venerdì 30 settembre 2011

Niente sara piu come prima.


Per anni ho continuato a scrivere poesie, e ancora ne ho voglia. Ma io non voglio dire ciò che dicono le parole. Cioè, non voglio dire solo quello: si tratta di lasciare che qualcos’altro scorra in mezzo alle frasi. La costruzione del pensiero spesso avviene in maniera autonoma: certo, è necessario uno strato minimo di concentrazione su qualcosa, come un canovaccio da seguire, ma il resto a volte può prendere vita autonoma e snodarsi lentamente dipanando un proprio senso in maniera indipendente da tutto, indifferente al pensiero iniziale o ai progetti elaborati. Il senso che ne scaturisce può sorprendere, ma va a collegarsi in modo stretto con ciò che abbiamo dentro, quello che non riusciamo a spiegare neanche a noi stessi. Si possono utilizzare altre buone parole per spiegare ciò che ha origine in questo modo: intuizione, creatività, fantasia, ma non è questo il senso. C’è qualcosa che non sappiamo e che certe volte fuoriesce da noi, che lo vogliamo o meno. Il controllo sul mondo è solo un bisogno, la verità è che i significati più importanti ci sfuggono. Come quando si pensa al proprio corpo e ci pare impossibile che possa resistere a tutti i maltrattamenti a cui lo sottoponiamo. E soprattutto, lui vive, cresce, si muove, indipendentemente dalla nostra volontà, quasi facendoci rabbia, certe volte. Poi, l’improvvisa sensazione che si stia aprendo uno squarcio all’interno del nostro organismo si fa avanti: come una parte del corpo che all’improvviso smetta di funzionare e si rompa, e un’emorragia di sangue e tessuti molli invada ogni interstizio dentro di noi, e che tutto all’improvviso si offuschi perché privato del complesso sistema che coordina tutto l’insieme; ecco, la paura che tutto ciò avvenga, adesso, in questo preciso momento, ci paralizza. Ci paralizza in piedi, fermi in una posizione non di riposo, l’unica in cui abbiamo quasi tutti i muscoli tesi, e siamo certi di non provare dolore, siamo convinti di poter ancora resistere; l’immobilità e la solitudine sono le uniche cose che ci permettono di credere di poter ancora essere come eravamo, come siamo sempre stati, e di non cedere al nostro umano sconvolgimento, lasciarci convinti che ancora siamo, viviamo, possiamo permetterci di stare ancora bene. Nessuno ci ha visti, nessuno è a conoscenza di quello che stiamo provando, quindi ciò che accade non è proprio vero, è solo una nostra costruzione mentale: un piccolo sforzo e tutto è passato, possiamo aspirare ancora a muoverci, pensare, scrivere poesie, anche se forse abbiamo perso un po’ di quel senso di invulnerabilità che ci sosteneva e ci lasciava strafottenti, egoisti, pieni di noi. I minuti passano, la strana rivoluzione dentro di noi è ancora lì, ci preoccupa sempre di più. Allora guardiamo attorno, cerchiamo negli altri l’aiuto necessario, quel sostegno di cui, fino soltanto a un momento prima, eravamo sicuri di poter fare a meno. Adesso ci serve, cerchiamo qualcuno, attiriamo l’attenzione con una smorfia, un’espressione di dolore, uno sguardo pietoso, un grido. Ci soccorrono, due, cinque, dieci persone si fermano, osservano in noi ciò che non vorrebbero mai accadesse anche a loro, ci parlano addosso, ci fanno domande, si informano su noi, chi siamo, cosa siamo, e infine riassumono in una sola espressione: siamo un corpo, un corpo qualsiasi, malato di chissà cosa, possiamo essere lasciati in mano ai professionisti, persone che si occupano solo di quello, non importa se la nostra era solo sofferenza di vita, dolore esistenziale, malattia da incomprensione. C’è una cura per tutto, non dobbiamo preoccuparci. Così possiamo rassegnarci ad essere, e basta. Penso questo e mi giro nel letto, nel buio della mia stanza fredda e silenziosa di una notte qualsiasi. Adesso ho capito, niente sarà più uguale per me, da domani.

Bruno Magnolfi

martedì 27 settembre 2011

Nulla sarà più dimenticato.


In un angolo della stanza c’è una branda. Mi sdraio, negli ultimi tempi ho dormito sempre e soltanto dove è capitato, sentire adesso un letto morbido sotto di me è qualcosa che non credevo più neanche possibile. Credo che il mondo mi dimostri costantemente la sua ostilità, questa è una cosa che penso sempre, che non abbandona mai i miei pensieri, ma non adesso, non in questo momento in cui posso rannicchiarmi in questa cuccia morbida, e immaginare che per almeno qualche ora nessuno verrà a pormi domande, ad osservarmi, ad interessarsi di tutte le mie cose.

Forse sono completamente sbandato, non ho più riferimenti, non so neppure dove mi trovo, ma non chiedo di meglio che essere lasciato in pace almeno qualche ora, soprattutto che non arrivi di nuovo qualche carogna a chiedermi chi sono, cosa sto facendo, per quale motivo io mi trovi qui. Chiudo gli occhi anche se non dormo, e tutta questa ostilità che normalmente mi circonda sparisce quasi per magia; avverto l’aria libera intorno a me, anche se sono in una stanza chiusa, e in fondo non mi importa neanche se qualcuno verrà davvero ad osservarmi, è sufficiente che nessuno mi tolga questa mia intimità, questa mia ricerca interiore di cui non so dire, ma che è solo mia, non si può neanche spiegare, e soprattutto non è condivisibile.

Sto qui, so che non durerà a lungo, a qualcuno darà sicuramente fastidio che io possa rimanere più di un’ora o due su questa branda, magari che io possa prendere troppa cognizione di ciò che sono, che rifletta ancora su quello che per me sia maggiormente conveniente, capisca dove mi trovo, cosa stia facendo. Quando chiudiamo gli occhi siamo tutti uguali, penso, possiamo immaginarci quello che vogliamo, e anche solo sentire la pelle della schiena a contatto con un muro freddo, in fondo non ha alcuna importanza: siamo noi, ognuno dentro al proprio abbraccio, indifferentemente da dove siamo capitati e dal destino assurdo che ci ha portati fino qui.

Non voglio pensare cosa stia succedendo fuori da questa stanza, non voglio sapere niente di quello che mi attende domani o tra un’ora, il mio corpo di persona è qui adesso, soltanto questo conta, il mio respirare sopra questa branda, essere vivo ora, senza proiettarmi oltre il presente. Poi immagino arrivi qualcuno, sento i rumori delle porte spalancate a calci, subito mi strattonano, penso, mi fanno rotolare per terra e dicono cose gridate che neanche capisco. Non importa, non oppongo alcuna resistenza, lascio che facciano di me quello che vogliono, non ho più neanche coscienza di ciò che veramente sono, che cosa veramente io voglia, o dove vorrei essere.

