sabato 28 aprile 2012

Verso una dimensione dissimile.



In silenzio, dentro una stanza vuota, aspetto. Lo so che forse non accadrà un bel niente, che oltre la porta chiusa c’è soltanto un’altra stanza vuota e altro silenzio, eppure resto in attesa degli eventi, come se qualcosa dovesse pur accadere, indipendentemente da tutto ciò che mi immagino, indifferentemente dalle mie convinzioni. Poi sento nell’aria un leggero movimento, come se stesse accadendo davvero ciò che fin dall’inizio avevo addirittura escluso da ogni possibile sviluppo. Si apre una sottile crepa in ciò che pareva solido ed irremovibile, e si spande nell’aria una finissima polvere, quasi come se tutto si corrodesse, rilasciando un rimasuglio di usura causato dal tempo lunghissimo in cui le masse si sono caricate di grande energia, a riprova del fatto che ogni cosa, pur integra fino ad un attimo prima, è destinata a corrodersi.

Certo, provo uno stato improvviso di meraviglia e paura, constato immediatamente che qualcosa di fondamentale sta avvenendo sotto ai miei occhi, sta scuotendo il mio involucro, quello che fino ad adesso sembrava un ottimo guscio protettivo, ed avverto il bisogno immediato di uscire da qui, di mettermi in salvo, di allontanarmi velocemente dall’epicentro di instabilità in cui mi sento coinvolto. Mi procura un brivido improvviso e profondo constatare di aver perso in un attimo l’equilibrio che dava solidità a questo mio stato, ma reagisco d’impulso, esco da questa stanza, mi getto fuori, affronto il destino, qualsiasi esso sia.

Un’atmosfera arida accoglie il mio corpo, mi accorgo che devo sostituire parecchie convinzioni per riuscire ad accettare il nuovo che adesso mi sta circondando. Mi allontano lungo un viottolo sassoso ed anonimo, e avverto alle spalle il crollo di tutto ciò che ho appena lasciato. Incontro qualche persona, gruppi di gente che mi guarda con occhi spauriti, come se potessi rappresentare un pericolo; resto in silenzio, non ho necessità di chiedere niente, vado avanti cercando qualcosa di familiare a cui riferirmi, ma la mancanza di ogni confronto con ciò che conosco, mi porta a smettere di guardare, e a procedere oltre senza più indugi, nel buio del giorno che muore.

Bruno Magnolfi

giovedì 26 aprile 2012

Lo studio della fiducia.



Il signor Piero non si sentiva particolarmente a suo agio varcando la soglia dell’edificio che ospitava la biblioteca pubblica del suo quartiere, ed un sottile malessere generalizzato sembrava continuare a rendergli tutto un po’ più difficile di quanto gli era parso in un primo momento. Si era riproposto di cercare là dentro delle informazioni riguardo ad un personaggio piuttosto noto nella storia della cultura nazionale; suo figlio, nei giorni appena trascorsi, aveva portato avanti, secondo lui in maniera superficiale e svogliata, una ricerca scolastica intorno a quel letterato vissuto nel secolo precedente, e quella sera, una volta a casa, il signor Piero si era ripromesso di porgli delle domande in modo da appurare il suo grado di preparazione su quell’argomento. Ma il piglio deciso con il quale fin dal mattino, una volta terminato il suo orario di lavoro, si era ripromesso di passare da quella biblioteca per informarsi su tutto quanto gli era possibile, proprio per padroneggiare appieno quella materia, era andato nel corso del giorno a sfumare poco per volta, fino a farlo sentire a disagio, come fosse una stupidaggine il suo sforzo, quasi privo di qualsiasi importanza, e lui non fosse neppure all’altezza di portare avanti un’incombenza del genere.

Si era sentito, col trascorrere delle ore, incapace di affrontare quella faccenda, inadatto a studiare e a prendere appunti sui testi che avrebbe voluto consultare, quasi non all’altezza di quel tipo di compito. Adesso poi che era entrato là dentro, che si era ritrovato a calpestare le lastre di marmo bianco di quel pavimento, aveva come provato un’insopportabile pesantezza della cultura racchiusa in quei vani, qualcosa che ne mostrava la grande distanza da sé, e quando qualcuno del personale gli aveva chiesto di compilare una scheda e di mostrare un documento di identità, lui si era sentito spacciato, inadeguato a portare avanti quei suoi propositi. Aveva avvertito l’importanza dei volumi e dei libri che giacevano impilati sugli scaffali, e anche quella dello sterminato numero di parole di cui sembravano piene la carta e tutte le pagine, tanto che gli pareva adesso risuonassero contemporaneamente, come recitate da mille oratori, disperse nell’aria degli spazi ovattati di tutte quelle sale di consultazione.

Faceva caldo là dentro, il signor Piero si sentiva la fronte sudata; aveva aperto alcuni schedari, e con maniera nervosa, tra gli innumerevoli nomi in perfetto ordine alfabetico, aveva cercato l’autore che lo interessava, tanto da trovare in breve tempo più di dieci pubblicazioni che riguardavano quell’argomento. Si era fatto consegnare a caso tre tomi, compilando con agitazione gli appositi moduli, e si era piazzato su un grande tavolo di legno per consultarli, ma quella cosa che nella sua mente gli era parsa semplice e addirittura normale, retaggio dei tempi in cui anche lui era studente, adesso lo stava riempiendo di un preoccupante imbarazzo, quasi come prendere coscienza di sentirsi addirittura incapace a capire.

Aveva continuato a leggere qualcosa qua e là, aveva sfogliato le pagine senza soffermarsi su niente di particolare o specifico, aveva appurato perfettamente che l’argomento era lì, sotto ai suoi occhi, ma che lui non riusciva ad estrapolarlo dalle pagine di stampa, non era capace di trovarne l’essenza, la radice profonda. Pareva come se una lastra di vetro pesante gli impedisse di toccare con mano gli argomenti che avrebbe tanto voluto conoscere, come se fosse inidoneo a studiare quella materia, a imparare qualcosa di nuovo, quasi propriamente a leggere quelle frasi erudite.

