lunedì 28 gennaio 2013

Un uomo tra la folla.

            Me ne andavo così, senza una meta precisa, oscillando in mezzo alla gente da un marciapiede all’altro, osservando ogni tanto qualche vetrina di negozio, e osservando le strade trafficate intorno a me, piene di confusione e di grande movimento. Camminavo però con attenzione, stando bene attento a non sbattere contro qualcuno che se ne andava di fretta, o qualcun altro con la testa tra le nuvole. Soffermavo i miei passi giusto per un attimo accanto alla facciata di uno dei palazzi storici della mia città, un luogo a mio parere molto bello, e ne osservavo i lineamenti, le decorazioni, le alte finestre, e nel momento in cui mi rimettevo a camminare, notavo un uomo che a sua volta con la stessa attenzione stava osservando me.
            Procedevo senza preoccuparmi, ma una volta oltrepassata la piazza vicina e presa una direzione diversa da quella tenuta fino allora, notavo ancora una volta la stessa persona che con indifferenza rimaneva alle mie spalle ad una distanza di dieci o venti metri. Entravo in un caffè, ordinavo qualcosa al cameriere, e continuavo a tenere d’occhio la porta di entrata del locale, mentre rimanevo in piedi accanto al bancone, con un leggero senso di disagio.
            Tornavo poco dopo a riprendere la mia distensiva passeggiata, e dell’uomo di poco prima non ne trovavo più nessuna traccia. Così mi perdevo di nuovo, come prima, nella confusione e nel traffico dell’ora di punta, e in questo modo mi recavo con decisione verso la stazione ferroviaria, dove volevo annotarmi gli orari migliori per un treno che di lì a qualche giorno avrei dovuto prendere. L’uomo che avevo visto in precedenza, con mia costernazione, era adesso fermo davanti a me; lo stesso cappello anonimo, il cappotto scuro, la faccia di un cittadino come gli altri. Lo scansavo in fretta, e con la stessa velocità cercavo di far perdere in qualche modo le mie tracce.
            La stazione era piena di persone, la confusione totale, chiunque si sarebbe smarrito in una bolgia di quel genere. Mi fermavo, guardavo bene ogni espressione intorno a me: del mio uomo non c’era più neanche l’odore, ed un sorriso mi appariva quasi naturale sulla faccia. In breve avevo preso nota di ciò che mi occorreva, ed ero velocemente tornato ad uscire da quel grande edificio. Fuori si allungava ormai l’ombra della sera, e i primi lampioni erano già accesi. Tornavo ad indossare i guanti e mi avviavo verso la mia abitazione, non molto distante, senza preoccuparmi di nient’altro, ma ad un tratto mi pareva di riconoscere, in una persona che passava, il medesimo uomo di poco prima, anche se mi accorgevo quasi subito che ne era soltanto una vaga somiglianza.
            Attraversavo la larga piazza, allungavo il passo sopra al marciapiede ingombro per quanto potevo, e mi ritrovavo però a sentirmi ad un tratto quasi orfano di quella presenza pur inquietante che mi aveva seguito fino a poco prima. Così tornavo a fermarmi, a guardare fin dove riuscivo attorno a me, a cercarlo quasi, ma quell’individuo sembrava adesso fortunatamente aver scelto altre occupazioni. Rientravo, forse un po’ deluso, inserivo la chiave dentro al portone per aprirlo, e mi fermavo ancora una volta per guardarmi attorno, proprio come prima. Non c’era più, inutile aspettarlo, forse avevo sbagliato qualcosa, pensavo tra me, forse mi ero mosso con eccessiva fretta. Un’ombra di tristezza scendeva su di me, sentivo forte il desiderio di vederlo ancora, almeno un’altra volta; poi però richiudevo il portone alle mie spalle: ogni giorno perdiamo qualcosa, pensavo adesso quasi con indulgenza; non possiamo assumerne tutta la colpa soltanto perché ne siamo consapevoli.
            Bruno Magnolfi

domenica 27 gennaio 2013

Chiari segni di umanità.

