le colline e le valli. Mi proietto in avanti, mi sento pronto per fuggire, nascondermi, rubare qualcosa; non lo so di chi sarà stata la responsabilità per spingermi qui, so che ho soltanto una vita, e la sento pulsare sotto la pelle, non sarò io a fermarla, devo andare, andare, finché non mi fermeranno, per forza.

domenica 20 giugno 2010

Immobile senza alcun desiderio


Resto sdraiato sull’erba di questo giardino senza preoccuparmi di niente. Le mie braccia sono inerti, le mie gambe pare non abbiano peso. Sono sicuro che qualcuno mi abbia notato, forse si è chiesto che cosa stia facendo, fermo così sopra quest’erba un po’ umida. Ma a me non importa ciò che pensano gli altri, guardo il cielo, ascolto la terra, penso alle parti del mio corpo che restano ferme, senza alcun compito se non quello biologico. Se mi concentro riesco a sentire i rumori di una città dall’altra parte del mondo. Tutti stanno correndo verso qualcosa o verso qualcuno, qualcuno sta sfruttando il desiderio di altri di correre verso qualcosa o verso qualcuno, alcuni immaginano di innalzarsi al di sopra di altri solo perché hanno capito quali siano i meccanismi che regolano quei desideri, quel correre continuo, e così tutto si mostra come un groviglio di elementi da cui sembra impossibile uscire. Ma al contrario io resto qui, senza interessi, immobile, come se niente riuscisse a scalfirmi. Non mi sento superiore, sono soltanto uno qualsiasi, eppure ritengo che non valga la pena di correre e industriarmi per riuscire ad essere alla fine così, come siamo tutti: uno qualsiasi, sdraiato sull’erba, senza possibilità di cambiare le cose.
Infine mi alzo, raggiungo la mia macchina, percorro i viali alberati e rientro nella mia casa. Continuo a pensare, sono ancora convinto che niente valga la pena di cercare qualcosa che è già definito, potrei continuare per tempi lunghissimi a pensarci, eppure qualcosa mi percorre la mente e mi lascia perplesso. Forse ho perso la mia identità, dico davanti a uno specchio, forse con il mio atteggiamento passivo non faccio altro che rendere forte chi si diverte con la mia apparente perplessità. Accendo la televisione, mi sdraio sopra al divano e ritrovo quel senso di niente che avevo avvertito poco fa. Probabilmente è proprio così che devo essere, sprofondato in poche cose senza grandi significati, insulso, pronto a respingere gli altri solo perché mi assomigliano.
Bruno Magnolfi

Nei colori del tramonto










I braccianti di colore si erano riuniti tutti tra loro alla fine dell’orario di lavoro, ed erano rimasti lì, in silenzio, come non avessero nessun posto dove recarsi. Infine si erano incamminati lungo la strada sterrata, costeggiando la stalla delle vacche, e svogliatamente erano andati ad infilarsi nelle loro baracche di legno, oltre il rimessaggio degli attrezzi. Sul fianco della collina la vigna pareva scolpita, tanto appariva simmetrica e regolare, e adesso che il sole si era avvicinato alla terra, le tonalità di verde apparivano più morbide e più intense. Davanti alla sua casa il signor Giovanni, come lo chiamavano tutti, si era seduto sui gradini di pietra per togliersi la terra dalle suole dei suoi stivali, e aveva lasciato che il cane gli girasse attorno scodinzolando per giocare.

Quello sarebbe stato l’ultimo anno, pensava; le ultime volte di quelle giornate intere passate ad andare avanti e indietro col trattore per inseguire qualcosa che non aveva dato i frutti sperati. Non importava neppure ripensarci adesso, alla fine della stagione sarebbero arrivati i nuovi proprietari, una società che avrebbe avuto meno scrupoli a sfruttare quella terra, lui sarebbe stato già lontano, a godersi il riposo, quei pochi soldi e gli ultimi anni della sua vita.

Un’auto vecchia e scarburata era arrivata arrancando per la strada interpoderale, nessuno che il signor Giovanni ricordava di conoscere. L’uomo era sceso guardandosi attorno, si era avvicinato di qualche passo senza fretta, poi aveva guardato a terra prima di parlargli: “Cerco un lavoro”, aveva detto, “uno qualsiasi”. Poteva avere quarant’anni, ma era difficile giudicare. “Qua sono tutti neri”, aveva risposto con ruvidezza il signor Giovanni, tanto per trovare una scusa per togliergli qualsiasi idea falsa. “Per me va bene”, aveva detto semplicemente l’uomo, e quella risposta, forse inaspettata, era piaciuta al signor Giovanni.