Mi stringo ancora su questo letto morbido, mentre allontano il pensiero di cosa sarà di me tra un’ora o due. Sono da solo, tutto intorno a me vuole che io mi senta abbandonato, che pensi solo a me stesso, come non ci fosse nessun altro nelle mie stesse condizioni. Questo è il sistema, questa la maniera per fare di me e degli altri quello che vogliono, ma la mia sopravvivenza urla dentro di me, resta attaccata a questa mia persona: abbasserò la testa, lascerò che accada tutto quello che dovrà accadere, ma non dimenticherò mai quello che è stato, mi resterà dentro, geneticamente.

Bruno Magnolfi

domenica 25 settembre 2011

Pensieri immutabili.



Alex era sicuro di aver agito d’istinto quando aveva colpito con quel forte pugno il volto del suo amico, dentro al locale dove andavano spesso a parlare e a bere una birra in pace dopo il lavoro. Non c’era stato neppure un vero motivo per quella insolita reazione che lui aveva avuto a certe parole, soltanto il bisogno di rendere chiaro quanto per lui fosse importante manifestare tutto il suo forte dissenso rispetto alle idee dichiarate dall’altro. Se ci pensava non ci trovava davvero alcuna razionalità in quello che era accaduto, eppure lui si sentiva ancora convinto che il motivo importante che l’aveva portato ad agire in quel modo, era qualcosa che sul momento si era dimostrato impossibile da accantonare.
Alex non era un risoluto, neppure un violento, non lo era mai stato, normalmente sentiva il bisogno di chiarire le cose con le parole, ma spesso gli succedeva di chiudere ogni pensiero in se stesso, come ignorando tutti coloro che gli stavano attorno, quasi come se le sue riflessioni fossero inesplicabili. Ripensandoci, non ricordava neanche il vero motivo che aveva fatto scattare quella sua reazione dentro a quel bar, eppure non si era dispiaciuto di quanto era accaduto, come se dentro di sé giudicasse impossibile un diverso comportamento. E in fondo tutto questo adesso non aveva alcuna importanza: lui era una persona, e in base a questo i sentimenti che provava erano tutti commisurati alla sua vita, le sue esigenze, le sensazioni.
Le giornate trascorrevano quasi tutte nella stessa maniera, il lavoro riempiva la maggior parte del tempo, i pensieri, gli scambi di idee, erano tutti elementi lasciati in disparte, relegati ad uno spazio mentale costituito da qualche risata, e dall’aspetto consolatorio e scontato di essere tutti all’interno dello stesso sistema. Anche bere una birra dopo il lavoro era quasi soltanto una maniera per digerire qualcosa che non si sapeva neppure fosse indigesta.
C’era stato un brevissimo battibecco subito dopo il suo pugno, e il suo amico se n’era subito andato tenendosi la mascella con una mano; anche il barista aveva detto qualcosa, ma Alex era rimasto impassibile, seduto esattamente dove si trovava, riprendendo a bere la sua birra in silenzio. Infine aveva pagato ed era uscito da quel locale, camminando lentamente lungo la strada per tornarsene a casa, ripensando vagamente a quanto era accaduto: avrebbe telefonato al suo amico nella serata, gli avrebbe detto qualcosa, forse non ci sarebbe stato neanche bisogno di trovare delle scuse per far passare via quello che ormai aveva combinato; avrebbe forse detto, modulando la voce su un registro più grave e sottotono, che oggi si vive tutti in un mondo difficile, dove ognuno si sente schiacciato da un’omologazione continua che non guarda in faccia nessuno. Si, adesso era convinto, gli avrebbe parlato di cose del genere, restando su argomenti generici, senza entrare in alcun dettaglio, evitando di confessare di sentirsi dispiaciuto, perché questa non era neppure la verità. Il suo amico lo avrebbe capito, Alex ne era proprio sicuro.
Bruno Magnolfi

venerdì 23 settembre 2011

Un pezzo di cielo sul muro





Guardo il muro in fondo alla strada, e poi volgo lo sguardo più in alto, dentro a quel cielo trasparente, con tutte le stagioni che vi si rincorrono dentro, e le nuvole, in ogni periodo, ora bianche ora grigie, senza fermarsi. Vengo qui sistematicamente ogni giorno nel pomeriggio, mi accompagna mia madre, o qualche volta mio fratello quando proprio non c’è l’assistente. Io non parlo, non ho mai parlato, ma guardo tutte le cose che ci sono qui attorno, e soprattutto quel muro, sostegno del cielo; non mi piace cambiare, per questo ogni giorno voglio che mi portino qui, per rendermi conto di quel mutamento leggero e spietato che il tempo procura su quelle pietre, sul muro, proprio quello che chiude questa piccola strada, e ne fa un vicolo cieco, dove non passa nessuno.

Hanno provato qualche volta a farmi cambiare, a portarmi a passeggiare da tutt’altra parte, ma io ho strepitato, ho preso a morsi tutti coloro con i quali ero insieme, mi sono disperato, non voglio, non posso cambiare, è più forte di me, ho bisogno ogni giorno di vedere quel muro che chiude la strada, e quel pezzo di cielo sempre diverso, che sta lì e lo sovrasta. Mia mamma è paziente, mi dice tutte le cose con calma, sottovoce, e in ogni caso cerca sempre di accontentarmi; gli assistenti invece cercano spesso di farsi vedere più energici, e certe volte mi fanno arrabbiare, pare proprio che non intendono capire un bel niente.

Mio fratello è uno pratico, sbrigativo, non ha mai molta voglia di perdere del tempo con me: dice spesso che non succede mai niente in questo pezzo di strada, secondo lui è perfettamente inutile venire fin qui, ma io neppure lo ascolto, rido di gusto certe volte quando lo dice, ma poi mi sento tranquillo quando riesco ad abbracciare con una semplice occhiata questo scorcio di mondo, questa realtà che appare insensata soltanto per tutti coloro che non riescono a coglierne l’importanza profonda. Cammino con i miei passi piccoli, direi misurati, senza mai dire niente, io non parlo, non ne ho bisogno, so che questo è il mio mondo, questo semplice tratto di strada, le cose da vedere a cui sono affezionato di più.

