domenica 31 ottobre 2010

Un saluto sofferto




Dentro lo scompartimento del treno non c’era nessuno, lei era entrata, aveva sistemato la sua borsa, poi si era seduta. Fuori dal finestrino il paesaggio correva via, nonostante fossero partiti solo da pochi minuti, e lei aveva osservato per un po’ quella campagna, quelle colline piacevoli, infine aveva aperto la rivista acquistata all’edicola della stazione, tanto per far passare un po’ di quelle due ore che la separavano dalla sua città.

Forse avrebbe dovuto avvertire la sua famiglia che stava tornando a casa qualche ora prima del solito, ma le piaceva l’idea di poter fare una sorpresa ai suoi genitori. Era bella quella sensazione, tra tutte quante era la sua preferita: sentire di aver sistemato le cose, portato avanti il proprio lavoro, assaporare la pace di tutto ciò che la circondava, e in questa meraviglia di tranquillità tornare in seno alla sua casa, meraviglia a sua volta, almeno per lei, sintesi di luogo perfetto e completo.

Ecco, tutto era a posto in quello scompartimento che correva veloce a rimorchio del treno, se non una piccola cosa, uno stupido oggetto rimasto in fondo a un sedile. Lei lo vide, ma solo quando il treno era ormai a metà strada dentro al suo sogno di pace, e stava lì, come se reclamasse qualcosa, ma solo da lei, soltanto dal suo rientro alla normalità, a quel suo semplice sentirsi contenta.

Un piccolissimo orsacchiotto di peluche, ecco cos’era, rimasto incastrato in mezzo a quei due sedili di fronte, dimenticato là dentro, quasi abbandonato chissà in quale fretta, senza che quei pochi minuti, da parte di chi lo aveva lasciato, fossero stati minimamente sufficienti a mostrarne l’assenza. Ma non solo: l’orsetto era probabilmente un regalo, e lo dimostrava il cellophane in cui era avvolto, e il piccolo biglietto allegato, con su scritto un nome e un augurio, come quelli che si fanno ai bambini da parte di parenti premurosi, che non dimenticano mai una cosa del genere, ma che adesso mostrava quanta importanza fosse racchiusa là dentro.

Lei prese con sé l’orsacchiotto, improvvisamente stordita da qualcosa che smontava il suo dolce ritorno in famiglia; cercò di riflettere a fondo si tutti i significati che portava con sé quell’oggetto, restando in balia di pensieri che non riusciva neppure a classificare. Guardò fuori, mentre il paesaggio si faceva più triste, gli alberi ossuti, le nuvole basse sopra al contorno della campagna, e lei si sentiva improvvisamente coinvolta in qualcosa che la lasciava impotente.

Cercò di riflettere su che cosa era possibile fare, ma le venne improvvisamente da piangere, senza comprendere a fondo il motivo del suo disagio, solo come per uno sfogo rispetto a qualcosa su cui il suo controllo era assolutamente impossibile. Osservò ancora a lungo quell’orsacchiotto nelle sue mani, le pareva quasi di stringere a sé quel bambino a cui la disattenzione di qualcuno gli aveva sottratto un motivo di felicità, ma all’improvviso sentì la voce del controllore nello scompartimento vicino, che chiedeva di visionare i biglietti. In un attimo aprì il finestrino e abbandonò al vento e alla campagna l’orsetto, come se qualcosa di quel dolce peluche avesse improvvisamente iniziato a scottarle nelle sue mani. Il controllore disse soltanto: buonasera; al momento che si affacciò al suo scompartimento; ma lei si sentì bene, improvvisamente a suo agio, come capace di dimostrare a chiunque che stava rientrando in famiglia, senza avere proprio nulla di tralasciato alle spalle, come se tutto il suo mondo fosse perfettamente in equilibrio con il suo sentirsi a suo agio. Proprio con questo sentimento gli porse il biglietto, contraccambiando il saluto.

Bruno Magnolfi

Fuori dalla casa col cancello di ferro




Il gruppo composto da una decina di braccianti si era fermato davanti alla casa, tutti parlavano tra loro a bassa voce, ma insieme formavano un certo brusio. Qualcuno teneva in mano il cappello forse per una forma istintiva di rispetto, altri pensavano non fosse il caso di mettere le mani dentro alle tasche dei propri calzoni, e in questo modo tutti tenevano le braccia e le mani callose come delle appendici inerti, giù lungo i fianchi, in posizione per loro poco naturale. La giornata era bella, il lavoro li attendeva come ogni giorno, ma c’era sempre quel problema che si frapponeva alla loro faticosa giornata, ed adesso erano lì, per la prima volta, a chiedere qualcosa che non sapevano neanche loro come dire, anche se si sentivano convinti, determinati.

La casa appariva silenziosa, tutti invidiavano quello stupendo loggiato con le travi di legno sulla facciata di pietra; e poi quel giardino, quel meraviglioso pezzo di verde punteggiato dai mille colori dei fiori. Loro si tenevano fuori dal grande cancello di ferro battuto, ma da lì ai tre gradini che immettevano direttamente alla casa, ci saranno stati appena quindici metri. A giudicarlo da fuori, pareva quasi che in casa non ci fosse nessuno, ma loro sapevano che non era così.

Le loro richieste erano sciocche, si trattava di avere esattamente il salario che prendevano i braccianti nelle terre vicine, né uno di più né uno di meno, perché oramai provavano quasi vergogna quando al sabato sera andavano in paese e si mettevano a parlare con gli altri operai agricoli. Era una questione di giustizia, nient’altro, altrimenti erano disposti a stare lì, senza far niente, con tutto il lavoro che c’era da fare nei campi. Tutti guardavano la porta di casa, sapevano che il signor Guido tra non molto li avrebbe raggiunti, li avrebbe guardati uno ad uno, forse con sorpresa, forse con severità. Non importava, quel che c’era da fare era quello, nient’altro.

Quel mattino quando si erano ritrovati, dopo giorni che parlavano sempre del medesimo guaio, qualcuno era stato un po’ titubante, ma adesso anche quei due o tre avevano preso coraggio, e tutti erano davanti al cancello, meno che Mauro, il loro caporale, che comprensibilmente era rimasto nel magazzino. Erano quasi le nove, lentamente il portone di casa si era aperto, provocando immediato silenzio tra loro. Erano subito usciti il signor Guido e suo figlio, avevano richiuso la porta alle spalle, poi erano andati verso il cancello.

Cosa succede, aveva detto il signor Guido fermandosi a tre o quattro metri; forse non avete più la necessità di lavorare per me? Mi fa piacere per voi, ma per quanto mi riguarda a me non importa, diceva tutto di un fiato ma scandendo con accuratezza ogni parola, sono già in trattative per prendere altri braccianti, sostituire voialtri, perché tanto da voi non c’è da attendersi che comportamenti spiacevoli. Era una decisione che avevo già preso insieme a mio figlio, che da oggi si occuperà assieme a me dei lavori, non è vero Giovanni?

Certo papà, disse con voce decisa il ragazzo, non vedo assolutamente perché dovremmo perdere tempo con queste persone: c’è del lavoro da fare giù nei campi, è bene che qualcuno lo faccia, senza tanti tentennamenti. I braccianti cercarono di dire qualcosa a quel punto, ma si misero assurdamente a parlare tutti assieme, componendo una confusione incomprensibile, e in quella il signor Guido e suo figlio Giovanni si voltarono indietro, come se non avessero da ascoltare niente e nessuno, riprendendo il vialetto fino alla casa e sparendo dietro al portone.

Bruno Magnolfi

Scena n. 10. Due donne



La donna giovane è seduta, immobile, al margine della fioca luce che emana da una lampadina al centro del palco. Dice: questa notte non sarà come le altre, gli uomini riusciranno finalmente nell’impresa, torneranno a casa vittoriosi, a testa alta, orgogliosi di tutto ciò che saranno riusciti a fare. Non so perché io sia certa di questo, ma è come se dentro me stessa non trovasse sede alcun dubbio.

L’altra donna è in piedi, curva sopra al tavolino di legno proprio sotto alla luce della lampadina, sta preparando qualcosa da mangiare, impastando acqua e farina. Dice: è una notte strana, questo si, ed è giusto che la speranza alimenti i nostri sforzi, ma tutto domani rimarrà semplicemente com’era, com’è sempre stato, e continueremo a vivere così, fino a quando dimenticheremo perfino i motivi di ogni nostro sacrificio, la tua sicurezza di adesso è solo un artificio della mente che ti viene in aiuto.

Non devi dire così, la interrompe la donna giovane, verrà pure trovato un sistema che riesce a sopraffare questo nostro dolore, questa vita da niente, queste espressioni sempre serie, costituite soltanto di rassegnazione. Sono convinta che questa è la notte che vale per tutte, gli uomini sapranno cavarsela, tenere testa al nostro cattivo destino, tornare da noi stringendo una nuova esistenza, ad iniziare da subito, da oggi stesso.

Tu sei giovane, dice l’altra donna interrompendo il lavoro per osservare le mani bianche di farina e sotto a quella la sua pelle ruvida, quasi grinzosa; non puoi ancora capire cosa significa guardare al futuro senza più avere neppure la volontà di vederlo diverso. Poco per volta ci si piega a questa realtà, si subisce ciò che ci è stato donato, arriva addirittura il momento in cui sembra che non possa essere neppure diverso da ciò a cui ormai ci siamo del tutto abituati. Ci sono stati momenti in cui anch’io come tutti mi sono detta, guardandomi dentro ad uno specchio: se non avessi mai sperato qualcosa di diverso, forse sarei stata felice; se non avessi mai fantasticato affondando la mia mente dentro a un sogno, forse oggi non mi peserebbe questa vita essenziale, di acqua e di farina. Non voglio convincerti di niente, ma forse per te questo può essere un motivo per riflettere meglio sopra la realtà, su ciò che dobbiamo attenderci, su tutto.