La mattina seguente quell’uomo aveva iniziato a lavorare insieme agli altri, dopo aver dormito nella notte dentro la sua macchina. Il signor Giovanni l’aveva osservato, non ricordava di aver mai conosciuto una persona del genere, ed era incuriosito. A sera lo invitò nella sua casa per regolarizzare il rapporto di lavoro, aprì qualche carta sopra al tavolo restando in piedi, e lo invitò a dirgli il nome e ad apporre la sua firma in fondo ai fogli. L’odore di terra e di sudore ristagnava intorno, i braccianti avevano intonato una nenia che si sentiva arrivare da lontano, quasi una vibrazione, come una mosca nella stanza. L’uomo fece quanto era richiesto, poi si volse per raggiungere la porta, ma si fermò, e senza che nessuno gli avesse chiesto niente, disse che la vita era strana, certe volte ti sbatteva nell’aria come una bandiera, ma non c’era da prendersela, le cose a volte andavano bene, a volte male.

Il signor Giovanni non lo interruppe, ma dopo una pausa, a bassa voce, disse: “Vendo tutto, tra poco, anche a me non è andata benissimo; o almeno non come speravo…”. “Lo so”, disse l’uomo; “però bisogna anche imparare ad osservare i colori del tramonto, come quelli di stasera, e qualche volta lasciarsi affascinare, senza porsi troppe domande. Se si cerca sempre il meglio saremo sempre e soltanto dei perdenti”.

Bruno Magnolfi

L’illuminazione di un giorno come tanti.




L’uomo era uscito da casa senza un motivo, aveva passeggiato per un po’ lungo i marciapiedi cittadini, poi si era infilato in un caffè, giusto per farsi servire qualcosa e riposarsi. La donna, al tavolino accanto al suo, continuava a scrivere su un foglio di carta, forse una lett...era, lasciando freddare la sua tazza di the e mostrando indifferenza verso tutto il resto. C’era un quotidiano, e l’uomo l’aveva sfogliato distrattamente. Poi, mentre girava la pagina per leggere meglio una notizia, aveva incontrato casualmente lo sguardo della donna, lei aveva sorriso come per una cortesia tra persone solitarie, e lui aveva detto sottovoce buonasera, senza espressioni. Lei poco dopo aveva piegato quel suo foglio per riporlo dentro la borsetta, aveva sollevato la tazza del suo the e si era guardata attorno, come alla ricerca di qualcosa. L’uomo aveva evitato di guardarla nuovamente, però aveva cercato dentro di sé un motivo per parlarle, incuriosito da quel suo sorriso dolce e aperto. Il tardo pomeriggio attorno continuava a scorrere tranquillamente, con clienti che andavano e venivano, alcuni parlando tra di loro, altri salutandosi. Il cameriere aveva servito all’uomo un aperitivo, lui aveva ringraziato ed aveva accavallato le gambe, come a mostrare piena sicurezza di sé. La donna era rimasta ferma, forse lo aveva guardato nuovamente, poi aveva controllato il suo piccolo orologio. “Aspetta qualcuno?”, avrebbe potuto dirle lui, tanto per parlare di qualcosa, ma non lo fece, anzi trovò subito una domanda di quel genere qualcosa di cui si sarebbe potuto vergognare. Così si volse verso le vetrate, come a cercare di dare movimento al suo starsene seduto forse in modo troppo statico, e lei tornò a guardarlo, forse a sorridere di nuovo quasi leggendogli i pensieri, ma lui non dette peso alla cosa, e subito riaffondò il suo naso dentro a quel giornale. Intanto nel locale era entrato un piccolo gruppo di persone chiassose e gioviali, una di loro aveva detto qualcosa di divertente ad alta voce richiamando l’attenzione di tutti su di sé. L’uomo e la donna si erano guardati per un attimo come divertiti da quell’espressione, ma ambedue non avevano detto niente, limitandosi a scambiare un semplice barlume di solidarietà che sembrava non avere seguito. L’uomo infine aveva chiuso in modo definitivo il quotidiano, aveva sorseggiato il suo aperitivo, aveva volto la sua faccia in modo deciso verso di lei, ma lo aveva fatto proprio nel momento in cui la donna aveva aperto la sua borsetta per cercarvi qualcosa. Lui stava per dirle: “Scusi, le posso fare una domanda?”, senza sapere in realtà cosa chiederle davvero, ma in quell’attimo esatto lei si era alzata dalla sua poltroncina, si era avvicinata al banco del bar, aveva pagato la sua consumazione e in un solo attimo era uscita dal locale, quasi senza voltarsi verso di lui. L’uomo aveva atteso solo un minuto, forse due, pensando improvvisamente tra sé che forse lei lo aveva persino salutato prima di uscire, e che lui non si era neanche accorto di quella cortesia. Fu preso da una strana agitazione, si alzò alla svelta e infine con modi nervosi pagò anche lui l’aperitivo, uscendo quasi di fretta dal caffè. Fuori la serata era dolce e piacevole, le persone lungo i marciapiedi circolavano tranquille come sempre, tutto appariva in perfette condizioni e lui si trovò immobile, senza sapere cosa fare; attese qualche minuto fermo scrutando la strada, poi rassegnato capì che avrebbe dovuto incamminarsi verso casa, diventava assurdo e inutile per lui guardarsi ancora attorno, perdere del tempo inutilmente, cercare con gli occhi, come intanto continuava a fare, di rivedere quella donna, perché lei non c’era, pur con tutto il desiderio che aveva di trovarla non la poteva vedere più da alcuna parte, era sparita, volatilizzata. Infine parve rassegnarsi, si avviò per la sua strada e pur con quel senso vago di delusione che provava, seppe di star bene, di aver comunque vissuto una piccola esperienza, di esser stato accanto ad una donna che adesso gli sembrava unica, importante, forse rara, che aveva illuminato in modo indelebile quella sua giornata, anche se non avrebbe mai saputo spiegarne il motivo.

