martedì 26 febbraio 2013

Dialogo n. 10. Incomprensioni di donne.

 
Dialogo n. 10. Incomprensioni di donne.
Fumavano i due, appoggiati ad un muro, a godersi il sole cittadino di quel primo pomeriggio d’inverno. Avevo girato lì attorno, la mano infilata in una busta di plastica, in fondo al guinzaglio il barboncino nano della mia fidanzata.
Sorrise, aveva detto il primo al secondo. Io intanto avevo raccolto i piccoli escrementi che subito avevo gettato dentro al contenitore dei rifiuti vicino. Le piaceva, aveva subito dedotto l’altro, lasciando uscire una boccata di fumo in mezzo ai denti, e allargando le labbra.
Il cane si era seduto sul marciapiede, indifferente, come in attesa, ed io avevo cercato di dirgli qualcosa, ma senza che le mie parole avessero avuto nessuna minima importanza, restando in attesa, proprio come faceva lui, sul marciapiede, e cercando di decidere verso dove si avesse voglia di andare.
Non so, aveva come ribadito il primo uomo a quell’altro: aveva uno sguardo. Che sguardo, replicava il secondo con interesse, e intanto si voltava, come a guardare chi stesse giungendo, o se qualcuno stava giungendo, anche se non c’era proprio nessuno lungo quel marciapiede, se non io stesso, di spalle, ignorato, e il mio barboncino, inchiodati a tre o quattro metri da loro.
Contemporaneamente avevo cercato di tirare dolcemente il guinzaglio, giusto per togliermi dall’imbarazzo, naturalmente non ottenendo alcun risultato. Non so: uno sguardo, aveva detto l’uomo, forse soltanto per aprire una nebulosa di possibilità, che peraltro restava assolutamente impossibile da comprendere, secondo lui.
Intanto il cane si era deciso e ci eravamo così spostati più avanti, ma subito dopo il barboncino aveva voluto tornare indietro, sui nostri passi, ed io lo avevo seguito, naturalmente odiando il giorno in cui mi era presa l’idea di regalare quel cucciolo alla mia fidanzata.
I due avevano continuato a fumare, abbagliati dalla luce calda del sole e forse dal pensiero di uno sguardo che non erano riusciti del tutto a decifrare. Poi uno aveva concluso: sono tutte così, come a spiegare che non valeva neppure la pena di stare a parlarne. Io naturalmente avevo annuito, ma poi il barboncino aveva tirato il guinzaglio da un’altra parte, proprio per farmi capire che desiderava portarmi da tutt’altra parte, una volta per tutte.
Bruno Magnolfi

Mosche morte.

  Già da un po’ di tempo avevo deciso di non morire. Troppe cose interessanti ci sono nel mondo, pensavo, troppe curiosità che ho bisogno ancora di togliere dai miei pensieri, non posso lasciare che una cosa così stupida eviti il compimento dei miei percorsi. Ma poi qualcuno degli altri con i quali siamo rinchiusi qua dentro, mi ha fatto capire che probabilmente non usciremo mai più da questa clinica, ed io anche se non ci ho creduto, poco per volta, senza affannarmi, ho cominciato a cambiare la mia idea.
            La cosa che non sopporto di questo posto, è che ci sono le mosche. Gli infermieri mi fanno tre iniezioni ogni giorno, per farmi stare tranquillo, mi dicono. Ed io dormo bene, sono contento, specialmente la notte. Ma quando mi sveglio al mattino ecco che avverto subito il ronzio tipico della mosca che avanza verso di me. Mi copro la faccia con tutto il lenzuolo, ma c’è poco da fare.
            Gli infermieri non sono cattivi, svolgono soltanto il loro mestiere, penso, però sembra proprio che a loro le mosche non diano neanche noia, come non ci fossero neppure. Perché non parli, mi chiedono quasi ogni giorno, ma io continuo a mugugnare qualcosa tra me e basta, che senso avrebbero le mie parole nello spiegare a questa gente la mia decisione di lasciarmi alla morte? Passeggio nel corridoio, e le mosche sono lì, che si scaldano al sole vicino alla vetrata. A volte mi chiedo come abbiano fatto ad entrare, visto che ci sono delle inferriate robuste alle finestre, ma poi lascio perdere, troppe domande non serviranno mai a niente.
            Adesso non so quando riuscirò a morire veramente, penso, considerato che comunque mi sento ben convinto di ciò che ho deciso, però credo che quando uno rinuncia a qualcosa, è normale poi che ci voglia del tempo prima che le cose si mettano in pari. Ma intanto queste mosche non si risparmiano, e volano, ronzano, sembra non abbiano altro da fare. Io ho trovato un giornale, l’ho arrotolato e penso che potrei utilizzarlo per scacciarle.
            L’infermiere mi sistema nel letto, mi fa l’iniezione come sempre, guarda il giornale che mi sono messo accanto e mi chiede se abbia voglia di leggere prima di prendere sonno. Può darsi, penso senza rispondere niente, ma l’infermiere credo capisca ugualmente anche se non ho detto nulla, difatti sorride e va via, ad occuparsi degli altri. Poi mi addormento.
            Quando mi sveglio sento le mosche che ronzano, allungo una mano, prendo il giornale e subito ne schiaccio una contro il muro accanto al mio letto, poi un’altra sulla coperta, e vado avanti, ormai non posso più fermare il mio impeto. Arriva l’infermiere, io mi agito ormai in piedi sul letto, ho deciso di morire, gli dico ridendo e a voce alta, voglio fare la stessa fine di queste mosche. L’infermiere mi prende per le spalle, mi sistema seduto sul letto, mi racconta qualcosa che non capisco, ma lo fa con voce garbata, come raccontasse una favola, e a me pare quasi che quelle mosche schiacciate, che adesso non infastidiscono più, all’improvviso riprendano vita, e volino via, tutte insieme, a curiosare fuori da qui, tra le cose del mondo, e in un attimo, in contraddizione evidente con quanto pensavo fino adesso, ne sono perfino contento.
            Bruno Magnolfi

lunedì 25 febbraio 2013

L'uomo contemporaneo.



