martedì 31 agosto 2010

Un attimo per cambiare le cose


Non lo so, continuava a ripetersi mentalmente come cercando di darsi una convinzione ulteriore circa la sua fisiologica incapacità di decidere, quel non riuscire mai a sapere la soluzione migliore da prendere. A volte era patetico, se ne rendeva perfettamente conto, restarsene lì davanti a una domanda qualsiasi senza riuscire a dire se voleva una cosa oppure quell’altra, era un atteggiamento di cui provava quasi vergogna, ma che proprio non sapeva come cambiare. In passato aveva provato qualche volta a giustificarsi, ma generalmente era sempre stato scambiato per un imbranato stellare il cui cervello si bloccava alla minima difficoltà, senza riuscire ad andare più avanti.

A lui invece le decisioni sembravano tutte importanti, e se cominciava a pensare le cose, ecco che ogni piccolezza gli appariva difficile, come se da qualsiasi stupidaggine potessero scaturire cose importanti che non era possibile non considerare in anticipo. Il suo vero problema di fondo era che non riusciva a fare niente con leggerezza, lasciarsi andare a ciò che veniva, e tutto questo deprezzava la sua personalità di non poco agli occhi degli altri.

Aver deciso che Luisa era una ragazza che le piaceva, e trovare la maniera per farsi a sua volta apprezzare, erano stati dei passi notevolmente importanti, ma adesso era conscio che sarebbe arrivata la parte peggiore e più impegnativa. Le aveva offerto un gelato durante uno di quei pomeriggi ai tavolini all’aperto del solito bar con tutti gli altri ragazzi, e lei aveva parlato di sé, di quello che pensava e di ciò che maggiormente le piaceva. Lui l’aveva fatta parlare limitandosi ad annuire e a sorriderle su quella panchina appartata anche se a pochi metri da tutti quegli altri. Adesso però avrebbe dovuto chiederle di uscire con lui, e questo era un po’ più difficile.

Lui quel pomeriggio era arrivato per primo. Luisa, con una sua amica, era arrivata per ultima, spandendo un saluto generico agli altri ragazzi, e conservando un sorriso e un brevissimo sguardo d’intesa soltanto per lui. Le battute e i discorsi di tutti erano andati avanti come sempre capitava, poi, casualmente, la ragazza con cui Luisa era arrivata, dopo aver preso al bar una lattina da bere, era andata a sedersi casualmente proprio nella sedia vicina alla sua.

Non c’era da farci alcun caso, probabilmente non c’era un disegno previsto, però lui si sentiva sulle spine, aveva quasi iniziato a sudare, tanto sentiva l’importanza di quella cosa. “Senti”, aveva detto la ragazza a voce bassissima. “Mi ha detto Luisa di dirti che se ti va lei ti aspetta in fondo ai giardinetti, perché ti vuole parlare”. Lui aveva sbattuto gli occhi parecchie volte dietro ai suoi occhiali, si era voltato da tutte le parti senza riuscire a capire da che parte fosse meglio guardare, infine, pur non avendo ancora risposto, aveva scosso nervosamente la testa come in modo affermativo, e la ragazza aveva subito detto qualcosa a voce alta ad un altro e si era alzata da lì.

A un certo punto Luisa aveva girellato da sola dietro a tutti i ragazzi, poi era scomparsa senza farsene accorgere dietro ai primi cespugli, probabilmente andandosene verso la zona che l’amica aveva indicato. Lui aveva atteso, impossibile capire per quanto tempo vista l’agitazione di cui ormai era preda, poi un amico gli aveva chiesto se conosceva una certa persona, e lui aveva detto di si e la faccenda era andata un po’ per le lunghe. Poi aveva pensato di aver capito una cosa diversa, o che forse non era il caso di mostrarsi con Luisa così arrendevole, e quando ancora pensava alla cosa migliore da fare, ecco che lei era tornata, aveva fatto un cenno all’amica e se n’erano andate, senza neppure salutare.

Tutto appariva perduto, i ragazzi continuavano a parlare come sempre, lui non riusciva a capire più niente. Poi si era alzato, dapprima lentamente, ma subito si era mosso con maggiore premura, e infine aveva corso, corso disperatamente dietro a Luisa, come fosse quella la cosa più importante di tutti, quella per cui si doveva calpestare ogni indugio, qualsiasi perplessità, ciascun dubbio, anche se gli altri non avrebbero mai capito niente di quello che stava accadendo.

Bruno Magnolfi

domenica 29 agosto 2010

Senza necessità di risposte




Indubbiamente sono una persona mediocre, lo so, me ne rendo conto perfettamente. Certe volte incontro per strada delle persone che conosco, quelle mi dicono qualcosa di spiritoso, sostengono a voce alta che io sappia bene dove stia andando, per esempio, anche se sto facendo soltanto un giretto tanto per far passare un po’ il tempo, senza una meta precisa. Tutti mi hanno sempre detto cose del genere, non ne ho mai capito il motivo, come si aspettassero da me trovate superiori alle mie capacità. A volte mi intimidiscono, io abbasso lo sguardo, sorrido, in certi casi non capisco per nulla a che cosa si possono mai riferire, però lascio correre, in fondo non ho alcuna scelta, penso.

In casa ci rimango il minor tempo possibile, per il resto giro sempre in lungo e in largo tutte le strade del mio paese, e tutti mi conoscono facendomi grandi saluti. Mi piacciono le persone, mi chiamano per nome, mi guardano mentre vado di fretta, e non lo so neanche io dove sto andando, però sono contento se tutti pensano che ho da fare qualcosa, da sbrigare qualche faccenda.

Quando mi fermano mi dicono le solite cose, io rido, dico che purtroppo devo andare, mi sembrano tutti degli sfaccendati che se ne rimangono lì davanti al bar a parlare di calcio e di argomenti del genere. Preferisco camminare, scivolare via per mio conto, tanto non capirei i loro discorsi, sarei d’impaccio per tutti. Le situazioni peggiori avvengono quando vogliono parlarmi delle donne. Sembra che sappiano sempre ogni cosa, e dicono sottovoce qualcosa di quella ragazza che passa, o di quell’altra che si vede spesso lungo la strada.

A me le donne non piacciono, quelle che conosco mi salutano serie, non dicono niente di spiritoso, io non so mai cosa dire a loro. Però ce n’è una che lavora nella bottega della sua famiglia, quando passo da lì lei a volte è da sola dietro al bancone. Mi saluta con timidezza, mi fa parlare senza chiedermi niente, mi regala sempre qualcosa, sciocchezze, ma che io tengo per me come regali importanti.

Così oggi ho strappato una rosa da dentro un giardino, la più bella che c’era, e ho deciso di fargliene dono, so che a lei piacerà. Attraverso tutto il paese, gli sfaccendati mi urlano sempre le solite cose, ma io oggi non li sento neppure, ho qualcosa d’importante da fare, non ho tempo da perdere per gente così: cammino sul marciapiede e sento che intanto mi chiamano; che importa, penso, io sono soltanto uno sciocco, posso senz’altro permettermi di non rispondere.

Bruno Magnolfi

sabato 28 agosto 2010

Finalmente a mio agio




Andiamo, aveva detto Lorenzo senza permettere repliche. Così erano scesi dall’auto, anche se Fabrizio, suo fratello minore, non aveva ben capito verso dove stessero andando. Avevano percorso qualche metro sul marciapiede, senza che nessuno dei due avesse più detto nulla, e poi erano giunti davanti a un portone, Lorenzo aveva fatto suonare brevemente il campanello di fianco e qualcuno all’interno aveva fatto scattare l’apertura automatica. Dentro c’era poca luce, il corridoio era ampio e lungo, in fondo c’erano delle finestre coperte da tende pesanti, e sui lati si vedevano alcune porte, tutte chiuse. Fabrizio avrebbe voluto dire qualcosa, ma restava in silenzio aspettando una spiegazione da Lorenzo, o dagli abitanti di quella strana casa.

Sopraggiunse da qualche parte una breve risata, come unico scampolo di vita, e Lorenzo ebbe un moto represso, come di chi pensa sia il caso di andarsene. Doveva essere quello, come gli avevano indicato dei conoscenti, un luogo dove alcuni disturbi della personalità, di cui soffriva da tempo suo fratello, si curavano con l’ausilio di certe discipline orientali. Lui lo aveva detto a Fabrizio, sofferente da sempre di depressione, che senza impegno un giorno a l’altro lo avrebbe portato in un posto del genere, ma non lo aveva più ripetuto, immaginando che Fabrizio avrebbe mosso delle difficoltà o fatto resistenza. Ma lui stesso si sentiva pentito adesso di averlo trascinato sin lì: gli pareva un posto completamente diverso da quello che gli avevano detto, non c’era niente che gli desse un barlume di fiducia.

Si aprì lentamente una porta, senza rumori, e un uomo uscì per guardarli. Poi una voce femminile all’interno disse di entrare, e Lorenzo, tirando Fabrizio per un braccio, si fece coraggio oltrepassando la soglia. Si sedettero ambedue davanti ad una piccolo scrittoio di legno. Le luci e i colori dentro la stanza apparivano ovattati, lo sguardo della donna era pungente, ma i suoi modi apparivano calmi e rassicuranti.

Si volse subito verso Fabrizio, gli chiese il nome, alcuni dati generici, qual’erano le prime cose che pensava al mattino dopo il risveglio, se ricordava i suoi sogni, cos’era che gli faceva maggiormente paura, e altre cose del genere. Poi, senza attendere neppure il completamento delle risposte, gli chiese se fosse d’accordo a proseguire la conversazione senza la presenza di suo fratello.

Da solo, Fabrizio, davanti a quella donna curiosa, si sentiva maggiormente a suo agio, e la conversazione proseguiva in maniera più sciolta e quasi piacevole. Ad un tratto lei gli fece annusare un liquido contenuto in un piccolo vaso, gli mostrò alcuni disegni incomprensibili chiedendo che cosa mostrassero, si alzò dalla sua sedia andando dietro le spalle di Fabrizio e toccandogli ora il collo, ora la nuca, ora la zona centrale della spina dorsale.