sabato 19 giugno 2010

Il pozzo

Di nuovo, fra qualche tempo.



Non mi era piaciuta l’ironia leggera del guardiamarina su quel paio di giorni agli ormeggi che avevo deciso per la mia nave petroliera. In fondo ero io il comandante là sopra, ed ero responsabile di qualsiasi decisione. Aveva immaginato benissimo lui che ritardare voleva dire solo attendere ...la discesa del prezzo del greggio all’imbarco, naturalmente per via delle solite congiunture internazionali, ma a me la compagnia comunicava via radio le indicazioni da seguire, non potevo far altro, era evidente. Per far star buoni i ragazzi a bordo c’era sempre la vecchia scusa di evitare qualche burrasca, ma che potevo fare, non potevo lasciare che sospettassero qualcosa sulle buste di soldi extra che intascavo ad ogni fine missione. Il guardiamarina era un ragazzone tutto logica e controllo, non sapeva niente di come si fa per stare al mondo, con gli anni si sarebbe ammorbidito, ne ero sicuro, per adesso era meglio lasciarlo perdere. Eppoi secondo me era stato bello rimanere immobili per tutto quel tempo sottocosta, prendere il sole in coperta e fare le pulizie generali di tutte le cabine, meglio farlo davanti a terre amiche piuttosto che in acque poco sicure. Avevo dovuto cercare di smontare le illazioni del guardiamarina, però, portarlo con i pensieri da altre parti, e così, tanto per fargli qualche confidenza, mi ero inventato una storia su una donna, una ragazza bionda che avevo conosciuto anni addietro, un tipo tutto particolare, avevo detto, di quelle che ti capitano a tiro davvero poche volte. Mi ero lasciato andare a spiegargli, mentre eravamo all’ancora, che quella donna era solita trascorrere la stagione balneare in quel paese laggiù, in mezzo alla baia, e magari in quel momento esatto poteva tranquillamente essere lì, ad osservare proprio questa nostra stupida nave petroliera. Mi aveva chiesto come l’avevo conosciuta, il mio secondo, ma a me era venuta voglia, mentre gli spiegavo tutta quanta la faccenda, di averla incontrata veramente una donna di quel genere, una persona tutt’altro che semplice, di quelle che anche se sono con te, pare che siano da tutt’altra parte, e ti affascinano continuamente con il loro modo di sottolineare dei particolari che tu normalmente non avresti neanche notato. Mi aveva parlato a lungo della sua famiglia, senza farmi mai capire troppo, con quel modo di spiegare le cose che sembra faccia i salti da un argomento all’altro, in modo sconclusionato, salvo lasciarti accorgere a un certo punto, che tutto quello che ti è stato detto è perfettamente collegato, e resta solo a te il compito di ricomporre i pezzi per comprenderne di più. Il guardiamarina era rimasto colpito da quei miei racconti, si era lasciato prendere da quella storia, ed aveva anche evitato di fare delle domande fuori luogo. Così io avevo continuato, giusto per dirgli che in quei pochi giorni che avevo trascorso insieme a lei, con quella bionda intendo, avevo come dimenticato tutto il resto, annullata tutta la mia vita, e come per una sorta di magia particolare lei mi aveva annebbiato la mente con la sua personalità e con quei suoi modi insoliti. Era come se dentro quella donna fossero presenti diversi esseri, e che lei a volte si limitasse a interpretarne i pensieri, le volontà, forse i desideri, giocando tutto sul filo dell’intuito e delle sensazioni. Poco prima di perderci, cosa che ancora oggi non so perché sia avvenuta e né come, disse soltanto: “Ci rivedremo, non so quando, fra qualche tempo; e anche se saremo lontani sentiremo ugualmente di esserci accanto, proprio come adesso…”.
Bruno Magnolfi