Per un attimo mi ero specchiato nei vetri lucidi della finestra, muovendomi lentamente ora in avanti ed ora indietro nell’ufficio, ma non avevo propriamente guardato fuori, piuttosto avevo avuto come la sensazione che fosse il fuori ad osservarmi. Poi avevo parlato per brevi monosillabi ai miei collaboratori vagamente imbarazzati, che continuavo a tenere ancora inchiodati di fronte a me, due seduti ed uno in piedi vicino allo scaffale, senza dare troppa importanza a nessuno di loro, o ai loro fogli e ai blocchi per appunti che tenevano tra le mani. Proseguivo piuttosto a guardare dei punti indefiniti, mostrando preoccupazione per qualcosa d’altro, qualcosa che oscillava tra la mia testa e qualche breve telefonata che ricevevo e che in genere mi aggiornava semplicemente sui tanti aspetti del mio lavoro. Avevo posto loro delle domande, naturalmente cambiando più volte argomento, e mi rammaricavo che molte cose fossero rimaste in aria, sospese e quasi in attesa di giudizio: l’accavallarsi dei fatti e delle decisioni nel mio ufficio era comunque sempre stato un elemento del tutto ordinario, perciò non c’era niente da stupirsi.
Poi, durante un’ulteriore telefonata al cellulare, ero uscito dalla stanza, giusto per farmi sentire dagli altri e dare una scrollata eventuale a chi non fosse pienamente impegnato nel proprio compito, e avevo visto così quella persona in sala attese, un ragazzo poco più che ventenne, mentre aspettava il suo turno probabilmente per un colloquio. Non mi piacque, anche se non avrei saputo dirne il motivo, ma per questo decisi subito che lo avrei fatto aspettare più di quanto fosse stato necessario. Tornando verso la mia scrivania alzai un po’ la voce spiegando che non era possibile complicare sempre le cose fino al punto di non trovare più in seguito una via d’uscita. Era una frase riferita a certe squadre di lavoro che per un motivo o per un altro, usando scuse tendenzialmente pretestuose, non completavano mai le cose così come veniva chiesto di fare ai caposquadra, creando in seguito pregiudizio sulla programmazione delle attività. Poi ebbi un vuoto, mi parve di rivivere una stessa situazione, come spesso capita, ma con la differenza che adesso mi pareva con terrore che tutto mi sfuggisse, e di non avere pieno controllo sulle persone. Per questo decisi di essere più duro con quei miei collaboratori scansafatiche.
Feci uscire tutti, dettai degli ordini da eseguire cercando il massimo dell’incisività, poi chiesi a che punto fossero arrivati certi aggiornamenti. Fu risposto con timore che erano indietro, come peraltro già sapevo, così con voce leggera chiesi di lavorare nella serata oltre le venti, per rimediare al più presto alle mancanze. Cambiai argomento prima che si commentasse il precedente, e detti una sferzata critica e generica a tutti coloro che probabilmente pensavano di fare un po’ come pareva loro, almeno secondo me, in modo che ognuno riflettesse bene prima di sollevare qualsiasi obiezione. Infine mi lamentai che niente ultimamente andava come avrebbe dovuto: le squadre di lavoro erano seguite troppo poco, la programmazione era poco definita e lasciata molto al caso, le contabilità spesso erano indietro, i mezzi ed i materiali nuotavano nel caos o nell’abbandono. Tutti abbassavano la testa; le mie parole inchiodavano ognuno di loro: ero sicuro che soltanto così potevo gestirli come volevo io.
            Con molto impegno solo apparente la segretaria continuava nella stanza a fianco a digitare qualcosa sulla sua tastiera del computer, ottemperando all’ordine di eseguire una relazione circa la produzione dell’impresa nell’ultimo mese, e aveva alzato la testa dallo schermo appena per un attimo, quando le avevo chiesto in malo modo e con voce troppo alta le date dei corsi per gli operai sulla sicurezza nei cantieri. Poi aveva riguardato il documento finito, zeppo di note e di cifre, lo aveva riletto svariate volte sostituendo qualche parola e limando qualche frase, lo aveva stampato e con qualche titubanza aveva portato i fogli debitamente spillati tra loro nel mio ufficio.
In quel momento stavo seduto sulla mia poltrona in pelle nera, e continuavo come sempre a discutere al telefono; così avevo allungato una mano senza alzare mai gli occhi dai numerosi fogli e incartamenti che invadevano la mia scrivania, e mi ero fatto consegnare il documento, disponendomi ad osservarlo attentamente. Lo avevo scorso tutto, velocemente, leggendo solo qualcosa e proseguendo la conversazione al telefono, segnalando con un lapis diversi punti da correggere mentre tenevo con la spalla la cornetta incollata ad un orecchio; alla fine lo avevo firmato con la mia penna in ultima pagina, non degnando la segretaria neppure di uno sguardo, neanche per un attimo; lei era rimasta lì, ad attendere istruzioni, ed io infine avevo appeso il telefono. Pausa. Quel documento probabilmente andava bene, pensavo, ma questo era inammissibile, e così le avevo detto: cancelli i miei segni, andrebbe senz’altro migliorato, è quasi illeggibile; purtroppo devo accettarlo, anche se con una certa sofferenza, adesso non c’è più neppure il tempo per renderlo minimamente presentabile.


            Bruno Magnolfi

L'uomo contemporaneo, 2.

           
Lui era entrato al caffè-lunch poco prima delle quattordici, ora di punta per quella tipologia di locale inserito in un contesto da quartiere dirigenziale di tipo avanzato. L’interno era giocato sostanzialmente sulla superficie di tre materiali: legno di ciliegio, acciaio inox con forme spigolose e taglienti, e soprattutto ritagli di specchi inseriti in ogni contesto possibile, a riflettere le persone presenti decine di volte, ingigantendo gli spazi e lasciando sconfinare gli sguardi oltre ogni limite. L’esterno era tutto coperto da enormi ombrelloni bianchi e quadrati, e al di sotto sedie e tavoli sempre in acciaio, con dei parallelepipedi piccoli e grandi usati come fioriere cariche di piante verdissime finte e improbabili, a delimitare tutte le aree. Dappertutto ragazze eleganti, a volte vistose, e uomini giovani spesso in cravatta, quasi come si desse un ricevimento a coronare un evento mondano. Entrare significava mostrarsi alla vista di chi era presente, e percorrendo i primi cinque o sei metri si camminava lungo una specie di passerella d’acciaio, al centro esatto di tutti gli sguardi.
Lui andava in quel locale ogni volta che gli era possibile, diceva che gli pareva un posto pieno di donne, anche se alla fine non era la cosa che lo attraeva di più; in realtà si sentiva estremamente a suo agio all’interno del gioco di sbirciare e guardarsi nelle tante porzioni di specchio, ed anche se cercava in apparenza di mimare un personaggio che tenta di passare il più inosservato possibile, vestendo i panni della persona qualsiasi, in fondo la sua era soltanto una posa. La maniera che generalmente gli piaceva di più era quella di entrare là dentro parlando sottovoce al telefono, senza fare alcun gesto, se non qualche sorriso o un saluto pacato indirizzato verso una conoscenza qualsiasi in fondo al locale, restando impassibile e guardandosi attorno in un attimo breve di sospensione quasi pneumatica, decidendo di dirigersi inevitabilmente verso il bancone del bar. Pur scegliendo di mangiare qualcosa, un toast, una tartina, un sandwich, pareva scegliere a caso, pur insistendo con garbo per avere sempre una cosa precisa, generalmente accompagnando tutto con un semplice bicchier d’acqua, e rimanendo rigorosamente in piedi vicino ai piani su cui si servivano tramezzini e caffè, ma senza mai né appoggiarsi né toccare la superficie del banco.
Lui amava andare nei posti da solo, specialmente locali pieni di gente, proprio come quel giorno, e spesso trovava da scambiare uno sguardo, un sorriso, a volte persino qualche parola, in genere considerazioni confezionate con spirito su qualcosa che appariva piuttosto evidente. Si tratteneva per il tempo strettamente necessario, forse anche meno, pur riuscendo ad evitare di venire scambiato per un tipo nervoso o peggio nevrotico. La ragazza, entrata dopo di lui nel locale, gli aveva chiesto in inglese se sapeva indicarle un negozio specificando un nome curioso. Lui, nel suo modo semplificato di parlare quella lingua straniera, aveva risposto che gli dispiaceva, ma non aveva mai sentito quel nome, però immediatamente ne aveva chiesto notizia in italiano al barista, che in due parole aveva saputo indicare dove si trovasse quell’esercizio. Una volta tradotta l’informazione, la ragazza aveva ringraziato con un gran sorriso, e a lui, pensando tra sé che avrebbe potuto benissimo invitarla a bere un caffè, o accompagnarla addirittura fino al negozio che peraltro rimaneva vicino, non gli era passato per la testa di fare né questo né quello, e non per una sorta di timidezza o di impaccio, ma per quel suo bisogno sovrano di stare da solo, anche in un posto pieno di gente.
Lui, infine, quando era uscito da quel caffè, si era accorto che la ragazza straniera era ancora nei pressi, fingendo di cercare con grande impegno qualcosa dentro la borsa, di fatto probabilmente aspettandolo, proprio per dargli una ulteriore possibilità; ma lui stava osservando con grande interesse un punto qualsiasi, qualcosa che restava in una zona distante del viale su cui si affacciava il locale, e sempre con il suo passo, mai affrettato, quasi una vera e propria cadenza, raggiunse la sua macchina parcheggiata vicino, e così, senza neppure voltarsi, se ne andò. 
             Bruno Magnolfi

domenica 24 febbraio 2013

Compiutezza.