Infine Il signor Piero aveva restituito quei libri, sconsolato era uscito dall’edificio della biblioteca, e lentamente aveva preso la strada per tornarsene a casa, con la testa ormai così vuota da non riuscire più neppure a riflettere sulla cosa migliore da fare. Certo, non era contento del suo comportamento, però adesso pensava che non c’era niente da fare, e che a volte capita di scoprirsi inadeguati a certe soluzioni. Aveva comunque deciso: rientrando in casa non avrebbe fatto alcuna domanda a suo figlio, era questa l’unica risoluzione a cui alla fine era giunto: si sarebbe limitato a chiedergli se la sua preparazione fosse adeguata, e se la sua ricerca avesse semplicemente dato un buon frutto; per il resto, non c’era nient’altro da fare, si sarebbe dovuto fidare di lui.

Bruno Magnolfi

sabato 21 aprile 2012

(Profilo n. 19). Attualità.

Certe volte giro per strada, incontro persone differenti tra loro, ma in genere a me paiono identiche, indifferenti ai pensieri che ho, quasi come se io non esistessi neanche. Altre volte avverto una specie di leggera ostilità da parte di tutti, della quale fortunatamente riesco a sentirmi distante, quasi come non mi riguardasse per nulla. Ma i momenti maggiormente importanti, a cui aspiro di più, durante i quali reputo che la mia mente si liberi da ogni legame e che i miei passi sui marciapiedi assumano davvero connotazioni importanti, è quando riesco a sentirmi completamente da solo e circondato dal niente, come se la realtà fosse una semplice stanza, un ambito vuoto con le quattro pareti dipinte di bianco. Mi guardo attorno, ma soltanto per un semplice vezzo, sorrido della mia capacità di estromissione dal resto, indico un punto nel vuoto e mi dirigo verso quel punto, senza neppure una ragione precisa.

Qualcuno dice di me che non sono normale, ma questo non ha alcuna importanza, tutto andrà bene, penso, alla fine riuscirò a sentirmi perfettamente a mio agio, a cancellare ciò che circonda i miei passi e la mia stanza bianca. La mia vista si offusca, intorno a me una nebbia fittissima copre ogni cosa, ed io mi sento leggero, capace di librarmi nel vuoto pneumatico che ho intorno. In alcuni casi, mentre penso a queste mie cose, vado a sedermi in un bar, tanto per far passare un po’ il tempo, e resto a lungo davanti ad una tazza di tè, con qualcosa da leggere che non manca mai nelle mie tasche. Nessuno mi nota, io abbasso lo sguardo su un articolo di giornale o su uno dei libri da poco prezzo che acquisto ogni tanto, e lascio che tutto vada avanti, senza preoccuparmi di niente.

Una sera mi avvicina una donna, e chiede cosa mai stia leggendo. Un libro poliziesco, rispondo, senza darle troppo la corda. Lei mi chiede se è mio solito andare in quel locale a leggere libri, ma io rispondo che mi capita a volte, e nient’altro. Lei sorride, poi dice con timidezza che scrive poesie, le hanno anche pubblicate su qualche rivista. Io alzo la testa e piego una pagina, per segnare il punto a cui sono arrivato; poi sottovoce le dico: mi piacerebbe leggerle, io leggo di tutto, mi piace soffermarmi sulle parole, trovare che qualcuna è più azzeccata di altre, e via dicendo. Lei mi guarda, la invito a sedersi, chiamo il cameriere e faccio portare altro tè. Poi dice che il suo problema è la solitudine, si sente meglio quando incontra qualcuno come me, con il quale scambiare qualche parola. Io replico che generalmente sto bene da solo, però certe volte faccio eccezione.

Lei recita a mente, con una certa lentezza, una delle sue poesie, ed io le rispondo, con il medesimo tono di voce di prima, che mi sembra bellissima. Si schernisce, dice che adesso deve proprio andarsene, ma se voglio, possiamo vederci il giorno seguente in quel medesimo bar, e magari può portare con sé qualcuna delle sue poesie. La saluto, mi spiego: è stato un piacere conoscerla, sarò contento di leggere le sue cose, e intanto mi alzo, dico il mio nome, le stringo la mano. Lei si allontana, io aspetto ancora dieci minuti, poi pago il tè al cameriere, e infine esco. La mia stanza bianca riprende le fattezze di sempre, i miei pensieri riprendono a circolare in maniera normale. Mi dispiace, penso con calma, per qualche giorno non potrò più farmi vedere in quel bar; ma non importa, rifletto: la città è piena di posti simili a quello.

Bruno Magnolfi

venerdì 20 aprile 2012

Per un'eccezione (ritratto n. 4).



Certe volte in paese qualcuno diceva che il figlio di Elvio stesse facendo una grande carriera nella metropoli del nord dove si era trasferito, ma da lui non arrivava mai una sola parola che avvalorasse quella voce, come se neppure ne fosse orgoglioso. Naturalmente nessuno osava mai chiedergli niente a questo proposito. Un saluto a tutti, diceva a voce bassa ma corposa, quando entrava nella sala del Caffè Centrale, ma erano quelle quasi le sole parole che da quell’uomo con le rughe sul viso e la barba bianca e curata, si potevano ascoltare là dentro. Taciturno, il quotidiano ripiegato ma pronto per essere letto, si sedeva sempre da solo ad un tavolo in angolo di quel grande ambiente, a sorseggiare con lentezza estenuante un calice di vino bianco locale, e lasciando che qualcuno gli venisse a parlare di qualcosa, o che un altro gli battesse una mano sopra la spalla, in segno di rispetto, o di amicizia.