Lui continuava a parlare, ma quasi in modo meccanico, senza neppure conoscere bene l’argomento delle sue risposte, ma come se all’improvviso volesse spiegare tutto di ciò che pensava: lei gli chiese ancora qualcosa, e lui proseguì, senza rendersi conto che la donna intanto era uscita in silenzio, aveva osservato Lorenzo mentre stava fumando nervosamente una sigaretta nel corridoio, poi era tornata al suo posto, dietro la piccola scrivania. Gli disse che per adesso bastava, poteva tornare il giorno seguente, da solo, e che uscendo non doveva spiegare al fratello troppe cose di quello che là dentro si erano detti.

Quando Fabrizio e Lorenzo furono di nuovo sul marciapiede e la porta fu chiusa, quest’ultimo disse subito che non gli era piaciuto niente di quello che era successo: Lorenzo lo fece parlare, senza interromperlo e senza aggiungere niente; poi gli spiegò che lui invece si sentiva già meglio, anche se non sapeva spiegarsi il perché, e che uno dei giorni seguenti sarebbe tornato dalla donna, ma da solo, come lei aveva chiesto, e che avrebbe cercato di capire cos’era che in quel posto così insolito, così diverso da tutti quelli dove erano stati insieme in passato, lo aveva messo così bene a suo agio.

Bruno Magnolfi

venerdì 27 agosto 2010

Il principio di qualsiasi pensiero





La brezza leggera di questa mattina giunge piacevole a muovere con delicatezza le foglie degli alberi, e tutti gli oggetti del mondo, pur disposti in maniera spesso casuale, paiono sistemati in modo studiato a creare le coreografie delle scene che probabilmente si svolgeranno nella giornata. Le persone camminano, si salutano a volte, incontrandosi, spesso si sfiorano senza sapere niente l’una dell’altra, ma tutto il disegno che le muove appare funzionale, logico, organico a quello che deve accadere.

Ho avvertito durante la notte le avvisaglie di qualcosa che si è mosso nell’ombra, le mie percezioni mi hanno convinto che ci sono dei fatti che devono accadere, forse non sono l’unico ad averne sentore, non sono il solo ad aver compreso che questo sarà probabilmente un giorno speciale, in ogni caso devo cercare l’origine dei cambiamenti, il fulcro del divenire.

Mi muovo per casa dopo aver riflettuto a lungo nelle mie osservazioni della città fatte dalla finestra: adesso ho bisogno di uscire, incontrare la gente, ascoltare i messaggi ulteriori che mi possono giungere a completamento del quadro che ho iniziato ad formarmi, quello che mi è stato suggerito dalle voci invisibili. Mi hanno parlato stanotte, lo hanno fatto direttamente nelle mie orecchie, mi hanno spiegato che niente sarà più lo stesso, ed io mi sono svegliato di colpo, con la faccia sudata, le mani rattrappite, il terrore negli occhi. Ma ancora non so niente, ho solo la sensazione di qualcosa che deve accadere, ma non so dove, in che modo, che cosa.

Cammino lungo la strada, frugo con gli occhi i bordi dei marciapiedi e gli angoli delle case, ma niente pare darmi una spiegazione ulteriore: nessun segno si manifesta in modo più chiaro. Continuo a cercare, mi muovo, cambio quartiere. C’è gente che entra e che esce continuamente da dentro ai negozi, osservo le scarpe delle persone, mi pare sia da lì che possa derivare la spiegazione che cerco. Poi entro anche io in una bottega, non so neppure per quale motivo, davanti al banco ci sono tre o quattro persone che fanno la fila aspettando di essere servite. Osservo tutto il negozio, gli scaffali, i prodotti che sono lì esposti, ma non vedo niente, non c’è niente che mi stimoli i sensi.

Torno sul marciapiede, vado ancora avanti, poi mi infilo dentro a un mercato al margine di una piazza. C’è profumo di ortaggi nell’aria, qualcosa mi dice che quello è il posto in cui posso avere gli elementi che cerco, il luogo giusto insomma; su qualche espressione inizio a leggere uno smarrimento che prima non c’era, affiora qualcosa tra i pensieri delle persone che si muovono tra le bancarelle, punti interrogativi importanti, necessità di chiarezza per i dubbi che insistono nelle menti di quella gente.

Vedo una donna, la guardo da dietro, so con certezza che è lei quella che sa. Mi avvicino, la sfioro, una specie di energia elettrica emana dalla sua persona, sarà lei e nessun altro, penso, che potrà spiegare ogni cosa. La seguo, cerco un collegamento con i suoi pensieri, sento ad un tratto un forte formicolio nella mia testa, come se migliaia di informazioni mi giungessero contemporaneamente, senza avere la capacità di riceverle correttamente e metterle in ordine.

Poi lei si ferma, si volta, mi guarda: i suoi occhi sono di ghiaccio, il suo sguardo magnetico mi spinge chissà verso dove. Si allontana, la guardo, non dimenticherò facilmente questo messaggio: ogni cosa è perduta per me, ora lo so, adesso dovrò ricominciare tutto daccapo.

Bruno Magnolfi

giovedì 26 agosto 2010

Nel cortile polveroso di sempre


I caseggiati attorno al grande cortile erano quasi tutti uguali, composti da tre o quattro piani e con delle terrazzine perennemente ingombre di panni stesi ad asciugare. Nei pomeriggi c’erano sempre i bambini a giocare in quel cortile, ma al mattino appariva sempre irrealmente silenzioso, con quei quattro o cinque alberi polverosi con le radici affondate dentro a un’aiuola di terra in mezzo alla ghiaia, ai sassi, al cemento e a qualche panca di legno.

Lo vidi lì la prima volta: fermo, appoggiato ad un muro, i capelli neri, la sigaretta in mezzo alle dita. Doveva essere uno dei nuovi inquilini degli appartamenti più piccoli, pensai, quelli all’angolo, ma uno così tra quelle case non si era mai visto. Anche una povera donna come me doveva pur dare un’occhiata ad un bel ragazzo, e così feci, mentre continuavo a stendere i panni sui fili lungo il terrazzo.

Poi mi cadde una federa, ma non lo feci apposta, fu per una distrazione casomai. Scesi alla svelta, corsi di sotto, aprii la porticina in fondo al corridoio buio alla fine delle scale, lui era ancora lì, nella medesima posizione. Si volse, al rumore che provocai, lui assieme alla sua sigaretta. Mi osservò senza interesse, forse, e io con titubanza avanzai verso la federa, disposta a giustificarmi mille volte per ciò che ero costretta a compiere.

Così da vicino mi parve ancora più bello di come lo avevo visto dal mio terrazzo: lui continuava ad osservarmi, sorrise leggermente con un angolo della bocca, io mi inchinai per riprendere la mia biancheria ad una distanza di non più di cinque o sei metri. Rallentai ogni movimento, lasciai che lui osservasse per intero ciò che stavo facendo, come in un piano cinematografico dove ogni dettaglio era studiato, messo a punto, esatto: presi la federa con una mano, mi sollevai e restai ferma, in piedi, lì davanti a lui, gli occhi negli occhi, poi dissi: buongiorno, sottovoce, senza alcuna convinzione, come per cercare qualcosa che mi desse respiro, che dimostrasse che ero viva, non una proiezione dei pensieri di quando ero ancora sopra al terrazzo.

Lui non cercò neppure di dire qualcosa, continuava semplicemente ad osservarmi con quel suo sorriso ammiccante, ed io pensai di svenire e cadere per terra pur di vederlo muovere da quella posizione statuaria. Nello stesso attimo pensavo di chiedergli qualcosa, ma mi trattenevo nel terrore di rompere quel fragilissimo incantesimo che si era creato.

Poi abbassai gli occhi, vidi il grembiule a quadretti che avevo ancora addosso e con il quale in genere accudivo alle mie faccende di casa, guardai la federa che avrei ancora dovuto lavare, e mi venne da ridere, senza alcuna possibilità di trattenermi. Gli ridevo in faccia, mentre ancora mi guardava, a lui e a tutto il suo essere bello in un posto dove per forza risaltava, anche se non ci stava a far niente, dove in fondo appariva soltanto stonato; continuai a ridere di me e anche di lui mentre mi voltavo per proseguire con le mie cose, e me ne andavo chiudendo alle spalle la porticina in fondo alle scale, tanto la soddisfazione me l’ero già levata, e tornavo alle mie occupazioni senza neppure voltarmi di nuovo.

Bruno Magnolfi

mercoledì 25 agosto 2010

Le peggiori abitudini




E’ tutto inutile, stavo pensando ancora prima di vedere la mia casa dove ero diretto, come ogni giorno, dopo essermi fermato a bere qualcosa con la solita gente del bar, dopo il lavoro. C’era mia moglie là dentro quell’ appartamento, la immaginavo davanti al televisore con le pantofole ai piedi e le mani che lisciavano il pelo del gatto, come sempre faceva a quell’ora. Non avevo nessuna voglia di aprire la porta di casa e trovarla seduta in quella medesima posizione, la stessa di qualsiasi altro giorno dell’anno a quell’ora. Non avevo alcuna voglia di dire le solite cose, attendermi le medesime domande gentili ed inutili di tutte le sere e risponderle a grugniti come ormai facevo da mesi.

Camminavo sempre più lentamente mentre cercavo di tornarmene a casa, ma pareva quasi che i miei piedi volessero prendere una direzione diversa, come a cercare di andare da qualche altra parte, per conto proprio. Pensavo a mia moglie seduta davanti al televisore con il gatto sopra le gambe, e mi pareva non esistesse una cosa più triste di quella dopo una giornata di duro lavoro. Forse mi sarei anche fermato nuovamente in un bar se ce ne fosse stato uno sulla strada proprio vicino al mio appartamento, pur di rimandare ancora la vista di quelle pantofole, del gatto, il televisore, e tutte quelle solite cose.

Qualche sera nel locale davanti al lavoro, mi ero anche fatto qualche birra di troppo ed ero rientrato cantando tra me sottovoce, pur di non dover dire buonasera e attendermi le solite domande di rito, com’era andato il lavoro e cose del genere. Era l’ultimo tratto di strada la cosa più difficile di tutte, quando ormai vedevo là in fondo le finestre del mio appartamento, e venivo preso alla gola dalle medesime immagini del televisore acceso e di mia moglie seduta davanti.