Mio fratello dice a volte che potrebbe portarmi con sé, farmi conoscere qualche bella ragazza, farmi divertire magari; così dice lui, ma io non gli bado: in fondo lui cosa capisce delle mie voglie vere, della mia esigenza di rivedere ogni volta quel muro, quelle pietre stonacate che sembra forse non siano utili a niente, ma che invece chiudono la prospettiva della strada, e soprattutto sostengono il cielo, lasciano che quello semplicemente si appoggi con calma sopra al suo profilo. Mio fratello non capisce, non riesce a rendersi conto: per me sapere che il mondo è fatto di cielo e di muro, è come conoscere tutto il resto di qualsiasi altra cosa, come avere visto già tutto quello che serve, perché è così, tutto quanto è là in fondo, e non c’è alcun bisogno di vedere nient’altro.

Poi torno a casa, mi metto seduto, lascio che gli altri si occupino di tutto quello che vogliono, io faccio il bravo, non parlo, è quasi come se non ci fossi. Non ho bisogno di niente, i miei pensieri sono a riposo, tutto quello di cui sento necessità è sapere che il mio muro è ancora laggiù, ben saldo, fermo a reggere il cielo, e che nessun nemico riuscirà mai a varcarlo, almeno per questa serata: domani sarà un giorno diverso, tornerò là per rendermi conto di tutto, di nuovo, e sarò ben felice di ritrovare sia quel cielo che quelle pietre al loro legittimo posto, così come spero ancora sarà, sempre nella stessa maniera, per tutto il tempo che serve.

Bruno Magnolfi

Mendicando qualsiasi identità.



Sono qui, da solo, e mi guardo attorno mentre resto seduto sopra un gradino, pensando a quanto io sia inutile agli altri, anche se non è del tutto colpa mia. Posso restare qui, posso andarmene da qualche altra parte, le cose non cambiano, tutto resta identico all’impostazione che la mia vita ha preso oramai da tanto tempo.

Osservo due donne che passano, parlano sottovoce delle loro cose, tutti hanno qualcosa di cui preoccuparsi, penso: un lavoro, una famiglia, tante cose del genere. Sento che parlano, mi piace la loro maniera pacata di scambiarsi opinioni, di dirsi tutto quello che passa per le loro teste, provo quasi un moto di invidia mentre le osservo, io che ho sempre tenuto tutto per me e non ho mai cercato qualcuno con cui condividere le mie riflessioni.

Poi mi alzo da questo gradino, so che è tardi per cambiare modo di essere, tanto vale mi accetti per quello che sono, penso, così prendo a girare per strade piene di negozi, camminando sui marciapiedi ingombri di gente. Dopo un po’ torno indietro, mi vado a sedere di nuovo sullo stesso gradino, so che tante volte mi sono detto che la mia solitudine è ormai disperata, ma so anche che non mi serve a niente cercare una scusa. Ho tentato di andare fino in fondo, forse di superare anche il limite, adesso in qualche maniera mi reputo a posto, soddisfatto di ciò che ho ottenuto, posso prendermela con tutti e con niente, posso spiegare a voce alta che non ritengo sia colpa mia se le cose sono andate effettivamente in questa maniera.

Dal mio gradino osservo la piccola piazza che mi si apre davanti, forse è questa l’unica libertà di cui posso gioire: guardare gli altri, gli edifici, i negozi, perdermi tra le cose di tutti, e fingere di essere uno qualsiasi, pur conservando l’orgoglio di non essere uno qualunque. Tornano le due donne, poco dopo, forse mi notano, continuano come prima a parlare tra loro, passano a pochi metri da me; infine si fermano, una delle due mi viene incontro per mettermi dentro alla mano i suoi spiccioli. Ecco, adesso il quadro è perfetto, non potevo proprio desiderare di meglio.

Bruno Magnolfi

mercoledì 21 settembre 2011

Per non dimenticare un amico .


In genere ci vedevamo un paio di volte la settimana. Non perché lo avessimo mai deciso, ma solo per consuetudine, perché in qualche maniera ci eravamo resi conto che andava bene in quel modo, o meglio: perché non ci saremmo mai sopportati a vicenda frequentandoci più assiduamente, e sapevamo che vederci più spesso non avrebbe avuto assolutamente alcun senso. Lo passavo a prendere in macchina, lui saliva su con un’espressione ogni volta diversa, mi guardava, io riaccendevo il motore senza avere minimamente un’idea verso dove dirigermi.

Si parlava immediatamente di qualcosa, spesso le cose più strampalate, a volte anche aggiornamenti importanti su ciò che ci poteva essere accaduto, ma il più delle volte erano le nostre differenti opinioni che mostravano l’elemento più importante da discutere subito. Si parlava di tutto, entrando in maniera anche pignola nei dettagli, ma in genere si saltava da un argomento ad un altro con una grande disinvoltura.

Certe volte si andava in giro, spesso lasciando la macchina in qualche parcheggio, e si proseguiva a piedi diretti verso qualcosa, mai una meta precisa, solo qualcosa da raggiungere o da vedere che era più un frutto della nostra fantasia che un luogo reale. L’elemento importante era andare, avere la coscienza precisa che qualcosa era in atto, ci stava trascinando verso una direzione precisa, per niente al mondo ci avremmo mai rinunciato, anche se era solo vedere uno scorcio di città oppure un tramonto.

Lui diceva: siamo due fessi, ci stiamo perdendo la cosa più importante degli ultimi tempi, ed io allungavo il passo, oppure dicevo che non c’era niente di bello dietro la sua idea disancorata da tutto. Piuttosto raggiungiamo quella collina, tiravo fuori con convinzione, da lì si domina tutto. In fondo non c’era niente di particolare di cui rendersi conto o da scoprire proprio quel giorno, ma il fatto di averlo deciso tra noi ne mostrava tutta l’enorme importanza.

La maggior parte delle volte ci raccontavamo le cose in maniera assai divertente, giocando attorno a qualsiasi pretesto e paragonando tra loro argomenti diversi, tanto da tirarne fuori aspetti surreali e da ridere, ma c’erano anche giorni in cui si dicevano cose importanti in maniera più seria. Passato e presente entravano in relazione tra loro con grande facilità nei nostri discorsi, e spesso commisurare le nostre diverse esperienze portava a riflettere e a vedere le cose in maniera insperata.

Quel giorno quando mi disse che sarebbe partito, lo fece senza dare importanza alla cosa, come se fosse quello uno dei tanti ingredienti della nostra amicizia. Anch’io non gli detti importanza, non potevamo certo fare i sentimentali tra noi dopo tutti quegli anni. Però gli promisi che sarei stato attento a tutte le nostre piccole cose a cui tenevamo, i nostri giri, le discussioni, le camminate verso una destinazione mai definita, e lui disse grazie, come fosse un regalo.