lungo i fianchi, la schiena dritta, osserva le tante persone che attraversano il largo spiazzo pedonale e se ne vanno per i fatti loro. Nessuno lo nota, o forse qualcuno si, considerato il suo aspetto stravagante: la gran barba lunga ed incolta, il cappotto vecchio e fuori moda di colore arancio scuro, l’espressione vagamente da pazzo. Lui non sembra preoccuparsi di nulla, attende qualcosa, questo pare certo, per il resto niente sembra distoglierlo da quel curioso guardare tutti e nessuno.
            Infine tira fuori dalla tasca alcuni fogli ripiegati e sgualciti, li distende tra le mani, si avvicina ad una panchina accanto all’aiuola centrale, e dopo poco inizia a leggere qualcosa con voce bassa ma robusta, rinvigorendo il timbro nel mentre che prende confidenza con il suo declamare. Legge le cose che ha scritto negli ultimi tempi, frasi che parlano di onestà, di rettitudine, dei valori ormai persi da molti, di personaggi ordinari e allo stesso tempo particolari, ed alcuni dei passanti alle sue parole si fermano, ascoltano in silenzio per un attimo, ed altri invece cercano di ignorarlo, anzi sorridono di quel comportamento, quasi come fosse qualcosa di assurdo.
            Lui va avanti per diversi minuti, ma poi si ferma, smette all’improvviso di leggere, ha terminato, così inchina leggermente la testa, e lascia che in due o tre davanti alla sua postazione gli lancino un piccolo applauso; uno dice addirittura bravo a voce alta, un altro spiega al suo vicino che è questa forse la nuova letteratura, ciò che non si trova scritto in nessun libro, ma ugualmente riesce a percorrere la gente composta da questi uomini e altrettante donne come una febbre, un fremito, quasi un’urgenza di novità. L’uomo poi si siede sopra la sua panchina, tira fuori dalla tasca una vecchia matita, e appunta qualcosa sul rovescio degli stessi fogli che ha ancora tra le mani. Alcuni continuano ad osservarlo, uno gli chiede con timidezza come si chiami.
            Ermete, dice lui, lasciando intuire che forse quello è soltanto un suo nome d’arte, ma l’altro gli batte una mano sopra la spalla e si complimenta per le sue parole e sulla scelta di leggere in pubblico, dando vita ad un concetto antico e meraviglioso. L’uomo in due parole bofonchiate gli spiega che sta lavorando ad un nuovo soggetto un po’ difficile, ed adesso ha bisogno di silenzio e di concentrazione, l’altro quindi lo lascia da solo, ma non prima di avergli stretto la mano, di essersi congratulato di nuovo con lui.
            Attorno tutto ritorna in un attimo ad essere la piazza di sempre, la gente di qualsiasi mattinata, ognuno prosegue con le proprie attività, l’uomo resta seduto sulla panchina ed appunta le cose che vede, quelle che sente, quelle che immagina. Una signora si siede vicina, osserva per un attimo quelle carte un po’ spiegazzate, la sua calligrafia quasi incomprensibile, gli dice che è bello quello che fa, forse la cosa più importante di tutte, perché la realtà è sotto gli occhi di chiunque, dice, ma solo in pochi riescono a tracciarne i contorni, fino a darne un’interpretazione che può anche essere soltanto una grande sciocchezza, ma è comunque qualcosa che sta sopra al piano delle espressioni più alte che si possa mai avere tentato. 
            Bruno Magnolfi

Chiari segni di umanità.