Osservavo i modelli di auto parcheggiate in tutta la zona per distrarmi un pochino, iniziavo anche a contare i passi che c’erano tra un marciapiede e quello di fronte pur di impegnare la mente, ma non c’era niente da fare, sapevo che dovevo aprire la porta di casa e vedere mia moglie, con le pantofole e il resto. Qualche volta avevo cercato di convincermi che quella era la migliore moglie del mondo, ma più continuavo a ripeterlo alla mia povera testa, più mi sembrava impossibile convincermi di una cosa del genere. Per questo era inutile qualsiasi tentativo, dovevo lasciare che le cose andassero avanti da sé, non c’era molto altro da fare.

Gli ultimi metri prima di arrivare alla casa erano i peggiori di tutti: speravo di potermi fermare a parlare con qualche vicino, qualcuno che conoscevo almeno di vista, ma niente, non c’era niente da fare. Poi salivo le scale svogliatamente, infilavo la chiave nella serratura ed aprivo la porta: il gatto non c’era, la televisione era spenta, mia moglie stava in giro per casa, truccata, le scarpe coi tacchi e un abito nuovo, e distrattamente diceva: ti va di uscire con me?, ed io mi rendevo conto che ancora non avevo neppure richiuso la porta.

Bruno Magnolfi

martedì 24 agosto 2010

Siamo qui, proprio dove dovremo essere




Lui aveva sentito un dolore dentro a una gamba. Aveva chiuso gli occhi, aveva lasciato trascorrere un po’ di tempo, infine aveva detto: non so, sento qualcosa in questa gamba, come se l’osso fosse stretto dentro una morsa. Continuava ad osservare il soffitto mentre restava fermo, supino nel letto, poi, visto che lei non aveva commentato un bel niente, neppure dato cenno di avere ascoltato, si girò dalla sua parte per osservarla, ma movendo soltanto la testa.

Uno di tuoi soliti stupidi dolori, disse lei senza distogliere lo sguardo dal libro, forse addirittura continuando anche a leggerlo. Come faceva a leggere e a parlare contemporaneamente, pensava lui, gli sembrava impossibile, ma lei faceva sempre in quel modo. Si girò dentro al letto movendo e tirando le coperte, procurandole un sacco di noia, quasi come fosse un suo dovere ordinario comportarsi così, cercando di dare rilievo a quel suo dolore, poi disse: è strano, è un tipo di fastidio che non ricordo di aver mai sentito; un dolore, qualcosa di strano, comunque.

Lei continuava a cercare di non dargli alcuna importanza, ma dopo soltanto un paio di minuti mise un pezzo di carta dentro al suo libro e si alzò rumorosamente dal letto. Lui restava in attesa osservando il cuscino lì accanto con ancora la forma della sua testa. Quando lei tornò aveva un tubo di crema, lo appoggiò sulla coperta senza dire neppure una parola, poi uscì di nuovo dalla camera.

Trascorsero alcuni minuti, poi lei tornò con una tazza di latte o di caffè, l’appoggiò sul suo comodino, e tornò a sistemarsi nel letto. Lui aveva iniziato ad armeggiare con la crema, ma alla fine ne aveva fatta uscire troppa dal tubo e si era unto quasi tutta la gamba, per cui avrebbe dovuto massaggiare a lungo per far sì che la pelle assorbisse per bene. Si stufò quasi subito, mise le pantofole e andò in bagno a lavarsi. Tanto queste pomate non fanno un bel niente, disse quando tornò.

Lei allora attese che lui fosse di nuovo sistemato sotto le coperte, appoggiò il libro sul comodino, prese un sorso dalla sua tazza e guardando la zona del letto dove lui aveva i piedi disse soltanto: se domattina avrai ancora il dolore arriviamo al Centro Medico a farsi un controllo; non si sa mai con queste cose, è molto meglio dormire tranquilli.

Bruno Magnolfi

lunedì 23 agosto 2010

Il canale lungo la strada



Lo sapevo, lo avevo sempre saputo quale fosse il margine di quella strada, la strada lunga e diritta che correva nella nostra pianura a perdita d’occhio, fino al paese. Non ci voleva molto tempo, se andavo a passo svelto bastava una mezz’oretta per raggiungere il circolino e starmene lì, con tutti che ridevano, mi battevano una mano sopra la spalla e certe volte mi pagavano un bicchiere di spuma. Seguivo quel piccolo margine erboso, lo conoscevo ormai a menadito, sapevo quando si trovava ora un sasso, ora un albero, ora la pietra miliare. Lungo la strada asfaltata non passava quasi nessuno, e quando arrivava qualcuno che mi conosceva e che andava nella mia direzione si fermava, rideva, diceva di saltare su insieme a lui e mi dava un passaggio.

Durante il giorno lavoravo quasi sempre dentro la stalla con mio padre che tutto il giorno mungeva le mucche, mentre io con la forca sistemavo il fieno alle bestie, toglievo il letame con la carriola, facevo tutto come lui mi diceva, certe volte fino alla sera.

Lo sapevo che quella strada non era illuminata per niente, ma io mi portavo la lampada, per quando era sera, quando tornavo. Non mi trattenevo mai troppo a quel circolino, però se non andavo fin lì a salutare quella gente che mi conosceva e mi faceva sempre un sacco di feste non riuscivo a star bene. Gli altri giocavano a carte, certe volte gridavano qualcosa, bevevano parecchi bicchieri di vino, poi tornavano a ridere una volta che avevano smesso, e qualcuno diceva che io portavo fortuna, e facevano a gara certe volte perché mi mettessi a sedere a fianco dell’uno o dell’altro.

Ma a me non piaceva stare a lungo là dentro a ridere e basta, avevo la mia strada da fare, quel ciglio d’erba tra l’asfalto e il canale, che quando arrivava la bella stagione si riempiva di rane che gracidavano e non la finivano più, fino a quando non gli passavo vicino. A mio padre non piaceva che io andassi tutte le sere fino a quel circolino, però non diceva mai niente, forse lo pensava, poi basta.

Quando caddi dentro al canale era una sera qualsiasi. Successe tutto senza che neppure me ne accorgessi; scivolai, questo me lo ricordo, e mi ritrovai dentro al fango, quel fango schifoso che mi intrappolò subito le scarpe ed i piedi. Era buio, l’acqua marcia mi arrivava quasi alla gola, duravo fatica a far tutto, la mia lampada era sparita ed il freddo mi aveva subito paralizzato.

Pensai di lasciarmi andare, era inutile lottare contro il canale, però provavo vergogna dopo tutti quegli anni in cui ero passato dal margine, da quel ciglio erboso che conoscevo così bene, esser caduto là dentro mi pareva da stupidi. Non volevo essere stupido, forse non ero proprio come gli altri del circolino, però avevo un lavoro, frequentavo la gente, non ero anormale come qualcuno diceva.

Piansi, non lo so neppure io per quale motivo, e forse chiusi gli occhi sognando di trovarmi dentro alla stalla, con mio padre che mi diceva cosa c’era da fare, oppure al circolino, con gli amici che mi pagavano la spuma da bere. Quando arrivarono in quattro o cinque con le torce, non so quanto tempo fosse passato. C’era mio padre davanti a tutti, e mi piacque tanto vederlo che si stava preoccupando per me, ma non disse niente quando mi vide, entrò nell’acqua putrida anche lui e mi tirò fuori con forza ma anche con garbo, senza commenti, come se lo avesse saputo da sempre che prima o poi quella cosa sarebbe dovuta succedere.

Bruno Magnolfi

domenica 22 agosto 2010

Siete tutti dei poveri illusi


I passi misurano la distanza dei pensieri tra loro, e la mente elabora figure geometriche impossibili. La città ruota attorcigliando se stessa attorno a dei punti invisibili, come in un obiettivo dalla messa a fuoco indefinita, e le prospettive delle strade appaiono negate, senza trovare uno sbocco. Le autoambulanze lasciano echeggiare le loro sirene attorno al luogo dell’incidente, i curiosi affollano tutta la via, ai margini si fanno i primi commenti. Qualcosa è accaduto, è l’obolo da pagare al movimento affannoso della folla, la gente nevrotica alla ricerca spasmodica di qualcosa. Si procede, si passa più avanti, non c’è assolutamente bisogno di soffermarsi oltre lo stretto necessario.

L’uomo è da solo nel suo passeggiare senza meta, le persone lo sfiorano, nessuno lo nota, è una figura inesistente nel suo essere fuori da ogni riconoscibile logica. Eppure è un individuo comune: pensa, cammina, si comporta come qualsiasi altro, soltanto ha qualcosa sotto al cappotto che ne fa una persona speciale. Nessun’arma ordinaria, niente che sembri un oggetto offensivo, soltanto un coltellino minuscolo che impugna dentro a una mano, sprofondata nella sua tasca.

Poi si ferma, si avvicina a un portone socchiuso, entra in un andito buio, sale due rampe di scale fino ad arrivare davanti a una porta qualsiasi. Incide velocemente e in silenzio nel legno di un’anta una scritta con quel suo temperino affilato, poi scende rapidamente, ritornando sul marciapiede e riprendendo il medesimo passo di prima. In quel giorno ha inciso decine di volte la medesima cosa, quelle stesse parole:

POVERI ILLUSI

E’ così che il suo astio nei confronti del mondo trova la sua completezza, e nel suo vagare non può fare a meno di comportarsi così, non potrebbe immaginare una cosa diversa, perché lui sa di essere fuori da tutto, e nessuno riuscirà mai ad averlo.

Bruno Magnolfi

sabato 21 agosto 2010

La navicella nello spazio interstellare

La navicella nello spazio interstellare




Le voci e i rumori arrivavano fino lì, nonostante le porte chiuse, il lungo corridoio e il cuscino sopra la testa di Elisabetta. Ormai andava avanti da tanto tempo la situazione: quasi ogni sera i suoi genitori litigavano, Elisabetta non capiva neanche per cosa, a lei pareva che tutto andasse bene, a scuola aveva anche preso dei buoni voti, ma ultimamente pareva che questo non interessasse nessuno.

Così quella sera aprì la finestra della sua cameretta, al primo piano della villa dove abitava, ed uscì, calandosi lungo una pianta rampicante che cresceva in mezzo all’erba del retro. Girò un po’ per il giardino, in pigiama com’era, poi si sedette su una pietra squadrata vicino alla recinzione. I due esseri la videro subito e le chiesero con voce stentata che cosa stesse facendo. Lei spiegò loro la storia, senza paura, e loro ascoltarono in perfetto silenzio. Le chiesero, dopo che ebbe finito, se per caso voleva fare un giro con loro, giusto per svagarsi, ed Elisabetta disse di si.