      
            La stanza è la stessa di sempre, Corrado ancora sdraiato continua ad osservare le piccole crepe che con il tempo si sono formate in mezzo all’intonaco, imbruttendo ancora di più il già orrendo bianco ingiallito della tempera vecchia sulle pareti. Lei poco prima si è spogliata, di fretta, forse anche troppo, e Corrado, da un punto di osservazione completamente distaccato da sé, ha guardato la scena con una certa riprovazione, non tanto per ciò che subito dopo è accaduto, quanto per il vago squallore di cui si è sentito partecipe.
            Il sole caldo e piacevole del primo pomeriggio entra dalla finestra filtrato dalle tende verdine, e tutto sembra la messinscena perfetta per qualcosa di importante che nei suoi pensieri è come se ancora debba accadere, nonostante il fatto che nella realtà tutto sia stato già consumato. Improvvisamente Corrado guarda la donna, sente l’impulso forte di farle del male, forse di strangolarla, di stringerle la gola fino a vedere la sua faccia paonazza e insopportabile cercare di urlare qualcosa senza averne minimamente la capacità, ma non fa niente.
            A poco importa pensare che si conoscono da tanto tempo, che giornate come quella che stanno trascorrendo in quella camera ce ne sono state moltissime altre; la cosa fondamentale è il coraggio che serve affinché quel pomeriggio per loro sia l’ultimo. Non il coraggio di un gesto importante, quanto il piccolo impegno in qualcosa che continuano ambedue a rimandare, accarezzando l’abitudine come una vecchia gatta egoista, alla quale per indolenza è difficile rispondere male o per niente.
            Le parole da trovare poi, anche soltanto per sortire da quel momento intimo di progressivo distacco, si dimostrano sempre più ostiche ad uscire dalle loro bocche, incapaci come sono di veicolare la benché minima onesta riflessione su quello che perdurano ad essere, in quel vedersi senza futuro, incontrarsi senza riuscire a scambiarsi quasi più niente.
            Corrado si sente vecchio, ormai lontano anche da qualsiasi passione. Lei subito dopo si vergogna addirittura della sua nudità: insieme sono soltanto due poveri sciocchi senza argomenti. Infine si ricompongono, tornano in fretta ad indossare i loro vestiti, poi si avvicinano alla porta di uscita: devono salutarsi, come sempre fanno a quel punto, un bacio frettoloso e qualche ragguaglio su come rivedersi e quando risentirsi, ma c’è un attimo improvviso che cambia qualcosa in quel rito. Corrado l’abbraccia, non sa per quale motivo, però sente che deve fare così, lei se lo stringe a sé quasi sentisse perfettamente che quella è l’ultima volta, e infine, senza neppure tornare a guardarlo, lo spinge leggermente, fino a farlo uscire sul pianerottolo, e subito, pur lentamente, richiude la porta sulla sua faccia sorpresa, senza neppure una sola parola, anche se d’improvviso sa perfettamente che tutto adesso è assolutamente compiuto.  
            Bruno Magnolfi

Compiutezza.


            
      
            La stanza è la stessa di sempre, Corrado ancora sdraiato continua ad osservare le piccole crepe che con il tempo si sono formate in mezzo all’intonaco, imbruttendo ancora di più il già orrendo bianco ingiallito della tempera vecchia sulle pareti. Lei poco prima si è spogliata, di fretta, forse anche troppo, e Corrado, da un punto di osservazione completamente distaccato da sé, ha guardato la scena con una certa riprovazione, non tanto per ciò che subito dopo è accaduto, quanto per il vago squallore di cui si è sentito partecipe.
            Il sole caldo e piacevole del primo pomeriggio entra dalla finestra filtrato dalle tende verdine, e tutto sembra la messinscena perfetta per qualcosa di importante che nei suoi pensieri è come se ancora debba accadere, nonostante il fatto che nella realtà tutto sia stato già consumato. Improvvisamente Corrado guarda la donna, sente l’impulso forte di farle del male, forse di strangolarla, di stringerle la gola fino a vedere la sua faccia paonazza e insopportabile cercare di urlare qualcosa senza averne minimamente la capacità, ma non fa niente.
            A poco importa pensare che si conoscono da tanto tempo, che giornate come quella che stanno trascorrendo in quella camera ce ne sono state moltissime altre; la cosa fondamentale è il coraggio che serve affinché quel pomeriggio per loro sia l’ultimo. Non il coraggio di un gesto importante, quanto il piccolo impegno in qualcosa che continuano ambedue a rimandare, accarezzando l’abitudine come una vecchia gatta egoista, alla quale per indolenza è difficile rispondere male o per niente.
            Le parole da trovare poi, anche soltanto per sortire da quel momento intimo di progressivo distacco, si dimostrano sempre più ostiche ad uscire dalle loro bocche, incapaci come sono di veicolare la benché minima onesta riflessione su quello che perdurano ad essere, in quel vedersi senza futuro, incontrarsi senza riuscire a scambiarsi quasi più niente.
            Corrado si sente vecchio, ormai lontano anche da qualsiasi passione. Lei subito dopo si vergogna addirittura della sua nudità: insieme sono soltanto due poveri sciocchi senza argomenti. Infine si ricompongono, tornano in fretta ad indossare i loro vestiti, poi si avvicinano alla porta di uscita: devono salutarsi, come sempre fanno a quel punto, un bacio frettoloso e qualche ragguaglio su come rivedersi e quando risentirsi, ma c’è un attimo improvviso che cambia qualcosa in quel rito. Corrado l’abbraccia, non sa per quale motivo, però sente che deve fare così, lei se lo stringe a sé quasi sentisse perfettamente che quella è l’ultima volta, e infine, senza neppure tornare a guardarlo, lo spinge leggermente, fino a farlo uscire sul pianerottolo, e subito, pur lentamente, richiude la porta sulla sua faccia sorpresa, senza neppure una sola parola, anche se d’improvviso sa perfettamente che tutto adesso è assolutamente compiuto.  
            Bruno Magnolfi

sabato 23 febbraio 2013

Quasi un pensiero politico.