         
            L’uomo è fermo sulla piazza. Le braccia lungo i fianchi, la schiena dritta, osserva le tante persone che attraversano il largo spiazzo pedonale e se ne vanno per i fatti loro. Nessuno lo nota, o forse qualcuno si, considerato il suo aspetto stravagante: la gran barba lunga ed incolta, il cappotto vecchio e fuori moda di colore arancio scuro, l’espressione vagamente da pazzo. Lui non sembra preoccuparsi di nulla, attende qualcosa, questo pare certo, per il resto niente sembra distoglierlo da quel curioso guardare tutti e nessuno.
            Infine tira fuori dalla tasca alcuni fogli ripiegati e sgualciti, li distende tra le mani, si avvicina ad una panchina accanto all’aiuola centrale, e dopo poco inizia a leggere qualcosa con voce bassa ma robusta, rinvigorendo il timbro nel mentre che prende confidenza con il suo declamare. Legge le cose che ha scritto negli ultimi tempi, frasi che parlano di onestà, di rettitudine, dei valori ormai persi da molti, di personaggi ordinari e allo stesso tempo particolari, ed alcuni dei passanti alle sue parole si fermano, ascoltano in silenzio per un attimo, ed altri invece cercano di ignorarlo, anzi sorridono di quel comportamento, quasi come fosse qualcosa di assurdo.
            Lui va avanti per diversi minuti, ma poi si ferma, smette all’improvviso di leggere, ha terminato, così inchina leggermente la testa, e lascia che in due o tre davanti alla sua postazione gli lancino un piccolo applauso; uno dice addirittura bravo a voce alta, un altro spiega al suo vicino che è questa forse la nuova letteratura, ciò che non si trova scritto in nessun libro, ma ugualmente riesce a percorrere la gente composta da questi uomini e altrettante donne come una febbre, un fremito, quasi un’urgenza di novità. L’uomo poi si siede sopra la sua panchina, tira fuori dalla tasca una vecchia matita, e appunta qualcosa sul rovescio degli stessi fogli che ha ancora tra le mani. Alcuni continuano ad osservarlo, uno gli chiede con timidezza come si chiami.
            Ermete, dice lui, lasciando intuire che forse quello è soltanto un suo nome d’arte, ma l’altro gli batte una mano sopra la spalla e si complimenta per le sue parole e sulla scelta di leggere in pubblico, dando vita ad un concetto antico e meraviglioso. L’uomo in due parole bofonchiate gli spiega che sta lavorando ad un nuovo soggetto un po’ difficile, ed adesso ha bisogno di silenzio e di concentrazione, l’altro quindi lo lascia da solo, ma non prima di avergli stretto la mano, di essersi congratulato di nuovo con lui.
            Attorno tutto ritorna in un attimo ad essere la piazza di sempre, la gente di qualsiasi mattinata, ognuno prosegue con le proprie attività, l’uomo resta seduto sulla panchina ed appunta le cose che vede, quelle che sente, quelle che immagina. Una signora si siede vicina, osserva per un attimo quelle carte un po’ spiegazzate, la sua calligrafia quasi incomprensibile, gli dice che è bello quello che fa, forse la cosa più importante di tutte, perché la realtà è sotto gli occhi di chiunque, dice, ma solo in pochi riescono a tracciarne i contorni, fino a darne un’interpretazione che può anche essere soltanto una grande sciocchezza, ma è comunque qualcosa che sta sopra al piano delle espressioni più alte che si possa mai avere tentato. 
            Bruno Magnolfi


sabato 26 gennaio 2013

Al margine di qui.