Poco distante c’era una specie di scatola opaca, salirono sopra e in un attimo si ritrovarono nel cielo notturno, chissà quanto lontani in mezzo alle stelle, una visione completa dell’universo, come se quell’abitacolo fosse completamente trasparente. Elisabetta si sentiva felice, sapeva di essere una dei pochissimo fortunati a poter fare una cosa del genere, poi chiese ai due esseri che stavano fermi e in silenzio, se da loro ci fossero i genitori e cose del genere, ma i due senza muoversi dissero che non avevano nella loro cultura cose del tipo.

Quando la riportarono nel giardino di casa, a lei parve che non fossero troppo contenti, però la trattarono con cortesia, dissero che avrebbero potuto rivedersi se lei avesse voluto, ed Elisabetta, dopo i saluti e con qualche difficoltà, riuscì a risalire sopra al rampicante fino alla finestra della sua cameretta.

Al mattino seguente la mamma non la trovò nel suo letto, fece un grido, accorse anche il babbo, insieme la cercarono da tutte le parti, fin dentro l’armadio. Elisabetta era lì, in piedi, appoggiata con le spalle dietro ai vestiti, in silenzio, lo sguardo assente, nessuna apparente necessità. La mamma si spaventò, disse il suo nome più di una volta, suo padre la scosse leggermente per capire cosa potesse esserle accaduto; poi Elisabetta, in completa tranquillità, disse soltanto: posso andare in mezzo alle stelle per non sentirvi più litigare; in fondo, se voi continuate così, non fate altro che spingermi via.

Bruno Magnolfi

venerdì 20 agosto 2010

Via dalla mia vita


Vattene fuori dalle palle, aveva detto lei senza neppure scomporsi, come fosse una frase che aveva pensato di dirgli già mille volte. Nella tasca della giacca di suo marito aveva appena trovato un foglietto con su scritto con il rossetto un nome femminile e un numero di telefono. Non era certo la prima volta che Nicola si dava da fare con qualcuna, aveva fatto il cretino persino con una delle sue amiche, e da quella volta lei aveva giurato a se stessa che non lo avrebbe più voluto vedere.

Nicola sorrideva in modo quasi provocatorio, osservava a testa bassa qualcosa nella cucina, tra lui e sua moglie il tavolo di formica grigia; poi aveva aperto il frigo e tolto il tappo a una birra. Guarda che devi prendere le tue cose e levarti dai piedi, spiegò meglio lei a voce bassa; adesso devo uscire, quando ritorno non voglio ritrovarti, ti è chiaro?

Lui annuiva continuando a bere la birra, mentre lei lo osservava cercando di capire che cosa gli passasse dentro quella testa bacata. Restavano in silenzio ambedue, misurandosi, lei seguiva mentalmente il percorso necessario per andare fino alla camera da letto, ficcare dentro ad un borsone i suoi indumenti, chiudere la cerniera ed arrivare fino alla porta. Le pareva semplice, facile, liberatorio.

Nicola con un ultimo sorso aveva finito la birra, poi aveva preso la bottiglietta, quasi con calma, e con tutta la forza possibile l’aveva scagliata contro una delle pareti, provocando una pioggia di frammenti di vetro che erano caduti da tutte le parti.

Va bene, disse ridendo, me ne vado, tanto non sto a farci niente con te. Lei aveva preso a piangere in silenzio, paralizzata da quel comportamento che non si sarebbe aspettato. Lui girò attorno al tavolino, si avvicinò a lei che non lo guardava, la prese per un braccio. Non mi toccare, lasciami, diceva lei mentre cercava di divincolarsi. Poi con le unghie dell’altra mano repentinamente gli fece dei graffi sul viso, Nicola rimase sorpreso e lasciò la sua presa; lei, sfruttando quell’attimo, corse nell’ingresso e uscì dalla porta di casa richiudendola subito alle sue spalle, poi si nascose dietro la prima rampa di scale del condominio, cadde seduta sopra un gradino, e lì iniziò a piangere di disperazione. Quando rialzò la sua faccia sentì che Nicola da dentro l’appartamento stava chiudendo a chiave la porta, e si sentì sollevata.

Bruno Magnolfi

Soffrendo, quasi di niente



Soffrendo, quasi di niente

Certe volte penso che non interessi niente a nessuno. Una volta alla settimana vado dalla mia psicanalista, le racconto tutto di me, lo faccio da un anno, lei mi ascolta, annuisce, dice che la strada intrapresa è proprio quella giusta. Poi esco, incontro la gente, vedo gli amici, anche quelli che mi conoscono da tanto tempo, ma tutto mi appare lo stesso di sempre, senza neanche un barlume di differenza. Anzi, passando il tempo, le cose mi appaiono peggiorate, anche se magari rimangono solo le stesse. Guardo le persone negli occhi, mi sembrano tutti diversi da me, però sembra che dicono sempre le solite cose, ridono, quando è il momento di ridere, annuiscono quando qualcuno dice delle cose terribilmente scontate, fingono, forse per evitare di dire di no. Io li guardo e mi sento ad una latitudine diversa.

Poi torno di nuovo dalla mia psicanalista e lei mi dice che va tutto bene, è così, ti stanno accettando, puoi lasciar andare i tuoi freni, le tue inibizioni che non ti hanno permesso fino ad oggi di sentirti dalla parte giusta, di pensarti uguale ai tuoi amici, alle persone che frequenti da sempre, e che certe volte ti dicono: guarda, stasera ce ne andiamo tutti insieme in quel bel ristorante; dobbiamo essere felici, goderci anche questo momento. E invece tu senti solo tristezza, ti pare che non sia proprio questo ciò che avevi da tanto tempo desiderato.

E allora torni a chiederti cosa sia che davvero desideri. Non lo sai, non riesci ancora a saperlo, vorresti piangere per questo, ma poi qualcuno dice che l’egocentrismo spinto è ormai fuori moda, e allora ripieghi, quasi vergognandoti, e cerchi di assoggettarti: andiamo pure in quel bel ristorante, dici, sarà divertente, lo è per tutti gli altri, lo sarà sicuramente anche per me.

La mia psicanalista annuisce, dice va bene, forse tra un anno riuscirai a non andarci più in quel ristorante con i tuoi amici, e ugualmente a sentirti a tuo agio, a posto, con tutta la rilassatezza che desideri; forse più sola, dice, però più convinta della tua solitudine.



Bruno Magnolfi

mercoledì 18 agosto 2010

Un giorno di lotta



L’uomo da solo, uscendo dall’ufficio dove lavora fino alle cinque del pomeriggio, percorre come ogni giorno il tratto di strada che lo separa da casa. Il suoi passi hanno un ritmo regolare e non troppo lento, il suo sguardo è orientato sulla porzione di marciapiede che lo precede. I suoi pensieri si accavallano tra le attività che ha lasciato in ufficio e l’immagine identica e rassicurante della sua casa che lo sta aspettando. Poi una ragazza lo avvicina, gli chiede qualcosa che lui non comprende, lei insiste, lui fa il gesto di scartarla per riprendere il cammino di prima, ma lei ha una pistola, un piccolo revolver da borsetta che gli fa intravedere per un attimo sotto al giornale. Lui si ferma, pallido, lei dice con calma di entrare dentro al portone lì accanto. Entrano assieme e lui le porge subito il suo portafogli. Lei lo ringrazia, gli dice che quei soldi servono per una giusta causa. Se ne va in fretta, gli lascia un volantino nelle mani che lui stenta a comprendere. Esce, riprende il cammino, barcolla: della ragazza non c’è più alcuna traccia; poi si ferma, si appoggia ad un muro, legge quel volantino mentre le mani gli tremano. C’è scritto che tutti dobbiamo impegnarci nel finanziare un’alternativa, dobbiamo credere che esista una realtà differente per cui lottare, un terreno da conquistare con lo sforzo di ognuno. L’uomo si sente solo, vorrebbe parlare con quella ragazza, chiederle qualcosa di più sui suoi ideali, sui veri motivi che la spingono ad essere così, e per un attimo si sente dalla sua parte, dalla parte di quella lotta di cui non comprende il significato, ma che all’improvviso gli appare reale, vera, assolutamente giustificata. Torna indietro, lungo il marciapiede che ha già percorso, ripassa davanti al portone che è rimasto socchiuso, cerca una traccia, un elemento che lo renda partecipe. L’uomo si sente un estraneo a ciò che sta succedendo, per tutta la vita ha pensato delle cose che si dimostrano false, ma adesso ha impiegato i suoi soldi, ha messo il suo impegno per quella causa, e vuole fare anche di più, anche lui vuol convincere altri che cambiare è possibile; che stupido, pensa, bastava che qualcuno mi avesse fatto presente tutto quanto per tempo, lo capisco che il mondo non può essere quello che ho sempre vissuto: c’è una speranza, adesso lo so, è chiaro, è evidente, ed è meraviglioso saperlo.
Bruno Magnolfi