    Sono qui da solo, sto fermo sul marciapiede nella stazione delle corriere, e penso, tanto per far passare un po’ il tempo, che la libertà consista semplicemente nell’esprimere il disaccordo con gli altri. Ci rifletto, rimugino queste parole, poi me ne sento convinto, senza altro da aggiungere.
            E’ sufficiente dire di no nel bel mezzo di una chiacchierata qualsiasi, immagino, e tutto d’improvviso diventa possibile, quasi l’apertura di un nuovo varco in un muro altrimenti invalicabile. Mi sento bene quando riesco a stare così, così libero intendo, senza preoccuparmi neppure per un attimo delle buone maniere, delle convenzioni, della facile ironia, e via dicendo. Sono convinto delle mie idee, indubbiamente certe cose stanno sotto gli occhi di tutti, ma difficilmente qualcuno si accorge della loro presenza.
            In questo luogo dove mi trovo, per esempio, ci sono diverse persone dalle facce anche troppo serie e compite, gente che molto probabilmente crede di essere nel giusto, ed è disposta ad essere d’accordo con chiunque si avvicini a loro e dica qualcosa di un argomento di cui conoscono poco, ma del quale hanno sentore, oppure ne coltivano una vaga opinione. Basta dire che la macchina che aspettano la maggior parte delle volte è in ritardo, per esempio; oppure che i viaggiatori in questa città sono  trattati sempre in maniera peggiore di quanto ci si possa aspettare, e così via.
            Mi muovo, mi avvicino ad una signora elegante con collo di pelliccia e borsetta, le dico subito che non va bene questo modo di attendere la propria corriera. Lei mi guarda con aria interrogativa, io la lascio stare un momento. Poi dico che ci vorrebbe una bella stanza riscaldata con tanto di poltroncine morbide e comode per far attendere persone come lei, è assolutamente fuori di dubbio. La signora mi guarda ancora, leggermente fa segno di si con la testa, poi dice: ha perfettamente ragione.
            E invece no, rispondo io con modi più duri; non si può affatto essere d’accordo su una cosa del genere. Quanto ci costerebbe tutta l’operazione? I biglietti indubbiamente sarebbero più cari, molta più gente verrebbe ad usufruire delle poltroncine e delle comodità, magari anche senza averne diritto. La signora non sa che pensare, però continua a guardarmi. Lei non capisce, le dico, queste sono cose che non si possono neppure pensare.
            Un uomo si accosta, considerato che ho alzato la voce sulle ultime parole che ho detto, mi chiede se ci sia qualche problema. Certo, gli dico, molti problemi. Le pare che una persona come me possa perdere del tempo con lei solo per spiegarle il mio punto di vista? Lei è uno sfacciato, gli faccio, uno per cui le parole non contano niente, tanto vale buttarle così, senza neppure pensarle.
            Poi getto un’occhiata intorno a quel marciapiede: da lontano si sta avvicinando una corriera, in diversi si fanno avanti per riuscire a salire per primi, qualcuno continua a guardarmi. Vorrei urlare qualcosa, spiegare con tre parole soltanto che non sono d’accordo con loro, qualsiasi cosa abbiano in mente di dire, ma infine lascio che tutti si accalchino allo sportello della macchina calda e polverosa che adesso si è fermata col motore ronzante in questa stazione.
            Così ficco di nuovo le mani dentro alle tasche e me ne vado per i fatti miei: non mi rivedranno facilmente, penso con convinzione: è tutta gente questa che non riesce neppure a mostrare una vera opinione, tanto vale evitarle queste persone, fingere che neppure siano mai esistite, tirare avanti con le proprie idee e lasciar perdere il resto.
            Bruno Magnolfi

Quasi un pensiero politico.

            
            Sono qui da solo, sto fermo sul marciapiede nella stazione delle corriere, e penso, tanto per far passare un po’ il tempo, che la libertà consista semplicemente nell’esprimere il disaccordo con gli altri. Ci rifletto, rimugino queste parole, poi me ne sento convinto, senza altro da aggiungere.
            E’ sufficiente dire di no nel bel mezzo di una chiacchierata qualsiasi, immagino, e tutto d’improvviso diventa possibile, quasi l’apertura di un nuovo varco in un muro altrimenti invalicabile. Mi sento bene quando riesco a stare così, così libero intendo, senza preoccuparmi neppure per un attimo delle buone maniere, delle convenzioni, della facile ironia, e via dicendo. Sono convinto delle mie idee, indubbiamente certe cose stanno sotto gli occhi di tutti, ma difficilmente qualcuno si accorge della loro presenza.
            In questo luogo dove mi trovo, per esempio, ci sono diverse persone dalle facce anche troppo serie e compite, gente che molto probabilmente crede di essere nel giusto, ed è disposta ad essere d’accordo con chiunque si avvicini a loro e dica qualcosa di un argomento di cui conoscono poco, ma del quale hanno sentore, oppure ne coltivano una vaga opinione. Basta dire che la macchina che aspettano la maggior parte delle volte è in ritardo, per esempio; oppure che i viaggiatori in questa città sono  trattati sempre in maniera peggiore di quanto ci si possa aspettare, e così via.
            Mi muovo, mi avvicino ad una signora elegante con collo di pelliccia e borsetta, le dico subito che non va bene questo modo di attendere la propria corriera. Lei mi guarda con aria interrogativa, io la lascio stare un momento. Poi dico che ci vorrebbe una bella stanza riscaldata con tanto di poltroncine morbide e comode per far attendere persone come lei, è assolutamente fuori di dubbio. La signora mi guarda ancora, leggermente fa segno di si con la testa, poi dice: ha perfettamente ragione.
            E invece no, rispondo io con modi più duri; non si può affatto essere d’accordo su una cosa del genere. Quanto ci costerebbe tutta l’operazione? I biglietti indubbiamente sarebbero più cari, molta più gente verrebbe ad usufruire delle poltroncine e delle comodità, magari anche senza averne diritto. La signora non sa che pensare, però continua a guardarmi. Lei non capisce, le dico, queste sono cose che non si possono neppure pensare.
            Un uomo si accosta, considerato che ho alzato la voce sulle ultime parole che ho detto, mi chiede se ci sia qualche problema. Certo, gli dico, molti problemi. Le pare che una persona come me possa perdere del tempo con lei solo per spiegarle il mio punto di vista? Lei è uno sfacciato, gli faccio, uno per cui le parole non contano niente, tanto vale buttarle così, senza neppure pensarle.
            Poi getto un’occhiata intorno a quel marciapiede: da lontano si sta avvicinando una corriera, in diversi si fanno avanti per riuscire a salire per primi, qualcuno continua a guardarmi. Vorrei urlare qualcosa, spiegare con tre parole soltanto che non sono d’accordo con loro, qualsiasi cosa abbiano in mente di dire, ma infine lascio che tutti si accalchino allo sportello della macchina calda e polverosa che adesso si è fermata col motore ronzante in questa stazione.
            Così ficco di nuovo le mani dentro alle tasche e me ne vado per i fatti miei: non mi rivedranno facilmente, penso con convinzione: è tutta gente questa che non riesce neppure a mostrare una vera opinione, tanto vale evitarle queste persone, fingere che neppure siano mai esistite, tirare avanti con le proprie idee e lasciar perdere il resto.
            Bruno Magnolfi

giovedì 21 febbraio 2013

Dissolvimento di tracce.