No, dice la giovane, questo che dici adesso io non vorrò mai pensarlo; la nostra vita sarà diversa sin da domani, ma non perché saremo diversi noi, solo perché sarà migliore la nostra condizione, sollevata da questa cappa nera che ci obbliga spesso ad essere ostili ognuno contro gli altri. Non ci vuole molto, è sufficiente cambiare quei principi che ci costringono continuamente ad essere così, il resto dipenderà solo da noi, dalla nostra volontà. I nostri uomini sapranno dar battaglia a tutta questa condizione, ne sono sicura, il futuro sarà il nostro riscatto. Ecco, ascolta, sento già le loro voci, stanno già tornando, sono qui.

Bruno Magnolfi

(Profilo n. 2). La stanza dell'arte.




Certe volte mi ritrovavo a camminare quasi in punta di piedi entrando in casa della signorina Adelaide, dopo che una mano invisibile aveva fatto scattare il meccanismo di apertura del portone. Percorrevo tutto il lungo corridoio di marmo lucido, sempre poco illuminato per chi veniva da fuori, con varie porte chiuse a destra e a sinistra, e arrivavo svelto alla fine, dove si apriva la grande stanza dove la signorina Adelaide dava lezioni di italiano, di disegno e di musica. Io restavo sulla soglia ogni volta, attendevo paziente che lei mi facesse cenno di entrare guardandomi un attimo, ma senza cambiare mai di espressione, sistemando qualche foglio o concludendo la lezione che precedeva la mia.

Aveva i capelli nerissimi e lunghi, legati stretti alla nuca in una sottile e lunga treccina, e quando a volte io arrivavo con cinque minuti di anticipo e mi trovavo ad ascoltare qualche ultima scala suonata da mano insicura al pianoforte di legno scuro nell’angolo, con la sua mezza coda, avvertivo con meraviglia come quegli ultimi accordi ronzanti riempissero mirabilmente tutta la stanza, quasi che quelle corde percosse dai martelletti felpati non desiderassero smettere più, persino una volta richiuso lo sportello della tastiera. In altri casi intravedevo qualche disegno stupendo tracciato a matita su dei fogli bianchi, di carta ruvida, appoggiato sul cavalletto o sul tavolo, ed io, che prendevo soltanto lezioni di letteratura italiana, mi chiedevo come poteva, la signorina Adelaide, spostarsi con grande sicurezza e modestia da un campo a quell’altro, e racchiudere in sé tutta quella sapienza, quella grande maestria.

Ci scambiavamo un saluto con coloro che, terminata la lezione, di qualsiasi materia fosse stata, si apprestavano ad andarsene via, quasi come una piccola solidarietà tra noi ragazzi che frequentavamo la casa, al cospetto del fascino che emanava da quella stanza d’artista. La signorina Adelaide era pronta in un attimo, e in un attimo solo cambiava materia come scivolandoci sopra, da una disciplina a quell’altra, spostandosi dal cavalletto alla grande scrivania ingombra di testi, o da questa alla panca del pianoforte, in quel grande ambiente disadorno di tutto, se non di quegli strumenti magnifici.

Qualcuno di noi allievi cercava soltanto di immaginare le cose meravigliose che potevano uscire da quella stanza quasi irreale, da quelle mani affusolate e fantastiche, una volta rimaste da sole; si diceva, tra noi ragazzi che frequentavamo la casa, che la signorina certe sere sciogliesse quella sua treccia, e si mettesse a suonare al pianoforte della musica lenta, sottotono, magnifica, per proseguire più tardi con dei ritratti di sogno tracciati sopra la carta con del semplice carboncino; e infine che avesse riposta dentro al cassetto una raccolta infinita di poesie scritte da lei, un verso ogni giorno, quando la notte si portava più avanti.

Si era sicuri che c’era la mamma dietro ad una di quelle porte sempre ben chiuse: una vecchia coi capelli bianchi e il passo malfermo, che qualcuno aveva intravisto certe volte entrando di fretta. Altro non si sapeva, se non che la signorina Adelaide non si incontrava mai per la strada o in qualche negozio, come se la sua vita fosse stata tutta là dentro, e da nessun’altra parte. Poi, un giorno qualsiasi, si seppe che la mamma era morta, così, all’improvviso, e che la signorina Adelaide non avrebbe più dato lezioni. Restammo male, quasi tutti, e alcuni di noi continuarono a chiedersi cosa potesse mai farne adesso di quella stanza stupenda, la stanza del’arte. Infine, una sera, passai da lì quasi per caso, camminando per strada senza neppure pensare, e appresi da un cartello in bella evidenza, che la casa era in vendita: è tutto finito, pensai con tristezza, il sogno della signorina Adelaide probabilmente è svanito, era inevitabile che dovesse interrompersi; oppure no, riflettei rivedendo davanti a me in un lampo la stanza dell’arte. Forse lei prosegue ancora con il suo progetto, va avanti come sempre a mescolare le arti: forse semplicemente si sposta da qualche altra parte, in un’altra città; ma certo, è proprio così, continuavo a pensare, perché per essere come la signorina Adelaide c’è bisogno di cambiare le cose, di respirare aria nuova, ogni tanto, forse di sentirsi addirittura diversi.

Bruno Magnolfi

venerdì 29 ottobre 2010

Analisi di un gesto

Lei era rientrata dentro casa, nell’ingresso si era tolta il soprabito, aveva dato giusto uno sguardo dentro allo specchio ovale, come sempre faceva quando ci passava davanti, (era qualcosa di cui non riusciva a fare a meno), poi si era affacciata al piccolo studio. Lui si era voltato, l’aveva osservata: ciao, aveva detto con un certo distacco. Lei lo aveva guardato, ma non aveva risposto, limitandosi ad una semplice occhiata, poi si era subito spostata nella stanza adiacente, aveva pigiato il pulsante della televisione e si era seduta su una poltrona, accendendosi una delle sue sigarette e preoccupandosi immediatamente del posacenere.

Sul tavolino basso, di vetro, aveva osservato un foglio piegato del quale non aveva memoria, così lo aveva preso ed aperto, giusto per leggere la pubblicità di qualcosa. Si sentiva nervosa, non le piaceva quello starsene lì senza combinare un bel niente, così aveva preso con sé il posacenere per spostarsi in cucina. Dalla finestra aveva intravisto la sua vicina di casa che stava annaffiando delle piccole piante sul suo davanzale fiorito, e per un attimo l’aveva invidiata, lei e tutta la calma che riusciva a mostrare. Così aveva aperto il frigorifero, deciso mentalmente cosa cucinare per quella sera, e alla fine era tornata a guardare ancora dalla finestra.

Le veniva da piangere, certe volte, solo ad osservare la vita tranquilla di tutti coloro su cui le cadevano gli occhi. Dalla stanza al fondo del corridoio la televisione continuava a trasmettere notizie di cronaca: ne sentiva il gracchiare sommesso, le pareva già di sapere tutte quelle parole che venivano usate, le frasi brevi, a volte smozzicate, di quei giornalisti ordinari che dicevano le cose come andavano dette, assomigliandosi tutti. Infine la sua vicina di casa aveva richiuso i vetri della finestra, abbassato la tapparella fino a sfiorare le parti più alte delle sue piante, e a lei era parso bello quel minimo di rispetto per loro.

Infine aveva spento la sua sigaretta schiacciandola nel posacenere, e si era affacciata nuovamente allo studio: lui era immerso ancora nel suo lavoro, le voltava le spalle, pareva non gli interessasse di niente se non di quello che stava facendo. Lei si era sentita dispiaciuta di non aver preso con sé un coltello dal cassetto della cucina: sarebbe stato quello probabilmente il momento più adatto per vibrargli un fendente in mezzo alle scapole, a lui e al suo maledetto lavoro. Invece gli chiese sottovoce cosa volesse per cena. Lui rimase un attimo immobile, poi si voltò lentamente, si alzò dalla sedia, le andò incontro con pochi passi leggeri. Poi le prese le spalle, l’abbracciò con dolcezza, forse si rese conto che nulla tra loro stava andando per il verso giusto, così, invece di rispondere, in un soffio disse soltanto: ti porto fuori per cena, ti va?

Bruno Magnolfi

mercoledì 27 ottobre 2010

Analisi di un gesto




Lei era rientrata dentro casa, nell’ingresso si era tolta il soprabito, aveva dato giusto uno sguardo dentro allo specchio ovale, come sempre faceva quando ci passava davanti, (era qualcosa di cui non riusciva a fare a meno), poi si era affacciata al piccolo studio. Lui si era voltato, l’aveva osservata: ciao, aveva detto con un certo distacco. Lei lo aveva guardato, ma non aveva risposto, limitandosi ad una semplice occhiata, poi si era subito spostata nella stanza adiacente, aveva pigiato il pulsante della televisione e si era seduta su una poltrona, accendendosi una delle sue sigarette e preoccupandosi immediatamente del posacenere.

Sul tavolino basso, di vetro, aveva osservato un foglio piegato del quale non aveva memoria, così lo aveva preso ed aperto, giusto per leggere la pubblicità di qualcosa. Si sentiva nervosa, non le piaceva quello starsene lì senza combinare un bel niente, così aveva preso con sé il posacenere per spostarsi in cucina. Dalla finestra aveva intravisto la sua vicina di casa che stava annaffiando delle piccole piante sul suo davanzale fiorito, e per un attimo l’aveva invidiata, lei e tutta la calma che riusciva a mostrare. Così aveva aperto il frigorifero, deciso mentalmente cosa cucinare per quella sera, e alla fine era tornata a guardare ancora dalla finestra.

Le veniva da piangere, certe volte, solo ad osservare la vita tranquilla di tutti coloro su cui le cadevano gli occhi. Dalla stanza al fondo del corridoio la televisione continuava a trasmettere notizie di cronaca: ne sentiva il gracchiare sommesso, le pareva già di sapere tutte quelle parole che venivano usate, le frasi brevi, a volte smozzicate, di quei giornalisti ordinari che dicevano le cose come andavano dette, assomigliandosi tutti. Infine la sua vicina di casa aveva richiuso i vetri della finestra, abbassato la tapparella fino a sfiorare le parti più alte delle sue piante, e a lei era parso bello quel minimo di rispetto per loro.