mercoledì 16 giugno 2010

La terraferma specchiata sulla nave



Alla sera la nave petroliera stava ancora lì, quasi sulla linea dell’orizzonte, ferma nel mare, ormeggiata nell’attesa di chissà che cosa. Le luci sul ponte brillavano debolmente, lasciando immaginare qualche marinaio in coperta, con gli avambracci appoggiati sulla paratia, a parlare... di donne e a fumarsi una sigaretta nella debole brezza della notte. Vista con quegli occhi, la terraferma era soltanto un profilo scuro e ondulato zeppo di grappoli di luci, sotto alle quali la gente passeggiava, godendosi il fresco e la serata. C’era tutto laggiù, in quella parte di mondo, e dalla distanza del braccio di mare che separava loro dalla terraferma, tutto appariva più semplice, più leggero, colmo di propositi a cui attendere, una volta sbarcati da quella nave puzzolente e oleosa, lentissima quando navigava a pieno carico. Eppure in quella lentezza si erano misurate tante volte le incommensurabili distanze, e così come si arrivava prima o poi ai terminal petroliferi di enormi raffinerie incendiate di apparente progresso e di lavoro, ugualmente per ciascun marinaio dallo stomaco robusto, ci doveva essere un futuro da qualche parte, un progetto giusto quanto un sogno, per chi aveva resistito per stagioni infinite nell’affrontare qualsiasi mareggiata, senza mai troppo scomporsi. Passò la notte, così, con la prua allungata in faccia al vento, e la mattina dopo la nave petroliera aveva salpato, e non c’era più in quell’angolo di mare.


Bruno Magnolfi

un mortivo qualsiasi.



Il Rosso era entrato nel minimarket per rubacchiare qualcosa da mangiare. Non era malmesso nel vestiario e si era rasato il giorno avanti, nessuno poteva sospettare che fosse un barbone, uno che dormiva dove capitava. Non gli faceva piacere arrivare a quegli estremi, però in certi casi, quando la fa...me si faceva sentire cioè, non c’era una soluzione più semplice e immediata. Gli era venuto a mente addirittura di prendere una bottiglia di vino, se ce la faceva, non per sé, che a lui neanche piaceva bere, ma per quel paio di alcolizzati che si ritrovava sempre intorno quando andava alla stazione dei treni, gli unici che frequentava, e che erano sempre a lamentarsi e a chiedergli qualcosa. Con questi pensieri aveva scorso il corridoio delle bibite, ma c’era della gente coi carrelli, non era il momento di nascondere una bottiglia nella sua giacca, così si era limitato a prenderne una per il collo e a tenerla in mano, con indifferenza. Una signora dalla voce antipatica gli aveva chiesto di aiutarla a prendere una confezione un po’ in alto, e lui si era allungato senza dir niente, con il massimo di naturalezza. La donna ringraziando lo aveva squadrato, come facevano a volte certe persone, poi si era disinteressata di lui. Fu allora che il Rosso era passato in cima al corridoio degli scaffali per cercare il reparto dove tenevano i salumi e i formaggi, ma aveva visto qualcosa di strano dalle parti della cassiera, una ragazza giovane, che avrebbe potuto essere sua figlia. Un uomo in piedi le era accanto, e il Rosso immaginò che la stesse minacciando col coltello per farsi consegnare i soldi della cassa, dall’espressione di lei non si poteva pensare molto di diverso. Nessuno si era accorto della faccenda, così il Rosso si avvicinò per comprendere meglio le cose. Arrivò in silenzio alle spalle dell’uomo e si accorse subito che era proprio come lui aveva pensato. Non era mai stato un coraggioso, ma quella ragazza, pallida e impaurita com’era, gli faceva proprio pena, poteva benissimo essere sua figlia se solo la vita fosse stata un po’ più generosa con lui, così d’istinto gli venne voglia di spaccargli la bottiglia in testa a quel farabutto. Forse, se avesse pensato un po’ di più, il Rosso si sarebbe accorto che tra lui e quell’uomo c’era una differenza inferiore a quella che sentiva, ma le cose a volte non si fanno con i ragionamenti, ma col cuore.Gli arrivò ad un passo mentre la ragazza terrorizzata e con la cassa aperta stava consegnando i soldi che aveva trovato, mentre l’uomo con la sua statura copriva quasi interamente tutti i gesti di ambedue. Il Rosso brandiva la sua bottiglia, forse con dei gesti più lenti del necessario, e l’uomo si girò verso di lui appena un attimo prima che potesse sferrargli il colpo previsto. L’uomo all’ultimo momento schivò la bottiglia, afferrò d’istinto la giacca del Rosso con la mano libera, come per tenerlo fermo, mentre con l’altra gli sferrava una pugnalata vigorosa allo stomaco. Il Rosso cadde a terra stringendo ancora la bottiglia di vino nella sua mano, che si ruppe in un attimo in mille frammenti spandendo sul pavimento tutto quel vino, l’uomo afferrò quanto poteva dei soldi e infilò la porta nello stesso momento in cui un paio di clienti iniziavano ad accorgersi di quanto stava accadendo. La cassiera adesso piangeva ed urlava, il Rosso sdraiato perdeva sangue come da un rubinetto aperto, e qualcuno si era piegato su di lui, ma si era immediatamente accorto che le sue condizioni erano critiche. Una donna, forse la stessa che prima aveva aiutato, stava chiedendogli qualcosa, in ginocchio, piegata sulla sua faccia, ma non rispondeva più niente, il Rosso, non aveva più fiato, e anche se ne avesse avuto non aveva proprio niente da dire a degli estranei. All’improvviso sentiva dentro di sé la vita scappare, proprio da lui, che non gli importava poi molto della sua vita; vedeva, intorno al suo corpo tremante, una situazione pur annebbiata però così stupida, così insignificante, assurdamente in linea con tutte le sue cose, così come gli erano sempre accadute. Pensava, voleva ancora pensare, come per un ultimo atto della sua esistenza, ma la cosa che adesso gli sembrava dispiacergli maggiormente era solo per quella bottiglia, quella bottiglia di vino che non avrebbe più potuto portare ai suoi amici.

