Per
un attimo mi ero specchiato nei vetri lucidi della finestra, muovendomi
lentamente ora in avanti ed ora indietro nell’ufficio, ma non avevo
propriamente guardato fuori, piuttosto avevo avuto come la sensazione
che fosse il fuori ad osservarmi. Poi avevo parlato per brevi
monosillabi ai miei collaboratori vagamente imbarazzati, che continuavo a
tenere ancora inchiodati di fronte a me, due seduti ed uno in piedi
vicino allo scaffale, senza dare troppa importanza a nessuno di loro, o
ai loro fogli e ai blocchi per appunti che tenevano tra le mani.
Proseguivo piuttosto a guardare dei punti indefiniti, mostrando
preoccupazione per qualcosa d’altro, qualcosa che oscillava tra la mia
testa e qualche breve telefonata che ricevevo e che in genere mi
aggiornava semplicemente sui tanti aspetti del mio lavoro. Avevo posto
loro delle domande, naturalmente cambiando più volte argomento, e mi
rammaricavo che molte cose fossero rimaste in aria, sospese e quasi in
attesa di giudizio: l’accavallarsi dei fatti e delle decisioni nel mio
ufficio era comunque sempre stato un elemento del tutto ordinario,
perciò non c’era niente da stupirsi.
Poi,
durante un’ulteriore telefonata al cellulare, ero uscito dalla stanza,
giusto per farmi sentire dagli altri e dare una scrollata eventuale a
chi non fosse pienamente impegnato nel proprio compito, e avevo visto
così quella persona in sala attese, un ragazzo poco più che ventenne,
mentre aspettava il suo turno probabilmente per un colloquio. Non mi
piacque, anche se non avrei saputo dirne il motivo, ma per questo decisi
subito che lo avrei fatto aspettare più di quanto fosse stato
necessario. Tornando verso la mia scrivania alzai un po’ la voce
spiegando che non era possibile complicare sempre le cose fino al punto
di non trovare più in seguito una via d’uscita. Era una frase riferita a
certe squadre di lavoro che per un motivo o per un altro, usando scuse
tendenzialmente pretestuose, non completavano mai le cose così come
veniva chiesto di fare ai caposquadra, creando in seguito pregiudizio
sulla programmazione delle attività. Poi ebbi un vuoto, mi parve di
rivivere una stessa situazione, come spesso capita, ma con la differenza
che adesso mi pareva con terrore che tutto mi sfuggisse, e di non avere
pieno controllo sulle persone. Per questo decisi di essere più duro con
quei miei collaboratori scansafatiche.
Feci
uscire tutti, dettai degli ordini da eseguire cercando il massimo
dell’incisività, poi chiesi a che punto fossero arrivati certi
aggiornamenti. Fu risposto con timore che erano indietro, come peraltro
già sapevo, così con voce leggera chiesi di lavorare nella serata oltre
le venti, per rimediare al più presto alle mancanze. Cambiai argomento
prima che si commentasse il precedente, e detti una sferzata critica e
generica a tutti coloro che probabilmente pensavano di fare un po’ come
pareva loro, almeno secondo me, in modo che ognuno riflettesse bene
prima di sollevare qualsiasi obiezione. Infine mi lamentai che niente
ultimamente andava come avrebbe dovuto: le squadre di lavoro erano
seguite troppo poco, la programmazione era poco definita e lasciata
molto al caso, le contabilità spesso erano indietro, i mezzi ed i
materiali nuotavano nel caos o nell’abbandono. Tutti abbassavano la
testa; le mie parole inchiodavano ognuno di loro: ero sicuro che
soltanto così potevo gestirli come volevo io.
Con molto impegno solo apparente la segretaria continuava nella stanza a
fianco a digitare qualcosa sulla sua tastiera del computer,
ottemperando all’ordine di eseguire una relazione circa la produzione
dell’impresa nell’ultimo mese, e aveva alzato la testa dallo schermo
appena per un attimo, quando le avevo chiesto in malo modo e con voce
troppo alta le date dei corsi per gli operai sulla sicurezza nei
cantieri. Poi aveva riguardato il documento finito, zeppo di note e di
cifre, lo aveva riletto svariate volte sostituendo qualche parola e
limando qualche frase, lo aveva stampato e con qualche titubanza aveva
portato i fogli debitamente spillati tra loro nel mio ufficio.
In
quel momento stavo seduto sulla mia poltrona in pelle nera, e
continuavo come sempre a discutere al telefono; così avevo allungato una
mano senza alzare mai gli occhi dai numerosi fogli e incartamenti che
invadevano la mia scrivania, e mi ero fatto consegnare il documento,
disponendomi ad osservarlo attentamente. Lo avevo scorso tutto,
velocemente, leggendo solo qualcosa e proseguendo la conversazione al
telefono, segnalando con un lapis diversi punti da correggere mentre
tenevo con la spalla la cornetta incollata ad un orecchio; alla fine lo
avevo firmato con la mia penna in ultima pagina, non degnando la
segretaria neppure di uno sguardo, neanche per un attimo; lei era
rimasta lì, ad attendere istruzioni, ed io infine avevo appeso il
telefono. Pausa. Quel documento probabilmente andava bene, pensavo, ma
questo era inammissibile, e così le avevo detto: cancelli i miei segni,
andrebbe senz’altro migliorato, è quasi illeggibile; purtroppo devo
accettarlo, anche se con una certa sofferenza, adesso non c’è più
neppure il tempo per renderlo minimamente presentabile.
Bruno Magnolfi
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