Infine aveva spento la sua sigaretta schiacciandola nel posacenere, e si era affacciata nuovamente allo studio: lui era immerso ancora nel suo lavoro, le voltava le spalle, pareva non gli interessasse di niente se non di quello che stava facendo. Lei si era sentita dispiaciuta di non aver preso con sé un coltello dal cassetto della cucina: sarebbe stato quello probabilmente il momento più adatto per vibrargli un fendente in mezzo alle scapole, a lui e al suo maledetto lavoro. Invece gli chiese sottovoce cosa volesse per cena. Lui rimase un attimo immobile, poi si voltò lentamente, si alzò dalla sedia, le andò incontro con pochi passi leggeri. Poi le prese le spalle, l’abbracciò con dolcezza, forse si rese conto che nulla tra loro stava andando per il verso giusto, così, invece di rispondere, in un soffio disse soltanto: ti porto fuori per cena, ti va?

Bruno Magnolfi

(Profilo n. 1). L'uomo inutile







Oggi sono rimasto in casa, da solo, ed ho ascoltato i leggeri rumori che giungono spesso da fuori, attraverso i vetri delle finestre. Qualcuno poi si è messo ad urlare delle cose, giù nella strada. Altri hanno risposto con il medesimo tono, in malo modo, con voci sguaiate, e infine ho udito il mio nome gridato con rabbia, come un’offesa, o una brutta parola. Sono rimasto immobile, dietro la tenda, ho immaginato un complotto contro di me, contro ai miei stati d’animo, forse.

Ho guardato la mia casa in silenzio, i miei mobili, le pareti dipinte di bianco. In fondo il mio è un nome comune, ho pensato, quelle persone potevano riferirsi a chiunque, non necessariamente a chi magari neppure conoscono. In strada è tornato il silenzio, poco dopo, o almeno i rumori usuali del traffico e della gente che va avanti e indietro sui marciapiedi. Così dopo un po’ mi sono disinteressato di tutto, ho girato per casa cercando qualcosa, ho guardato sui mobili, dentro ai cassetti, fino a quando ho dimenticato del tutto di che cosa avevo bisogno.

Infine ho indossato il cappotto e sono uscito giù in strada per vedere se c’era ancora una traccia di quella discussione che avevo ascoltato da casa. Tutte le persone adesso parevano muoversi disinvolte, come sempre facevano: ho guardato la piazza giù in fondo, e sulle panchine ho intravisto in lontananza gli uomini anziani seduti, come ogni giorno.

Allora sono entrato dentro al negozio del salumiere, ho detto buongiorno, mi sono messo ad aspettare che giungesse il mio turno, dopo le due o tre persone prima di me. Tutto pareva ordinario, come qualsiasi altra mattina. Infine gli altri clienti sono usciti da quel negozio, uno per volta, ed io sono rimasto da solo col salumiere. Lui mi ha guardato, mi conosce di vista, mi ha chiesto di che cosa avevo bisogno, mentre continuava a sistemare qualcosa sul banco.

Ho risposto che avevo solo necessità di un pezzo di pane, lui è tornato per una frazione di tempo a guardarmi, ha preso una pagnotta dietro di sé, l’ha pesata e riposta dentro un sacchetto di carta. Ho chiesto, mentre tiravo fuori dei soldi, cosa fosse accaduto quella mattina, lì nella strada, si era sentito persone che urlavano, ho detto, forse qualcosa di grave, non so. Il salumiere ha scandito con voce usuale il prezzo del pane, poi si è inclinato in avanti, sopra al suo banco.

Ce l’avevano tutti con lei, stamattina, ha spiegato, qualcuno ha tentato persino di difenderla, ma ha avuto la peggio. Gli altri volevano correre su, a casa sua, per dirle ch erano stufi di sopportare una persona che non serve a un bel niente, un parassita che non si preoccupa degli altri, solo di sé, della sua intimità dietro ai suoi muri di casa. Hanno detto tutti che ormai è terminato il tempo in cui erano tollerate situazioni del genere, adesso, ha aggiunto più sottovoce, la vogliono vedere per strada, senza riparo, che affronta la vita come tutti noi altri, e prende anche lei una posizione precisa, a viso aperto, come è giusto che sia.

Ho pagato con titubanza quanto richiesto dal salumiere, l’ho salutato, sono uscito di nuovo sul marciapiede, e ho visto due uomini giovani, fermi, che mi hanno guardato. Non sarò mai come voi, ho detto quasi sbalordendomi; dentro di me alligna qualcosa di diverso, non mi interessa se dovrò pagare per questo, e non mi importa se devo lottare per mostrare a tutti chi sono. Poi ho subito pensato che stavo solo cedendo al loro stupido gioco, così ho raggiunto velocemente il portone di casa, sono rientrato, e mi sono sentito subito meglio.



Bruno Magnolfi

Una donna perduta


Non c’è niente di strano, diceva lui continuando a fumare, senza guardarla, seduto al tavolo di cucina con aria svogliata. Lei non amava fare domande, così le parve che non ci fosse neppure bisogno di continuare a parlare di quell’argomento. Era convinta che avere dei segreti non provocasse la fine del mondo, certo, ma la scioltezza con cui lui faceva tutto quanto, e la maggior parte delle volte a sua completa insaputa, senza neppure accennarle qualcosa, non rivelasse un’idea di rapporto maturo quale in fondo lei credeva fosse il loro.

Si cambiò d’abito, poi disse che usciva, voleva riflettere le cose con calma, da sola. Camminò lungo i soliti marciapiedi che si snodavano nel loro quartiere, osservando le persone che mostravano fretta in quell’ora serale, coloro che ridevano scambiando opinioni su una cosa o sull’altra, gli individui da soli, che certe volte apparivano come sperduti, tra quelle strade, le case, i negozi, i palazzi, tutti pieni di estranei, come un selva di sconosciuti completi, che probabilmente avevano dentro la testa pensieri diversi dai suoi, e che forse optavano per modi diversi di vivere.

Si fermò in un caffè, si fece servire un aperitivo frizzante, tanto per tirarsi su di morale, osservando le poche persone che tiravano tardi prima dell’ora di cena. Poi uscì, rinfrancata, ma senza motivo. La sera aveva una luce stupenda, le auto parevano inseguirsi tra loro con i fari puntati, scivolando sopra l’asfalto nella ricerca di qualcosa che ne giustificasse la corsa, e gli autisti proseguivano a pigiare pulsanti, pedali, azionare le leve, come elementi di modernità inalienabili.

Lei proseguiva a pensare, rifletteva sulla sua vita, cercava un motivo dentro di sé con cui sentirsi appagata, ma era inutile, non c’era nessuna cosa di cui fosse contenta, neppure di sé, delle sue considerazioni improvvise: le sue giornate erano composte di materiale povero, pensava, privo anche di parti migliori, che brillassero almeno una volta per dar mostra di loro.

Una coppia di uomini giovani, che le camminavano davanti una decina di metri, entrarono in fretta dentro a un grande portone di un antico palazzo, lasciando aperto dietro di loro. Lei rallentò, guardò attorno a sé quel tratto di marciapiede in quel momento deserto, infine scivolò lentamente anche lei dentro all’ingresso, chiudendosi dietro. Sul fondo di quell’androne, le scale di pietra serena apparivano belle e importanti girando attorno ad un ascensore che in quel momento stava salendo, avvolto in una gabbia di ferro battuto con la cabina di legno e di vetro.

Prese le scale, raggiunse il vasto pianerottolo del primo piano dove si aprivano due portoncini simmetrici, e restò lì, per un attimo, come a scrutare ogni cosa da cui si sentiva circondata ed attratta. Non avvertiva rumori, se non da qualche piano più in alto, dove forse i due uomini giovani erano giunti. Infine premette il campanello in ottone che riluceva alla destra del portone dove era riportato un nome che pareva importante, e qualcuno giunse ad aprire, restando per un momento in silenzio, guardandola: per favore, disse lei con parole senza l’uso di accenti, mi sono perduta.

Bruno Magnolfi

martedì 26 ottobre 2010

Scena n. 9. La ricerca della normalità




La luce rischiara una sedia sul palco, nient’altro, solo un uomo seduto, di mezza età, con le mani appoggiate sopra le gambe. Ho sempre cercato di essere retto, dice l’uomo, di seguire gli insegnamenti con cui sono stato educato, al mio fianco ho avuto per tutti questi anni Cecilia, che può confermarlo. Ci sono state anche per me delle occasioni, dei momenti più fortunati, in cui la vita ha voluto apparirmi benevola, accondiscendendo qualche volta alle mie aspirazioni, permettendomi di saltare qualche passaggio nella difficile scalata per raggiungere una vita normale.

Ma io non ho mai forzato le cose, non ho approfittato, forse Cecilia può testimoniare quanto io sia sempre stato alle regole, senza mai cercare di essere più furbo di altri. Ho lavorato, questo si, spesso impegnandomi in cose di cui certe volte neppure ho compreso lo scopo, ma l’ho fatto ugualmente, senza battere ciglio, perché sentivo dentro di me che era quello il dovere a cui dovevo rispondere, e a null’altro. Ci sono stati giorni difficili, in cui ho avvertito che tutto perdeva di senso, ma io non mi sono mai scoraggiato del tutto, c’era Cecilia con me, ho cercato di far forza su ciò in cui credevo e ho guardato in avanti, evitando di apparire con gli altri un uomo fiaccato da debolezza.

Ho conosciuto molte persone, ho avuto delle grandi amicizie, con loro mi sono confidato, ho chiesto aiuto quando ne ho avuto bisogno, e ne ho dato quando gli altri mi sono sembrati in difficoltà. Ho cercato di costruire una casa, concretizzare un futuro, pensare giorno per giorno a tutto ciò di cui avrei avuto bisogno, Cecilia lo sa, e mi sono profuso nella ricerca di un vita possibile, quella a me più vicina, più adatta, più giusta, e mi sono sentito un gigante quando ho visto che giorno per giorno le cose progredivano davanti ai miei occhi.