Un giorno di lotta




L’uomo da solo, uscendo dall’ufficio dove lavora fino alle cinque del pomeriggio, percorre come ogni giorno il tratto di strada che lo separa da casa. Il suoi passi hanno un ritmo regolare e non troppo lento, il suo sguardo è orientato sulla porzione di marciapiede che lo precede. I suoi pensieri si accavallano tra le attività che ha lasciato in ufficio e l’immagine identica e rassicurante della sua casa che lo sta aspettando. Poi una ragazza lo avvicina, gli chiede qualcosa che lui non comprende, lei insiste, lui fa il gesto di scartarla per riprendere il cammino di prima, ma lei ha una pistola, un piccolo revolver da borsetta che gli fa intravedere per un attimo sotto al giornale. Lui si ferma, pallido, lei dice con calma di entrare dentro al portone lì accanto. Entrano assieme e lui le porge subito il suo portafogli. Lei lo ringrazia, gli dice che quei soldi servono per una giusta causa. Se ne va in fretta, gli lascia un volantino nelle mani che lui stenta a comprendere. Esce, riprende il cammino, barcolla: della ragazza non c’è più alcuna traccia; poi si ferma, si appoggia ad un muro, legge quel volantino mentre le mani gli tremano. C’è scritto che tutti dobbiamo impegnarci nel finanziare un’alternativa, dobbiamo credere che esista una realtà differente per cui lottare, un terreno da conquistare con lo sforzo di ognuno. L’uomo si sente solo, vorrebbe parlare con quella ragazza, chiederle qualcosa di più sui suoi ideali, sui veri motivi che la spingono ad essere così, e per un attimo si sente dalla sua parte, dalla parte di quella lotta di cui non comprende il significato, ma che all’improvviso gli appare reale, vera, assolutamente giustificata. Torna indietro, lungo il marciapiede che ha già percorso, ripassa davanti al portone che è rimasto socchiuso, cerca una traccia, un elemento che lo renda partecipe. L’uomo si sente un estraneo a ciò che sta succedendo, per tutta la vita ha pensato delle cose che si dimostrano false, ma adesso ha impiegato i suoi soldi, ha messo il suo impegno per quella causa, e vuole fare anche di più, anche lui vuol convincere altri che cambiare è possibile; che stupido, pensa, bastava che qualcuno mi avesse fatto presente tutto quanto per tempo, lo capisco che il mondo non può essere quello che ho sempre vissuto: c’è una speranza, adesso lo so, è chiaro, è evidente, ed è meraviglioso saperlo.
Bruno Magnolfi

martedì 17 agosto 2010

Sotterfugi deleteri




Il telefono aveva emesso diversi squilli, lui non avrebbe saputo dire quanti, visto che quando aveva iniziato a sentirli forse ne aveva già perduti qualcuno, perciò corse il più possibile in fretta dal giardinetto fino dentro casa sua, sbattendo nella foga anche un piede in un mobile, fino a riuscire a sollevare il ricevitore. “Pronto”, disse con una voce poco naturale, come di uno che si aspetta una telefonata che vuole evitare e quindi si riserva la possibilità di dire all’altro che ha sbagliato a comporre quel numero e lui non è affatto la persona che stava cercando. “Sono io”, disse Lora all’altro capo con grande fermezza. “Perché rispondi in questo modo strano, forse ti ho preso in un momento non adatto?”, continuò con voce pacata ma inserendo nell’intonazione delle parole una buona dose di ironia. “No; che dici?”, rispose lui con una mezza risata che rendeva ancora più surreale la situazione. “Stavo solo facendo un po’ di pulizia nel giardino, tutto qua”.

Lora era sua moglie da ormai cinque anni, e al contrario di lui per ragioni di lavoro non aveva mai tempo libero, così spesso lo chiamava nel pomeriggio al telefono di casa per tenerlo al corrente dei suoi orari e degli spostamenti che spesso effettuava per ragioni d’ufficio. Perciò a lui, visto che il suo lavoro al contrario lo impegnava solo al mattino, erano delegati molti compiti di casa che in altra maniera sarebbe stato difficile svolgere. La situazione con il tempo era diventata pesante, lui aveva iniziato a frequentare segretamente un bar del quartiere e a farsi qualche birra e qualche partita alle carte, ma solo durante gli orari in cui era sicuro che lei non avrebbe chiamato. Non c’era una ragione precisa, ma lui si sentiva a suo agio solo se riusciva a dimostrare alla sua Lora che la propria presenza in casa era utile, anzi necessaria, e che era solerte nel mandare avanti le cose.

Lei disse soltanto che sarebbe rientrata per l’ora di cena, e lui a quelle parole si sentì sollevato. Aveva tutto il tempo per andarsene al solito bar, farsi una partita alle carte e tornare in tempo utile per preparare qualcosa da mangiare. Si salutarono, lui prese la giacca ed uscì. Mezz’ora più tardi il telefono squillò nuovamente ma a vuoto, dimostrando a Lora una volta di più che il comportamento di suo marito era quello che lei sospettava.

La sera parlarono di cose usuali, leggere, lei disse come procedevano le cose del suo lavoro, lui affermò che aveva trascorso il pomeriggio a sistemare il giardino. Fu durante il giorno seguente che Lora affidò all’avvocato la domanda per il suo divorzio.

Bruno Magnolfi

lunedì 16 agosto 2010

Più per gli altri che per se stessa




Il nome della ragazza era Sofia e aveva iniziato a lavorare con un contratto a tempo indeterminato e periodo di prova di tre mesi, presso l’ufficio postale del suo paese. Dapprima la direttrice le aveva detto di smistare delle cose sul retro, ma dopo qualche giorno di adattamento l’aveva fatta sistemare ad uno degli sportelli aperti al pubblico, a servire i clienti del servizio postale. Il lavoro non era difficile, e in poco tempo era possibile capire tutti i rudimenti per non impappinarsi.

Sofia non era una grande bellezza, era una che generalmente non si notava, per questo il ruolo che le avevano assegnato a lei sembrava poco adatto, considerato che le persone quando le passavano davanti spesso neppure la salutavano. Perciò aveva deciso di fare subito qualcosa, iniziando a truccare gli occhi e le labbra più accuratamente, ad indossare vestiti un po’ scollati con tanto di orecchini e collane vistose, fino a forzarsi per essere più sciolta e più socievole. Anche la sua capigliatura aveva subito in quei pochi giorni un cambio drastico, e sistemata in quel modo notevolmente differente lei cercava adesso di guardare bene le persone, di sorridere a tutti, pur senza alcun sussiego, e lasciare ai più la possibilità di osservarla a loro volta e di trarne un’immagine di personalità, di simpatia e di efficienza, di una ragazza impostata e radicalmente diversa da quella che era stata fino a poco prima, insomma.

In pochi giorni aveva iniziato a sentirsi sempre meglio e più a suo agio, molti le allungavano discorsi sul tempo o su altre cose che spesso niente avevano a che vedere col mondo postale, e a lei iniziava a piacerle sempre di più quel suo lavoro, tanto da impegnarsi a fondo per svolgerlo bene e soprattutto in fretta. Un suo collega, quando la incrociava da sola lungo il corridoio, non evitava di fare apprezzamenti simpatici e quasi al limite del consentito, ma Sofia non ci badava, sentiva crescere la sua autostima e le cose le pareva scorressero bene così.

La direttrice poi la chiamò dentro al suo ufficio, le fece chiudere la porta, la osservò senza parlare, quindi, dopo quella pausa di silenzio, le disse senza mezze parole che in un posto pubblico non ci stava bene una persona come lei, troppo vistosa, e secondo il suo parere era il caso che per il fine settimana pensasse bene a queste cose e presentasse per il lunedì successivo una semplice lettera di dimissioni, prima di evitare spiacevoli richiami ufficiali.

La domenica di Sofia fu di estrema sofferenza, pensava continuamente a quelle parole e a tutto il resto, infine, il lunedì, si presentò come sempre all’ufficio postale. Naturalmente prese posto allo sportello come se niente fosse successo, andando avanti con il suo lavoro esattamente come i giorni precedenti, ma a metà della mattina, in un momento di calma, la direttrice la chiamò dentro al suo ufficio.

“Non ho niente da dirle”, spiegò Sofia prima che l’altra prendesse la parola. “A me piace questo lavoro, e non credo di far niente di male se cerco di sviluppare una mia immagine. Il problema in ogni caso non è mio, anzi, se devo dire quello che penso, io non vedo proprio alcun problema. Lascio a lei qualsiasi decisione, ma sappia fin d’ora che non starò qui a subire e basta”; e con queste parole uscì dall’ufficio per riprendere il suo posto allo sportello.

domenica 15 agosto 2010

Tra i pensieri di una persona sfuggente .




Chiara e Donato abitano un appartamento dirimpetto a quello del signor Lenzi, al terzo piano di un’anonima palazzina. Loro sono sposati da poco più di due anni, e conducono una vita ordinaria, lavoro, casa, qualche amicizia sporadica nelle serate del fine settimana. Donato saluta sempre con deferenza il signor Lenzi ogni volta che lo incontra sul pianerottolo o lungo le scale, e a sua moglie a volte le chiede di che cosa mai si occuperà quel signore distinto, taciturno, che non si sente mai e si vede solo una volta ogni tanto. Chiara ridendo sostiene che sia un agente dei servizi segreti, uno che ha diverse case sparse chissà dove, Donato invece sostiene che è una persona che si occupa di arte, sempre in giro per il mondo a presenziare inaugurazioni di mostre e presentazioni di opere di grande importanza. Spesso lo vedono arrivare o partire in taxi, con un’eterna valigetta incollata alla mano, mai una busta per la spesa, mai un orario vagamente regolare.

Un giorno il signor Lenzi trova Donato davanti al portone di casa, lo ferma, gli dice che dovrà assentarsi per un lungo periodo, gli chiede se può tenergli la chiave del suo appartamento, nel caso ci fosse bisogno di dare un’occhiata alle sue stanze o per un’urgenza. Donato non vede problemi, così l’altro tira fuori una copia della sua chiave e lo ringrazia. Trascorrono solo tre o quattro giorni e Donato una sera apre la porta dell’appartamento del signor Lenzi ed entra, richiudendo immediatamente senza far rumore alle sue spalle. Guarda in giro, apre qualche cassetto, non c’è niente di anomalo: un armadio con i vestiti, il letto rifatto, il frigorifero vuoto. Esce, richiude, ne parla con Chiara. La sera successiva loro due entrano assieme, frugano dappertutto: sotto al letto, dietro a ogni quadro, negli angoli più remoti di ogni stanza, fino a che sentono dei rumori all’ingresso. E’ il signor Lenzi che è tornato in anticipo ed adesso li guarda, perplesso, e dice soltanto: “Cercavate qualcosa?”.

Bruno Magnolfi

.Un uomo tra gli uomini.



La confusione di gente che saliva e scendeva dai treni era notevole a quell’ora del mattino. L’uomo era uscito dalla stazione ferroviaria quasi con un senso di liberazione dopo aver attraversato buona parte di quell’edificio gremito ed essersi affacciato su quella grande piazza dominata dall’orologio e dalla bella giornata di sole. Aveva percorso pochi passi, quindi aveva rallentato il cammino come per riflettere meglio, poi si era fermato, decisamente perplesso.

Il traffico di auto era sostenuto lungo i viali che si dipartivano poco lontano da lì, e la fila di taxi in attesa di clienti era notevole. Tutto lì intorno pareva in continuo movimento, come una macchina enorme in cui ogni ingranaggio dava il suo apporto a tutto l’insieme. Lui si sentiva stonato, estraneo a tutta la giostra che ruotava là attorno.