            Il cuoco ride, in piedi nella sua cucina al Ristorante dell’Hotel Bologna, e intanto tira una boccata dalla sua perenne sigaretta, appoggiandola ad un angolo del piano dove raccolgo i piatti pronti, e le comande stanno infilzate dentro un chiodo. Crede sempre di prendere in giro qualcuno, mi guarda, dice a voce alta che sono pronti pure gli spaghetti allo scoglio per il tavolo dodici, anche se non gli interessa un fico di ciò che sto facendo. Gli piace ridere di me, specialmente quando me ne sto serio concentrandomi sui clienti e sulle portate delle ordinazioni. Hai visto quella?, dice lui: ti guardava con certi occhi. Ma fa così solo per confondermi.
            Io lo lascio fare, e intanto penso all’autostrada che stanno costruendo, ai ponti con le arcate alte persino cento metri, e ai camion e alle automobili che se ne andranno via là sopra, insieme a questi anni senza alcun significato, sopra l’asfalto nero, a sperdersi in posti lontani pieni di fascino e di grande importanza. Il progresso, spiega qualcuno, ed io mi ritrovo tutti i giorni col pensiero di andar via, lontano da questo buco senza speranza, dove almeno non ci sia ancora qualcuno a ricordarmi di servire i piatti ai tavoli, sgridandomi anche per un semplice secondo di ritardo, o per non aver compreso al volo qualche cosa, perché in fondo è un po’ vero che ho sempre la testa tra le nuvole, come mi dicono sempre tutti.
            Mi piace sapere che alla fine dell’autostrada ci saranno dei posti diversi da qui, dove anche nei ristoranti si lavorerà con più entusiasmo, e tutto sarà bello da vedere, accompagnato dall’orgoglio di far parte di un luogo di quel genere. Andrò via, penso spesso, seguirò i camion e le automobili fino dove arrivano, forse anche più in là, in una città dove si parla una lingua importante, quella delle gente che conta, che ti dà soddisfazione anche solo standoti vicino.
            Così fisso qualche cosa fuori dalla finestra della sala, restando accanto alla porta del va e vieni di ingresso alla cucina; il cuoco dice qualcosa, lasciando sfrigolare due o tre padelle sopra ai fuochi, io mi volto, sono pronti i piatti del tavolo sette, li raccolgo ed inizio ad attraversare il breve corridoio. Non so perché, ma quando mi avvicino a quei clienti vorrei piangere, disperarmi, chiedere loro di portarmi via, spiegare in due parole che qui è ormai impossibile rimanere ancora.
            Spero con tutto me stesso che non chiedano nulla, non sono in condizioni di rispondere, ho bisogno di servire i piatti e ritirarmi per un attimo, farmi passare questo momento sofferente, forse sciacquarmi gli occhi, guardare il mio viso nello specchio, riprendere fiato. Invece una donna chiede del pane, io mi volto, ma ormai mi sento in preda al panico, persino le gambe iniziano a tremarmi, so che non riuscirò a compiere neppure un altro gesto.
            Torno in cucina, guardo il cuoco e inizio a piangere, proprio come uno stupido. Poi tolgo il mio grembiule, esco, prima che qualcuno possa fermarmi. Inizio a camminare, non so verso dove, non importa, costeggio le case del paese, giro a un angolo, vorrei chiedere aiuto alla prima persona che incontro, ma invece mi fermo in un portone, mi raccolgo un attimo, so che tutto sta sfuggendomi di mano. Non importa, penso con decisione, non tornerò più a guardare indietro. 
            Bruno Magnolfi

domenica 20 gennaio 2013

Consapevolezza d'amore.

           
            Certe volte ti osservo, e mi pare che qualcosa di te si riversi direttamente tra i miei sentimenti, senza alcun filtro. Lei sorride, non dice niente, però lentamente si alza, gli sfiora una mano quasi con noncuranza, se ne va, come aveva precedentemente deciso. Ci vediamo stasera, queste le parole rimaste nell’aria, quasi una promessa, una possibilità, una speranza.
            Il giorno procede, i pensieri rincorrono piccole finalità, altre persone entrano nel campo visivo scambiando parole, opinioni, definizioni più o meno composte di ciò che dev’essere. In alternanza, lui si ferma un momento, richiama alla mente la tua inamovibile presenza, e dentro di se sente qualcosa sorridere, quasi un elemento di differenza profonda con tutti gli altri.
            Vorrei un caffè, spiego al barista. La visione d’insieme dei gesti consueti che si possono svolgere durante lo sviluppo di una serie di momenti qualsiasi, è spesso un’idea, o una voglia, oppure un pensiero; ancora più spesso soltanto un’abitudine, la ricerca di calcare le solite orme lasciate sui pavimenti il giorno avanti, o chissà quando. Il giorno sembra solo un lasso di tempo da riempire di contenuti sereni, senza asperità.
            Infine qualcosa lo chiama da dietro, non una voce o un suono conosciuto, piuttosto un segnale, la lusinga di un elemento di curiosità. Si volta, e un lampo improvviso entra nel suo piccolo mondo. Mi chiedo, cosa potrà mai essere una sensazione non sorretta da qualcosa di razionale? Quello che è, pensa, così lascia che cali l’importanza inversamente alla delusione che prova, e probabilmente affronta il prossimo quadro d’insieme con una consapevolezza maggiore.
            Osservo il quadrante dell’orologio: ancora pochi minuti, forse, un’ora al massimo. Lui ondeggia tra confusi pensieri cumulativi, assapora un desiderio che annulla qualsiasi altra cosa. Eccoti, infine. Come stai? Dici senza interesse, quasi per abitudine. Ti osserva, forse ritrova la medesima impressione che conosce quasi da sempre. Dico: mi sei mancata, anche se devo abituarmi all’idea di trascorrere giorni e periodi senza di te. Non sono sfuggente, rispondi. Cerco soltanto di preservare le tue percezioni dalla noia inevitabile che proveresti, se soltanto cercassi con te una vicinanza maggiore.
            Bruno Magnolfi