Bruno Magnolfi


martedì 20 settembre 2011

.Scena n. 20. Il riscatto.

Il faro impietoso illumina il palco dall’alto, rendendo visibile un leggero velo di polvere che sembra aleggiare, come sospeso, nell’aria calda e densa di tutto il proscenio. In platea c’è silenzio, tutti attendono l’ingresso del primo attore, lui, dietro le quinte, ha ripassato fino ad adesso tutte le parti del pezzo che dovrà recitare, è sicuro di riuscire a ricordarsi ogni battuta, ogni espressione da assumere, tutte le sfumature di voce di quella commedia così complicata e sentita.
Entra, senza neanche attendere il gesto concordato che in genere gli rivolge il regista, sente la luce sul corpo, sul viso, osserva per un attimo il buio della sala, poi si schiarisce la voce, come se dovesse affrontare un discorso politico, a braccio, quasi che la sua parte fosse la definizione del suo pensiero, come una scelta di vita. Il primo brano gira su un cruccio che lui sente vivo, ma ancor prima di aprire la bocca cerca di assumere l’espressione più seria che conosce, quasi uno sguardo sofferente, persino doloroso.
Ecco, dice guardandosi una mano in quella luce potente; sono io che sono riuscito a compiere questo misfatto, io che ho lasciato che tutto avvenisse quasi senza occuparmene, come se fosse deciso una volta per tutte che dovesse andare così, senza nessuna differente possibilità. Avevo distolto lo sguardo, forse, avevo lasciato che le cose si proiettassero in avanti per proprio conto, ed adesso non riesco più neppure ad intendere come arrestare quanto è dipeso da questa mia sciagurata indifferenza iniziale.
Silenzio; nessuno, in platea, sui palchi, e in tutto il teatro, si permette il minimo movimento. La pausa dopo queste parole si fa carica di aspettativa, l’attore si muove leggermente sopra al palcoscenico come in preda ad un forte malessere, stritolato dal dolore di una condanna calata su tutti. Lascia una pausa, attende che le parole tornino a fluire alla sua bocca come un pensiero dettato dalla coscienza, dal bisogno di rendere chiaro il più possibile tutto il rovello che lo ha portato là sopra. E’ tardi, dice; qualsiasi ripensamento è impossibile, il danno che ho procurato a tutti è superiore a qualsiasi progetto negativo si fosse intrapreso.
Poi volge lo sguardo in un punto definito dietro le quinte, osserva l’ingresso di una donna, una persona che entra apparentemente contrita in un dolore addirittura più forte di lei, raggiunge lentamente la zona di palco più illuminata, si ferma, ha soltanto il coraggio di alzare per un attimo lo sguardo da quelle assi di legno, e subito si richiude nel suo dolore. Tu sei la più colpita e denigrata, dice l’attore senza togliere lo sguardo da sopra il suo volto. Ci vorrà tanto tempo per riuscire a ridarti la dignità che adesso pare definitivamente perduta. Non so neppure da che parte iniziare ad aiutarti, non so come io possa evidenziare a tutti ciò che realmente è avvenuto.
La donna allora lo guarda, sente come un moto di orgoglio dentro di sé, volge lo sguardo sulla platea, sa che tutti stanno aspettando la prima parola che lei porgerà, la prima espressione con la quale può chiarire il suo punto di vista. Ti sbagli, dice lei alla fine; sta a me, come donna, riuscire a riprendere la dignità che mi è stata tolta. Mi impegnerò, d’ora in avanti, cercherò di farlo con tutte le forze che ho, renderò assurdo e disumano questo comportamento di alcune persone che forse mi ha denigrato agli occhi di tutti. Tocca a me, e a nessun altro, rendere chiaro che sono persona, prima ancora che donna.
Bruno Magnolfi

domenica 18 settembre 2011

Il meccanismo di un gesto.


Avevo sceso le scale quasi di corsa, la fretta di ogni giorno inviava brevi segnali alle gambe e poi giù fino ai piedi; avevo quasi aperto del tutto il pesante portone condominiale, ero riuscito quasi a sentire sfiorarmi la faccia dall’aria più fresca che correva lungo la strada; ero fuori, praticamente, già proiettato verso tutto ciò a cui dovevo far fronte, come qualsiasi altra giornata, risucchiato magicamente dalle attività quotidiane. Sarei dovuto passare di banca a ritirare dei soldi prima di andare al lavoro, non ci voleva molto, l’agenzia rimaneva lungo la strada.

Eppure, al momento di mettere la mano sulla maniglia, mi ero fermato, ma senza sapere il perché, quasi che un ripensamento importante fosse passato all’improvviso nella mia mente. Fermo, sopra la soglia che immetteva sul marciapiede, mi sentivo come paralizzato da qualcosa che non riuscivo in nessuna maniera a rendere decifrabile. Stavo pensando, ecco, forse questo si potrebbe ipotizzare di tutto quello che in un attimo solo mi stava inchiodando in quella posizione precisa, a metà tra l’interno e l’esterno, a cavallo di qualcosa che pareva più importante di qualsiasi attività.

Riflettevo semplicemente sui gesti che avrei dovuto compiere per raggiungere la fermata dell’autobus, poi attendere che transitasse, salirvi sopra, timbrare il biglietto, e così via. Mi pareva del tutto impossibile che le cose potessero procedere in quella maniera come erano previste: mi sembrava che tutta la realtà si fosse d’improvviso ingarbugliata, non ricordavo di preciso neppure dove fosse la fermata dei mezzi pubblici, e poi mi appariva complicatissimo riuscire a salire sull’autobus, trovare in qualche tasca della giacca il biglietto, timbrarlo, e tutte le altre cose necessarie a rendere di me una persona normale. Il decorso dei fatti che avevo di fronte era slegato, ogni piccola operazione era un rebus.

Rimasi fermo nell’attesa che i miei pensieri riprendessero il loro corso più naturale, ma tutto, proprio mentre cercavo di riflettere su quanto andava accadendo, nella mia mente si faceva più oscuro, non proprio come se non avessi memoria di ciò che dovevo affrontare, bensì come se tutte le azioni da compiere si fossero rimescolate tra loro dentro di me, apparendo completamente indecifrabili. Pensai di tornarmene indietro e di rientrare dentro al mio appartamento, mettermi a letto, chiamare subito il medico, ma anche questa mi parve subito una cosa estremamente complicata, quasi che i concetti di scala, di porta, di corrimano, di chiavi, avessero invertito le proprie valenze, risultando imbrogliati tra loro. Restavo sulla soglia del portone condominiale, impossibilitato a fare qualsiasi altra cosa, e forse qualcuno dalla strada mi aveva anche intravisto, immaginavo, magari aveva pensato qualcosa di strano su di me, ma io non potevo far niente, mi sentivo del tutto inabile a qualsiasi movimento.

