domenica 28 novembre 2010

Le speranze di sempre.




Il gruppo dei ragazzi si era sistemato in un angolo della piazzetta, alcuni rimanevano seduti sopra i gradini davanti alla chiesa, altri erano in piedi, lì accanto. Parlavano con calma delle loro cose, scherzavano, ma pacatamente, senza urlare, mentre l’ora pomeridiana era quella in cui la luce del giorno inizia lentamente a svanire, anche se ancora i lampioni non erano accesi e non se ne sentiva per niente la necessità. Un uomo, giaccone scuro, mani sprofondate dentro le tasche, restava fermo poco distante: pareva incuriosito di qualcosa, così rimaneva immobile, come se tutti i suoi pensieri si esaurissero lì, in quel suo sguardo innocuo, ininfluente, quasi senza significato.

L’uomo, senza allontanare gli occhi dal gruppo, si era poi avvicinato, non molto, ma in modo appena sufficiente per farsi ascoltare senza bisogno di alzare la voce: dovete smetterla, aveva detto, con tono convinto e deciso. I ragazzi avevano capito subito che quell’uomo stava riferendosi proprio a loro, o magari forse solo a qualcuno tra quei sei o sette che erano, così si erano voltati tutti verso di lui, avevano avuto un attimo di perplessità, poi uno aveva risposto qualcosa di spiritoso, ma sottovoce, e tutti avevano riso, disinteressandosi della faccenda.

Allora l’uomo si era avvicinato di un altro passo, forse due, poi aveva ripreso: non avete forse capito che in questo modo non si andrà da alcuna parte? Poi aveva dato uno sguardo verso la piazza, come se si aspettasse che altri, forse alcuni che immaginava potessero pensare le sue stesse cose, arrivassero a dargli sostegno, ma notato che al contrario i passanti restavano indifferenti, preoccupati soltanto di se stessi, ritornò immediatamente a strizzare gli occhi verso i ragazzi, in attesa di una presa di posizione o di una risposta da parte loro.

Scusi, disse uno di quelli che rimanevano in piedi, ma a che cosa di preciso si riferisce? Ci sembra di non dare fastidio a nessuno, di aver scelto un angolo di un luogo pubblico per parlare delle nostre cose, per scambiarci le nostre opinioni, nient’altro. L’uomo sorrise, tolse una mano da dentro la tasca, si voltò su di un lato osservando la facciata dell’antico palazzo che si apriva di fronte, poi parve disinteressarsi di tutto.

I ragazzi avevano intanto cercato di interpretare quelle parole, ma non erano riusciti a comprendere a che cosa potessero riferirsi, così quello che aveva parlato con l’uomo, si staccò dal resto del gruppo, come a dimostrare di non essere intimidito, si avvicinò di tre o quattro passi, poi disse: forse, qualcosa del nostro ottimismo, della nostra gioventù, della nostra voglia di vivere, la fa sentire a disagio? Il resto dei ragazzi si era girato in maniera decisa verso le spalle del loro rappresentante, e ognuno di loro seguiva con curiosità e attenzione qualsiasi sviluppo della questione.

L’uomo era tornato a voltarsi verso di loro, aveva estratto ambedue le mani da dentro le tasche, infine, sollevando le braccia in un gesto da grande conferenziere, aveva cercato di dire qualcosa, ma come restando senza le parole che forse servivano. Infine gli era come preso un debole moto di prostrazione, aveva scosso la testa, spostato lo sguardo verso il lastricato di pietra, e tutto questo solo per dire, alla fine: siete la nostra speranza; e nient’altro.

I ragazzi lentamente si erano avvicinati, ricompattando il loro gruppo, fermandosi ad un passo appena dall’uomo, in silenzio, come se nessuno trovasse qualcosa da aggiungere, ma ugualmente interrogandosi, ognuno dentro se stesso, su ciò che era possibile dire; ma nonostante ogni impegno, pur dispiacendosi, non riuscirono più a scambiare alcuna parola, così le mani di tutti tornarono a sprofondarsi dentro le tasche, le persone attorno continuarono a camminare avanti e indietro, quasi senza ragione, e l’immobilismo riprese pienamente il dominio di tutta la piazza, inevitabilmente.

Bruno Magnolfi

Pensieri di vento .