Era stato sindaco di quel paese, ormai parecchi anni prima, venerato da tutti come un vero rappresentante del carattere e dell’anima dei suoi concittadini. Poi aveva smesso di fare politica, e adesso era anziano, pareva certe volte non interessarsi di nulla, neppure delle notizie che continuava a consultare sopra al giornale, senza mai commentarle, restando in silenzio ma senza mai rinunciare alla confusione scherzosa di quel bar trafficato, trascorrendo i pomeriggi così, nella sala luminosa e accogliente del Caffè Centrale, quasi fosse l’unico posto dove davvero si sentisse a suo agio.

Compagni di partito spesso andavano lì, a raccontargli novità e pettegolezzi, e lui dava ascolto ad ognuno, senza mai mostrare un’espressione del viso, o dire qualcosa. Il suo unico figlio se n’era andato via al tempo che lui governava il paese, e questo gesto, diceva qualcuno, aveva provocato in lui una ferita profonda, da cui non era più riuscito a sentirsi davvero guarito. Rincasava prima di cena, e a vederlo uscire dal bar, da solo, con il suo giornale sotto ad un braccio, faceva quasi un po’ pena: sembrava quasi un grand’uomo senza più niente di cui occuparsi davvero, se non quelle abitudini, quei piccoli riti a cui non rinunciava.

Un giorno qualsiasi, invece, arrivò il figlio, probabilmente senza neppure avvertirlo, dopo un anno, forse di più, che non si faceva vedere in paese. Era entrato dentro al Caffè, era andato diretto, ma quasi senza alcuna fretta, nell’angolo dove stava suo padre, e si era fermato davanti a quel tavolo, come uno dei tanti che arrivavano lì, a salutarlo. Lui aveva sollevato lo sguardo da sopra il giornale, lo aveva guardato, poi si era alzato dalla sua sedia, pur restando in silenzio, e si era fatto abbracciare, come si conviene in queste occasioni. Chi era presente dentro al locale parla ancora di un momento persino commovente, in cui tutto sembrava prendere un senso giusto e naturale; i due poi si erano seduti, avevano parlato di qualcosa tra loro, ed ogni cosa, in un primo momento, sembrava davvero appianata. Elvio invece si era arrabbiato subito dopo, era tornato ad alzarsi, aveva guardato suo figlio con una certa severità, e infine gli aveva dato uno schiaffo, uscendo da lì e allontanandosi con il suo passo di sempre.

Nessuno seppe dire che cosa si fossero detti quei due, il figlio subito dopo era ripartito, via dal paese, ed Elvio era tornato al Caffè il giorno seguente, come nulla fosse accaduto. Ma dopo due o tre settimane era sparito. Qualcuno fin da subito si era preoccupato, altri erano andati a cercarlo, ma lui proprio non c’era, e nessuno sapeva dire dove fosse. Quando tornò a farsi vedere in paese tutti tirarono un grande respiro, ed Elvio, entrando dentro al caffè Centrale, fece addirittura un sorriso. Qualcuno disse che suo figlio si era sposato, e che lui era andato ad assistere alla cerimonia, ma non ci furono mai delle vere e proprie conferme a queste semplici voci.

Bruno Magnolfi

mercoledì 18 aprile 2012

Contesto metropolitano.

Ronny sottovoce aveva detto frettolosamente qualcosa a Ferdinand, qualcosa che Stephen non era riuscito a comprendere, percependo soltanto la leggerissima risata di quest’ultimo, ma tutto ciò gli era già sembrato sufficiente per sentire anche dentro di sé un pizzico di buon umore. Gli piaceva stare lì ad attendere il sonno, tutti e quattro coricati ognuno nella sua branda appoggiata ad una parete diversa, in quella stanza assurda che a volte pareva addirittura sufficientemente spaziosa. Dalla finestra arrivavano i rumori della strada, e questo lo faceva sentire vivo, immerso dentro alla città, dove le cose succedevano, e tutto assumeva importanza, come una grande macchina in movimento, un meccanismo a cui forse partecipavano addirittura loro quattro, durante tutto il giorno, ma che funzionava inevitabilmente anche di notte, mentre continuavano a dormire.

Si sentiva bene, Stephen, a stare lì sdraiato ripensando alle ore del suo monotono lavoro, immaginarsi tutte quelle persone che generalmente incontrava per strada e che proseguivano a guardarlo, ma soltanto per un attimo, giusto forse per rendersi conto se da lui poteva arrivare una minaccia oppure no. Coglieva spesso, come un messaggio chiaro e incontrovertibile, il senso di estraneità che gli presentava quel mondo in cui comunque cercava con sforzo di rimanere immerso, e la differenza tra lui e tutto il resto, gli appariva spesso sempre più grande e irriducibile. Brian tra loro, era invece quello che sembrava più integrato: si addormentava subito quando si sistemava nel suo letto, sembrava non avere mai preoccupazioni, e al mattino si svegliava già con la voglia di uscire ed incontrare la città.

Stephen invece stava lì, una volta spenta la luce, ad ascoltare il respiro regolare dei suoi coabitanti, come fosse quello un elemento di conforto, quasi una protezione dal resto, e poi un’intimità che non trovava in nessun’altra parte della sua giornata, anche se lui aveva conosciuto gli altri solo da poco. Quei rumori della strada, ascoltati da dentro quella camera, sembravano sempre positivi, quasi porzioni di un mondo ostile ma che in qualche maniera stava salvando tutti e quattro, anche se in modi diversi, e a lui riservava un ruolo, un compito preciso, che gli sembrava serio ed importante, quasi un incoraggiamento a proseguire così.