Lui e Giorgio camminano come sempre. Giorgio sostiene che non conosce i pensieri degli altri che incontra ogni giorno, anche se a volte cerca di farsene un’idea e di parlarne, però ricorda piuttosto bene quello che qualche volta gli viene riferito, le cose che normalmente gli vengono dette. Lui lo osserva in silenzio, forse non è convinto di queste affermazioni, gli pare assurdo non farsi un’idea più precisa di questi argomenti, però lascia correre. Prendono lungo il viale con la voglia di andare a sedersi al solito caffè e starsene lì per una buona mezz’ora, forse anche di più, visto che al momento non hanno niente di importante di cui occuparsi, e così in questa maniera continuano a parlare tra loro.
            Giorgio spiega ulteriormente come certe volte tutto gli appaia come una grande assurdità, e insiste dicendo che gli viene persino da ridere nel vedere quanto certe persone riescano a prendere sul serio qualsiasi argomento. Muove le mani mentre dice le cose, anche se non si sente particolarmente a suo agio, forse perché vorrebbe dire di più delle sue stesse parole, probabilmente gli piacerebbe anche spiegarsi in maniera maggiormente dettagliata, ma sa che in fondo tutto questo non gli è possibile, è la sua stessa natura che glielo nega, e in qualche maniera, proprio per questo motivo, prova anche in quello stesso momento un leggero disagio.
            Giungono infine davanti al locale, entrano e si siedono ad un tavolino. Se penso che ogni persona resta perlopiù indifferente nei confronti degli individui da cui è circondata, dice Giorgio, mi pare che il mondo sia solo una grande assurdità, anche se poi sono io stesso che non mi comporto in maniera molto dissimile da tutti gli altri. Però credo che sia come se la struttura delle cose ti ponesse normalmente in condizione di non riuscire ad essere diverso, quasi che la tua volontà riesca ad essere determinata da elementi che non entrano mai nel gioco generale, pur restando i fondamentali di tutto quanto, la base dello stesso sistema.
            Lui lo guarda senza dire niente, restando sostanzialmente in disaccordo, però ordina due birre piccole al cameriere, e forse avrebbe voglia di parlare di cose meno faticose, e anche di lasciar perdere quegli argomenti che sa perfettamente non porteranno da alcuna parte, né adesso e né in seguito. Giorgio capisce da quel silenzio il punto di vista dell’altro, e così lo guarda rivolgendogli un leggero e ironico sorriso. Bevono, e fingono per un attimo di stare sul medesimo versante, come se ci fosse una scelta vera e univoca al fondo dei loro modi di essere.
            Poi arriva Costanza, saluta i due appena sussurrando, lui la invita a sedersi, lei si schernisce, dice che ha fretta, consegna a Giorgio un piccolo foglio piegato a metà e poi esce, lasciando nell’aria un leggero saluto con la mano, e nient’altro. E’ soltanto il nome di un nuovo editore che vorrei contattare, dice Giorgio aprendo il foglietto, niente di particolare. In un attimo però sembra che tutto quanto sia pronto a cambiare, perfino l’aria stessa dentro al locale. Lui si alza dalla sua sedia guardando qualcosa avanti a sé, l’altro lo osserva, dice: se vuoi che andiamo, non c’è problema. Poi pensa meglio alle sue parole, si ritrova a guardare anche lui il medesimo punto insignificante, e infine aggiunge: siamo niente; appena usciti da qui la polvere coprirà il nostro passaggio, la nostra piccola dannazione quotidiana è destinata a svanire un attimo dopo che ce ne siamo occupati.
            Nessuno dei due, se ci pensano, saprebbe dire chi ha pronunciato davvero queste parole, però pagano in silenzio la bevuta, escono dal locale, tornano indietro, lungo il viale, ed avvertono di nuovo i dubbi di sempre che continuano a ronzare nell’aria, come inutili parole gonfie soltanto di vapore caldo che esala, senza lasciare davvero alcun tipo di traccia.
            Bruno Magnolfi  

sabato 16 febbraio 2013

Ricerca di normalità.

            
            Il ragazzino è come tutti gli altri, dicono in paese. Poi però ti spiegano che se lo piazzi lì, in una stanza oscurata, e lasci che lui si concentri circondato dalle persone giuste, ecco che  all’improvviso inizia a dire delle cose che non si sono mai sentite. Come se parlasse qualcun altro al posto suo, e lui prestasse soltanto la sua voce. Storie vecchie, per la maggior parte delle volte, cose antiche, roba che nessuno conosce o si ricorda, e che sicuramente neppure lui può conoscere, ma che invece quel ragazzo sembra proprio di sapere, dicendole con chiarezza anche se con frasi contorte, spiegandosi però come se le sue parole uscissero da un’altra fonte, arrivassero da un’altra persona; lui rivela tutto come se non fosse lui a parlare, e questo succede proprio nello stesso momento in cui invece se ne rimane lì, tranquillo, a raccontare in mezzo agli altri verità stranissime, addirittura con una evidente indifferenza verso ciò che spiega e anche verso tutto il resto.
            Lo incontri per strada e naturalmente ti volti ad osservarlo: è soltanto un ragazzino, pensi, eppure sembra che abbia una luce strana che lo illumina, un’espressione sul viso che non hai mai visto, qualcosa che te lo fa sentire subito distante, differente da tutti gli altri. Ci pensi ed avresti voglia di schiacciarlo, di eliminare la sua presenza da qui, di toglierlo di torno, e che non abbia più a posare il suo sguardo di indifferenza su di noi. Lo vedi e sai perfettamente che non è uno come tutti, anche se non sai dire da che cosa dipende questo tuo giudizio, perché non c’è niente che non vada, almeno in apparenza, solo che non è uno di noi, e questo lo capisci subito.
            Però c’è anche un’altra cosa, in paese lo sanno quasi tutti: tu stai lì, certe volte, magari a bere un bicchierino al banco nello stesso locale dove per combinazione si trova anche lui; o all’ufficio postale, per esempio, in coda come gli altri, o in un negozio a comprare qualche cosa; lo vedi lì, fermo, e all’improvviso ti senti caldo addosso, un caldo da scoppiare, oppure provi un grande freddo, con dei brividi quasi innaturali. Ti sembra tutto assurdo, cerchi di scrollarti di dosso quelle sensazioni, ma non c’è niente di strano quando c’è di mezzo quell’assurdo ragazzino. E’ lui, semplicemente con la sua presenza, che sta alterando tutte le tue percezioni, e tu non puoi proprio fare niente, se non startene lì a subire quella sua influenza negativa.
            Lo guardi, e lui è immobile, con un’espressione sempre identica sopra la sua faccia, quasi come se sorridesse dentro di sé per quello che succede, o forse dei suoi strani poteri, della sua personalità così incomprensibile, almeno a noi che cerchiamo solo di mandare avanti un’esistenza normale e dignitosa. Lo lasci perdere se per caso lo incontri lungo la strada principale del paese, ma per quanto cerchi di tenertelo a debita distanza, te lo ritrovi sempre lì, a pochi passi, nelle circostanze di dove ti trovi, con la sua luce odiosa che si porta dietro, e se continui a camminare pensando ad altro o ai fatti tuoi, ti ritrovi all’improvviso sempre vicino alla casa dove abita, senza saperti spiegare come mai succede questo, e semplicemente avresti voglia di abbatterla, quella abitazione, di raderla al suolo in fretta e di sotterrarne le macerie in un’enorme buca nella terra.
            Non escludo che uno di questi giorni succeda qualche cosa: non è proprio possibile continuare a sopportare questa presenza inquietante e inammissibile. Qualcuno di noi farà qualcosa, lo so quasi con certezza; prenderanno il ragazzino e gli metteranno un cappuccio sulla testa, poi lo porteranno in qualche zona chissà dove, e gli intimeranno di non farsi più vedere nel paese. Succederà, lo so per certo, e non sarà colpa di nessuno quando accadrà qualcosa di quel genere, perché non è più sopportabile la sua presenza, e si deve pur fare qualche cosa, dobbiamo difenderci per forza da chi non ti fa mai stare tranquillo, ad occuparti delle tue cose normali.