Ma una volta Cecilia mi ha detto che non era questo ciò che lei voleva per la sua vita, o almeno non era sufficiente, a lei non bastava tutto quello che avevo cercato di fare fino ad allora. Mi ha detto che la normalità in cui ero caduto poco per volta aveva una sembianza così disarmante che lei non poteva pensare di proseguire così, doveva allontanarsi da me, ne andava della sua stessa vita. Così ho lasciato che tutto arrivasse al suo compimento, ho voltato lo sguardo dietro di me e ho visto che nella mia esistenza in fondo non c’era stato mai niente di bello se non la presenza di Cecilia che adesso avevo perduto. Mi sono seduto, proprio come adesso, mi sono interrogato, e alla fine ho concluso che niente è valsa la pena del mio faticoso percorso, neppure Cecilia, neppure la mia ricerca perenne di essere uomo, uno come tutti, senza differenze apparenti.

Bruno Magnolfi

domenica 24 ottobre 2010

Nel silenzio della campagna



Forse si è solo allentata una coppiglia, pensava Alfredo mentre continuava a lavorare con il suo escavatore. Quando arrivava a tirare su la terra ed il fango per sistemarla sull’argine del fosso, ecco che sentiva una specie di scatto e un cigolio. Si era fermato, era sceso dalla cabina, aveva dato un’occhiata al braccio meccanico. Sembrava tutto a posto, forse era soltanto un po’ di gioco sul perno principale, aveva sentenziato tra sé. Però non si sentiva tranquillo, era da solo a lavorare in quel tratto di campagna, alla manutenzione del fosso di bonifica, se l’escavatore si fosse inceppato avrebbe dovuto piantare lì tutto e andare a cercare un meccanico.

Il suo lavoro era monotono, sempre con il ronzio del motore dentro le orecchie, e poi quelle leve da azionare sempre alla stessa maniera, con morbidezza, ad evitare scatti repentini del braccio. Si faceva l’abitudine a tutto, anche alla ripetizione ossessiva di quelle operazioni: muoversi in avanti sui cingoli di un paio di metri, ruotare la cabina, abbassare il braccio, azionare la benna, e così via, fino a non pensare neanche più a ciò che si stava facendo, visto che quei medesimi gesti parevano quasi andare avanti da sé.

Quel pomeriggio era bello, la terra nei campi vicini appariva più scura del solito, a contrastare con il cielo limpido, privo di nubi. La strada asfaltata dove Alfredo aveva parcheggiato la sua auto, era circa un chilometro più avanti, nella direzione dell’argine; a lui non pesava starsene lì tutto il giorno: ci avrebbe impiegato due settimane a far tutto, ma a lui gli piaceva quel lavoro, liberare la fossa prima delle piogge invernali era un servizio importante, allontanava la possibilità degli allagamenti, quindi era un bene per tutti, e lui si sentiva orgoglioso di farlo.

Pensava proprio questo quando, lentamente, camminando lungo il ciglio rialzato, si era avvicinato un ragazzo, avrà avuto vent’anni, forse anche meno; aveva atteso che Alfredo fermasse il braccio del suo escavatore, lasciando rallentare il motore affinché il rumore non coprisse le sue parole, poi si era accostato alla cabina, e infine aveva detto: ho perso il mio cane da queste parti, è stato ieri mattina. E’ un boxer, ha fatto una corsa dietro a qualcosa ed è sparito dentro alla vegetazione di quei cespugli laggiù. Lei lo ha visto, per caso? Alfredo disse di no, però ricordava di aver notato qualcosa che si muoveva, appunto il giorno passato; qualcosa nell’erba più alta, oltre l’argine opposto, tanto che lui si era fermato per capire cos’era, ma non aveva visto nient’altro.

La ringrazio, disse il ragazzo, e con la medesima camminata con cui era arrivato, tornò sui suoi passi. Alfredo spinse la leva dei giri del motore e rimise in funzione il suo escavatore, continuando il lavoro. Non passò molto tempo, forse un’ora, il ragazzo era sparito, forse era già andato via, e smovendo la fanghiglia del fosso Alfredo vide che c’era qualcosa. Scalzò la terra con delicatezza, girò attorno a quel punto con la benna quasi fosse la sua stessa mano, e poco per volta tirò su il corpo di un cane, indubbiamente proprio quel boxer che cercava il ragazzo. Lo depose sull’argine, poi scese dalla cabina.

Non ci pensò neanche molto, tornò ai comandi del suo escavatore e fece una buca lì accanto, sul punto più alto, ma abbastanza profonda, poi sotterrò quel povero cane, ricoprendolo poco per volta, con attenzione. Alla fine scese di nuovo e preso un piccolo ramo di un albero, lo piantò nella terra, come per la segnalazione di quella sepoltura. Forse il ragazzo sarebbe tornato, pensò, avrebbe potuto ritrovare quel posto. Dopo si sentì debole, Alfredo, anche stanco, quasi senza forze, e fu forse contento di sentirsi così. Allora piazzò l’escavatore in posizione di sicurezza, come sempre faceva alla sera, spense il motore e chiuse a chiave la cabina, in piedi sul cingolo: per quel giorno non aveva più voglia di andare ancora avanti con la pulizia di quel fosso, e poi quella macchina aveva qualcosa che non era a posto, sarebbe dovuto tornare il giorno seguente con il meccanico, pensò, e poi bisognava avere rispetto, per adesso in quella campagna era giusto regnasse il silenzio.

Bruno Magnolfi

Consapevolezza di se'


La signora Lo Cascio è in casa, si accosta ad una finestra e guarda il tratto di strada davanti alla sua abitazione, aprendo leggermente la gelosia ad una persiana del piano superiore. E’ un gesto consueto negli ultimi tempi, prima di uscire si assicura sempre che tutto sia a posto davanti al suo cancello di ferro battuto e lungo il marciapiede della sua strada. Spesso continua a girare avanti e indietro per ore in quelle sette stanze dagli alti soffitti che compongono quella sua casa, ordinate su due piani con gli ingressi e le nobili scale di pietra con il corrimano di legno massiccio, oltre al minuscolo ma dignitoso giardinetto di fronte, e quando si tratta di uscire ci pensa sempre più di una volta.

Quando c’era suo marito le cose giravano in maniera diversa: avevano una donna di servizio a quel tempo, che si occupava di fare gli acquisti, e lei non aveva alcuna necessità di andare per negozi, se non quando ne sentiva la voglia. Da due anni invece tutto è cambiato: lei adesso è vedova, non si può più permettere personale di servizio, abita da sola in una casa enorme e questo certe volte le pesa, e se una volta dedicava il suo tempo alle disposizioni dei soprammobili, a scegliere il colore migliore per i tappeti, o a rendere il pranzo e la cena dei riti di cui si faceva umile interprete, adesso ha dovuto imparare a cucinarsi qualcosa da sola, e le sue giornate appaiono vuote quasi di tutto, se non di quell’occuparsi di sé, di quelle attività così estremamente ordinarie.

Infine esce, la signora Lo Cascio, aggiustandosi più volte davanti a uno specchio il soprabito e il cappellino da vecchia madame, avanti di affrontare incontri inaspettati che potrebbero fornire cattivi giudizi attorno al suo tenore di vita o su di lei in generale. Il suo itinerario è sempre lo stesso, i due o tre negozi di generi alimentari intorno alla piazza vicina, l’edicola dei giornali per qualche rivista, un’occhiata furtiva nella vetrina della boutique di abbigliamento poco distante.

Tornare a casa è sempre un atto di grande soddisfazione per lei: là dentro restano comunque la sua vita, i suoi ricordi, ciò che ha sempre cercato di essere, i suoi oggetti preziosi e comunque usuali. Ma da ieri qualcosa è diverso, ha incontrato per strada una persona che ha detto qualcosa, senza neppure guardarla, come riferendosi all’aria, o a chiunque; con voce chiara e buona dizione ha spiegato che le cose stanno velocemente cambiando, e che tutto è destinato a crollare. La signora Lo Cascio in un primo tempo non ha dato importanza a quelle parole, ma in seguito ha iniziato a pensarci. Lei non vorrebbe, ma fosse vero ciò che si dice, non avrebbe più senso per lei conservare quel suo andamento di vita. Chi è lei, ha iniziato a chiedersi con insistenza, se non la vedova di un famoso chirurgo che le ha lasciato una stanza piena di libri e tantissime fotografie polverose?

Non che avesse mai avuto nella mente un comportamento diverso da quello che segue ogni giorno, la signora Lo Cascio, specialmente in qualità di persona ormai anziana quale si sente, però lei immagina adesso che molte cose durante quella sua vita di moglie del famoso chirurgo le siano sfuggite, che in tutti quegli anni lei non abbia portato a compimento neppure qualcosa di ciò per cui si sentiva portata. Nessuno le ha mai detto cosa fare e cosa evitare, sia chiaro, ma per lei ogni fase della sua esistenza si è susseguita senza il bisogno di una sua esatta opinione, lasciandola forse nell’immobilità, quasi che tutto le scorresse vicino, a portata di mano, tanto da non farle scegliere niente, come se tutto fosse già prefissato, o meglio, quasi scontato.

La signora Lo Cascio entra in casa e si siede. Sarebbe facile e naturale adesso per lei proseguire con ciò che è stata da sempre, ma ora un profondo senso di vuoto la prende. Ci pensa, sa che ci sono moltissime cose che non ha fatto mai, ci sono tanti pensieri che non ha mai avuto, forse ha perduto tantissime cose, pensa, senza una consapevolezza pur minima. Ci pensa, quella casa è un museo, dice tra sé, come per sentire come suonano quelle parole, ed io ne sono una parte. Così, per la prima volta, si sente perduta, gira ancora per casa, osserva le scale di pietra, gli arredi, le stanze dagli alti soffitti. Niente posso fare, dice ancora tra sé, ma già solo sapere tutto questo, avere una coscienza precisa di ciò che io sono, è per me una consolazione notevole.