Loro quattro non si vedevano mai fuori da lì, e in quella stanza dormitorio, l’unica che potevano permettersi, non parlavano quasi mai dei problemi di ciascuno: ognuno conservava per sé i propri guai e i propri pensieri; e così avevano semplicemente stabilito degli orari in cui coricarsi, o comunque mantenere il più possibile il silenzio, e tutti si attenevano a quella regola precisa. Il resto era lavoro e sofferenza, quasi sottrazione del pensiero riferito ad un futuro che non fosse appena la giornata che seguiva. Certe volte a Stephen pareva proprio che non ci fosse niente nella vita delle persone come erano loro, che avevano per abitare soltanto quella stanza, e non potevano permettersi neanche un amico, perché di ciascuno c’era da guardarsi, anche là dentro, e così era meglio parlare poco e fingere di avere solo da badare ai fatti propri. Eppure gli sembrava doveroso andare avanti, spingersi oltre quelle giornate insulse, quegli attimi privi di qualsiasi colore.

Così si era voltato di nuovo sotto alle sue semplici coperte, aveva ascoltato il respiro regolare della stanza e della strada, e si era sentito bene, ancora una volta, immaginando il sonno che stava giungendo su di lui, come fosse quello l’elemento principale per cui vivere.

Bruno Magnolfi

sabato 14 aprile 2012

Caffè letterario.


Non so bene per quale motivo io sia entrato in questo locale, forse soltanto per cercare di mettere in difficoltà la mia naturale avversione per i luoghi pubblici, gli ambienti spesso affollati di persone, molte delle quali, come per una regola non scritta, proseguono, specialmente in caffè come questi, a ridere e a parlare a voce alta, indifferenti all’importanza del silenzio ed al rispetto per l’individualità, a favore di un finto socializzare che si respira qui in ogni angolo. Probabilmente sono io che sbaglio, penso senza soffermarmi sui particolari, così mi siedo ad un tavolo libero e lascio che mi servano una birra chiara, mentre guardo attorno a me le facce e le espressioni dei presenti. Bevo un sorso dal bicchiere, osservo le luci dell’ambiente, le pareti adorne di manifesti pubblicitari d’epoca, il bancone del bar, bene in mostra, massiccio ed invitante, proprio come immagino dovrebbe essere.
Mi piacerebbe attrarre l’attenzione di tutti, magari con un semplice: scusate, detto a voce alta e lasciato lì, mentre vagheggio nella mia mente di sollevarmi in piedi, di fingere imbarazzo per la mia intromissione nei discorsi di tutti i presenti. Con calma, ma con determinazione, potrei tirare fuori qualcuno dei tanti fogli che affollano da sempre le mie tasche, e schiarendomi la voce, presentare con semplicità una delle cose scritte da me, magari messa insieme chissà quanto tempo indietro, oppure il giorno stesso, fingendo fosse scritta proprio per questa irripetibile occasione. Sono poche frasi, direi con bonarietà; quasi delle stupidaggini a cui dedico il mio tempo, che forse possono apparire interessanti, non so, magari possono addirittura piacervi. Così inizierei a leggere quelle poche righe, con la mia voce non impostata, gli occhiali calzati sul naso, le mani che non tremano nel sorreggere quei fogli, anche se dovrebbero, lo pensano già tutti.
Qualcuno probabilmente volterebbe subito le spalle, riprendendo a ridere e a parlare, ma altri, magari quelli più vicini a questo mio tavolo, forse rimarrebbero in silenzio, prestando attenzione alle mie parole, quasi rispettosi della regola per cui è quasi doveroso ascoltare chi si prende la briga di dire così le proprie cose. Io, dal mio lato, snoderei piano quelle frasi, cercando il più possibile di darne già nel suono una piccola interpretazione, calcando qualche termine forse più importante, sorvolando su altri, come per definire la differenza di significato tra qualche parola e qualcun’altra, quasi incoraggiando la comprensione dell’insieme. Infine mi fermerei, all’improvviso, e dopo una breve pausa di immobilità, direi: grazie, per la vostra cortese attenzione, e tornerei a sedermi, sistemando i miei fogli e tracannando un nuovo sorso dalla mia birra.
Forse qualcuno applaudirebbe, e due o tre verrebbero al mio tavolo per chiedermi qualcosa, magari il mio nome, o altri particolari su quanto hanno ascoltato. Poi tutto ritroverebbe velocemente il suo decorso naturale, ma tutto questo aprirebbe un piccolo spiraglio all’interno dei luoghi comuni e tra le abitudini di sempre. Forse il proprietario del locale si presenterebbe a me, stringerebbe la mia mano, senza indugio mi incoraggerebbe a tornare ancora altre volte dentro al suo caffè a leggere qualcosa. Mi schernirei, naturalmente, però sono sicuro che riuscirei ad apprezzare appieno tutto quanto.
Invece, al contrario di quanto immaginato, ho finito la mia birra, mi sono alzato in piedi, e con la testa un po’ ovattata ho guadagnato l’uscita, non visto da nessuno, ma giusto in tempo per sentirmi quasi intimare qualcosa alle mie spalle: signore, ha detto quello che fino ad un attimo prima stava dietro a quel grande bancone; si è dimenticato di pagare.
Bruno Magnolfi

martedì 10 aprile 2012

La ricerca del niente.

Gli ospiti si erano ritirati quasi tutti nelle proprie camere, naturalmente aiutati dal personale della casa di riposo a sistemarsi nel miglior modo possibile per passare bene la notte. Soltanto due vecchietti, sopra le loro sedie a rotelle, si erano attardati a dormicchiare nella sala della televisione, ma sicuramente non ne avevano per molto, e tra pochi minuti avrebbero anche loro fatto suonare il campanello per essere portati nelle loro stanze.