            Bruno Magnolfi

Senza ragione.

    
            Mi sono messo seduto da solo nella saletta del bar, come al solito a quest’ora, ad attendere l’arrivo degli altri ragazzi per la partita alle carte come ogni pomeriggio. Mi piace arrivare per primo qua dentro, mi sembra di poter dominare in qualche maniera i tavoli da gioco, ambientarmi nel locale per quanto possibile, e insomma stare maggiormente a mio agio. Il barista mi conosce, come arrivo mi serve la solita birra e mi lancia qualche battuta, poi lascia che io me ne stia per conto proprio a sfogliare qualche giornale sportivo.
            Così poco dopo arriva un tipo mai visto prima, e mi fa: sei tu che dici in giro su di me delle cose inventate? Io faccio di no con la testa, non ho mai visto prima quel tizio, non è mia abitudine dire cose false. Ma lui non si da affatto per vinto, e insiste: devi smetterla bello, dice con decisione, altrimenti sarà un grosso guaio per te. Io non so che dirgli, mi scappa quasi da ridere per quella situazione ridicola, ma riesco fortunatamente a restare serio e in silenzio.
            Quello continua a guardarmi fisso, si abbassa su di me e mi dà dei colpetti sul petto con la punta delle sue grosse dita. Non sono quello che credi, fa, posso dimostrartelo in qualsiasi momento. Non ho mai avuto problemi di alcun genere, non posso certo lasciare adesso che una mezza cartuccia come te mi faccia montare su il nervosismo. Perciò piantala, altrimenti ti succede qualcosa di brutto. Poi si gira ed esce dalla saletta. Incrocio lo sguardo con il barista che sta sistemando tazze e bicchieri senza preoccuparsi di altro, io mi muovo sulla mia sedia e cerco di pensare a qualcosa che possa aver relazione con il tizio che se n’è appena andato, quando quello ecco che torna. Credo abbia sbagliato persona, penso, ma non so come dirglielo, anzi, siccome è la scusa più stupida che si sia mai sentito, evito del tutto di spiegarmi con una cosa del genere.
            Adesso lui non dice più niente, però si piazza lì, da una parte, come volesse spiare i miei comportamenti. Cerco di fingere indifferenza, ma non è facile, e i ragazzi delle carte sembra che oggi non ne vogliano proprio sapere di venire a giocare su questi tavoli. Allora finisco l’ultimo sorso di birra, mi alzo con calma e vado verso il bancone, dove appoggio il bicchiere ormai vuoto. Ne vuoi un’altra, dice il barista. Faccio di no con la testa, ma sento che il tipo mi osserva, così non riesco neppure ad essere naturale, anche se non so cosa fare, oltre a starmene lì a guardare qualcosa nel vuoto come un idiota.
            Quello si muove, mi passa vicino, si fa preparare un caffè e intanto mi osserva la nuca. Ho visto di sfuggita che ha lo sguardo ancora più cattivo di prima, ed ho paura che voglia fare qualcosa, così prego dentro di me che arrivi qualcuno per togliermi da quell’imbarazzo. Il barista serve il caffè e si disinteressa di tutto, tanto da andare a prendere dello zucchero nel magazzino sul retro. Penso qualcosa, ma non sono convinto di niente. Alla fine mi giro, guardo dritto il mio uomo, ma quello mi evita, si sposta con indifferenza su e giù, poi fa un gesto col braccio, come a voler cancellare la mia presenza dal suo campo visivo.
            Mi muovo, vado verso la porta per vedere se stanno arrivando i ragazzi, e all’improvviso sento una botta alla spalla sinistra. Mi volto di scatto, il tizio mi ha colpito con qualcosa che tiene dentro una mano, poi mi scansa con una certa violenza ed esce prima di me dal locale, come avesse una fretta improvvisa. Giunge uno dei ragazzi per giocare alle carte, mi vede pallido, con l’espressione di chi non ci capisce un bel niente. Non preoccuparti, mi dice; le cose in qualche maniera si sistemeranno.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 13 febbraio 2013

Un'altra strada.

             
            Che importa queste giornate identiche, questa sensazione di ripetere continuamente gli stessi gesti, continuare a dire le medesime parole: saranno anni di scarto questi, preparatori a qualcosa che dovrà pur manifestarsi prima o dopo, come un compendio ed insieme una rivalsa di tutto ciò che è stato. Lei stava seduta sul suo autobus, lasciando scorrere le fermate, con il suo carico di gente che saliva e che scendeva, ogni volta quasi con sollievo, come se quelle soste, con il loro progredire, l’implacabile susseguirsi, servissero soltanto ad avvicinare il momento giusto, qualsiasi fosse, anche soltanto il suo punto di arrivo.
            Pensava adesso ad alcune persone che aveva visto nei pressi della stazione ferroviaria, quando aveva transitato là davanti, gente senza fissa dimora, che passava la notte in qualche angolo, a dormire sotto un cartone o chissà come, ed adesso si ritrovava immersa in quell’aria fredda e polverosa del mattino, a bere un semplice caffè di fronte ad una fila di macchine automatiche, gustandosi persino il caldo del bicchierino usa e getta tra le mani.
            Sarebbe stato tutto da annullare, pensava; niente di questo sacrificio aveva senso, se non quell’esperienza passeggera di cose brutte e tristi, da non ripetere mai più, come se tutto nella vita dovesse essere da ora in avanti soltanto un lento ma inesorabile miglioramento. E invece le cose parevano in una condizione di perenne stallo, ed ogni sforzo non portava mai niente di ciò che si era legittimamente potuto attendersi. 
            Infine era scesa dal mezzo pubblico, ed il silenzio ovattato della strada poco transitata, senza quel rumore sferragliante che le aveva riempito le orecchie fino adesso, le era parso la prova chiara del fatto che la solitudine avesse ancora un proprio fascino, e che valesse la pena andare avanti lungo le intenzioni in cui lei si era impegnata già da molto tempo. Cosa importa non avere niente, pensava ancora. Vorrei piangere ed urlare ad ogni attimo, è normale; prendermela con qualcuno che neppure conosco, forse; e invece no: lascio scorrere le cose, ammetto con leggerezza che poco per volta, senza neanche accorgersene, tutto diventa un’abitudine, e che non può pesare nulla ciò che nessuno riesce neppure a farci notare, come se tutto quello che siamo capaci d’essere avesse comunque una spiegazione accettabile, e questo basti.
            Un uomo sostava davanti al portone verde dove stavano, al terzo piano, le sue due stanze dove lei abitava e che con grande sacrificio aveva in affitto, come ad attendere proprio lei e nessun altro. L’aveva vista avvicinarsi, si era mosso, lei però non lo conosceva; l’aveva notato fare un gesto con la mano, come a rassicurarsi di avere ancora nella tasca un documento che probabilmente doveva consegnarle, lo sfratto dall’appartamento, pensava lei, o qualche altro guaio insorto vigliaccamente alle sue spalle. Con questa impressione aveva già rallentato l’andatura, aveva visto ancora l’uomo muoversi nervosamente, ma senza più guardarla, e lei si era fermata come a cercare le chiavi dentro la sua borsa, forse semplicemente per concedersi soltanto un po’ di tempo.
            Le era venuto quasi da piangere, almeno per un attimo, senza ancora sapere niente di ciò che l’attendeva, ma con coraggio aveva saputo resistere all’angoscia che pareva prenderla in modo spietato e inevitabile, e in uno spunto di orgoglio aveva soltanto dato un’occhiata generale a tutto quel tratto di strada, come a cercare una via d’uscita, qualsiasi fosse. Poi aveva voltato con decisione in una via lì accanto, senza guardare niente in giro, allontanandosi con tutta la fretta che in quel momento era stata capace di trovare nelle gambe, cercando solo di pensare ad altro.