domenica 13 gennaio 2013

Fine della strada.

           
            L’auto procede regolare. La strada è leggermente umida durante quei minuti prima dell’alba invernale, Fernando come sempre rispetta i limiti di velocità lungo la provinciale che lo porta fino alla fabbrica dove lavora. A lui piace fantasticare mentre la sua macchina viaggia tranquilla come ogni mattina, illuminando l’asfalto davanti e immettendo aria calda e piacevole nell’abitacolo. A volte gli pare quasi sia quella tutta la libertà su cui può contare durante la sua giornata, come se il resto del tempo intorno a lui scorresse quasi per automatismi, una fase dietro l’altra, senza mai alcuna variazione.
            Non c’è niente da segnalare in quelle giornate, niente da raccontare che sia differente al giorno avanti o a quello ancora prima, soltanto quella mezz’ora di viaggio lenta e piacevole che in certi giorni sembra ripagarlo di tutto, come se fosse quello il suo momento migliore, il solo vero momento che certe volte sembra appagarlo per tutto il resto. C’è una piccola zona industriale una volta superata l’ultima borgata di case, e tra una manciata di capannoni la strada in quel punto lascia lo spazio ad una serie di piccole vie caratterizzate da larghi piazzali per il parcheggio dei mezzi, il cartello giallo e nero indica quel luogo dedicato al lavoro, dove a quell’ora arrivano tutti, operai e dirigenti, quasi una democratica chiamata alle proprie attività.
            Fernando quando vede il segnale prova sempre una fitta dolorosa: viaggio terminato, pensa, finita la breve parabola sognante di ogni mattina, la concretezza delle cose chiama al dovere da svolgere. Non c’è niente di male, lui è contento del suo lavoro, il suo ruolo lo porta avanti sempre con serietà, lo stipendio per la sua famiglia è fondamentale, di tutto questo ne ha piena coscienza. Eppure, quando entra dentro al parcheggio, qualcosa sembra inesorabilmente fuggirgli via, qualcosa che sa di ritrovare solamente la mattina seguente, durante lo stesso tragitto.
            Per questo in un giorno qualsiasi decide di ignorare il segnale, di andare avanti, proseguire fingendo quasi di non accorgersi di essere ormai arrivato. La strada prosegue regolare, lui guida la sua auto come se ancora ci fosse un tratto di provinciale da completare, la mente è libera, i pensieri insistono a muoversi nella sua testa pungolati dalla fantasia. Gli sembra per una volta di prolungare quel piacere altrimenti interrotto in maniera sempre crudele, la strada procede, lui si sente contento, sempre più libero dai suoi doveri, ma qualcosa poco dopo stringe alla gola Fernando, gli sembra di non sentirsi perfettamente, non riesce ad andare più avanti, accosta la macchina e velocemente si ferma al margine della carreggiata.
              I fari e il motore restano accesi, la ventola prosegue a far girare l’aria calda all’interno, ma lui improvvisamente sta male, non sa cosa fare, non riesce a capire quale sia la decisione giusta da prendere. Riflette, immagina i suoi colleghi di lavoro che lo attendono, si sente sul punto di tornare indietro e fingere con tutti di non sapere che quella non è una mattina come tutte le altre. Infine torna ad innestare la marcia, riprende la corsa, va ancora avanti Fernando: cosa importa mancare per questo giorno, pensa; adesso c’è qualcosa di importante che devo scoprire, magari proprio dopo la prossima curva, forse, oppure tra un chilometro o due, non lo so. Adesso c’è qualcosa che devo capire, pensa ancora con tutte le forze rimaste, non posso rinviare ulteriormente questo mio appuntamento, devo andare avanti, proseguire, almeno fino alla fine di questa stupida strada.
            Bruno Magnolfi 

martedì 8 gennaio 2013

Processi coincidenti.