Pensai di chiedere aiuto, ma era difficile, probabilmente non sarei neppure riuscito ad articolare correttamente delle parole, mi sentivo disperato, non sapevo più assolutamente che fare. Sentii alle mie spalle dei rumori, qualcuno probabilmente stava scendendo le scale dietro di me, sicuramente mi aveva già visto, da dietro magari mi aveva lanciato anche un saluto, ed io ad un tratto, quando ormai era vicino, lo riconoscevo: era l’inquilino del quarto piano, però non riuscivo a dirgli niente in risposta, restavo lì fermo, immobile, proprio come avevo sospettato accadesse, e lui con un gesto ecco che allargava frettolosamente il portone per permettere il passaggio anche della sua persona, poi con rapidità prendeva subito il marciapiede alla sua destra, chissà in direzione di dove, e in fretta, così come era arrivato, scompariva nel niente.

Bruno Magnolfi

martedì 13 settembre 2011

.Invariabilità delle cose ormai definite.


Andrà a finire male per me, ne sono sicuro, avevo detto sperando che qualcuno mi ascoltasse, che ci fosse almeno uno pronto a recepire quelle parole, a interpretarle, a dirmi che non era affatto il caso di fare discorsi del genere, di abbattermi così, di immaginare tutta la realtà in maniera così negativa. Ma in effetti niente era accaduto. Così, quasi senza pensare, avevo percorso un tratto di viottolo lungo i binari del treno, tenendomi al margine, proprio dove corre la fine della massicciata. Avevo assaporato la polvere dei sassi, l’odore di ruggine, il senso di niente che c’era lì attorno; poi, in quell’ora serale, un treno mi era passato vicino, spostandomi leggermente con la sua massa d’aria.

Mi era piaciuto il rumore assordante del vento e dei meccanismi in azione, l’acciaio che rotolava veloce sopra altro acciaio, e mi ero immaginato il colpo fenomenale del ferro che ti strazia nel buio senza che nessuno si accorga di niente, come un niente, appunto, una piccola cosa che accade in un attimo nel mentre sacrifichi una parte di te, senza neppure renderti conto. Ho proseguito a camminare, con gli occhi puntati per terra ad evitare ogni inciampo, e altri treni sono transitati, ma ormai più distanti, come se l’impatto iniziale fosse ormai superato. Infine sono tornato indietro, disgustato di tutto, anche delle mie incapacità.

Mi sono sdraiato sul letto, da solo, nella mia stanza, nella morbida oscurità della finestra schermata dalle tende, e ho cercato di pensare. Quanto egoismo nei nostri modi di essere, anche nei miei, ho riflettuto. Ho provato il terrore che potesse suonarmi il telefono, ma non è accaduto. Avrei voluto allontanarmi da me, iniziare a pensare qualcosa indipendentemente dalla mia persona, da quello che sono, dalla mia vita, dai miei guai, ma tutto invariabilmente lì in quella stanza ripiombava sulle mie cose, su quelle piccole sciagurate faccende che pareva non volessero proprio filare per il verso giusto.

Ho cercato di immaginare un mondo dove ognuno si preoccupa maggiormente delle altre persone, ma mi sono reso conto in un attimo che nessuno mi ha mai abituato a fare così. Pensavo, e capivo che non c’era dentro di me la cultura appropriata ad affrontare le cose in maniera diversa, e quindi era ovvio che soffrissi per ogni piccolo smacco subito dalla mia persona. Mi sono concentrato, ed ho provato una voglia profonda di sincerità, non soltanto dagli altri, ma anche da me stesso. Sono tornato ad uscire, ho girato per strada, poi sono entrato dentro a un locale.

Mi sono messo al bancone ed ho offerto da bere ad un tizio che stava lì, apparentemente senza pensieri. Gli ho chiesto se aveva bisogno di parlare, o di qualche altra cosa, se potevo essergli utile, ma quello mi ha ringraziato della birra, se l’è scolata, poi si è alzato ed è andato via. Anch’io allora sono uscito, e mi sono guardato le mani, ho cercato qualcosa tra le case e le strade che mi circondavano, ma non ho trovato un bel niente che mi desse una spinta, che potesse mostrarsi capace di quello scambio di sincerità di cui sentivo forte bisogno. Ho continuato a girare, ho fermato qualche persona sul marciapiede, ho cercato di fare domande, di interessarmi di qualche problema diverso dai miei, ma tutti mi hanno indicato quell’unica strada che avevo di fronte. Così, velocemente, sono rientrato nella mia casa, mi sono sdraiato di nuovo sul letto, con i treni che avevano ripreso a fischiare forte nelle mie orecchie, ma ho cercato di farmi forza, di pensare che non avevo motivo per fare così; poi, lentamente, ho preso sonno.

Bruno Magnolfi

lunedì 12 settembre 2011

La vita vicina (ripresa cinematografica n. 5).



Un uomo cammina senza una meta cercando dentro di sé un minimo di tranquillità e soprattutto il coraggio per tornarsene a casa. C’è un locale quasi in fondo alla strada, così entra dentro senza alcuna intenzione, giusto per dare un’occhiata. Mentre si sistema seduto al bancone conta gli spiccioli che gli rimangono dentro alle tasche, chiede una birra e il cameriere gliela serve senza guardarlo.

A quell’ora là dentro c’è ormai poca gente, e ognuno sembra proprio che badi soltanto alle proprie faccende. Una donna alle spalle invece gli si avvicina, chiede con un’occhiata al barista qualcosa da bere, infine si siede con una leggera espressione sorridente del viso. Sicuramente lei ha qualche anno in più rispetto a lui, ma vestita e truccata com’è riesce a mostrarsi giovanile e a camuffare benissimo la sua vera età.

Agli inizi parlano solo di cose senza importanza, poi lei dice senza mezzi termini che potrebbe fare del sesso con lui anche per pochi soldi. L’uomo risponde che non gli interessa quell’argomento, e se lei vuole possono farsi ancora un po’ compagnia, nient’altro, e in ogni caso ribadisce che lei deve sentirsi libera di fare tutto ciò che le va maggiormente, anche andarsene. La donna rimane seduta, adesso parla con più libertà di se stessa, della sua situazione, lui segue con attenzione ogni ragionamento e ogni tanto dice la sua.