            Bruno Magnolfi 

martedì 5 febbraio 2013

Dietro uno sguardo.

    Oggi se ne rimane da solo nel suo angolo, Renato, come fa sempre quando sta passando un periodo buio. Noialtri lo osserviamo, ogni tanto, ma senza un vero interesse, come se non ci si aspettasse  niente dalla sua immobilità, da quel suo rinchiudersi, dall’isolarsi in quel modo da tutto il mondo. La giornata va avanti, le cose procedono come sempre, e lui ad un tratto si alza dalla sua sedia, va a prendersi un semplice bicchiere d’acqua, guarda qualcosa fuori dalla finestra, poi torna esattamente dove era rimasto fino a quel momento.
            Rosanna si avvicina, gli dice qualcosa a voce bassa, ma lui non risponde, resta indifferente, immobile come se non avesse bisogno di nulla, degli altri meno che del resto. Ma lei non si dà per vinta, gli spiega qualcosa con tranquillità, e poi, senza insistere troppo, si allontana per qualche momento, ma infine torna lì, da lui, in silenzio, come a tenergli compagnia. Sembra soltanto testardaggine la sua, eppure non è così, lo sanno tutti.
            Certe volte Renato volge lo sguardo sopra tutti noi, e allora noi immaginiamo che ci voglia dire qualcosa, che abbia bisogno di spiegarci il suo pensiero. Lui parla, usando parole ferme, calme, come fossero state riflettute innumerevoli volte, fino a condensarsi in quelle semplici espressioni così pacate. Non c’è niente di male, pensa Rosanna, lui è così, ha bisogno dei suoi tempi per decidere come spiegarsi, cosa dire per farci capire come è fatto, che cosa gli è passato nella testa.
            Poi si alza, osserva gli altri, con una semplice occhiata fa capire a tutti noi che siamo condannati, non sarà mai possibile che le cose evolvano in maniera differente. Rosanna forse lo comprende più di tutti, per questo in certi giorni lo evita del tutto, perché sa perfettamente quando non verrà mai niente di buono dai suoi comportamenti. Lei lo guarda e riesce con semplicità ad interpretare il suo modo di essere.
            Certe volte invece Renato si dispera, come se sapesse di essere relegato nel suo corpo strambo, che non c’è per lui alcuna possibilità di farsi capire per davvero. Vaga nervosamente per i corridoi, noi non lo perdiamo mai di vista, naturalmente, e lui lo sa, lascia che i nostri sguardi lo attraversino, che forse lo accompagnino. Si muove cercando qualcosa, ma sa perfettamente che non troverà mai niente. Rosanna lo lascia perdere, certe volte; in alcuni casi però lo avvicina, cerca di cambiare qualcosa del suo umore, ma è difficile, lo sa perfettamente.
            Infine si calma, Renato, si sistema nella sua solita sedia, lascia che accanto a sé arrivi Rosanna, e infine regala un sorriso a tutti noi, come fosse il distillato della sua personalità deviata, capace di essere sensibile oltre ogni misura, fino ad immaginare realtà ed espressioni che tutti noi non riusciremo mai a comprendere, anche se non smetteremo di tentare. Chissà cosa c’è dietro ai suoi occhi, ci chiediamo a volte tra di noi; chissà che cosa ha visto mentre era assente, lontano, via da questa clinica psichiatrica.
            Bruno Magnolfi

Dietro uno sguardo.

            
            Oggi se ne rimane da solo nel suo angolo, Renato, come fa sempre quando sta passando un periodo buio. Noialtri lo osserviamo, ogni tanto, ma senza un vero interesse, come se non ci si aspettasse  niente dalla sua immobilità, da quel suo rinchiudersi, dall’isolarsi in quel modo da tutto il mondo. La giornata va avanti, le cose procedono come sempre, e lui ad un tratto si alza dalla sua sedia, va a prendersi un semplice bicchiere d’acqua, guarda qualcosa fuori dalla finestra, poi torna esattamente dove era rimasto fino a quel momento.
            Rosanna si avvicina, gli dice qualcosa a voce bassa, ma lui non risponde, resta indifferente, immobile come se non avesse bisogno di nulla, degli altri meno che del resto. Ma lei non si dà per vinta, gli spiega qualcosa con tranquillità, e poi, senza insistere troppo, si allontana per qualche momento, ma infine torna lì, da lui, in silenzio, come a tenergli compagnia. Sembra soltanto testardaggine la sua, eppure non è così, lo sanno tutti.
            Certe volte Renato volge lo sguardo sopra tutti noi, e allora noi immaginiamo che ci voglia dire qualcosa, che abbia bisogno di spiegarci il suo pensiero. Lui parla, usando parole ferme, calme, come fossero state riflettute innumerevoli volte, fino a condensarsi in quelle semplici espressioni così pacate. Non c’è niente di male, pensa Rosanna, lui è così, ha bisogno dei suoi tempi per decidere come spiegarsi, cosa dire per farci capire come è fatto, che cosa gli è passato nella testa.
            Poi si alza, osserva gli altri, con una semplice occhiata fa capire a tutti noi che siamo condannati, non sarà mai possibile che le cose evolvano in maniera differente. Rosanna forse lo comprende più di tutti, per questo in certi giorni lo evita del tutto, perché sa perfettamente quando non verrà mai niente di buono dai suoi comportamenti. Lei lo guarda e riesce con semplicità ad interpretare il suo modo di essere.
            Certe volte invece Renato si dispera, come se sapesse di essere relegato nel suo corpo strambo, che non c’è per lui alcuna possibilità di farsi capire per davvero. Vaga nervosamente per i corridoi, noi non lo perdiamo mai di vista, naturalmente, e lui lo sa, lascia che i nostri sguardi lo attraversino, che forse lo accompagnino. Si muove cercando qualcosa, ma sa perfettamente che non troverà mai niente. Rosanna lo lascia perdere, certe volte; in alcuni casi però lo avvicina, cerca di cambiare qualcosa del suo umore, ma è difficile, lo sa perfettamente.
            Infine si calma, Renato, si sistema nella sua solita sedia, lascia che accanto a sé arrivi Rosanna, e infine regala un sorriso a tutti noi, come fosse il distillato della sua personalità deviata, capace di essere sensibile oltre ogni misura, fino ad immaginare realtà ed espressioni che tutti noi non riusciremo mai a comprendere, anche se non smetteremo di tentare. Chissà cosa c’è dietro ai suoi occhi, ci chiediamo a volte tra di noi; chissà che cosa ha visto mentre era assente, lontano, via da questa clinica psichiatrica.
            Bruno Magnolfi


sabato 2 febbraio 2013

Viaggio improbabile.