Passando lungo il corridoio, Paolo li aveva osservati da dietro, ed era stato quasi sul punto di dire loro che era tardi, e che forse era il caso di ritirarsi nelle loro camere, ma poi aveva lasciato correre; in fondo, aveva riflettuto, non era certo un problema se restavano ancora un po’ nella saletta. Era il suo turno di notte; quello che gli capitava ogni tre giorni, e forse gli piaceva un po’ quella variante, restarsene là dentro, in quella clinica, invece di tornare dritto a casa sua come gli altri giorni: avvertire la lentezza del tempo che in quell’edificio scivolava inesorabilmente nella profondità della notte, più che in qualsiasi altro posto, e girare ancora lungo i corridoi per sentire su di sé la responsabilità di tutto il luogo. I suoi colleghi medici, al contrario di lui, normalmente sbuffavano quando era il loro turno, come se avessero da affrontare chissà quale sacrificio. Paolo, al contrario, si portava un libro, si preparava una tisana, assaporava il silenzio della sua cameretta, e lasciava che le cose dolcemente proseguissero fino al sonno, come dentro una fiaba.

Nella stanza del personale erano rimasti soltanto un’infermiera e un inserviente giovane, e anche loro stavano approntandosi a passare la serata e la notte, leggendo qualcosa sopra le loro poltroncine, o guardando la televisione col volume quasi impercettibile, tanto lo sapevano che durante quelle ore sarebbero dovuti intervenire almeno quattro o cinque volte, tanto valeva non provarci nemmeno a chiudere gli occhi e a cercare di dormire. Per i medici invece era diverso: quello di turno si sistemava nella propria cameretta e riposava, almeno fin tanto che non si fosse presentata qualche situazione grave, ma questo accadeva ben di rado.

Paolo aveva detto all’infermiera qualcosa senza grande importanza, mentre lei si alzava per andare a sistemare gli ultimi vecchietti, e poi, dopo qualche minuto, si era mosso per andare a controllare se per caso ci fossero problemi, e se la televisione fosse stata spenta, ma con sorpresa si era reso conto che nella saletta c’era rimasto un ospite, uno dei due, un uomo molto anziano, giunto nella casa di riposo da poco tempo, e che adesso stava lì, sulla sua sedia, ad osservare dalla finestra il giardino buio attorno all’edificio. Allora Paolo si era avvicinato con calma, gli aveva toccato un braccio per assicurarsi che fosse sveglio, regalandogli subito un sorriso, come a sottolineare che non era l’ora adatta per guardare fuori dalle finestre e per perdere tempo in quella maniera.

L’altro si era voltato, lentamente, come se stesse ritornando da pensieri lontanissimi, aveva guardato il medico per un attimo negli occhi, poi sottovoce aveva detto: non si preoccupi per me, va tutto bene; sto soltanto cercando di sbirciare qualcosa di cui non ho neppure un ricordo preciso, ma sono certo che c’è, che è là fuori, da qualche parte, e sono convinto che prima o poi riuscirò a scoprire dove si nasconde. Forse, le possono sembrare argomenti assurdi i miei, privi di un fondamento razionale, e probabilmente è vero; ma quando si arriva alla mia età si deve correre per forza dietro a qualche cosa, qualsiasi cosa sia, prima che la notte avanzi e chiuda il cerchio.

Bruno Magnolfi

domenica 8 aprile 2012

(Profilo n. 18). Vicino di casa.


Osservo con calma, dalla finestra del mio appartamento di sole due stanze, il cortile condominiale un po’ angusto, circoscritto da queste abitazioni popolari, nella speranza che lui non ci sia; lui, il mio nemico, quel maledetto vicino che abita proprio là, di fronte a me, e perde molte delle sue giornate infastidendo tutti coloro che vivono qua nei dintorni, e inventando sempre qualcosa ai miei danni. Sono già quasi due anni che non lo saluto neppure quando ci incontriamo per strada o in queste vicinanze: dopo l’ultima litigata ho pensato che avrei dovuto convincermi che lui non esiste, ma non è facile ignorare una presenza ingombrante come la sua.

Spesso giro per casa, perdo tempo a fare qualche faccenda, penso e ripenso ai miei problemi, ed ogni poco mi prende la smania, sento quasi il bisogno di rendermi conto se è nei dintorni, se come sempre sta facendo qualcosa infischiandosene di tutti, e così sposto la tendina della mia finestra, e ne spio i comportamenti, lo osservo, scruto se le luci della sua abitazione siano accese, se è in casa, giusto per capirne gli intenti, sapere da cosa io debba difendermi. Mi sono già lamentato di lui con tutte le persone del vicinato, e molti mi hanno confessato di non sopportarlo, così mi sento meglio a pensare che il mio odio profondo contro di lui è condiviso da altri, da gente che come me non ne digerisce quella presenza inquietante, quei modi lascivi, quei gesti untuosi.

Certe volte mi prende una rabbia incontrollabile, è sufficiente che veda anche per poco la sua fisionomia o ne avverta il passo; ma la sensazione peggiore è quando vado a scostare la tendina della mia finestra è scopro che lui è lì, nel nostro cortile, mentre si fuma beato una delle sue sigarette, lasciando regolarmente il mozzicone per terra, indifferente a tutto e fregandosene di tutti. Il mio medico ha detto che sono iperteso, che devo cercare di stare tranquillo, altrimenti saranno guai seri per me, così io gli ho spiegato ciò che mi trovo a dover sopportare ogni giorno, e il dottore mi ha fatto un sorriso, mi ha prescritto alcune pastiglie dal rapido effetto, e mi ha consigliato di ignorare la persona di cui gli ho parlato, cercando di mandare avanti le mie giornate proprio come se il mio vicino non esistesse.