Sto male, senza alcun dubbio. Se mi corico, provo dei sottili dolori non ben localizzati, e soprattutto ho l’impressione che il mio corpo sia, chissà da quanto tempo, come caduto in una fase di estrema fragilità, quasi che il cuore per esempio si potesse fermare da un attimo all’altro, o l’apparato digerente fosse preda di un inizio di blocco improvviso, senza possibilità di recupero. Mi giro su un fianco, rifletto: nulla potrà mai rimanere com’era.

            Poi sento delle voci nella stanza adiacente o nel corridoio del mio appartamento, mi alzo, indosso una giacca da casa, esco svogliatamente dalla mia camera. Degli amici sono venuti a farci una visita, a me e a mia moglie. Ci sediamo, scambiamo tutti i convenevoli, si ride di qualcosa per rompere quel sottile velo di imbarazzo che sempre in questi casi si forma.
            Non sto bene, dico subito, non so neppure perché. Non ho alcun dolore ben localizzato, dico, però sento che qualcosa non va, che non è più nella stessa maniera di com’è sempre stato. Proseguo a spiegare i sintomi e le percezioni che mi fanno sentire in questo modo, e alla fine tutti iniziano a guardarmi con pena, con espressioni serie e compunte, compresa mia moglie.
            Per convincere tutti della mia situazione vorrei quasi fingere uno svenimento, accasciarmi a terra andando a sbattere con una spalla sul pavimento, gli occhi chiusi, gli arti completamente rilasciati, ma mi trattengo, non è il caso di esagerare, penso con un briciolo di razionalità. In ogni caso siedo abbracciandomi la pancia e lo stomaco, come se un forte dolore o qualcosa del genere venisse da lì. Mi piego in avanti, lascio che mia moglie mi chieda se sia il caso di prepararmi del tè caldo, oppure che addirittura chiami un dottore, e tutti sembrano preoccupati, si dice addirittura che è meglio se sto coricato, piuttosto che rimanere seduto dove mi trovo.
            Lascio che mi accompagnino in camera, sistemino alla meglio sul letto il mio povero corpo, e che infine mi lascino solo, nella lieve oscurità delle tende tirate. Mi piace essere accudito in questa maniera, penso, anche se adesso, una volta rimasto in solitudine, mi pare addirittura di stare un po’ meglio. Mi abbandono ai pensieri che scorrono lentamente nella mia testa, forse potrei dormire e riposarmi in questo ovattato silenzio, rifletto, ma improvvisamente un nuovo forte dolore si fa sentire con nettezza durante la mia normale respirazione.
            Un debole rantolo sembra fuoriuscire dalla mia gola ogni volta che inspiro un po’ d’aria. Prendo tempo, i polmoni paiono soffrire terribilmente di questa situazione, è come se si fosse aperto uno squarcio in mezzo agli alveoli, oppure nei bronchi, non so, un dolore che non riesco minimamente a controllare. Mi sento la fronte imperlata di un sudore freddo e innaturale, sento nella stanza vicina le voci di tutti mentre si intrattengono ancora a parlare: vorrei chiamarli, urlare che sto male, male davvero, che ho bisogno di aiuto, forse di un medico, ma non riesco ad aprire neppure la bocca, e la mia respirazione è ormai ridotta ai minimi termini.
            Infine mia moglie gira la maniglia della porta ed entra dentro la camera, probabilmente solo per controllare come io stia in questo momento, mentre gli amici, adesso silenziosi, rimangono con garbo alle sue spalle. Il mio viso è umido e appiccicoso, evidentemente ho sbavato del sangue, mi sento sull’orlo di un non ritorno, ma alla vista dello spiraglio di luce sollevo la testa leggermente dal letto, strabuzzo gli occhi, guardo mia moglie, dico: sto morendo. Poi perdo i sensi.
            Bruno Magnolfi

domenica 6 gennaio 2013

Una parte di me.