Lui infine si offre di accompagnarla fino al suo appartamento, lei non abitava lontano, ma fuori a quell’ora non c’è più nessuno, e così fanno la strada con passo lento, come due innamorati, continuando con impegno a parlare. Quando si separano lei dice che era da tanto tempo che non conosceva un uomo simile a lui: così comprensivo, capace di ascoltare gli sfoghi di una donna qualsiasi come lei si sente di essere. Lui le sorride per la prima volta, la bacia sulla bocca, poi se ne va di malavoglia, lasciandola davanti al portone, senza chiederle il nome e neppure sapere dove andare di preciso a passare la notte.

Quando infine ha percorso poche decine di metri, con le mani dentro alle tasche, lui torna indietro per osservare con curiosità quale tra tutte le finestre buie di quel palazzo si sia illuminata. Lei si affaccia scostando la tenda giusto un momento, quasi sicura di trovarlo là sotto, gli chiede con dei cenni se gli va di salire, e lui risponde di si.

Bruno Magnolfi

venerdì 9 settembre 2011

Scriverò un libro per questi quattro imbecilli.



Immobile, sdraiato su questo vecchio divano, osservo la luce del giorno che filtra con garbo dalla tenda della grande finestra. Mi sento completamente indolenzito, la mia mano sfiora il tappeto sul pavimento, avverto la pelle sudaticcia e fastidiosa sotto a questa camicia piena di grinze, e un gran mal di testa mi martella le tempie.

C’è stata una festa, rifletto tanto per partire da qualcosa di certo; ho bevuto fino alla nausea, fino quasi a stordirmi, tanto da perdere coscienza della mia situazione, del mio vivere giorno per giorno, senza mai un dato sicuro.

Certe volte mi illudo che la mia condizione possa cambiare da un attimo all’altro, che io riesca ad agganciare una tizia piena di grana e sistemarmi a dovere. Ma per quanto mi tenga in allenamento, conosca diverse persone del giro, riesca ad intrufolarmi tra la gente che conta, alla fine non riesco a concludere niente, se non rimorchiare qualche ragazza messa peggio di me.

Il mio ruolo lo porto avanti benissimo, riesco simpatico, in certi casi affascinante, conosco benissimo le parole chiave di molti argomenti, e so quando usarle. Però sembra proprio che nessuno, oltre queste serate inefficaci e surreali, mi conceda un credito minimo che riesca a farmi superare la lucidità del giorno seguente.

Molte volte ho pensato di prendere appunti, di scrivere un libro, un pamphlet di memorie per questi anni trascorsi così, alla ricerca di qualcosa forse di irraggiungibile, che per gente come son fatto io, forse non arriverà mai. Oggi scrivono tutti, penso, non ci sarebbe niente di male. Qualcuno magari sarebbe pronto a dire che se ne sentiva proprio la mancanza di una cosa del genere. Dovrei forse comprarmi un registratore, e buttar dentro tutte le cose che mi passano dentro la testa.

Certe sere sono stato in mezzo a qualche presentazione di libro, scritto magari dalla figlia dell’ingegnere e pubblicato dall’editore amico della famiglia, ma ho respirato soltanto falsità, anche maggiore di quella che uno come me riesce a mettere in campo. Però la strada potrebbe essere buona, una patina culturale mi aprirebbe moltissime porte, sicuramente sarei visto di buon occhio da moltissime separate piene di soldi in cerca di qualche tizio da mantenere.

Poi mi muovo, mi tiro su in piedi, ravvio i capelli e stiro con la mano il colletto della mia camicia. Non posso continuare così molto tempo, penso con una smorfia sopra la faccia. Devo trovare la maniera per svoltare la strada, devo scrivere un libro, ecco, è proprio questa la maniera per uscire da questa situazione impossibile. Potrei cominciare già adesso, penso ancora, mentre questo insopportabile mal di testa continua ad aleggiare dentro di me: sul tavolino c’è il retro bianco di un opuscolo e anche una bella matita. Scrivo: “Immobile, sdraiato su questo vecchio divano…”, poi mi fermo; nessun imbecille leggerà mai cose del genere, penso; però non ho altro, tanto vale tentare.

Bruno Magnolfi

mercoledì 7 settembre 2011

Senza neppure certezza del nome.



Avevo avvertito un bisbiglio nel buio della camera da letto, qualcosa di strano, tanto da rendermi inquieto e non permettermi più di dormire. Così mi ero alzato, avevo acceso la lampada e girato a lungo dentro alla piccola stanza di quella pensione, poi mi ero seduto. Non c’era niente che giustificasse un rumore come quello che avevo sentito, ma soprattutto non era possibile che qualcuno fosse entrato là dentro per bisbigliare strane frasi ai piedi del letto. Mentre i minuti passavano nel silenzio completo dell’ora notturna, cercavo di pensare sempre di più che mi fossi sbagliato, che il mio dormiveglia mi avesse giocato uno scherzo, e con questa riflessione tornai a coricarmi, anche se non riuscivo a trovare la tranquillità sufficiente per addormentarmi. Ripensavo a quello che avevo sentito, o almeno creduto di sentire, e sempre di più mi pareva di aver distinto le sillabe distorte che compongono un nome: il mio.

Nei giorni precedenti avevo vagato a lungo per la città, senza decidermi a niente: cercavo un lavoro, questo era il punto, mi ero trasferito dal mio piccolo paese di provincia proprio per questo, ma adesso che dovevo mettere in atto tutte le strategie e le conoscenze che avevo per riuscire a farmi dare un’occupazione, sembrava che qualsiasi pensiero fosse capace di distrarmi da quei miei buoni auspici. Giravo per tutte le strade in qualche caso addirittura perdendomi, tanto da dover chiedere a qualche passante la direzione per tornare verso i quartieri che conoscevo di più. Sentivo quasi, dentro di me, la necessità per quella solitudine incontrastata che continuavo a cercare, quel muovermi lungo le vie incuriosito da tutto, mescolandomi a tante persone del tutto indifferenti alla mia situazione, preda com’ero di pensieri ondivaghi ed inconcludenti.

L’angoscia, che per tutto il giorno riuscivo in qualche modo a tenere distante, scaturiva fuori immediata quando rientravo nella camera della pensione, ma non era sufficiente ad indurmi ad un comportamento maggiormente concreto. I soldi che mi erano stati prestati dalla mia famiglia diminuivano senza rimedio, ma io, che prendevo i pasti in quell’alberghetto ordinando vini costosi e piatti speciali, fingevo quasi di non accorgermi di quanto stava accadendo. Infine, con un gesto quasi di disperazione improvvisa, ero andato dalla proprietaria di quella pensione per pregarla di darmi un lavoro, o perlomeno qualcosa da fare. Lei non aveva detto di no, semplicemente si era lasciata del tempo per prendere una decisione, ed eravamo rimasti d’accordo che mi avrebbe dato senz’altro una risposta alla fine di quella settimana.