Non mi interessa troppo il parere del medico, ho pensato uscendo dall’ambulatorio, so controllarmi, ma quando sono rientrato nel mio appartamento sono andato subito a vedere se lui era lì, e c’era, c’era davvero a fumare la sua sigaretta, ritto in mezzo al cortile, come ogni volta. Così ho subito ingollato una delle pastiglie, e dopo pochi minuti ho pensato che stavo già meglio, in quel breve tempo avevo quasi raggiunto un nuovo equilibrio, mi sentivo davvero molto tranquillo, potevo addirittura affrontarlo, se avessi voluto, sfidare la sua presenza, proprio non c’era problema, il mio organismo aveva come maturato in fretta degli anticorpi nei confronti del nervosismo di cui sono preda da quando quell’uomo abita qui.

Così sono uscito in cortile, quasi con indifferenza, e sono andato addirittura vicino al mio nemico di sempre, mi sono fermato proprio lì, a poca distanza da lui, senza muovermi e senza dire alcuna parola. Lui ha proseguito a fumare, ha scosso la sigaretta gettando la cenere a terra, poi si è incuriosito di qualcosa dalla parte opposta di dove io mi trovavo, e alla fine è rientrato, senza parlare, come lasciandomi libero. Ho vinto, ho pensato tra me una volta rimasto da solo. Sono finalmente padrone del campo, e per la prima volta mi sento benone: ho riflettuto in fretta che lui doveva avere compreso che non poteva permettersi ancora il suo atteggiamento sbruffone, ed ha dovuto andar via, lasciandomi, con mia grande soddisfazione, tutto il cortile per me. Poi sono rientrato, ma la serata mi è parsa migliore di qualsiasi altra.

Bruno Magnolfi

giovedì 5 aprile 2012

Oltre il giudizio.


Mi gira la testa, dice la donna mentre sta in piedi sulla grande terrazza all’ultimo piano di quel grande palazzo dove abita da quasi due anni. L’altra, vicino a lei, la osserva per qualche momento in silenzio; abita anch’essa in un appartamento di quel caseggiato, e loro due si incontrano lì, certe volte, durante qualche pomeriggio di sole, in quel grande spazio condominiale da dove si ammira una larga porzione della città, dove parlare diventa un esercizio estremamente piacevole, e i discorsi si fanno leggeri, scorrevoli, e forse, proprio per questo, spesso anche importanti. Lei si siede sulla vecchia panca di legno accosto al muretto, e si tiene per un momento la faccia dentro le mani, immobile, cercando di capire che cosa le stia succedendo. L’altra le tiene un braccio, come per darle un sostegno morale.
Poi dice: ho il ciclo, in questi giorni, forse dipende da quello, e comunque, non preoccuparti, mi sta già passando. L’altra allora l’abbraccia con intensità, e le accarezza i capelli. Forse è la prima vera volta che si toccano in questa maniera, però non c’è niente di male, pensa la donna. Non è molto tempo che hanno iniziato a vedersi là sopra, a fumare una sigaretta nel debole vento, a parlare e lasciar scorrere mezz’ora e certe volte anche di più. Infine si alza, vorrebbe come scrollarsi di dosso qualsiasi malessere, ma l’altra va lentamente a sedersi sopra la panca dove era stata lei fino ad allora. Lei si volta, a due passi appena di distanza, la guarda, sente che è quasi un peccato rompere quella sospensione piena di pensieri che adesso si è creata, così resta ancora in silenzio.
Vorrei che a te non succedesse mai niente di brutto; mi piacerebbe proteggerti, se solo potessi, dice l’altra distogliendo lo sguardo. In fondo questo piccolo spazio che ci siamo date è qualcosa che va ben oltre lo star qui a perdere soltanto del tempo. E’ vero, pensa lei restando con il fiato sospeso, senza trovare il coraggio per confermare le parole appena ascoltate. Se ci riflette, vorrebbe forse darle un segno della sua amicizia, dei suoi sentimenti di gratitudine, ma non le piacerebbe che venissero scambiati per altro, così cerca di assumere un atteggiamento leggermente distante, come se i loro comportamenti dovessero restare su un piano più impersonale.
L’altra si alza, con lentezza, le va vicino, le sfiora una mano. Senti, dice lei con voce bassissima; non vorrei che tu maturassi delle aspettative nei miei confronti. Silenzio. Poi, quasi come uno sbaglio, sente una lacrima scenderle piano lungo una guancia; forse non vorrebbe sentire questa intensità, ma in fondo ci sono molte cose tra loro, inutile e assurdo negarlo, perciò sente tensione nell’aria, sa perfettamente che al punto in cui sono arrivate, una frase sbagliata potrebbe decidere del loro continuare o meno a vedersi così. Non sto bene, dice ancora; ma non so dirti quale sia il vero motivo. L’altra allora si gira, appoggiandosi al corrimano, a guardare la città che si muove e che pulsa. Dice: non preoccuparti di nulla, ti capisco, non dobbiamo neppure parlarne ulteriormente. Va bene in questa maniera, non dobbiamo cercare altre cose.
C’è un’appendice alla loro intimità, dopo queste parole dettate dalla saggezza: ambedue indulgono nella loro posizione, restando a distanza così ravvicinata; poi si sfiorano il viso con il viso, le labbra con le labbra, e infine sorridono. No, non c’è niente di male nel pensare di volersi bene, niente che debba essere giudicato.
Bruno Magnolfi

martedì 3 aprile 2012

Attorno alle cose (ritratto n. 3).



Stava fermo, nella piazza, le mani sprofondate dentro le tasche, il cappello calato sugli occhi, come in attesa. Era difficile immaginarsi cosa stesse pensando, per quale motivo fosse lì, se stesse davvero aspettando qualcuno, come si poteva forse presumere. Poi se ne andava, come rispondendo a un segnale, senza un motivo apparente che mostrasse in qualche maniera la sua decisione di andarsene via, in contrasto con quella di essere rimasto lì fino ad allora, immobile su quella piazza, quasi come un automa. Se ne andava e basta, scivolando via senza rumore, in modo leggero, impalpabile. Bastava attendere, poi te lo ritrovavi di nuovo durante un giorno qualsiasi, nella stessa posizione di prima, più o meno, col cappello ed il resto, niente di diverso da qualsiasi altra volta.