Bruno Magnolfi

martedì 15 giugno 2010

la notte della taranta: Anche la follia ha bisogno degli applausi (Alda Merini)



La polvere sul campo di calcio




Il sole poco sopra alle case spariva ogni tanto dietro a dei grandi nuvolosi tutti bianchi e rigonfi. Un odore di terra era rimasto nell’aria, quasi a ricordare ancora le grida e gli schiamazzi che quel pomeriggio si erano rincorsi tra quei paletti raffiguranti le porte, retti alla meglio con dei piccoli cumuli di sassi che ogni tanto venivano risistemati. Il campetto da calcio era il solito, pieno di buche, ricavato al fianco di una fila di alberi mezzi secchi che delimitavano un fosso, ma adesso pareva come abbandonato da tutti, come se quei quattro fili d’erba sui lati e tutta quella polvere che al primo acquazzone sarebbe diventata fanghiglia non fossero niente, solo una porzione di terra e nient’altro.

Il pomeriggio era finito, tutti i ragazzi se n’erano andati, soltanto loro due erano ancora lì, seduti su una sasso, le ginocchia abbracciate, a guardare quel niente, ad aspettare il tramonto e a parlare sottovoce di qualcosa che altrimenti avrebbero dovuto ingoiare. Avevano perso quella partita a cui si erano preparati da giorni, uno scontro tra due gruppi rivali, sei contro sei, tutti più o meno della medesima età, anche se non era questo il motivo del loro sentirsi intristiti. Parlavano delle famiglie adesso, e di quanto fosse sempre più difficile accettare quelle cene con gli occhi nel piatto, quelle atmosfere pesanti, quei visi tirati, quella mancanza di serenità che la crisi economica aveva costituito. Non ne parlavano mai con nessuno, fare i finti e gli sbruffoni a scuola e con gli altri era la norma, ma loro due potevano scambiarsi tutta la sincerità che volevano, si conoscevano da sempre, abitavano in case vicine, i loro papà erano in cassa integrazione ambedue.

Avevano già imparato a non prendere a pedate una pietra per gioco, perché si sarebbero sciupate le scarpe, e non erano andati a giocare quella partita portandosi dietro lattine e bottiglie di coca e aranciata come gli altri, solo un po’ d’acqua di fonte. Ma neanche questo era quanto li opprimeva di più. Erano le espressioni dei loro genitori dentro casa l’elemento più forte, quella cappa pesante che regnava su tutto, quel sentirsi in balia di qualcosa che non potevano in nessun modo controllare, e che pregiudicava ogni giornata, ogni momento, ogni voglia di ridere. Probabilmente se avessero vinto la partita quel pomeriggio loro due non ne avrebbero neanche parlato con le rispettive famiglie, per pudore, perché non in linea col resto; ne parlavano adesso, con tutta la sincerità che trovavano, e i loro occhi svegli cercavano una forma che superasse quel momento che segnava pesantemente quella loro adolescenza. Perché loro si sentivano già grandi, si sentivano responsabili, immersi nel mondo più di tutti quegli altri che avevano giocato la partita di calcio quel giorno, e un orgoglio fortissimo ne trascinava la voglia di sentirsi migliori, forse anche perché più sfortunati.