Bruno Magnolfi

Estranea alle persone intorno



C’è sempre un sacco di gente davanti alla fermata dell’autobus a quest’ora, proprio quando esco dal mio lavoro. Sembrano tutte persone distanti, quasi diverse da me; certe volte penso: chissà ognuno di loro cosa fa in tutto il giorno, oppure quali saranno i suoi pensieri mentre sta qui, sul marciapiede, a riflettere chissà mai su che cosa? In fondo non ha alcuna importanza, io tengo ben stretta la mia borsa e penso soltanto ai fatti miei. Guardo l’orologio, tra due minuti arriverà il diciassette, io salirò, timbrerò il mio biglietto, mi piazzerò come sempre nell’angolo in fondo, e tempo venti minuti sarò quasi a casa.

Mi guardo attorno, ci sono sempre un sacco di brutte facce che girano da queste parti; non che si debba giudicare tutti dall’espressione del viso o da come sono vestiti, però non mi sento tranquilla a questa fermata, a quest’ora poi, quando la luce del giorno se ne va, e i lampioni e i fari delle auto mostrano una realtà più tagliente, più confusa, quasi violenta. Ma io tengo ben stretta la borsa sotto al mio braccio, non mi può succedere niente. Certe volte immagino che se per disattenzione cadessi per terra, nessuno mi darebbe una mano a rialzarmi, e questo mi pare terribile.

Non riesco proprio a capire come facciano certe ragazze che girano serene in questi paraggi, magari con le gonne più corte di quanto dovrebbero essere, o le scollature vistose. A me non importa, mi stringo dentro me stessa e vado avanti, per la mia strada, qualsiasi cosa succeda. Non guardo nessuno, mi sistemo dove ritengo di non intralciare il passaggio, e sto lì, aspetto l’autobus senza che niente mi distolga dalla mia attesa.

In questo tratto di strada c’è sempre un movimento continuo di macchine, e gruppi di pedoni traversano da un marciapiede a quell’altro. Spesso qualcuno frena un po’ bruscamente davanti ad un passante sbadato, oppure ci sono altri che credono di essere furbi e vanno a tutta velocità da un semaforo a quello seguente. Mi sembra tutto tremendamente pericoloso, come se davanti a questa fermata dell’autobus si sfiorasse ad ogni minuto una di quelle tragedie di cui da tutte le parti si sente parlare.

Dentro alla tasca sfioro con la punta delle dita il biglietto dell’autobus e mi sembra già di essere via, lontana da qui. Un senso di smog e di polvere rende tutto sgradevole da queste parti, quasi che niente potesse essere neppure sfiorato, senza raccogliere da ogni superficie una patina di sporco. Non mi accadrà niente, ripeto qualche volta tra me, e intanto mi stringo di più tra l’impermeabile e la borsa che ho sotto al braccio.

Poi si avvicina qualcuno, un uomo, forse straniero; mi chiede dove andare per raggiungere una strada che è lì nei paraggi, ed io la conosco, so dov’è, potrei dargli le spiegazioni che cerca. Lo guardo, ma soltanto un momento, vedo dietro di lui che sta arrivando il mio autobus, si, è proprio il diciassette, la linea che porta nei pressi della mia abitazione, così fingo di non capire, di non sapere niente della strada che cerca, lo scarto, con il semplice gesto del braccio, e infine salgo sul mezzo pubblico insieme a tanta altra gente, e timbro finalmente il biglietto.

Non mi interessa un bel niente dei problemi degli altri, penso, devo stare ben attenta che a me non succeda qualcosa, qualcosa di cui magari in seguito ritrovarmi assolutamente pentita, di cui rammaricarmi per chissà quanto tempo, come una sciocca; proprio perché ci vuole un attimo, una sciocchezza, per rimanere in balia di un evento a cui non si era pensato, una svista da niente, un incontro casuale, che spesso si presenta così, con la faccia di una persona qualsiasi, e non ti porta proprio niente di buono.

Bruno Magnolfi

Consapevolezza di sé


La signora Lo Cascio è in casa, si accosta ad una finestra e guarda il tratto di strada davanti alla sua abitazione, aprendo leggermente la gelosia ad una persiana del piano superiore. E’ un gesto consueto negli ultimi tempi, prima di uscire si assicura sempre che tutto sia a posto davanti al suo cancello di ferro battuto e lungo il marciapiede della sua strada. Spesso continua a girare avanti e indietro per ore in quelle sette stanze dagli alti soffitti che compongono quella sua casa, ordinate su due piani con gli ingressi e le nobili scale di pietra con il corrimano di legno massiccio, oltre al minuscolo ma dignitoso giardinetto di fronte, e quando si tratta di uscire ci pensa sempre più di una volta.

Quando c’era suo marito le cose giravano in maniera diversa: avevano una donna di servizio a quel tempo, che si occupava di fare gli acquisti, e lei non aveva alcuna necessità di andare per negozi, se non quando ne sentiva la voglia. Da due anni invece tutto è cambiato: lei adesso è vedova, non si può più permettere personale di servizio, abita da sola in una casa enorme e questo certe volte le pesa, e se una volta dedicava il suo tempo alle disposizioni dei soprammobili, a scegliere il colore migliore per i tappeti, o a rendere il pranzo e la cena dei riti di cui si faceva umile interprete, adesso ha dovuto imparare a cucinarsi qualcosa da sola, e le sue giornate appaiono vuote quasi di tutto, se non di quell’occuparsi di sé, di quelle attività così estremamente ordinarie.

Infine esce, la signora Lo Cascio, aggiustandosi più volte davanti a uno specchio il soprabito e il cappellino da vecchia madame, avanti di affrontare incontri inaspettati che potrebbero fornire cattivi giudizi attorno al suo tenore di vita o su di lei in generale. Il suo itinerario è sempre lo stesso, i due o tre negozi di generi alimentari intorno alla piazza vicina, l’edicola dei giornali per qualche rivista, un’occhiata furtiva nella vetrina della boutique di abbigliamento poco distante.

Tornare a casa è sempre un atto di grande soddisfazione per lei: là dentro restano comunque la sua vita, i suoi ricordi, ciò che ha sempre cercato di essere, i suoi oggetti preziosi e comunque usuali. Ma da ieri qualcosa è diverso, ha incontrato per strada una persona che ha detto qualcosa, senza neppure guardarla, come riferendosi all’aria, o a chiunque; con voce chiara e buona dizione ha spiegato che le cose stanno velocemente cambiando, e che tutto è destinato a crollare. La signora Lo Cascio in un primo tempo non ha dato importanza a quelle parole, ma in seguito ha iniziato a pensarci. Lei non vorrebbe, ma fosse vero ciò che si dice, non avrebbe più senso per lei conservare quel suo andamento di vita. Chi è lei, ha iniziato a chiedersi con insistenza, se non la vedova di un famoso chirurgo che le ha lasciato una stanza piena di libri e tantissime fotografie polverose?

Non che avesse mai avuto nella mente un comportamento diverso da quello che segue ogni giorno, la signora Lo Cascio, specialmente in qualità di persona ormai anziana quale si sente, però lei immagina adesso che molte cose durante quella sua vita di moglie del famoso chirurgo le siano sfuggite, che in tutti quegli anni lei non abbia portato a compimento neppure qualcosa di ciò per cui si sentiva portata. Nessuno le ha mai detto cosa fare e cosa evitare, sia chiaro, ma per lei ogni fase della sua esistenza si è susseguita senza il bisogno di una sua esatta opinione, lasciandola forse nell’immobilità, quasi che tutto le scorresse vicino, a portata di mano, tanto da non farle scegliere niente, come se tutto fosse già prefissato, o meglio, quasi scontato.

La signora Lo Cascio entra in casa e si siede. Sarebbe facile e naturale adesso per lei proseguire con ciò che è stata da sempre, ma ora un profondo senso di vuoto la prende. Ci pensa, sa che ci sono moltissime cose che non ha fatto mai, ci sono tanti pensieri che non ha mai avuto, forse ha perduto tantissime cose, pensa, senza una consapevolezza pur minima. Ci pensa, quella casa è un museo, dice tra sé, come per sentire come suonano quelle parole, ed io ne sono una parte. Così, per la prima volta, si sente perduta, gira ancora per casa, osserva le scale di pietra, gli arredi, le stanze dagli alti soffitti. Niente posso fare, dice ancora tra sé, ma già solo sapere tutto questo, avere una coscienza precisa di ciò che io sono, è per me una consolazione notevole.

Bruno Magnolfi

Nella corrente del fiume



Buongiorno, aveva detto l’uomo accovacciato sull’erba mentre passava il ragazzo. L’argine del piccolo fiume era sempre un invitante corridoio per le persone che in giornate solatie come quella andavano su e giù a passeggiare, chi fermandosi per fare due chiacchiere, chi a leggere seduto su una panchina qualche pagina di un libro. Quel giorno era freddo, non c’era quasi nessuno in giro, l’acqua del fiume scorreva leggera, in silenzio, in mezzo ai cespugli e alla vegetazione spontanea.

Il ragazzo era andato fino lì perché quel giorno non aveva nient’altro da fare, e si sentiva curioso delle persone che avrebbe potuto incontrare da quelle parti, in quel parco cittadino, così fu contento quando riconobbe quell’uomo, un amico di suo padre, almeno così gli sembrava, comunque una persona che aveva rivisto altre volte. Si soffermò giusto un momento, forse il tempo giusto per ricordarsi dove aveva già visto quell’espressione che aveva davanti, e l’uomo si alzò, gli rivolse un sorriso, gli disse, come per sciogliere i dubbi, che lui era un amico dei suoi genitori, e andava lì qualche volta tanto per trascorrere qualche pomeriggio che altrimenti appariva noioso.