Mi pareva che tutto potesse riprendere un senso, che la mia vita iniziasse in qualche maniera a scorrere con regolarità, così quella sera avevo bevuto qualche bicchiere di troppo. Avevo offerto da bere a tutti coloro che stavano attorno a me nel ristorante, ed avevo parlato con chiunque delle cose più sciocche. Mi ero coricato quando ormai era tardi, e mi era parso, fantasticando senza alcun freno, che fosse l’ultima notte che dormivo in quella spelonca, e che dal giorno seguente le cose avrebbero preso un corso diverso per me. Ma quel bisbigliare il mio nome nel buio aveva riportato ogni pensiero alla mia situazione reale, e all’improvviso sentivo il calare delle preoccupazioni dentro di me, e la mia fronte che si imperlava sempre più di sudore.

La notte passò così, in qualche maniera, senza che fossi riuscito a chiudere occhio, e quando scesi nella saletta per la colazione, la proprietaria della pensione mi disse che pur dispiacendole non c’era posto per me tra il personale che aveva. Saldai così il conto con i pochi soldi che mi erano ancora rimasti, firmando sul registro dell’albergo accanto al mio nome, poi chiesi se per caso qualche cliente avesse l’abitudine di bisbigliare nei corridoi durante la notte. Non credo, mi fu risposto, in ogni caso c’è effettivamente qualcosa di strano: il nome sul suo documento è diverso da quello con cui si è firmato.

Bruno Magnolfi

domenica 4 settembre 2011

Ingiustificata solitudine.




Alcune conoscenti si erano fermate da me per chiedermi di uscire assieme a loro, ma io avevo risposto, con apparente dispiacere, di non sentirmi troppo bene, e per questo preferivo rimanere a casa, perlomeno quel pomeriggio. Dopo qualche insistenza loro avevano acconsentito alla mia volontà, ma se ne erano andate soltanto promettendo, sia a me che a loro stesse, di ripassare più tardi per assicurarsi che non avessi bisogno di qualcosa, e soprattutto per verificare che il mio malessere fosse ormai scomparso, come si auguravano.

Le osservai dalla finestra mentre si allontanavano parlando e ridacchiando di qualcosa, ed io provai una certa distanza nell’immaginare i loro giri dentro ai negozi, quel passeggiare senza meta che conoscevo bene, il loro fermarsi dentro al solito caffè, e cose di quel genere. Mi sedetti sopra una poltrona e la mia solitudine improvvisamente mi parve una fortuna, qualcosa sicuramente da difendere come un aspetto importante della personalità. Mi sentivo libera di fare e di pensare, dentro alle mura della mia piccola casa, e mi pareva questo, a mio modo di vedere, l’elemento di gran lunga più importante.

Mentalmente cercai qualcosa di cui interessarmi, tanto per far trascorrere del tempo, ma in breve la mia ricerca apparve inutile. I miei pensieri pareva d’un tratto galleggiassero nel niente, sentivo fuori le auto e i rumori della città, tutto quanto che proseguiva come sempre, ma la distanza tra me e il resto sembrava aumentare ad ogni istante. Mi sollevai dalla poltrona, girai per casa cercando qualcosa da toccare o di cui occuparmi, almeno per qualche attimo, ma ogni mio sforzo fu del tutto inutile. Vedevo tutto quanto intorno a me perfettamente a posto, come se niente avesse necessità di un mio intervento, tanto da lasciarmi inerte, praticamente inutile. Sentivo la mia personalità costantemente incapace di affrontare i malesseri che mi sembrava di provare, e le altre persone a cui pensavo, al mio confronto, mi apparivano tutte estremamente fortunate.

Decisi di cambiarmi d’abito e di raggiungere frettolosamente le mie amiche, dire loro tutto ciò che in quel poco tempo mi era passato per la testa, scongiurarle di non lasciarmi sola, incapace di affrontare quel vuoto profondo che sentivo adesso dentro me, ma tutto mi parve complicato; pensai che probabilmente non sarei neanche riuscita ad incontrarle, e che avrei provato in quel caso uno sconforto anche maggiore. D’improvviso riflettevo con angoscia che la preoccupazione provata per me stessa stesse diventando quasi una fobia, e ne provai paura. Continuavo a muovermi tra la camera da letto e il salottino torcendomi le mani, senza decidermi a niente, come se, tutto ad un tratto, quell’equilibrio del quale provavo perfetta sicurezza fino a poco prima, quella sensazione di stabilità, quella coscienza che avevo messo a punto in tutti i miei giorni, fosse scomparsa, perduta in un attimo senza alcun’altra possibilità.

Passò ancora del tempo in cui la mia costernazione raggiunse quasi il paradosso, fino a quando sentii alcune voci giungere dall’esterno, e forse udii pronunciare anche il mio nome: mi avvicinai velocemente alla finestra e vidi le mie amiche che stavano tornando. Mi scesero le lacrime, ma cercai subito di ricacciarle indietro pensando a quanto sciocco fosse il mio comportamento. Mi venne voglia di aprire la porta e di abbracciarle tutte quante quelle donne che venivano a salvarmi, ma pur accogliendole cercai di conservare un atteggiamento più posato. Infine quelle entrarono dentro la mia casa con la loro solita allegria, constatarono subito però come la mia espressione dimostrasse uno sconvolgimento che non riuscivano a spiegarsi, così come i miei modi apparissero nervosi e pressoché ingiustificati: così mi fecero subito sdraiare sul mio letto, e in breve si decisero a chiamare velocemente un medico.

Bruno Magnolfi


Una donna con la sua bicicletta (ripresa cinematografica n. 4).



Non è successo niente, pensavo osservando quei curiosi che continuavano ad avvicinarsi a quel punto della strada dove la donna in bicicletta era caduta, senza peraltro farsi troppo male. Alcuni l’avevano subito soccorsa, altri erano sopraggiunti velocemente ad osservare i primi, anche se io continuavo a pensare che non ci sarebbe stato affatto bisogno di tutto quel trambusto. Ero rimasto immobile, fin da subito, seduto sopra la panchina a pochi metri, perché quando mi ero accorto dell’accaduto e al momento in cui forse avrei voluto e potuto intervenire, qualcuno l’aveva già fatto prima di me, e attorno a quel ciglio di strada si era formato in un attimo un piccolo assembramento di persone, tanto fitto da darmi quasi fastidio.