Già quella solidarietà che sentivano era importante, poi quel loro parlare generava le idee: avevano deciso di sistemare quel campo di calcio durante i pomeriggi futuri, tenerlo il più possibile a posto, togliere i sassi, coprire le buche, renderlo più agevole. Avrebbero chiesto un contributo agli altri ad ogni partita, non c’era niente di male, sarebbe stato il loro modo per sentirsi più utili e mettere in tasca qualcosa. Ne parlavano, mettevano a punto i dettagli, era un inizio, ed erano contenti per questo, anche se le loro parole restavano sempre appena sussurrate, ad evitare di farsi sentire, tanto che il loro dialogo non è stato possibile riportarlo in questo racconto: troppo esili quelle voci, troppo lontano chi le avrebbe potute ascoltare.

Bruno Magnolfi

domenica 13 giugno 2010

Sarò regista di teatro, da grande


Certe volte chiudevo gli occhi, per pochi istanti, come per pensare meglio qualcosa. Tante figurine silenziose iniziavano spesso a muoversi davanti a me, forse incoraggiate da quella penombra crepuscolare. Poi tutto in un attimo tornava ad essere il mondo reale di sempre, bastava un pi...ccolo rumore, un disincanto qualsiasi, ed io bambino correvo a cercare in altri luoghi quei personaggi che affioravano così facilmente da sotto alle palpebre, come in un gioco di strano prestigio,di cui non potevo dar notizia a nessuno. Certe mattine, nel bagno, lavavo il viso con acqua corrente, e sentivo sotto ai polpastrelli delle mie dita, quegli occhi che riuscivano a scorgere qualcosa che non sapevo neanche io cosa fosse, quello spazio scenico di legno, rialzato rispetto alla quota del pavimento di tutti, e sopra in continuo movimento quelle figurine di persone vestite ora come personaggi del circo, ora come cittadini di un’epoca antica, ora come domestici animali umanizzati, quasi come dentro ad una favola. Mi sentivo ricco di qualcosa che, ne ero sicuro, gli altri non potevano assolutamente neppure immaginarsi, ed il mio straordinario mondo interiore pareva vivere in perfetta simbiosi con la realtà di ogni giorno. Crebbi, e la mia malattia iniziò a manifestarsi sempre più spesso, con attacchi violenti di tosse che qualche volta non lasciavano scampo, lasciandomi senza fiato per giorni ad osservare lo scuotere del capo dei tanti dottori chiamati dai miei genitori. Lottavo, non volevo rinchiudermi nella stanza dei sogni assieme alle mie figurine in movimento perenne, pur con quanto mi attraesse quel mondo, ma fu solo in un giorno qualsiasi che tutto d’improvviso parve cambiare. Le figurine quella volta restavano ferme sopra quel tavolato, per la prima volta si erano tutte voltate a guardarmi, ed una di loro aveva preso a parlare, con voce bassa, appena percettibile: vieni da noi, aveva detto, è questo tutto ciò che ci aspettiamo da te…; ma io, pur con la grande dolcezza che mi ispiravano quelle parole, non volli ascoltare: aprii gli occhi e decisi che era ora di guarire, se non altro per imparare a destreggiarmi con loro, diventare il direttore, il regista di quelle figurine, colui che avrebbe assegnato a ciascuna di loro una parte vera nello spettacolo, e ne avrebbe diretto le scene; era questo il mio compito, adesso ne era sicuro, tutto il resto poteva attendere.
Bruno Magnolfi

La meccanica di un gesto qualsiasi


Generalmente indossava la camicia bianca col bottone del collo slacciato, con sopra una delle sue cravatte sottili, leggermente allentata, dalle sfumature scure, un po’ demodé. Prima di uscire si radeva con calma davanti allo specchio del bagno, concentrato su un’operazione da svolgere con la massima cura, fin nei dettagli, poi indossava uno dei tanti vestiti di cui era pieno il suo armadio. Usciva da casa tra le dieci e le undici, passava all’edicola dei giornali, salutava con un sorriso tutti coloro che lo conoscevano, poi passeggiava sul largo marciapiede del viale alberato, fermandosi a leggere per pochi minuti su qualche panchina. La prima sigaretta del giorno la fumava esattamente in quel momento, sotto al fresco degli alberi, aspirandone poche boccate.

I suoi capelli erano corti, ben pettinati con la riga a sinistra ed un ciuffetto sopra la fronte, la sua faccia era affilata, la carnagione del viso quasi scura, le piccole grinze d’espressione lasciavano immaginare una persona gioviale, simpatica, quasi leggera. Arrivava al caffè quando erano circa le dodici, dava sempre l’impressione di essere uscito da poco dall’ufficio o da una riunione importante, e di permettersi un aperitivo di fretta in quel locale dove conosceva quasi tutti. Scambiava qualche parola scherzosa, si faceva preparare un cocktail leggero, si sedeva ad un tavolino da solo, giusto per rileggere qualche titolo del suo giornale, e commentarlo qualche volta a voce alta, con gli altri presenti.