Il ragazzo lo guardò sorridendo, attese che l’uomo si tirasse su in piedi, seguì con curiosità qualcosa che quello voleva fargli notare. C’è un piccolo branco di pesci, disse l’uomo, lì al centro del fiume, dove la corrente è appena più forte e la profondità è di pochi centimetri; stanno lì, sotto al pelo dell’acqua, e nuotano insieme con lentezza, controcorrente, di fatto restando fermi sul posto.

Ecco, mi piace venire fin qui a vedere quel branco di pesci, stanno lì, nuotano, eppure sono fermi, rimangono sempre in questo tratto di fiume, proprio come spesso facciamo anche noi, che a volte crediamo di fare chissà cosa, di avere nella testa chissà quali grandi pensieri, e neppure ci accorgiamo di essere fermi, immobili, mentre la vita va avanti, ci supera, ci lascia sempre più indietro.

Mi piace farti vedere questa piccola cosa, diceva ancora l’uomo al ragazzo, perché questa vita non sarà per nessuno infinita, e allora dovremo pur sentirsi appagati, prima o poi, di qualcosa che abbiamo fatto o che abbiamo cercato di fare. Perché ciò che conta non è il risultato, non è diventare famosi o lasciare a tutti un segno del nostro ingegno superiore a chiunque, bensì sentirsi contenti di quella piccola cosa per cui ci siamo impegnati, quell’idea in cui abbiamo sempre creduto, che abbiamo coltivato magari nel silenzio di un angolo, certe volte derisi da tutti, lasciati lì a formulare i nostri pensieri, come dei poveri pazzi, isolati.

Il ragazzo osservò l’uomo in silenzio, senza controbattere niente, lui si sentiva lontano da quei ragionamenti, aveva tutta la vita davanti prima di ritrovarsi con se stesso a fare quei conti. Io però ho una fortuna, disse ad un tratto, come per interrompere quell’argomento con un suo pensiero; vede, pur non essendo espansivo, restando a volte in disparte nei confronti degli altri, lasciando spesso che le cose vadano pure per proprio conto, però sono curioso, tutto mi attrae, e guardandomi attorno mi sono accorto che non è proprio da tutti. Non lo so quale sarà la mia vita, però oggi mi piace per esempio stare qui assieme a lei ad osservare quel branco di pesci, perché sento dentro di me che non sarò mai uno che nuota nella corrente giusto per sopravvivere, e anche se oggi mi piace guardarli, quei pesci, sono sicuro che farò di tutto per non essere mai come loro.

Bruno Magnolfi

giovedì 21 ottobre 2010

Dentro queste stanze di casa



La mia gamba è bloccata da un crampo, uno di quelli che rende le fibre muscolari come legno di radica, impossibile da sciogliere. Sto immobile nel letto, da solo, resisto al dolore. Passerà tutto questo, penso, e intanto con i denti serrati rifletto sul tratto di pavimento che mi separa dal mobiletto del bagno dove tengo le medicine. Farei qualsiasi cosa per non sentire dolore, dover sopportare in silenzio mi fa uscire pazzo. Poi tento di alzarmi, appoggio a terra le gambe, sento con i piedi la superficie fredda del pavimento. Decido che è inutile e torno a sdraiarmi.

Il dolore alla gamba si attenua, cerco così di rilassare anche le altre parti del corpo che fino ad adesso sono state in forte tensione, ma all’improvviso mi pare che tutto sia ostile. Il dolore va e viene, mi tiene inchiodato con la mente dentro la gamba, come servisse a qualcosa. Devo farmi aiutare, penso, non posso star qui all’infinito. Fino a due anni fa Corinna abitava con me, non ero da solo, se lei adesso fosse stata qui mi avrebbe aiutato. Chissà dove è andata a finire Corinna, penso, non l’ho più rivista da un sacco di tempo.

Il dolore adesso si è attenuato, ma la mia gamba è preda di un formicolio inusuale, e dal ginocchio fino al piede non sento quasi più niente. Mi siedo, appoggio la gamba sul pavimento, il mio piede non riesce neppure a rendersi conto del freddo delle piastrelle; con la spinta delle mani e delle braccia mi alzo, ma la gamba non regge e cado malamente di fianco. Devo arrivare al telefono, penso, è assolutamente necessario che arrivi fin lì, nell’ingresso del mio appartamento. Mi muovo, striscio per terra tirandomi in avanti con gli avambracci, è una faticaccia, ma non c’è altro sistema.

Arrivo alla porta e mi sento completamente sudato, il crampo riprende, mi contorco per il dolore. Vorrei che questo giorno non fosse mai giunto, penso, mi sento una persona finita, uno che non è neppure riuscito a stare assieme a una donna. Vorrei urlare forte, lamentarmi con tutti coloro capaci di sentire il mio grido, poi mi torna alla mente Corinna, senza motivo. Non sarò più lo stesso, penso, ogni volta che interviene qualcosa del genere tutto cambia dentro di noi. Non resisto, non riesco a sopportare un bel niente, penso, forse è questo il problema più grande.

Respiro forte, sento qualcuno passare lungo le scale condominiali, stanno bene, penso, loro non hanno bisogno di niente. Cerco di muovermi ancora nonostante il dolore, con fatica arrivo fino al mobiletto con sopra il telefono. Mi tiro su, prendo il mano la cornetta mentre il dolore si attenua, e rimango lì, senza sapere a chi chiedere aiuto. Non posso chiamare l’ospedale per una cosa del genere, mi riderebbero dietro e non si muoverebbero di certo. Aspetto qualche momento, infine riappoggio la cornetta sopra la base. Mi pare di sentirmi già meglio, così arrivo nel bagno e cerco un normale analgesico.

Lo trovo, ingollo una pillola bianca e aspetto. Mi siedo sul bordo della vasca da bagno e osservo la mia gamba: è gonfia, forse per un bel po’ di tempo non riuscirò più a camminare correttamente, penso. Immagino che la pastiglia che ho appena ingollato fosse di Corinna, probabilmente lo era veramente, la sua validità sarà terminata chissà da quando. Non importa, penso, anzi mi piace aver preso qualcosa di lei, è come se in qualche modo stessimo ancora insieme. Sento ancora rumori lungo le scale: forse è Corinna, penso, forse è venuta a vedere come sto, se ho ancora bisogno di lei. Poi mi lascio cadere di nuovo sul pavimento: sulle scale è tornato il silenzio.

Bruno Magnolfi

lunedì 18 ottobre 2010

Scena n. 8. L'incubo del cavaliere




Un uomo avanza uscendo dal buio, vestito come un cavaliere di altra epoca. Il suo passo è deciso, lo sguardo fermo si appunta lontano, proprio laggiù dove le colline dai fianchi morbidi svaporano nel grigio di una leggera foschia. Si ferma, resta immobile nella sua posizione sotto alle luci del palco, i suoi occhi non accennano ad alcun tentennamento.

Sono solo, nella mia ricerca di eroismo e di integerrima fedeltà ai miei compiti, dice; guardo avanti, non capita mai che ascolti i miei dubbi, non succede che mi perda tra pensieri tortuosi. Sono fermo, in ogni mia scelta, e affronto il tempo come un contenitore di avversità da affrontare, a viso aperto, senza alcuna indecisione. Eppure, all’improvviso, sento che dentro di me qualcosa sta cambiando, senza che ne capisca il motivo, senza che questa variazione sia determinata da un elemento riconoscibile, da una mia perplessità.

Ho riposato sempre per la grande stanchezza che spesso provo, mai per il gusto di abbandonarmi all’oblio dei sogni e dei pensieri evanescenti; eppure adesso i miei sogni sembra quasi desiderino prendere il sopravvento sulla realtà che mi circonda: hanno iniziato a pormi delle immagini davanti agli occhi, come per una trasformazione della verità, e tutto ha cominciato ad essere diverso per me, tanto da confondermi, da rendere incerto ogni mio passo.

I tuoi fantasmi ti renderanno debole, dice un uomo che sopraggiunge lentamente, vestito da indovino, un gran mantello scuro e gli occhi che scrutano nel buio. Ma niente puoi fare per allontanarli da te, se non andare loro incontro, gettarti nelle loro braccia, affrontarli, come sempre hai fatto, piuttosto che resistere ai loro poteri. Potrei aiutarti, dirti quale sarà la tua strada, ma non servirebbe: è dentro di te che tutto nasce, dentro di te troverai ogni risposta.

Il cavaliere ha un gesto di stizza, come di chi vorrebbe togliere per istinto qualcosa da cui si sente infastidito, poi abbassa lo sguardo, le sue gambe tremano, con la mano sfiora la sua fronte, come di chi è preda di una grande prostrazione. Non so, dice, non conosco quale sia la maniera per sconfiggere un nemico che non vedo, che non sento, che non posso toccare. Anzi, un nemico che si sovrappone a me, senza che lo voglia, e mi determina, in ogni mio sviluppo.

Poi le luci sfumano sul palco, tutto trascolora, i due uomini si avvicinano tra loro come per infondersi coraggio di fronte a qualcosa che non sanno cosa sia, che non conoscono. Un’immagine si proietta sullo sfondo, è un volto femminile che sorride, che mostra sicurezza di sé, che guarda loro due come due poveri interpreti di un mondo che sta sfuggendo a qualsiasi controllo, che non è più affatto chiaro ed evidente come si vorrebbe. Infine il cavaliere sguaina la sua spada e ferisce mortalmente l’indovino: solo il mio istinto può salvarmi dall’oblio, dice; solo la mia determinazione può rendermi invincibile, solo la mia fede sarà così forte da sollevarmi sopra tutto, e rendermi nuovamente uomo, nell’umanità.

Bruno Magnolfi

domenica 17 ottobre 2010

Nell'ordine dei comportamenti appiccicosi



Cosa farà mai questo tempo, che adesso ha ricominciato ancora a piovere e sembra quasi non voglia smettere più. Le foglie lucide, la terra scura, la ghiaia del vialetto che appare bianca e pulita da tutta la polvere. Guardo dalla vetrata lo spicchio di giardino davanti alla nostra palazzina, e mi sembra che niente possa cambiare da ora in avanti; non mi spavento, al contrario, questa riflessione mi concede sicurezza in me stessa, non sento il bisogno di premunirmi, fino a quando potrò stare qui so bene che non avrò niente da temere, la pioggia non mi bagnerà mai, e dentro a queste mura bianche mi sentirò sempre protetta.