L’uomo aveva voltato lo sguardo verso la stazione ferroviaria, si era soffermato di nuovo ad osservare tutta la piazza, poi si era guardato le mani, il giornale che aveva letto durante il tragitto seduto dentro allo scompartimento, la piccola borsa per documenti che teneva sotto al suo braccio. Aveva pensato, aveva continuato con tutte le sue forze a cercare di pensare ancora di più, ma una sorta di panico sembrava volergli salire da dentro, senza alcuna possibilità di scampo. Non ricordava più dov’era diretto, perché avesse preso il treno quella mattina, in quale città si trovasse, niente.

Vide un caffè e vi entrò; si sedette ad un tavolino e con modi nervosi aprì la sua borsa. Dentro c’erano soltanto dei moduli relativi alla dichiarazione dei redditi. Lesse il suo nome e lo riconobbe, alcune altre notizie gli parvero veritiere, ma non confermate. Arrivò il cameriere che non fece caso alla sua fronte imperlata di sudore, gli servì in fretta il caffè e sparì tra i tavolini. Trovò nella tasca il suo portafogli ed un documento, seppe così la città da cui proveniva, ed un nome sulla facciata della stazione gli disse dove si stava trovando.

Si fece servire un cognac doppio per cercare di smuovere qualcosa dentro di sé, poi si vergognò dello sguardo del cameriere, così bevve, pagò in fretta ed uscì dal locale. Quei timidi tentativi non avevano sortito alcun risultato, così lentamente si incamminò di nuovo verso la stazione ferroviaria.

Barcollò con evidenza mentre camminava quasi senza motivo, qualcuno lo spinse e poco mancò che non cadesse per terra; si accorse con terrore di aver lasciato al caffè il suo portafogli con il documento, tornò indietro di fretta, ma ormai non ricordava più neanche se poco prima era andato a destra oppure a sinistra. Gli venne quasi da ridere nel pieno marasma di cui era preda, poi raggiunse la sala d’attesa e si mise seduto.

Chiuse gli occhi fingendo di dormire, ma il frastuono delle persone che andavano e venivano proseguiva ininterrotto, così si alzò per andare lungo un marciapiede a fianco di un binario qualsiasi, e continuò a camminare su e giù fino a quando non arrivò il primo treno. Attese che si aprissero gli sportelli e con noncuranza si mescolò al gruppo delle persone che scendevano, andando con decisione assieme a loro fino all’uscita dalla stazione. In quel momento ricordò perfettamente ogni cosa, ed il suo malessere gli parve una cosa da sciocchi, una stupidaggine che poteva accadere, da non raccontare neppure.

Bruno Magnolfi

Un uomo tra gli uomini .


Un uomo tra gli uomini


La confusione di gente che saliva e scendeva dai treni era notevole a quell’ora del mattino. L’uomo era uscito dalla stazione ferroviaria quasi con un senso di liberazione dopo aver attraversato buona parte di quell’edificio gremito ed essersi affacciato su quella grande piazza dominata dall’orologio e dalla bella giornata di sole. Aveva percorso pochi passi, quindi aveva rallentato il cammino come per riflettere meglio, poi si era fermato, decisamente perplesso.

Il traffico di auto era sostenuto lungo i viali che si dipartivano poco lontano da lì, e la fila di taxi in attesa di clienti era notevole. Tutto lì intorno pareva in continuo movimento, come una macchina enorme in cui ogni ingranaggio dava il suo apporto a tutto l’insieme. Lui si sentiva stonato, estraneo a tutta la giostra che ruotava là attorno.

L’uomo aveva voltato lo sguardo verso la stazione ferroviaria, si era soffermato di nuovo ad osservare tutta la piazza, poi si era guardato le mani, il giornale che aveva letto durante il tragitto seduto dentro allo scompartimento, la piccola borsa per documenti che teneva sotto al suo braccio. Aveva pensato, aveva continuato con tutte le sue forze a cercare di pensare ancora di più, ma una sorta di panico sembrava volergli salire da dentro, senza alcuna possibilità di scampo. Non ricordava più dov’era diretto, perché avesse preso il treno quella mattina, in quale città si trovasse, niente.

Vide un caffè e vi entrò; si sedette ad un tavolino e con modi nervosi aprì la sua borsa. Dentro c’erano soltanto dei moduli relativi alla dichiarazione dei redditi. Lesse il suo nome e lo riconobbe, alcune altre notizie gli parvero veritiere, ma non confermate. Arrivò il cameriere che non fece caso alla sua fronte imperlata di sudore, gli servì in fretta il caffè e sparì tra i tavolini. Trovò nella tasca il suo portafogli ed un documento, seppe così la città da cui proveniva, ed un nome sulla facciata della stazione gli disse dove si stava trovando.

Si fece servire un cognac doppio per cercare di smuovere qualcosa dentro di sé, poi si vergognò dello sguardo del cameriere, così bevve, pagò in fretta ed uscì dal locale. Quei timidi tentativi non avevano sortito alcun risultato, così lentamente si incamminò di nuovo verso la stazione ferroviaria.

Barcollò con evidenza mentre camminava quasi senza motivo, qualcuno lo spinse e poco mancò che non cadesse per terra; si accorse con terrore di aver lasciato al caffè il suo portafogli con il documento, tornò indietro di fretta, ma ormai non ricordava più neanche se poco prima era andato a destra oppure a sinistra. Gli venne quasi da ridere nel pieno marasma di cui era preda, poi raggiunse la sala d’attesa e si mise seduto.

Chiuse gli occhi fingendo di dormire, ma il frastuono delle persone che andavano e venivano proseguiva ininterrotto, così si alzò per andare lungo un marciapiede a fianco di un binario qualsiasi, e continuò a camminare su e giù fino a quando non arrivò il primo treno. Attese che si aprissero gli sportelli e con noncuranza si mescolò al gruppo delle persone che scendevano, andando con decisione assieme a loro fino all’uscita dalla stazione. In quel momento ricordò perfettamente ogni cosa, ed il suo malessere gli parve una cosa da sciocchi, una stupidaggine che poteva accadere, da non raccontare neppure.

Bruno Magnolfi

venerdì 13 agosto 2010

Leone per tutti




Che fortuna aver trovato queste due stanze in affitto, pensava il vecchio Leo: la pigione era meno della metà della sua pensione, adatta per poter tirare avanti alla meglio, e il posto era quanto di meglio potesse aver mai desiderato. Era Leone il suo vero nome, ma quasi nessuno lo aveva chiamato così in tutta la sua vita: troppo importante per me un nome così, diceva negli uffici pubblici dove qualche volta era dovuto andare; per uno come sono io sarebbe bastato un nome più umile, più generico, ecco.

Ma quelle due stanze erano la sua salvezza. Il quartiere era miserabile, e quel gruppo di casette una in fila all’altra erano nate dall’ingegno di qualche muratore che chissà quant’anni prima le aveva tirate su senza chiedere niente a nessuno, alcun permesso, e così erano rimaste, quasi dei rifugi ad un solo piano per diseredati.

C’era anche il retro, oltre quelle due stanzette, con un fazzoletto di terra da sistemare ad orto, se uno ne aveva voglia, da attrezzare in modo esattamente identico a tutti gli altri orti che si aprivano dietro a quelle case tutte uguali, per quel gruppo di anziani che adesso erano i suoi vicini, e che si ritrovavano seduti al sole di quei pomeriggi, con una sedia o su una panca, a parlare di qualcosa, o a restare anche in silenzio, ma in compagnia, tra loro.

Leo si era adattato subito in quella nuova sistemazione, ma lì in quegli orti insistevano a volerlo chiamare Leone, tanto da farlo sentire a disagio qualche volta, anche se alla fine capiva anche lui che il rispetto dietro a quella scelta era superiore a qualsiasi altro sentimento. Così lasciava fare, anzi, gli pareva che tutti fossero contenti da quando si era aggiunto a quella piccola combriccola, tanto da sentirsi quasi felice anche lui.

Gli bussavano dalle finestre che davano sugli orti, strizzavano gli occhi piccoli in un sorriso tra le rughe, e gli dicevano con semplicità che se non c’era il loro Leone la giornata era ben misera, senza interesse. Leo usciva con loro, si sedeva al sole, e raccontava le sue cose, i bei tempi, le esperienze di tanti anni prima.

Quando arrivarono i funzionari comunali a dire loro che quelle case dovevano essere abbattute, nessuno in un primo momento ci credette. Tutti rimasero in silenzio ad ascoltare quei discorsi forbiti dove non si diceva niente della loro vita, di quelle poche cose per cui vivevano, della loro solidarietà, quella tra poveri vecchi, che si danno una mano, e che sanno anche ascoltarsi.

Fu solo Leone a un tratto che si schiarì la voce, prese con sé tutto il coraggio di cui aveva bisogno e disse in fretta che sicuramente quei funzionari avevano dalla loro ogni ragione, e non c’era proprio niente da discutere; ma proprio per questo semplice motivo loro, che erano soltanto poveri vecchi senza cultura, e che adesso abitavano lì perché non avrebbero saputo dove altro andare, facevano domanda per essere seppelliti sotto alle macerie della propria casa, come se fosse la guerra a radere al suolo quelle mura, e non il progresso. Sarò il primo a farmi seppellire, disse: mi chiamavano Leo, quasi tutti, continuò con orgoglio, ma il mio vero nome è quello di Leone.

Bruno Magnolfi

mercoledì 11 agosto 2010

Lenta navigazione nell'oscurità




Lei aveva mosso lentamente la sua mano lasciandola scivolare fuori dal bracciolo della sua poltrona, quasi a simulare un piccolo svenimento della volontà, una via di mezzo tra la rilassatezza e il disagio. Lui aveva captato quell’insignificante movimento pur senza volgere lo sguardo dal panorama di fronte, e aveva immaginato con facilità lo stato d’animo da cui lei era pervasa, ed il significato che poteva assumere quell’ostinato restarsene in silenzio. La terrazza era fresca in quella tarda serata d’agosto, dopo uno dei tanti pomeriggi torridi, e le fioche luci attorno alle poltrone di vimini lasciavano provare il senso di una lentissima navigazione nel cielo notturno, impreziosita da miriadi di stelle.