La donna in bicicletta mi era passata vicino pedalando lentamente proprio poco prima di cadere: io l’avevo osservata e lei aveva notato me. Tutto adesso avrebbe ripreso la sua normalità in pochi minuti, pensavo, e infatti la donna aveva presto recuperato la sua bicicletta e tutti attorno poco alla volta si erano dileguati lungo quella strada. Forse avrei potuto intervenire, pensavo, fare qualcosa, mostrare la mia buona volontà. Avrei potuto aiutare quella donna a rimettersi in piedi, sorreggerla fintanto che il piccolo dolore alla gamba le fosse passato; avrei potuto rialzare la sua bicicletta, assentire ai commenti di lei su quella pietra sconnessa che le aveva fatto perdere inequivocabilmente l’equilibrio. Forse avrei potuto offrirmi di accompagnarla nel bar più vicino, per un caffè, o qualcosa di forte per lenire lo spavento. Ma non avevo fatto niente.

Lei mi era transitata vicino, forse una piccola intesa era passata tra di noi, ci eravamo osservati per un attimo, io ero rimasto fermo, senza espressione, avevo soltanto continuato a guardare la sua pedalata lenta, il suo modo di fare particolare. Forse non avevo pensato niente, anzi avevo distolto lo sguardo a un certo punto, proprio per non apparire insistente, come qualcuno che riesce solo ad incuriosirsi degli altri, senza rendersi conto di dimostrarsi soltanto fastidioso. Lei mi aveva notato, questo si, ma non mi sembrava affatto una persona curiosa, un tipo di donna che va in giro ad osservare tutti gli altri.

Era caduta perdendo l’equilibrio in un attimo, ma la sua bicicletta era quasi ferma tanto pedalava lentamente; il marciapiede era ingombro di persone come sempre, ma io me ne stavo sopra la panchina, tranquillamente, senza alcuna idea particolare nella mente. Forse avrei voluto parlare a quella donna, dirle che mi aveva colpito il suo modo di fare, quel girare svogliatamente lungo le strade cittadine. Ma la sua caduta aveva richiamato l’attenzione di tutti quanti, io non avrei potuto mai dirle quello che mi passava nella testa, non sarei neppure stato utile, si sarebbe dimostrato solo un ingombro il mio, un inutile affaccendarsi privo di qualsiasi significato; per questo non avevo fatto niente.

Poi lei aveva ripreso la sua bicicletta, era tornata a salire sopra al sellino, e si era allontanata, forse con una certa timidezza per quanto era accaduto. Non era successo proprio niente, continuavo a pensare tra me; osservavo il traffico della strada restando seduto sopra la panchina, e provavo dispiacere per quel capannello di persone che subito si era formato, come se nessuno avesse altro da fare che non accorrere in massa per una cosa così sciocca, una cosa da niente, senza significato. Restavo lì senza decidermi a nulla, svogliatamente, e ad un tratto vidi la donna con la sua bicicletta che era tornata indietro, si era soffermata a riguardare la pietra sconnessa dove era caduta, poi era venuta verso di me: grazie, aveva detto; poi si era allontanata.

Bruno Magnolfi


venerdì 2 settembre 2011

Distrattamente.



Non mi interessa, ero pronto a spiegare al citofono a quell’anonimo che aveva appena suonato il mio campanello di casa, un piccolo appartamento del terzo piano, immaginando qualcuno delle vendite porta a porta che ti infastidiscono per ore con un prodotto o un servizio di cui in genere già alla partenza si ritiene di poter fare a meno benissimo. Invece nessuno aveva parlato, silenzio, come se la mia laconica risposta fosse già stata inglobata all’interno di quel trillo elettrico.

Naturalmente pensai ad uno sbaglio o a qualche ragazzo in vena di scherzi, e tornai a sedermi sulla poltrona, riprendendo in mano il giornale e dimenticandomi subito di quella faccenda. Invece, dopo neppure dieci minuti, il campanello tornò a farsi sentire. Stavolta feci scattare il meccanismo di apertura del portone e mi affacciai sulle scale, per rendermi conto di persona chi potesse essere a infastidirmi così.

Una donna saliva lentamente le scale, senza minimamente sollevare lo sguardo per farsi vedere, così io, con pazienza, lasciai che completasse tutte le rampe, fino a quando, tenendo leggermente sollevata la lunga sottana con una mano, lei giunse a due gradini dal mio pianerottolo, si soffermò, poi mi raggiunse allungando la mano come a volersi presentare, ma restando in silenzio. Buongiorno, dissi io, senza riuscire assolutamente a capire quale potesse essere il motivo che aveva fatto arrivare fino da me quella persona. Posso entrare?, disse lei già infilandosi nel portoncino, così io non riposi neppure, e mi limitai soltanto a seguirla, improvvisamente preoccupato di qualcosa che neanche io al momento avrei saputo spiegare.

Sono Rosanna, disse lei una volta giunta nel corridoio e voltatasi verso di me; eravamo bambini insieme, tanti anni fa, ti ricordi? Io non ricordavo assolutamente un bel niente di quanto andava dicendo quella signora per me sconosciuta, anche se forse potevamo veramente esserci frequentati da piccoli, e comunque annuivo lasciando che continuasse a parlare, anche soltanto per capire quale fosse il motivo finale di quella sua visita. Ho bisogno di te, diceva lei, devo riuscire a farti ricordare qualcosa di quel periodo, qualcosa che per me è estremamente importante.

Naturalmente la invitai a sedersi, a parlare con calma di quelle faccende di cui mi pareva all’improvviso di rammentare qualcosa, la strada dove abitavamo, qualche nome a cui aveva accennato, ma quella donna continuava a guardarmi come se non avesse alcuna voglia di parlarmi a lungo di quel periodo, e le fosse sufficiente così, come se le bastasse starsene lì con gli occhi sulla mia faccia, mantenendo un’espressione tra il sorridente e il commosso, e non avesse bisogno di altro. Infine chiese semplicemente di scusarla, per lei quell’infanzia era stato il periodo più bello della sua vita, e sapere che c’era qualcuno che aveva vissuto la sua stessa esperienza le faceva un enorme piacere.

Si alzò, all’improvviso, senza neppure accettare il caffè che le avevo proposto, disse che era meglio se andava, che forse non avrebbe neppure dovuto venire, poi, ormai sulla porta, si volse verso di me, mi guardò ancora una volta come soltanto una donna innamorata può fare; guardò i miei capelli, i miei occhi, come a scolpire nella memoria quei tratti, e infine riprese le scale, senza aggiungere altro. Per tutta la sera pensai a lei, al nostro esser stati bambini, senza che a me fosse rimasta di quel periodo la stessa traccia importante che lei aveva conservato per così tanto tempo. Più tardi, sul pavimento, trovai un piccolo foglio piegato, lasciato casualmente in un angolo: ti ho amato, diceva; nient’altro.

Bruno Magnolfi