I ragazzi giocavano a rincorrersi quasi ogni giorno su quella piazza, e nelle belle giornate qualche donna portava dei bambini ancora piccoli a passeggio da quelle parti. Lui osservava tutto, con indifferenza, come non ci fosse realmente qualcosa che lo interessasse, e tutto gli scivolasse vicino, senza sfiorarlo. Certe volte qualcuno dei ragazzi gli chiedeva che ore fossero, o cose del genere; scusi, signore, gli diceva uno del gruppo: può dirmi l’ora? Lui osservava il ragazzo come ne vedesse uno per la prima volta, senza per questo restarne impressionato, e infine diceva: le quattro, evitando persino di consultare il suo orologio; poi voltava lo sguardo verso un altrove che solo lui riusciva a vedere, disinteressandosi del resto.

C’era stata una donna, quel giorno, a passeggio là attorno, a sentire i raggi del sole primaverile che scaldavano già, piacevoli sopra la faccia quando ti sedevi sulla panchina. Lui l’aveva notata, si era acceso una delle sue sigarette, poi si era preoccupato di un altro scorcio, di una visuale diversa. Lei, lì vicino, aveva fatto passare qualche minuto; lo conosceva, sapeva anche dove abitava, e così aveva detto: buono questo punto d’osservazione; si tiene sott’occhio tutta la piazza da qui, ci si rende conto di quanto succede.

L’uomo era rimasto in silenzio, aveva tirato una boccata di fumo dalla sua sigaretta, muovendo con una lentezza estenuante la mano che la sosteneva; poi si era voltato di nuovo dall’altra parte, come se quel discorsetto non fosse stato neppure rivolto verso di lui. E’ vero, aveva detto alla fine, quasi tra sé, come non trovasse un’osservazione diversa da fare, e non fosse per nulla abituato a pensare delle cose evidenti fino a quel punto. Poi si era voltato verso la donna, che era rimasta ferma, come ad attendere ulteriori sviluppi; l’aveva osservata, ma più per non apparire scortese che per vero interesse verso di lei, e quasi sottovoce aveva aggiunto: lei è molto bella, come ad evidenziare il fatto che se dalla sua posizione si poteva osservare la piazza, in realtà il centro saliente di tutte le cose restava comunque una persona come forse era lei in quel momento.

La donna aveva sorriso, forse le era venuto il desiderio spontaneo di avvicinarsi di più a lui, o di invitarlo a sedere sulla sua stessa panchina, al suo fianco, ma non lo fece. L’osservò ancora un momento, poi si volse verso una parte distante della piazza dove c’era un caffè coi tavolini all’aperto, e degli uomini stavano discutendo qualcosa, senza che peraltro si riuscisse da lì a sentire i loro discorsi. Allora l’uomo gettò a terra il mozzicone della sua sigaretta, e con calma si incamminò, senza dire altro, come se tutto fosse già stato spiegato, e non ci fosse necessità di aggiungere alcuna parola, niente che non fosse già in evidenza là attorno.

Bruno Magnolfi

lunedì 2 aprile 2012

Immotivatamente straniero (ripresa cinematografica n. 11)


Giro per strada immaginando che da un attimo all’altro qualcuno si metta a gridare e a inveire contro di me. Però, osservo con attenzione tutto il marciapiede, e sinceramente mi pare che nessuno tra quelli che camminano di fronte ai miei passi, abbia questa intenzione, almeno per il momento. Sospetto comunque, peraltro senza esserne del tutto convinto, che qualcuno possa improvvisamente sentirsi esattamente colui che ha dei motivi fondati per dirmi qualcosa: rimproverarmi per quello che ho fatto, o soltanto pensato di fare, magari ieri o dieci anni fa; trovare assolutamente non adatto il mio semplice essere qui, in questo luogo; che possa lamentarsi, in modo vistoso ed energico, della mia faccia, delle mie espressioni, del mio comportamento. Non credo che esista un vero e proprio complotto ai miei danni, ma il mio spirito resta in fondata apprensione, gli elementi negativi sembrano quasi aleggiare nell’aria che ho intorno.

Sono sicuro di non aver fatto niente di male, lo penso con convinzione, e continuo a ripetermi questa frase nella mia testa, mentre, sempre più preoccupato, proseguo a percorrere questa strada così ostile, piena di gente che forse vuole soltanto liberarsi di me, persino del mio semplice fatto di esistere. Però sono altrettanto certo che è solo un improvviso colpo di testa quello da cui eventualmente devo difendermi, e la cosa maggiormente antipatica, è che non so da chi possa giungere il gesto ostile, non posso sapere in anticipo da chi e da cosa mi debba proteggere. Non provo paura, sono disposto a lottare per conservare il mio stato: cammino, le mani dentro le tasche, su questa strada che ha larghi marciapiedi, e penso ci sia posto per tutti, secondo me non ha alcuna importanza se nessuno di coloro che la percorrono riconosce le mie peculiarità, le mie caratteristiche specifiche. Almeno mi basta continuare in questo modo, senza che venga ostacolato il mio passo, senza che mi senta assediato per la mia maniera di camminare, per la sola presenza di me che cerca di conservare il suo percorso sul lato di questa strada.