  Amerigo cammina , per la mano tiene sua nipote di appena cinque anni, che ogni tanto gli pone qualche piccola domanda, come d’altra parte fanno tutti i bambini alla sua età. Lui con pazienza le spiega qualcosa, le indica qualcos’altro da osservare, le fa notare come sia viva la città, e come si muova, anche se poi ogni tanto lui stesso si ferma, come per rendersi meglio conto di ciò che vuole dirle davvero, oppure riflettendo su cosa ci sia di particolarmente caratteristico intorno a loro, tale da incuriosirla, e per invitarla ad osservare un elemento o l’altro con maggiore attenzione.
            All’improvviso però compie come un salto Amerigo, si dimentica quasi della nipote, anche se continua a tenerla per mano guardando la strada davanti a sé; ma è come se fosse la prima volta che vede qualcosa del genere, qualcosa da cui adesso si sente perfino circondato. Ad un tratto, infatti, gli è parso quasi di entrare in un banco di nebbia, o dentro una nuvola, ecco, quasi che il cielo quel giorno avesse deciso di abbassarsi su lui, fino quasi a fargli staccare i piedi da terra ed attrarlo a sé in una strana dimensione impalpabile. Sono inspiegabili certe sensazioni, lo sa perfettamente, così non prova neanche a dire a sua nipote che cosa gli stia capitando.
            C’è una panchina lì accanto, così invita la bambina a sedersi con lui, in silenzio, momentaneamente come sospesi, quasi senza più alcuna cosa da dirsi. Cosa c’è di più bello che sentire questo freddo invernale sopra la faccia, pensa Amerigo, sapere che saranno soltanto le decisioni giuste a cambiare poco per volta questa realtà, che tutto sarà modificato prima o dopo, e che ciò che vale adesso forse tra poco non sarà più così. In silenzio, sua nipote osserva le macchine che transitano lungo il viale, ne indica una con il suo piccolo dito, come a fargli vedere che anche lei a suo modo avverte ciò che succede, ne ha percezione.
            Amerigo vorrebbe quasi spiegare alla bambina quali emozioni si prova quando si ha consapevolezza di tante cose che esistono, ma è un argomento impossibile, non trova alcuna parola da dirle a riguardo, così si limita a prendere ancora la sua piccola mano e a tenerla con sé, come qualcosa di estremamente prezioso, quasi bastasse quel semplice contatto per trasferirle un po’ di quei suoi pensieri, quelle piccole preoccupazioni che lui ha accumulato negli anni.
            In fondo, c’è poco significato in questo mio volerle spiegare qualcosa, pensa ancora; al contrario, dovrei sforzarmi di vedere tutto proprio con i suoi occhi, sentire la realtà con la sua spontanea voglia di conoscere, di sapere come si muove ogni cosa che sta intorno a noi; ma rimane difficile, così complicato appare dimenticarsi anche per un attimo solo il proprio passato, le proprie esperienze, tutto ciò che è ognuno di noi, e ciò che è stato fino a questo momento.
            Poi ad Amerigo torna a mente qualcosa di quando aveva più o meno l’età di sua nipote. Sua madre gli teneva le mani sugli occhi, certe volte, e gli chiedeva di immaginare tutto ciò che voleva, come se in quel momento non ci fosse alcuna limitazione. Così inizia a pensare, Amerigo, come riuscire a spiegare alla nipote che la cosa forse più importante di tutte è quella di non smettere mai di avere fantasia, di guardare le cose certamente per come sono davvero, ma in certi casi di trasformare tutto quanto semplicemente con la forza dei suoi pensieri, e immaginare sia ciò che potrebbe essere se stessa, sia il resto che ha intorno a sé, elaborando una specie di caleidoscopio, una metamorfosi quasi infinita della realtà.
Poi torna ad alzarsi e a riprendere la bambina per mano. Ma che importa, pensa ancora, prima di rimettersi a camminare: lei riuscirà a comprendere tutto senza neppure bisogno che qualcuno ne spieghi anche solo una parte di quanto è possibile; e a me basterà tenerla per mano per trasmetterle anche più di un frammento di quanto vorrei; ma questo sarà già sufficiente.
            Bruno Magnolfi

mercoledì 2 gennaio 2013

L'assurda ragione.