Lui accese una delle sue sigarette, aggiunse un cubetto di ghiaccio dentro al bicchiere, poi si alzò dal suo posto, solo per andarsi ad appoggiare con gli avambracci alla ringhiera di ferro battuto. La collina di fronte, con il suo profilo scuro appena visibile, sembrava voler contenere lo sciame liquido dato dalle luci della città poco lontana, e l’assenza quasi totale dei rumori del traffico, che lì non riuscivano ad arrivare, pareva una sorta di sospensione del tempo.

Si volse verso di lei, con calma, senza un motivo, e sorrise, evitando di guardarla, ma tenendo gli occhi sopra al bicchiere che ancora teneva nella sua mano. Si sarebbe atteso una domanda, una parola che gli desse la possibilità di spiegare il motivo per cui stava ridendo, ma lei restò immobile, senza dire niente, nella medesima posizione. “Finisco la mia sigaretta e poi rientro”, disse allora lui appoggiando il bicchiere ormai vuoto sul basso tavolo che aveva di fronte. “Ho voglia di fare una doccia e andarmene a letto a leggere un libro”.

Le sue parole gli parvero quasi una battuta di un vecchio film che aveva visto da poco, e la sua voce si spense rapidamente contro la notte che adesso aveva preso quasi ad opprimere con la sua oscurità. Spense la sua sigaretta schiacciandola nel grosso posacenere in vetro, dette un’occhiata sfuggente verso di lei che continuava a restare immobile e ad osservare nel vuoto, poi disse: “Vado”, e rientrò.

Fu solo quando si fu preparato l’accappatoio e stava per entrare sotto alla doccia, che un dubbio lo prese: così tornò indietro, con la camicia ormai sbottonata, l’abbronzatura del torace evidente, il fare di chi si è appena goduto una bella giornata. Si affacciò alla porta della terrazza, vide che lei era ancora nella medesima posizione, e così disse: “Stai bene, vero?”, ma non ricevette alcuna risposta.

Bruno Magnolfi

martedì 10 agosto 2010

Oltre lo specchio






Dalla mia finestra guardo il mare. Una distesa piatta e azzurra, luccicante sotto al sole; se mi allontano dalla finestra della mia stanza sembra che il mare voglia entrare dentro, portandosi la sabbia, la salsedine, il suono metodico della risacca, tutto insieme come in un richiamo irresistibile, adagiato sopra questo vento di brezza dolce e fresca. Ieri invece era scirocco, e ha scosso a lungo la mia tenda: entrava a folate con il suo profumo ineguagliabile, e accarezzava i mobili lucidi di vernice trasparente, come le barche a vela di una volta, di legno marino, con il fasciame ricco di venature iridescenti.
Mi sono guardata nello specchio sopra al cassettone, ma non ho visto niente, o meglio, niente di diverso dal solito. Sono tornata ad osservare il mare invece, ed ho visto serpeggiare lunghe strisce composte da deboli raffiche di vento di terra e da timide correnti di superficie, e mi sono sentita portare via, di nuovo, come se solo quella vista custodisse la capacità di trascinarmi altrove, ogni volta.
Ho pensato che avrei dovuto affrontare la realtà, chiarire tutto, ma il mare ancora una volta mi mostrava la via degli istinti, dell’imperscrutabile, che pareva come se dicesse: lascia che sia, niente è definito, il tuo stesso percorso indica la direzione, ogni altra cosa sarebbe soltanto una forzatura.
Ho chiuso la finestra, sono scesa per le scale senza incontrare nessuno, ed in fretta ho raggiunto l’arenile. Sergio, il barista dello stabilimento balneare mi ha vista, mi ha sorriso, e senza dirmi niente ha preparato il mio caffè, come per un’intesa antica che non ha bisogno di parole. Mi sono sentita bene, e quando sono tornata a vedere la mia immagine nello specchio dietro al bancone del bar, ho visto di nuovo i miei capelli biondi, e mi sono sentita ricca di qualcosa che nessuno sarebbe mai stato in grado di comprendere.

Bruno Magnolfi

lunedì 9 agosto 2010

Qui, sotto questo cielo plumbeo


Qui, sotto questo cielo plumbeo



Le nuvole erano spuntate timidamente da dietro le colline, poi si erano come distese e accorpate, e fattesi coraggio avevano iniziato ad avanzare come un fronte unito. Il ragazzo si era sdraiato sull’erba di una piccola radura lontana dove andava ogni volta che litigava con suo padre, ed era rimasto lì, a guardare il cielo e l’arrivo di quelle nuvole scure e minacciose, senza tornare a casa neppure per il pranzo. Inesorabilmente il sole era sparito velocemente dietro quelle prime cortine spesse di vapore, e lui era rimasto disteso per lungo tempo ad osservare quei cambiamenti meteorologici che avvenivano sopra la sua testa, attratto da quelle masse che si muovevano e si attorcigliavano velocemente in grandi batuffoli grigi dalle mille sfumature.
La giornata in poco tempo era apparsa spiacevole e ventosa anche se interessante per via del temporale che si faceva avanti, e la natura intorno sembrava richiudersi in se stessa nell’attesa del peggio. Il ragazzo era andato sotto un albero, cercando protezione, si era seduto tra le radici e aveva accostato la schiena al tronco, alla ricerca di una posizione migliore da cui valutare il da farsi. Una pioggerella fina era iniziata a cadere poco dopo, ma lui si era ancora mosso soltanto quando quella si era fatta un po’ più consistente, e allora, con una corsa disperata, aveva raggiunto una tettoia per il fieno che conosceva, a qualche centinaio di metri da dove si trovava.
Il temporale aveva subito iniziato a battere forte sopra la lamiera malmessa, e il corollario di fulmini e tuoni pareva riuscire a scuotere tutta la campagna, tanto da mettere paura. Non aveva importanza, pensava il ragazzo, stringendo i denti: avrebbe smesso di piovere, prima o poi; e lui sarebbe rimasto lì anche dopo, una volta passata la burrasca. Non ci sarebbe tornato a casa, suo padre avrebbe dovuto andare a cercarlo se voleva rivederlo, pensava.
Poi smise, come tutti i temporali estivi, e le nuvole iniziarono a sfilarsi e a farsi più chiare, fino a quando il pomeriggio parve rimettersi al bel tempo. Il ragazzo restava immobile tra i brividi di freddo sotto alla tettoia, ma quando la sera aveva iniziato ad allungare le ombre degli alberi sull’erba, pensò che non avrebbe potuto passare lì la notte, così tornò sui suoi passi, di malavoglia. Da lontano vide la casa della sua famiglia con il tetto più scuro per via della pioggia, si avvicinò con curiosità ma gli parve che niente fosse diverso dal solito, tanto da dargli fastidio, quasi si fosse atteso dei cambiamenti per via della sua assenza che in realtà non erano avvenuti, come se le sue ragioni avessero avuto poco peso, forse anche nessuno.
Così passò dal retro, si mise seduto sopra un sasso umido giocando con qualche filo d’erba, e attese, quasi con indolenza. Sua mamma, quando si affacciò, gli chiese soltanto: ma dove sei stato?, intendendo durante il temporale; ma lui rispose svogliatamente, senza alzare gli occhi da quei fili d’erba: qui, disse soltanto, dove volevi fossi andato?

Bruno Magnolfi

sabato 7 agosto 2010

Sulla bocca del paese






Un uomo qualsiasi passeggia lungo un marciapiede del paese, così passa davanti ad una casa dove, dalla finestra spalancata per il caldo, si vedono due donne in una cucina che rimangono sedute e parlano tra loro, davanti a una tazzina di caffè. Lui si ferma un attimo, le osserva, loro si voltano verso la finestra, l’uomo si tocca la falda del cappello, le due donne dicono buongiorno, poi ognuno dei tre distoglie lo sguardo e torna alle proprie occupazioni.
Le due donne stavano parlando proprio di lui, dell’uomo col cappello, e forse lui ha sentito qualcosa della loro conversazione, ma forse non se ne è neanche curato: lui si sente un uomo qualsiasi, le sue opinioni hanno un peso decisamente molto relativo, potrebbe addirittura non averne affatto, la differenza probabilmente non si noterebbe.
Le due donne riprendono i loro discorsi ma a voce più bassa: si parla della moglie di quell’uomo, che a distanza di qualche anno dal loro matrimonio ha fatto la valigia pochi giorni prima e se n’è andata, sembra addirittura senza tante spiegazioni. Il paese è percorso da chiacchiere, analisi, domande, possibilità presunte, ma niente si continua a sapere di preciso, e con l’uomo tutti si comportano come se nulla fosse accaduto, considerato anche che lui svolge la sua vita come sempre. Un uomo qualsiasi però dovrebbe crollare, a un certo punto, almeno confidarsi con qualcuno, e invece niente, lui continua come se nulla fosse stato.
Le due donne sorseggiano il caffè, dicono che lui è una persona taciturna, anche troppo silenzioso, e quella moglie pareva svelta, quasi furba, forse troppo sorridente con tutti, non poteva durare a lungo il loro matrimonio. Poi si servono ancora un goccio di caffè, quasi per trovare la scusa per dirsi ancora qualcosa su quell’argomento: lui è un bell’uomo, dice l’una, però non brilla, sembra scolpito in un pezzo di legno senza l’anima, ed appoggiato lì, a fare arredamento. Però è certo che senza una donna com’era quella moglie, la sua giornata adesso è vuota, priva di colore.
Ma l’uomo qualsiasi è tornato sui suoi passi, cammina ancora davanti alla finestra aperta, si ferma, toglie il cappello in senso di rispetto per le due donne e dice a voce bassa: la mia solitudine di adesso è impagabile, se proprio vi interessa saperlo; riscopro giorno dopo giorno l’importanza di tutte le mie cose, di questo paese, delle mie piccole attività; il tempo di ogni giorno mi sembra dilatato e ricco, e tutto mi appare migliore, addirittura divertente, mi piacciono persino quei discorsi insignificanti che in questo periodo sento fare su di me, per cui non vi curate di abbassare la voce: le vostre chiacchiere sono benvenute.