Giro lungo i corridoi, in silenzio come sempre, mi tengo le mani una dentro l’altra e guardo quasi sempre il pavimento, per non mettere il piede in un posto sbagliato, per evitare inciampi improvvisi. Anche all’ora di colazione, quando stiamo tutti assieme in sala grande, io sto in silenzio: qualcuno ride ogni tanto, qualcun altro parla tra sé, ma a me non interessa di nessuno, mangio le pietanze per conto mio, penso a qualcosa, non so bene che cosa, ma mi va bene così.

Avevo un’amica, tempo fa, una che mi prendeva il braccio e mi diceva che ero bella, sempre ridendo, guardandomi in silenzio e accarezzandomi il braccio. Ma adesso è andata via. Agli inizi io tentavo di scansarla, ma la dottoressa mi aveva chiamato, aveva spiegato che dovevo aver pazienza, quella ragazza era in una fase difficile, dovevo lasciarla fare, come il tempo, come la pioggia, poi le cose si sarebbero sistemate poco per volta.

Non mi ero affezionata a quella ragazza, mi pareva anzi quasi un incubo non poter più fare su e giù lungo i corridoi, come sempre avevo fatto, avanti e indietro per tutta la nostra palazzina, perché non era possibile evitare di incontrarla, e lei mi aspettava, mi sorrideva, accarezzava il mio braccio quando stava con me, diceva sempre che ero bellissima, e poi diceva a volte: cosa importa tutto il resto, noi saremo sempre altrove. Altrove, diceva, ed io non capivo cosa volesse dire, e mi dava noia anche questa incomprensione di fondo, e allora mi scrollavo da quelle sue mani appiccicose, dal suo voler stare continuamente insieme a me.

La dottoressa insisteva che dovevo aver pazienza, ed io annuivo. Poi, tutto quanto cambiò, un giorno qualsiasi. C’era stata confusione, qualcuno si era agitato più del solito, ma io mi ero tenuta a distanza, avevo i miei pensieri, le mie cose da riflettere. Arrivarono le sirene, gli altri iniziarono ad urlare, tutto pareva fuori controllo, io cercavo solo la calma, le mura bianche in cui stare tranquilla. Mi avvicinai alla vetrata, come sempre facevo, e la vidi lì, sopra la ghiaia, la mia amica, spiaccicata a terra dopo che si era gettata giù dalla finestra.

Rimasi ferma, in silenzio, ma quel sangue rosso sulla ghiaia non poteva passare inosservato: urlai qualcosa, con tutta la voce che avevo dentro, come a disperarmi di qualcosa: mi misero subito la camicia stretta, come sempre si faceva in questi casi, ed io non dissi niente, era senz’altro comprensibile un comportamento di quel genere. Nei giorni seguenti mi tennero strettamente sotto osservazione, ma io ero tranquilla, non davo dei problemi. Mi parlarono, mi fecero tutte le domande possibili; io non dissi niente, cosa c’era mai da discutere, pensavo, le cose là dentro andavano così, ci si preoccupava di sciocchezze, certe volte; in altri casi si arrivava a pensare di aver compreso tutto.

Ma alla fine quello che importava più del resto era che le mura non crollassero, che il giardino davanti alla nostra palazzina fosse a posto, che la ghiaia restasse bianca, non sporca di sangue; ciò che a me pareva importante più di tutto era la sicurezza che la pioggia avrebbe sistemato tutto quanto. Lo dissi alla dottoressa, e lei comprese quello che avevo voluto dirle, e fece un gesto come per abbracciarmi, come faceva l’altra, la mia amica, quella che ormai si era sciolta nella pioggia, ma io rimasi immobile, era meglio la solitudine piuttosto che quei gesti appiccicosi.

Bruno Magnolfi

fino ad un certo punto :risvegli 1

Fino ad un certo punto :risvegli

Fino ad un certo punto terzo sogno

Fino ad un certo punto secondo sogno

Fino ad un certo punto risveglio

Fino ad un certo punto un'altro giorno

Fino ad un certo punto il mio cane ascolta con attenzione il mio sogno

Fino ad un certo punto le macerie della casa

Fino ad un certo punto la casa del sogno

Fino ad un certo punto ricodo un sogno mentre faccio colazione

Fino ad un certo punto il mio cane si è svegliato

Fino ad un certo punto normali procedure del mattino

Fino ad un certo punto la radio sveglia

Fino ad un certo punto risveglio

Fino ad un certo punto:notte insonne

venerdì 15 ottobre 2010

Le abitudini di Carlo



Il mio Carlo esce di casa ogni sera. Non tarda mai troppo a rientrare, ma siccome gli dispiace che rimanga ancora alzata ad aspettarlo, allora vado a letto e spengo anche la luce sul mio comodino. Lui dice che sono una gran dormigliona, ma non è esattamente così. Lo faccio per lui, per non metterlo in imbarazzo. A me addirittura piacerebbe leggere qualche pagina di uno dei miei romanzetti rosa prima di addormentarmi, ma non voglio lasciargli pensare che ci perdo del tempo dietro a quelle sciocchezze, tutte con il lieto fine, come piacciono a me.

Certe volte chiedo al mio Carlo di rimanere in casa con me, invece di andarsene al suo solito bar; almeno questo sabato sera, gli faccio, ci piazziamo io e te davanti alla nostra televisione e ci godiamo una bella serata. Lui ci pensa un po’, infine dice: va bene, però scegli qualche programma che non mi faccia venire subito sonno, altrimenti inizio a russare e la faccenda è immediatamente conclusa.

Qualche volta, tanto per dire, mi diverto a stuzzicare il mio Carlo; gli dico: ma che ci sarà mai in quel bar dove ti trovi con tutti i tuoi amici, dopo che avete fatto una partita alle carte o anche due non vi sembra che tutto diventi monotono? Lui ci pensa, poi dice: hai proprio ragione, in fondo in quel bar siamo sempre gli stessi a sfidarci alle carte, potrei cambiare un po’, andare da qualche altra parte, magari in un altro locale. Io lo lascio parlare, tanto lo so che lui è un tipo che se si abitua a una cosa non la cambia neppure se deve, così so benissimo che le sue sono solo parole.

Poi una sera, mentre ancora stiamo cenando, mi fa: stasera resto in casa con te, che ne dici? Io spalanco gli occhi, gli chiedo cosa sia tutta questa novità, ma lui fa spallucce e subito cerca di cambiare argomento. Ho l’impressione che ti sia litigato con qualcuno, faccio io, sto sbagliando? Lui si alza dalla sedia con modi nervosi, poi mi dice in maniera alterata: va bene se proprio non vuoi che stia in casa con te, vuol dire che andrò a farmi una passeggiata da solo qua attorno. Io non dico più niente, lo lascio fare, ma mi sembra che stia cambiando qualcosa tra i suoi pensieri, e questo mi lascia perplessa.

Le sere seguenti tutto riprende le abitudini di sempre, io non gli chiedo più niente al mio Carlo, tanto per non irritarlo e lasciare che scelga le cose migliori per sé, senza che io gli faccia domande o che sembri pettegola. Poi arriva una volta che lui non rientra. Mi sveglio al mattino, e dalla sua parte del letto scopro che lui non ci si è coricato. Mi preoccupo, aspetto ancora del tempo, infine telefono al magazzino dove lavora e chiedo di lui. Mi dicono che c’è, ma che è occupato e richiamerà lui più tardi. Quando poi chiama Carlo mi dice subito che gli dispiace, c’è stata una discussione, le cose sono andate un po’ per le lunghe, così, agitato com’ero, mi fa, ho pensato di non venire a disturbare il tuo sonno, e ho dormito dentro la macchina.

Il pomeriggio, quando ritorna, il mio Carlo ha qualcosa con sé, una scatola di cioccolatini. Mi dice: volevo scusarmi per ieri, mi fa, ma adesso ho capito che hai proprio ragione, non è il caso che perda ancora del tempo in quel bar dove c’è gente che non perde occasione per attaccar briga. Così ho pensato di iniziare a frequentare un altro caffè con una fama migliore, mi fa, uno dove ci sono anche i biliardi: è soltanto un po’ lontano da casa, mi ci vorrà mezz’ora di più per andare e tornare, ma si sa, quando si cerca di migliorare, bisogna pur sentirsi disposti ad affrontare qualche piccolo sacrificio.

Bruno Magnolfi

L'amico sbagliato








Erano amici, pensava Enzo, lo dovevano essere per forza, non si torna insieme da scuola fino a casa quasi ogni giorno se non è così. Abitavano vicini, e certe volte lui andava da Franco, nel pomeriggio, quando le giornate erano belle e insieme potevano andarsene in giro: suonava il campanello, attendeva che la mamma gli chiedesse chi era dal fondo del corridoio. Poi, dopo un leggero confabulare, arrivava Franco che diceva soltanto: arrivo; e Enzo si piazzava sul marciapiede ad aspettare. Certe volte aveva aspettato anche parecchio, e questa cosa non gli piaceva. Un giorno passò Antonio, un amico del babbo, sulla sua bicicletta scassata, gli sorrise e subito disse: ti hanno lasciato fuori?, e lui si vergognò un po’ di quella faccenda di star lì per un sacco di tempo, a non far niente, come se non avesse altri ragazzi da frequentare.

Infine arrivava, Franco, e spesso tirava fuori delle idee divertenti per combinare qualcosa, ma altre volte voleva andare a cercare altri ragazzi, e questo a Enzo piaceva di meno. Era sfuggente Franco, ma questo era solo il suo carattere. Aveva sempre fretta di arrivare da qualche parte, di trovare altre persone, di vedere gli altri ragazzi cosa stessero facendo lì nel quartiere. Così Enzo molte volte si ritrovava a trottargli alle calcagna cercando di parlare di qualcosa. Non gli piaceva molto parlare a Franco, ma quando Enzo parlava lui stava in silenzio, come non avesse niente da dire; quando infine diceva la sua nessuno trovava mai nulla da obiettare, come se quell’opinione fosse proprio l’ultima parola da dire.