    Lui cammina in silenzio. I suoi passi sono cadenzati, monotoni, le sue mani sprofondate dentro le tasche, il viso protetto dal bavero della giacca. Alcune persone per strada lo sfiorano camminando in senso contrario, altre lo notano per la sua aria assorta, i suoi pensieri forse persi dietro qualcosa di irraggiungibile. Poi entra dentro un portone, sale lentamente due rampe di scale, suona ad un campanello sul pianerottolo. Qualcuno gli apre silenziosamente, lo lascia entrare, chiude la porta alle sue spalle.
            Sa di essere atteso, ciò nonostante: sono qui per fare chiarezza, dice a voce bassa, e anche per prendere qualche decisione; come se alternativamente fosse lì soltanto per un puro caso. Viene fatto sedere ad un tavolo, da un cassetto si tira fuori una cartella piena di documenti. Lui se ci pensa forse vorrebbe già essere lontano da lì, anzi, probabilmente sarebbe contento di non esserci mai neppure venuto, eppure tutto quanto adesso pare andar bene, gli sembra anche più facile del previsto, una volta riuscito a superare qualsiasi moto spontaneo di repulsione, quella sua voglia naturale, dopo tutti quegli anni di guerre, di tenersi lontano da quella casa e anche da coloro che continuano ad abitarla.
            Là dentro si parla adesso in termini quasi legali, le carte riportano con chiarezza i confini di alcune proprietà da dividere, le espressioni sono fredde, niente di tutto questo esprime qualche sentimento, qualche bisogno reale, e le sensazioni che procurano, almeno a lui, quei nomi così legati a dei cari ricordi, che pur certamente convivono in mezzo a quei margini segnati sulle planimetrie e tra le parole degli atti, sono solo un’astrazione da quel contesto. Si prova sicuramente un certo disagio dietro agli occhiali con cui si osservano tutte le carte, ma in ogni caso si vuole andare avanti, fino in fondo, fino a quando tutto sarà debitamente appianato e deciso.
            Lui sa che sua sorella si trattiene nella stanza vicina, forse ascolta ogni parola restando in silenzio, al riparo di una porta ben chiusa: persino dopo tutti quegli anni non vuole incontrarlo, non vuole neppure vederlo, lascia che ogni cosa venga trattata da un legale e da suo marito, quel cognato pacato, tranquillo, che si è sempre offerto di fare da mediatore tra i loro caratteri a spigoli, cercando la giusta divisione di quelle proprietà di cui sono eredi, solo loro due, senza alcun dubbio. Si guardano ancora le carte, lui non dice quasi niente, lasciando che si formuli un’offerta finale: non si è neppure tolto la giacca, tanto riesce ad avvertire l’ostilità della casa, però sente con prepotenza la volontà di tutti di arrivare in fondo a quella faccenda, perché non è più proprio possibile lasciarla ancora in sospeso.
            Si prendono impegni, si firma qualcosa di importante, tutto quanto adesso, quasi per magia, sembra più facile di qualsiasi altra cosa; ogni nodo da sciogliere pare risolversi con poche frasi, con qualche sguardo, come se scorresse su una strada liscia e senza le curve. Infine tutto appare deciso, lui si alza, saluta, viene accompagnato alla porta, sta per andarsene, ma c’è sua sorella che esce improvvisa dal suo rifugio, lo guarda, gli va incontro, si abbracciano: che inutile cosa, credere di avere sempre ragione, pensa qualcuno.
            Bruno Magnolfi