Bruno Magnolfi

Per le strade di una città qualsiasi






Ero andato assieme al mio amico in quella grande città che non conoscevo, giusto per fargli compagnia durante il viaggio e girare un po’ tra quelle case e quelle strade mentre lui stava dietro ai suoi affari. Mi ero scritto l’indirizzo sopra un foglietto, proprio come lui mi aveva detto di fare mentre spengeva il motore della macchina: ci dovevamo ritrovare esattamente lì, nel pomeriggio, verso le quattro, ed io con allegria avevo cominciato subito a girare a piedi da solo, a casaccio, senza alcuna meta, fino a perdermi in quel groviglio di vie, di case e di persone tutte uguali.
Dopo un bel po’, quasi a fine mattinata, mi sentivo quasi stufo di quel girare a vanvera, così ero entrato dentro a un bar, giusto per farmi una birretta, come facevo sempre al paese, e parlare del più e del meno con qualcuno. Ma tutti là dentro andavano di fretta salvo una ragazza con il vestito troppo corto che mi aveva subito chiesto di accompagnarla in un posto lì vicino. Io le ero andato dietro, e lei era entrata dentro al portone di un palazzo, e lì, nella fresca penombra dell’andito, mi aveva preso una mano e se l’era piazzata sotto alla sua gonna. L’avevo lasciata fare, non sapevo quale fosse il gioco, ma lei poco dopo mi aveva chiesto dieci euro, così io timidamente avevo tirato fuori una banconota da cinquanta proprio mentre qualcuno arrivava dalle scale, e lei scappava via con quelle, senza dirmi niente.
Quando uscivo era sparita, così cercavo di tornare indietro di corsa, verso il bar, magari per vedere se era lì vicino, ma adesso tutto pareva ancora uguale, e mi perdevo di nuovo, senza alcun punto di riferimento. Così frugavo nella tasca per vedere l’indirizzo che mi ero scritto, ma quello non c’era, era sparito, ed io provavo un senso forte di disperazione. Trovavo un ragazzo che pareva girasse lento, senza fare niente, così gli chiedevo se conosceva una via con dei palazzi in un certo modo e di fronte anche degli alberi che avevo visto, e lui diceva subito di si, che lo sapeva dove si trovava il posto. Si offriva di accompagnarmi fino lì, ma svelto, dicevo io, che ho un appuntamento, e lui iniziava a girare quasi di corsa lungo quelle strade tutte identiche, lasciandomi il compito di seguirlo senza fiato.
A tratti si fermava, quel ragazzo, come per pensare, mi toccava i bracci come per sincerarsi che eravamo assieme, poi ripartiva. Alla fine, dopo un angolo, scoprivo che era sparito, e poco dopo mi accorgevo che era sparito anche il mio portafoglio che tenevo nella tasca posteriore dei calzoni, e tutto quanto, di colpo, mi appariva ostile, un dedalo di gente senza scrupoli pronte ad approfittarsi di uno come me. Riprendevo a girare cercando la mia strada, e dopo un po’ iniziavo a camminare tenendomi in mezzo alle vie, perché il mio amico verrà a cercarmi, pensavo, ma le macchine mi suonavano il clacson ed altri mi dicevano qualcosa dai finestrini aperti. Io mi sentivo spaurito e disperato, l’orario dell’appuntamento era già passato e non sapevo più che cosa fare.
Un uomo veniva da me per dirmi che avevo perso la sciarpa, ma non era la mia e non era neppure la stagione per portare la sciarpa, così gli rispondevo sgarbatamente qualcosa e me ne andavo. I piedi mi facevano male, le orecchie erano disturbate dai rumori e gli occhi parevano stufi di indagare strade tutte identiche.
Trovavo una guardia, gli dicevo la mia storia, ma quello sosteneva che stava facendo un servizio e non mi poteva dare aiuto: dovevo presentarmi al Commissariato che si trovava non so dove e lì chiedere se qualcuno poteva accompagnarmi, ma io ringraziavo e lasciavo perdere qualsiasi cosa. Alla fine mi sedevo sopra una panchina, nel giardinetto di una piazza senza nome, mentre le auto già iniziavano ad accendere i fanali e il mondo pareva ancora più ostile di prima, lasciandomi vuoto e perso. Poi arrivava il mio amico, per un miracolo insperato: non mi chiedeva niente, mi faceva salire sulla sua macchina come fosse stata la cosa più normale della terra, e alla fine mi portava via, sorridendo tra sé, come se tutto si fosse svolto come già lui aveva immaginato.

Bruno Magnolfi

giovedì 5 agosto 2010

Gli uffici per l'Integrazione Pubblica






La procedura indicava una serie di domande alle quali era doveroso rispondere correttamente. Si entrava dal grande portone in cima alla scalinata in pietra dopo essersi informati in modo esaustivo su ciò che era necessario portare con sé, quale abito indossare, cosa aver pensato durante il tragitto fino lì, e soprattutto con quale stato d’animo era consigliato presentarsi, in modo che non si ponessero equivoci o imbarazzi.
L’edificio era imponente, i bassorilievi sopra ai portali mostravano tutto lo spessore storico e culturale che ne aveva definito quell’architettura; i corridoi all’interno apparivano maestosi, come se ogni aula o piccola stanza che si apriva oltre le identiche porte in legno scuro, fosse solo una piccolissima appendice di un insieme che raccoglieva qualsiasi diversità.
I questionari erano consegnati all’entrata, ed ognuno si piazzava seduto dietro a un banco della grande sala oltre la portineria, a riempire i moduli che gli erano stati consegnati. Non esistevano dei tempi prefissati: improvvisamente un funzionario appariva alle spalle del candidato, osservava il lavoro svolto fino a quel momento, prendeva in mano i fogli e decideva in pochi secondi l’ufficio al quale presentarsi.
Nessuna domanda, nessuna richiesta di chiarimenti era permessa: a chi ne presentava per suo ardire, un sorriso eloquente mostrava che era necessario tornare un altro giorno, possibilmente con maggiori certezze a cui affidarsi. Il silenzio degli ambienti lasciava risaltare l’importanza di ogni passo sopra a quei grandi pavimenti in marmo, e anche il semplice scricchiolare della suola delle scarpe era evidentemente un elemento da evitare.
Oltre la grande porta a vetri in fondo al corridoio principale si apriva qualcosa di cui nessuno in genere parlava: già solo aver varcato quella soglia era dimostrazione chiara di aver piena coscienza di sé e del luogo ove si era stati ammessi, ed esser stati scelti per arrivare fino lì significava essere degni di conservare completa riservatezza di ciò di cui si era stati testimoni.
Ogni giorno si assisteva a un grande via vai intorno all’edificio; dall’esterno le finestre vetrate dei piani superiori apparivano in qualsiasi periodo dell’anno rigorosamente chiuse, ed i tendaggi che si intravedevano non venivano mai scostati, in modo che da fuori era impossibile capire se nelle stanze ci fosse qualcuno oppure no. Di certo si sapeva che era impossibile avere altre informazioni, e l’unica verità di cui continuamente si parlava in tutte le strade dei dintorni e in ogni negozio del quartiere, era che gli uffici per l’Integrazione Pubblica erano quelli, ma ogni altra cosa era del tutto indiscutibile.

Bruno Magnolfi

mercoledì 4 agosto 2010

Nessuna scelta





Amedeo Giraldi è da solo nella cucina del suo appartamento. Qualcuno, nei confronti della sua persona, durante gli ultimi giorni appena trascorsi, ha detto qualcosa di estremamente sgradevole, lo ha sbeffeggiato, senza mostrarsi neppure apertamente, urlando solo qualcosa di quasi incomprensibile sotto alle sue finestre, ed un ragazzo, forse, sul muro di fronte alla sua casa, con una bomboletta di vernice spray, ha scritto: “Amedea”, con un preciso intento canzonatorio. Lui, stravolto, ha subito preso qualche giorno di permesso telefonando in ufficio e inventandosi impegni impellenti e inderogabili, poi si è come barricato in casa sua, con le finestre chiuse, pronto a difendersi da qualunque cosa, senza neppure capire bene la natura dell’attacco.
La sua vita è sempre stata lineare, adesso pensa, corretta, in armonia con tutto e con chiunque: non capisce chi possa aver messo in giro delle voci del genere nel chiaro intento di denigrare la sua persona e metterlo in fortissima difficoltà. In un primo momento aveva salito le sue scale di corsa, dopo aver visto quella scritta ingiuriosa, poi, una volta in casa, gli era venuto da piangere, quasi da disperarsi: il suo segreto, la sua difficoltà di sempre, l’inconfessata verità, gettata così, in un attimo, sulla bocca di tutti, come se non fosse costantemente stato attento ad ogni parola, ad ogni atteggiamento, a qualsiasi sguardo o inflessione della voce, una cosa che non avrebbe mai immaginato.
Poi si era calmato, ma la vergogna non gli permetteva ancora di affrontare nessuno. Vivere da solo è un disastro, pensava adesso, ti lascia vulnerabile e non ti permette di confidarti con nessuno, di parlare, di sfogarti, di cercare con le parole una qualsiasi soluzione. Aveva cercato di telefonare ad un amico già diverse volte, Amedeo Giraldi, ma pur avendo preso in mano l’apparecchio almeno in due o tre casi, non era riuscito poi a comporre neppure il numero.
Continua a girare dentro casa come un leone stretto nella gabbia, Amedeo Giraldi, e adesso, improvvisamente, il suo orgoglio pare reclamare una sua parte: avrebbe voglia di uscire sulla strada a testa alta, con la massima indifferenza verso tutti e soprattutto verso quella scritta, e non gli importa niente se qualche stupido sente la voglia di dire qualcosa della sua natura, lui si reputa superiore a certe cretinate. Ma ancora non si sente pronto, e continua a girarsene in cucina, ad osservare il tavolo, le piastrelle, le sue cose, senza riuscire a prendere alcuna decisione.
Poi infine decide: apre la porta, esce, scende le scale nel silenzio più assoluto, arriva fino all’andito del suo palazzo, varca il portone ed esce in strada. Sorpresa: non c’è più la scritta sopra al muro, qualcuno in quelle ore si è preso la briga di cancellare tutto con una mano di vernice. Amedeo Giraldi tira un sospiro di sollievo: tutto adesso pare rientrare nella norma, la vita può riprendere come sempre, le sue giornate forse non sono compromesse, e lui inspira l’aria come se fosse libertà. Poi riflette meglio, resta fermo, si guarda attorno, non si sente bene: adesso, all’improvviso, prova un’inesplicabile delusione, un malessere che non aveva mai provato, e quasi avrebbe voglia di cancellarlo quello strato di vernice e ritrovare quel suo orgoglio, anche se poi, che importa, pensa, tutto vada pure per suo conto.

Bruno Magnolfi