Infine qualcuno mi chiama da dietro, mi volto lentamente, con preoccupazione, già prevenuto contro quello che avverto quasi come un naturale pericolo. Salve, mi dicono due addetti alla strada sicura; lei non è ben accetto in questo quartiere, deve spostarsi, andarsene da tutt’altra parte, la sua passeggiata rischia di essere una seria provocazione. Rimango per un attimo immobile, poi abbasso lo sguardo, faccio cenno di si con la testa, riconosco la loro autorità, le loro ragioni, quello che mi hanno comunicato. Però non so proprio cosa pensare, non mi aspettavo assolutamente una cosa del genere: avevo ragione intorno a ciò che avevo sospettato fino adesso, però avevo sbagliato la deduzione fondamentale: sono io il vero pericolo per gli altri, sono io quello non adatto a starsene qui, nessuno vuole minacciarmi o farmi del male, è sufficiente però che io sparisca, mi tolga dai piedi di questa gente che troneggia sul marciapiede.

Gli addetti alla strada sicura proseguono a guardarmi per sincerarsi che io abbia capito, poi mi mettono una mano ciascuno su un braccio, e fanno cenno che saranno loro ad accompagnarmi. Mi lascio guidare, ormai non ho alcuna possibilità di far altro: proseguo nel tenere la testa chinata a evitare guai anche peggiori, e a guardare soltanto a dove metto i miei piedi. Mi fanno attraversare la strada, dicono qualcosa tra loro; infine, sottovoce, cerco di chiedere loro che cosa ho che non va, perché debbo andarmene, cosa fa di me una persona diversa dagli altri. Nessuna risposta, i due addetti guardano avanti e restano adesso perfettamente in silenzio: compiono semplicemente il loro dovere, penso, sto facendo delle domande alle persone sbagliate. Poi usciamo dai confini di zona, loro lasciano completamente la presa, per un attimo mi sento libero, poi mi volto, guardo la strada su cui siamo giunti, e mi accorgo che altre persone mi stanno osservando con severità: non finirà mai, penso, tanto vale adattarsi ad essere come son tutti.

Bruno Magnolfi

domenica 1 aprile 2012

Uguale ai pensieri inspiegabili.

Gli stracci per pulire sono sistemati sopra lo scaffale all’interno dell’armadietto per le scope, sul terrazzino che si apre dietro la cucina del piccolo appartamento. Ad Ernesto gli piace uscire là fuori almeno per un attimo, ogni tanto, sentire l’aria fresca sul viso, osservare uno scorcio di strada, quello che si riesce a vedere da lì, dal terzo piano di quel palazzetto poco caratteristico, senza ascensore, che a volte lo costringe a fare diversi viaggi per portare fin dentro casa, dai negozi di quel quartiere, tutto quello che serve. C’è qualcosa di strano dietro quella piccola ringhiera di ferro, come se una sconosciuta magia, in quei momenti, lo portasse lontano, almeno per poco, lontano comunque dalle solite cose che deve affrontare ogni giorno.

Quando lui rientra in casa, dopo aver fatto le compere, chiudendo piano il portoncino dietro le spalle, Teresa resta in silenzio, ma generalmente lui ha il fiato un po’ grosso per la sfacchinata di portare su quelle buste piene di cose che servono; lei si limita a guardarlo dal suo letto da invalida, dal quale non riesce più a separarsi, sbirciandolo in quello spicchio di ingresso che è ancora capace di vedere dalla sua camera. Tutto bene?, dice Ernesto mentre si toglie la giacca, ogni volta che torna; e lei, subito risponde: uguale; e ambedue dicono queste parole in maniera sempre identica, come se quello fosse un codice loro, affidato all’intonazione della voce, più che alle frasi, un sistema messo a punto in quasi cinquant’anni di matrimonio e di abitudini a tutto. Le medicine di lei sono sistemate bene in ordine, e sopra la lavagnetta Ernesto scrive sempre: che cosa, in quale giorno, e a che ora, in modo da non dimenticarsi di niente. Tra poco arriva l’infermiera dell’assistenza, lui può tirare un po’ il fiato, mettersi di là col giornale, rilassarsi almeno mezz’ora.

Certe volte Ernesto pensa che tutto sia assurdo, anche se riesce quasi sempre a scacciare velocemente questo pensiero dalla sua testa, un po’ meno in questi ultimi tempi, da quando ha iniziato sempre più spesso a rintanarsi su quel terrazzino, ad osservare quello scorcio di strada, quel cortiletto sul retro, a starsene lì, in piedi, anche senza un vero motivo. Qualche volta si è anche fermato a guardare Teresa mentre dormiva: ha immaginato, con gran sofferenza, di farle un’iniezione, darle qualcosa che non la facesse svegliare mai più, ma non ne avrebbe il coraggio, non sono cose per lui, anche se riconosce che quella non è vera vita, soltanto un surrogato di un mondo che forse conserva appena il sapore di tempi che non torneranno mai più.

Così si accontenta di starsene qualche volta su quel terrazzino, Ernesto, cercando di non pensare a un bel niente, perché tutti i pensieri che in quelle volte gli passano dentro la testa, non sono mai quelli giusti. Si mette a sfornellare qualcosa in cucina, e riflette su quanto siano cadenzate le sue giornate: il pranzo, la cena, l’ora del sonno, le medicine da somministrare in certi precisi momenti. Ad un tratto Ernesto si accorge che gli manca qualcosa: scendo un attimo al negozio di generi alimentari, dice a Teresa mentre indossa la giacca. Quindi esce, anche se torna il più velocemente possibile, sa che non deve lasciare Teresa a lungo da sola, ma quando, chiusa la porta, chiede il solito suo: tutto bene?, avverte un’intonazione diversa nella sua voce. Prova un piccolo brivido, forse Teresa se ne sarà accorta, pensa; forse no. Qualcosa pare incrinarsi, anche se solo per un lungo momento; ma lei dice: uguale; come sempre, come dice ogni volta, ma forse soltanto perché sa che una cosa diversa è assolutamente impossibile.

Bruno Magnolfi