Enzo avrebbe voluto qualche volta mettersi seduto con Franco su qualche gradino, o sulla spalletta del fiume, a tirare qualche sasso nell’acqua e a parlare delle cose che venivano a mente. Ma con lui non era possibile, a parte qualche caso rarissimo. Capitava spesso che dopo un giro lungo le solite strade di sempre, Franco dicesse all’improvviso: devo andare, devo tornarmene a casa, e lasciava Enzo così, senza nessuna spiegazione.

Enzo qualche volta aveva chiesto a qualcun altro dei suoi compagni che cosa pensasse di Franco, e in genere tutti parevano piuttosto evasivi, come se fosse un argomento di nessun interesse. Una volta invece, uno disse che Franco era una persona assolutamente egoista, sfruttava tutte le situazioni possibili senza preoccuparsi minimamente degli altri. Aggiunse anche che era il caso di tenersi distanti da lui, perché aveva sempre dei secondi fini in tutto ciò che faceva. Enzo non ci credette a quel giudizio pesante, però iniziò ad osservare le cose con occhi maggiormente disincantati.

Fece passare un bel po’ di tempo prima di tornare a suonare quel suo campanello, per esempio, e sulla strada da scuola fino a casa si ritrovava quasi sempre da solo visto che non si preoccupava più di aspettarlo. Bell’amico sei tu, gli disse un giorno quando infine si ritrovarono soli: Franco lo squadrò, gli chiese cosa c’era che non andava, Enzo gli disse che era un sacco di tempo che non uscivano insieme, e che se non era lui ad andarlo a cercare, il contrario non succedeva di certo. Franco rimase in silenzio, soprappensiero, e infine gli disse: credi davvero che sia questa l’amicizia? Io non lo penso, piuttosto credo che ognuno di noi abbia una strada da percorrere, certe volte è possibile farla insieme con altri, ma quasi sempre si è soli, ed è inutile lamentarsi di questo: è così, non saremo certo noi due a cambiare la regola.



Bruno Magnolfi

mercoledì 13 ottobre 2010

La giacca, sopra le spalle




Sto bene in questi ultimi tempi. Al medico ho detto che mi sento in grado di riprendere con il mio lavoro, la depressione ormai è alle spalle, soltanto una brutta fase della mia vita. Adesso frequentemente indosso una giacca, una bella giacca che ho comperato per caso, dopo averla vista in una vetrina mentre passavo davanti al negozio. E’ di colore rosso, un rosso un po’ scuro, per niente vistoso: i miei parenti vengono spesso a trovarmi e tutti mi fanno i complimenti per quella mia giacca. Ne sono fiero, dico la verità, indosso quella e mi sento subito meglio, giro per le strade con più sicurezza, maggiore indipendenza di prima. Certe volte la tengo sopra le spalle anche quando resto in casa. Non lo so, non so spiegarmi perché, ma so che è così, lo sento, per questo forse vorrei tornare al lavoro, per farmi vedere guarito da tutti i colleghi e con indosso la giacca.

Oggi sono uscito di casa, non mi piace più stare lì fermo seduto a guardare il solito muro. Ho girato un po’ avanti e indietro nel mio quartiere, poi sono entrato dentro al caffè dove andavo fino a qualche anno fa. Un uomo mi ha riconosciuto e mi ha fatto un saluto, ma io non mi ricordavo per nulla di lui, così ho fatto finta di niente. Bella la tua giacca, dice quello, forse già mezzo sbronzo. Già, faccio io. Devi averla comperata da poco, fa lui, un nuovo modello, roba fine, che non si vede tanto spesso qua in giro. Annuisco, intanto metto i bottoni dentro alle asole tanto per fargli vedere come mi calza, ma quello butta giù un bicchierino e poi fa: potresti venderla a me, dice di un fiato, più o meno siamo uguali di taglia, sono sicuro che con una giacca così mi sentirei un’altra persona.

Lo guardo come se non avesse detto un bel niente, cerco qualcosa dentro alle tasche con modi nervosi; quest’uomo mi sta facendo arrabbiare, penso tra me, dice soltanto delle sciocchezze, la giacca è la mia, non c’è alcun motivo per cui dovrei toglierla. Ma quello insiste, dice: dai, fammela provare, non ci vuole niente, fa lui, così vediamo a chi calza meglio. Io non me lo filo neanche, e assesto un pugno sopra al bancone, tanto per fargli vedere di cosa sono capace.

Ma quello cambia sistema, diventa più appiccicoso, adesso dice che non gli importa più niente della mia giacca, che diceva tanto per dire, e che anzi, è proprio di un colore impossibile, lui non la indosserebbe per nessuna ragione, se non per fare un piacere a un amico. Mi volto, nel locale non c’è nessuno, il barista fa le sue cose, mi sento di non sopportare ancora quell’uomo. Così dico a voce sempre più alta: basta, lei non deve dire più niente, né sulla giacca, né su altre cose, così quello si fa servire un altro bicchierino e lo offre anche a me, tanto per fare la pace. Io dico che mi fa male, ma quello insiste, infine mi porge il suo, e forse senza intenzione mi versa il liquore sopra la giacca.

Sul momento non dico niente, ma la macchia è proprio davanti ed è appiccicosa. Quello si scusa, dice qualcosa con la sua voce per me insopportabile, io resto fermo, senza niente da dire, il barista mi fa: forse è meglio se adesso vai a casa. Io mi sento sempre più male, ognuno mi dice cosa è meglio e cosa è peggio per me, intanto la mia giacca ormai è rovinata, non potrò più indossarla, è un grosso guaio, penso, un guaio senza rimedio.Vorrei gettarmi addosso a quell’uomo, riempirlo di botte, ma mi sento sempre più debole, sono sicuro che non riuscirò neppure ad arrivare fino a casa. Barcollo fino all’uscita del caffè senza dire niente a nessuno, poi cado lungo disteso sopra al marciapiede di fronte: voglio morire qui, penso, non mi importa più niente se i miei colleghi di lavoro non riusciranno a vedere la mia giacca, incaricherò qualcuno per andare a spiegarglielo che mi stava bene, che era tagliata proprio su misura per me, che era una giacca davvero speciale.

Bruno Magnolfi

Il senso di una persona qualsiasi



L’uomo solleva leggermente lo sguardo dall’articolo che ha attratto la sua attenzione fino ad allora: ha continuato a leggere quella rivista illustrata per più di dieci minuti tenendola appoggiata sopra le gambe, nonostante in una parte del suo campo visivo sia avvenuto qualcosa che con ogni probabilità è dato da una persona che gli è passata silenziosamente davanti per andarsi a sedere, in quella sala d’attesa,. A terra rimane un mozzicone di sigaretta spento, schiacciato sul pavimento chiaro, di marmo. Quella è la prima cosa che vede, che cattura il suo sguardo, poi, accanto, si concentra su un paio di scarpe femminili, piuttosto ordinarie, infine solleva la faccia fino ad osservare per intero la figura di una donna non magra che sta seduta in modo composto e lo guarda, quasi con una certa attenzione.

L’uomo sorride alla donna quando i loro sguardi si incrociano, dice: buongiorno, poi torna a completare le ultime righe dell’articolo che stava leggendo. Quando volta la pagina si accorge che la signora seduta di fronte lo sta ancora guardando. Lui si muove con agitazione sopra la seggiolina di plastica, gira le pagine della rivista che ha ancora tra le mani, pensa di alzarsi e di dare un’occhiata fuori dalla finestra in fondo alla sala, ma non lo fa.

Immagina di avere qualcosa fuori posto, si tocca la faccia, i capelli, getta un’occhiata sopra ai calzoni, alla giacca, però è quasi sicuro, ancora di più dopo quella ricognizione, che tutto sia a posto, ma la signora cicciona di fronte continua a guardarlo, come non esistesse nient’altro degno di osservazione in tutta la stanza.

Il silenzio appare pesante, ogni tanto si sente qualche rumore giungere dall’ambulatorio dentistico in fondo a quel piccolo corridoio, per il resto tutto è fermo e a riposo. L’uomo cerca qualcosa dentro alla tasca, così tira fuori un foglietto di carta, raccoglie una penna da sopra il tavolino basso dove sono appoggiate anche altre riviste oltre quella che ha già sfogliato, e cerca di scrivere qualcosa, un appunto su una sciocchezza che gli è tornata alla mente.

La signora si schiarisce la voce con un colpo di tosse, l’uomo solleva lo sguardo per vedere se è cambiato qualcosa, ma lei lo sta ancora fissando, sbattendo le ciglia e restando immobile nella stessa posizione di prima. Allora lui si alza, mette in tasca il foglietto, appoggia la rivista sopra le altre, muove due passi fino alla finestra, guarda fuori dai vetri il movimento dei pedoni sui marciapiedi e le automobili lungo la strada. Gli pare velata di grigio quella giornata, come se quello fosse il colore della monotonia, dell’ordinarietà, quasi che niente di interessante potesse avvenire in un giorno del genere.

Torna a voltarsi verso la sala: la signora lo guarda, non fa neanche finta di distogliere gli occhi. Lui si guarda le mani come per un gesto nervoso, poi torna a sedersi. Infine si sente giungere uno scatto dall’ambulatorio dentistico, la porta si apre, l’assistente chiama un nome che lui non conosce. La signora si alza, sposta la borsetta che ha tenuto fino ad allora sopra le gambe, poi dice, con garbo: arrivederci signore, è stato un vero piacere osservarla in silenzio; vede, per me i gesti, i piccoli movimenti delle mani, delle gambe, del corpo, interessano più che qualsiasi parola scambiata tanto per uccidere il tempo; guardarla mi è piaciuto tantissimo, sicuramente lei non dev’essere una persona qualsiasi.

Bruno Magnolfi