            
            Non mi sento bene, aveva detto Luisa mentre camminava al braccio del marito, impegnata in una delle loro passeggiate domenicali lungo il giardino comunale poco lontano da casa. Forse è sufficiente che mi sieda su una panchina, aveva aggiunto, indicandone una là accanto, in uno spiazzo a ghiaia con la fontanella centrale. Mi basta qualche momento, lo aveva rassicurato mentre prendevano posto, forse mi è sufficiente chiudere gli occhi e lasciarmi scaldare da questo bel sole pomeridiano mentre tu sfogli il giornale, come fai sempre.
            Così aveva appoggiato la testa sullo schienale, e chiusi gli occhi le erano velocemente passate, in mezzo ai pensieri, diverse immagini strane, quasi un proiettarsi della sua mente verso qualcosa che non conosceva o che aveva dimenticato. C’erano altre persone, facce note e sconosciute, e poi la vecchia casa dove aveva abitato tanti anni prima con i suoi genitori, fino all’età dei venti anni, ma anche quella appariva senza una logica, come se le stanze fossero tantissime, e ognuna immettesse in un'altra, quasi senza limiti.
            Nel suo sogno Luisa chiedeva qualcosa, una minima indicazione, forse rivolgendosi ad una zia o a qualche lontano parente, forse allo stesso marito, ma tutti si limitavano a sorriderle e basta, come a volerla semplicemente rassicurare, anche se in modo contraddittorio. Lei al contrario si sentiva nervosa, agitata, sapeva di trovarsi in un luogo di grande nostalgia, eppure contemporaneamente le pareva di non conoscere affatto quel posto, come se tutto dei suoi ricordi fosse stato cambiato, quasi si fosse apportato delle modifiche adatte a renderlo completamente irriconoscibile, pur lasciando a lei la sensazione di trovarsi ancora nell’appartamento dove aveva trascorso la sua adolescenza.
            Qualcuno ballava divertito, lasciandosi notare oltre qualche porta socchiusa; altri ridevano pur cercando di limitare le proprie espressioni, ed altri ancora, infine, pareva incoraggiassero Luisa a girare, a visitare quella casa immensa ma vuota, e quasi interminabile. Lei vagava senza sapere verso dove né immaginando che cosa cercasse, forse desiderando trovare i suoi genitori, ma era come se loro fossero assenti, quasi si trovassero da un’altra parte, lontani da lì, trattenuti da chissà quali impegni. Suoni e voci ovattate giungevano alle sue orecchie, e Luisa più andava avanti e più assaporava un senso di sfida, come se niente di ciò che erano i suoi ricordi di quel tempo, avessero ritrovato là dentro il pur minimo fondamento.
            Ad un tratto gli pareva indispensabile fuggire da quel luogo, non era più possibile trattenersi ancora in quella specie di casa: cercava la porta di uscita, Luisa, ma un labirinto di stanze e corridoi le si parava davanti, senza alcun segno indicativo. Sapeva che da qualche parte forse l’attendevano i suoi genitori, ma era impossibile sapere dove, in quale direzione. L’angoscia era palpabile, il bisogno di urlare quasi incontrollato, e solo a quel punto Luisa si era svegliata da quel breve sonno. Voglio rientrare, aveva detto in breve a suo marito. Non devi preoccuparti, aveva aggiunto, sono soltanto confusa. I miei ricordi a volte prendono strade che non conosco, e i miei pensieri non trovano pace, ma non è grave, sarà sufficiente per me ritrovare la mia intimità, le mie piccole cose: tutto tornerà a posto, ne sono sicura,  e in poco tempo le cose riprenderanno ad andar  bene, vedrai, e sarà proprio come se niente avesse mai davvero minato la nostra vita in comune.
            Bruno Magnolfi

Viaggio improbabile(cortometraggio n.1)

            
            Non mi sento bene, aveva detto Luisa mentre camminava al braccio del marito, impegnata in una delle loro passeggiate domenicali lungo il giardino comunale poco lontano da casa. Forse è sufficiente che mi sieda su una panchina, aveva aggiunto, indicandone una là accanto, in uno spiazzo a ghiaia con la fontanella centrale. Mi basta qualche momento, lo aveva rassicurato mentre prendevano posto, forse mi è sufficiente chiudere gli occhi e lasciarmi scaldare da questo bel sole pomeridiano mentre tu sfogli il giornale, come fai sempre.
            Così aveva appoggiato la testa sullo schienale, e chiusi gli occhi le erano velocemente passate, in mezzo ai pensieri, diverse immagini strane, quasi un proiettarsi della sua mente verso qualcosa che non conosceva o che aveva dimenticato. C’erano altre persone, facce note e sconosciute, e poi la vecchia casa dove aveva abitato tanti anni prima con i suoi genitori, fino all’età dei venti anni, ma anche quella appariva senza una logica, come se le stanze fossero tantissime, e ognuna immettesse in un'altra, quasi senza limiti.
            Nel suo sogno Luisa chiedeva qualcosa, una minima indicazione, forse rivolgendosi ad una zia o a qualche lontano parente, forse allo stesso marito, ma tutti si limitavano a sorriderle e basta, come a volerla semplicemente rassicurare, anche se in modo contraddittorio. Lei al contrario si sentiva nervosa, agitata, sapeva di trovarsi in un luogo di grande nostalgia, eppure contemporaneamente le pareva di non conoscere affatto quel posto, come se tutto dei suoi ricordi fosse stato cambiato, quasi si fosse apportato delle modifiche adatte a renderlo completamente irriconoscibile, pur lasciando a lei la sensazione di trovarsi ancora nell’appartamento dove aveva trascorso la sua adolescenza.
            Qualcuno ballava divertito, lasciandosi notare oltre qualche porta socchiusa; altri ridevano pur cercando di limitare le proprie espressioni, ed altri ancora, infine, pareva incoraggiassero Luisa a girare, a visitare quella casa immensa ma vuota, e quasi interminabile. Lei vagava senza sapere verso dove né immaginando che cosa cercasse, forse desiderando trovare i suoi genitori, ma era come se loro fossero assenti, quasi si trovassero da un’altra parte, lontani da lì, trattenuti da chissà quali impegni. Suoni e voci ovattate giungevano alle sue orecchie, e Luisa più andava avanti e più assaporava un senso di sfida, come se niente di ciò che erano i suoi ricordi di quel tempo, avessero ritrovato là dentro il pur minimo fondamento.
            Ad un tratto gli pareva indispensabile fuggire da quel luogo, non era più possibile trattenersi ancora in quella specie di casa: cercava la porta di uscita, Luisa, ma un labirinto di stanze e corridoi le si parava davanti, senza alcun segno indicativo. Sapeva che da qualche parte forse l’attendevano i suoi genitori, ma era impossibile sapere dove, in quale direzione. L’angoscia era palpabile, il bisogno di urlare quasi incontrollato, e solo a quel punto Luisa si era svegliata da quel breve sonno. Voglio rientrare, aveva detto in breve a suo marito. Non devi preoccuparti, aveva aggiunto, sono soltanto confusa. I miei ricordi a volte prendono strade che non conosco, e i miei pensieri non trovano pace, ma non è grave, sarà sufficiente per me ritrovare la mia intimità, le mie piccole cose: tutto tornerà a posto, ne sono sicura,  e in poco tempo le cose riprenderanno ad andar  bene, vedrai, e sarà proprio come se niente avesse mai davvero minato la nostra vita in comune.
            Bruno Magnolfi