Normalmente quando usciva da lì andava direttamente in un ristorante che rimaneva vicino casa sua, e senza fretta si faceva servire un solo piatto, un primo o un secondo. Poi rientrava, giusto per farsi un caffè in solitudine nel suo appartamento, mentre si metteva tranquillo su una poltrona dopo aver tolto cravatta e camicia ed avere indossato un abbigliamento più comodo. Il resto della giornata seguiva più o meno lo stesso percorso, e la sua solitudine risultava comunque sempre piena di socialità. Difficile si lasciasse andare a qualcosa di diverso, si comportava così ormai da qualche anno, da quando era morto suo padre, e lui aveva lasciato il lavoro, ereditando alcuni appartamenti affittati che gli permettevano di vivere senza far niente di produttivo.

A volte si era posto il problema di come utilizzare tutto quel tempo libero, ma alla fine le cose più consone alla sua personalità erano quelle, aggiungendo qualche tiro al biliardo in tarda serata, o l’andare alle corse dei cavalli al pomeriggio della domenica. Non amava trattenersi a lungo in un posto o con qualche persona, stava bene solo spostandosi per raggiungere un locale o facendo un semplice gesto di saluto verso uno dei tanti conoscenti, il resto era qualcosa che restava al di fuori di sé, come se lui fosse pienamente cosciente di non riuscire veramente a far parte del mondo, ma soltanto di una piccola parte, quella scelta una volta per tutte, chiamandola vita, ma solo per una astrazione.

Bruno Magnolfi

Senza una fine vera


Ho avuto un’amante, qualche anno fa, diceva lui quasi con timidezza. In realtà nessuno dei due era sposato, non avevamo altre relazioni, ci dichiaravamo amanti solo per una voglia di clandestinità che ci aveva preso come in un gioco, e tenevamo un comportamento furtivo, come per difendere chissà qua...le parte di noi. La nostra relazione era totale, quando non eravamo insieme si continuava a pensare l’uno all’altra come per una fissazione da adolescenti, ci si dava appuntamenti ad ore sempre diverse e in luoghi improbabili; quando esaurimmo tutta la fantasia era l’ora di smettere, fu sufficiente non cercarsi, le nostre vite proseguirono senza sussulti. Ci eravamo dati nomi di fantasia, Chérie, io la chiamavo, il suo nome vero lo seppi solo più tardi, adesso non lo ricordo neppure. Non ho nostalgia di quel lungo periodo, è solo che tu le assomigli, mi hai osservato in una maniera che mi ha ricordato qualcosa che aveva anche Chérie nel suo sguardo, ma in fondo il nostro cervello fa sempre una scelta di sensazioni con cui paragonare il presente, e forse, pur non volendo, è proprio quello che sto cercando di fare. Per il resto non c’è altro da dire, quando la nostra relazione evaporò per un lungo periodo non sentii affatto il bisogno di averne una nuova, fu come se quel rapporto così denso avesse riempito il tempo in modo maggiore del tempo reale, e che tutto quanto fosse stato sufficiente a coprire anche una porzione consistente del nostro futuro, e del mio forse fino ad adesso. Non so perché ti ho guardato, perché ho cercato di parlarti, di invitarti al tavolino anonimo di questo caffè, sta di fatto che è il momento per me che qualcosa cambi, è nella natura, lo sento nell’aria, come la prima brezza dolce della primavera in anticipo quando l’inverno è ancora presente. Non potevamo incontrarci ieri o un altro giorno qualsiasi, era questo il momento, ed io ne sono felice. Non so quanto mi sia mai mancata Chérie, non vorrei mai ricercarla in te o in un’altra persona, non avrebbe alcun senso. Di fatto potresti benissimo essere lei, non cambierebbe una virgola di quello che ho visto nel momento in cui ci siamo guardati. Forse ci eravamo notati chissà quante altre volte io e te, ma non ci eravamo mai visti davvero, solo adesso le cose sembra siano favorevoli. Probabilmente ci sarà ancora bisogno di fantasia, di creare qualcosa che adesso non sappiamo neppure immaginarci, ma sono sicuro che le nostre intuizioni e la sensibilità sapranno guidare ogni passo del nostro cammino, se mai decideremo di intraprenderlo. Per me sarà sufficiente venire a cercarti ancora qui, un giorno che avrò voglia di guardare nuovamente il tuo sguardo, per te basterà attendermi le volte che sentirai ancora la voglia di sapere come finisca questo racconto.

Bruno Magnolfi.

venerdì 4 giugno 2010

Un uomo unico, da ricordare.




Un uomo unico, da ricordare

Il corpo riverso di un uomo giaceva per terra, nei pressi del fiume. Lui lo osservò a lungo. Non era sorpreso, solo voleva osservare con calma tutti i dettagli prima di fare e pensare qualsiasi altra cosa. Infine lo girò su di un fianco. Non aveva mai conosciuto la faccia di quella persona, ciò nonostante provava un senso di dispiacere per quella morte, quasi un’angoscia mista ad un naturale ribrezzo. Non toccò altro, si allontanò poco dopo per andare a denunciare quello che aveva trovato.

Due ore dopo dovette tornare sul posto con due poliziotti, ma non c’era più niente nel luogo esatto dove prima giaceva quel corpo. Lui iniziò a sentirsi nervoso, assicurò le autorità di aver visto e toccato il corpo di un uomo che non aveva mai conosciuto prima, forse addirittura uno straniero, ma dalle espressioni pareva che nessuno avesse voglia di credergli. Fu portato al posto di polizia e interrogato per ore. Infine firmò una serie di dichiarazioni confuse e contraddittorie, soprattutto per l’agitazione di cui era ormai preda, e fu rilasciato.

In un attimo in paese si era sparsa la notizia di quanto accaduto, e già uscendo dal posto di polizia qualcuno al suo passaggio tendeva a scansarsi. Si disse, per tutti quei giorni seguenti, che lui non era mai stata una persona affidabile, forse sapeva molto di più di quel che aveva riferito; qualcuno affermò che forse era lui l’assassino, oppure era un complice di qualcuno che aveva ammazzato un rivale, lui in seguito aveva fatto scivolare quel corpo nel fiume per lasciarlo allontanare con la corrente, e poi per cercare di uscirne pulito aveva raccontato una storia alle guardie.

Per tutta la settimana seguente nel suo negozio di falegnameria non si presentò neanche un cane. Lui stava lì, seduto, a piallare e a sistemare qualche pezzo, e intanto la gente passava davanti per osservarlo, per cercare di capire quale poteva essere la sua prossima mossa. Per due volte i poliziotti erano andati fin lì a fargli ancora delle domande, ma niente di nuovo lui aveva aggiunto o era accaduto.

Infine una sera, chiusa la sua bottega, esausto per quella situazione che si era verificata, lui con rassegnazione e coraggio tornò con la torcia elettrica fino al luogo nei pressi del fiume dove aveva visto quel corpo, si sdraiò a terra nel punto esatto dove lo aveva trovato, e rimase ad aspettare che accadesse qualcosa. Lo trovarono ancora lì, dopo due giorni, morto per arresto cardiaco, coperto di mosche e formiche, ed allora fu detto da tutti che era stato un vero veggente, uno che aveva saputo intuire la sua morte prima che si fosse verificata. Il suo negozio di falegnameria fu innalzato a sacrario, e tutti i pezzi di legno che c’erano furono venduti come reliquie. Fu scolpita in fretta addirittura una lapide, che venne cementata sopra una grossa pietra al margine della strada proprio all’inizio del paese, in modo che tutti arrivando sapessero che in quel luogo aveva vissuto un grand’uomo, uno che aveva visto e capito qualcosa al di sopra delle sue umane possibilità: un uomo unico, come si diceva adesso da molte parti, il migliore di tutti, una persona da ricordare per sempre.

Bruno Magnolfi

Il tempo e il geranio.


Il tempo e il geranio.
Sto qui, ad osservare le foglie di uno stupido geranio affogato nella terra di in un vaso, sul davanzale della finestra di fronte alla mia. Lo osservo, e vedo che le foglie iniziano lentamente a impallidire e ad ingiallire giorno dopo giorno, nel sole di questo periodo quasi estivo. Nessuno in que...ll’appartamento di cui vedo solo quella finestra si ricorda di annaffiarne la terra, e quella pianta continua a rinsecchire nel sole. Io non ci bado, sto qui, osservo ogni giorno le foglie che ingialliscono e seccano, poco per volta, e forse sono contento. L’agonia del geranio mi pare un ottima e lenta vicenda da seguire e scoprire con calma, gustandone volta per volta tutti gli aspetti. Poi un giorno piove e si bagna anche la pianta e la terra in quel vaso. Il geranio si riprende, tira su le sue foglie che si fanno più scure, si schiude anche un fiore che sembra mi guardi come per lanciarmi una sfida. Non mi piace quanto è accaduto, mi pareva inarrestabile quel lento declino, ma io ho tempo, so che tornerà il sole a picchiare forte sul davanzale e a bruciare le foglie di quella stupida pianta. Resto al mio posto, indifferente, osservo il geranio e so che prima o poi seccherà.

Bruno Magnolfi