Forse non potrebbe essere diversamente, penso, mentre continuo a camminare nel vento gelido che mi scompiglia i capelli. Non è affatto un problema di solitudine, dico tra me, ma soltanto il rendersi conto che molte cose non si possono affatto spiegare; intuire magari, averne una percezione immediata e inspiegabile, penso, ma se si mettono in mezzo le nostre amate parole, tutto si complica, la comunicazione si arresta o si fa ingarbugliata, la comprensione si allontana sempre di più, tanto vale annullare questa esigenza, credo, e starsene qua, dentro al vento, a rimuginare qualcosa, senza importanza.

Bruno Magnolfi

sabato 27 novembre 2010

Solo fino a un certo punto


Stamani mi sono svegliato come ogni mattina, alla stessa ora di sempre, ritrovandomi quasi nella stessa posizione di ogni giorno. Non mi sono meravigliato, in fondo non c’era proprio nulla di cui meravigliarsi, anche perché davanti a me non avevo alcuna altra possibilità se non quella di compiere i soliti gesti usuali di ogni giorno.

Muovendomi lentamente ed evitando di disturbare il mio cane che da sempre passa le notti sdraiato sopra al pavimento ai piedi del letto, ho pensato che l’unica vera differenza rispetto ad un altro qualsiasi dei miei risvegli fosse data dai pensieri. Certo, se tutto era uguale fin nei dettagli dei colori del pigiama e nella posizione del cane, forse l’unica vera differenza era quella, anche se per dati oggettivi restava impossibile da vedere. Sicuro, una volta in piedi, quando fossi stato completamente sveglio, ma forse ancora prima, mentre ero intento ai riti di sempre, la barba, l’acqua, lo specchio, ed anche una volta adempiuti i compiti di ogni mattina, finito di preoccuparmi di qualsiasi piccola cosa, bene, potevo pensare. Pensare qualsiasi sciocchezza, immaginarmi le cose più strane e più ardite, fantasticare su tutto ridisegnando anche gli oggetti che arredano la mia piccola casa e che sembrano emergere dalla nebbia quando vengono rischiarati dalla fioca luce della mattina appena abbozzata. Pensare anche qualcosa di me, oppure degli altri, oppure di nessuno in particolare. Prepararmi alla giornata nascente, o a quella seguente, o a tutta la settimana, ai mesi, agli anni a venire, progettare cambiamenti, trasformazioni, qualsiasi cosa, qualsiasi cosa io potessi desiderare.

Subito dopo ho avuto paura di quel mio pensare. Ho preso il latte dal frigo, l’ho versato freddo dentro un bicchiere, ci ho messo dentro due cucchiaini di zucchero stando ben attento a non prendere l’identico involucro riempito di sale, e dopo aver fatto girare diverse volte quel latte, ne ho bevuto un bel sorso.

Se all’improvviso non avessi avuto pensieri, neanche uno piccolo che ne valesse la pena; se non avessi avuto nessuna fantasia, né sulla casa, né sui gesti di ogni giorno, né quest’atteggiamento critico sui miei comportamenti giornalieri, né su queste povere cose che ogni giorno mi vengono incontro, che mi aiutano a ritrovare la mia personalità, la mia indole; se non avessi il mio sentirmi persona che a volte si sdoppia fino a farmi vedere ogni cosa con gli occhi dello specchio del bagno, o del mio cane che alza la sua testa pelosa ad osservare la medesima scena di ogni giorno. Se non avessi tutto questo, ebbene, neppure sarei. O sarei altro.

Mi sono immaginato la giornata di fronte. Ed ho avuto voglia di cambiarne la struttura, i contenitori stessi del suo ordinario trascorrere. Poi mi sono reso conto che è del tutto impossibile. Ma in fondo tutto questo è stato sufficiente: avere delle possibilità, anche se non vengono neppure sfruttate, è già sufficiente per poter essere vivi.

Bruno Magnolfi

Pensieri di vento (estratto di un romanzo inedito).

Forse non potrebbe essere diversamente, penso, mentre continuo a camminare nel vento gelido che mi scompiglia i capelli. Non è affatto un problema di solitudine, dico tra me, ma soltanto il rendersi conto che molte cose non si possono affatto spiegare; intuire magari, averne una percezione immediata e inspiegabile, penso, ma se si mettono in mezzo le nostre amate parole, tutto si complica, la comunicazione si arresta o si fa ingarbugliata, la comprensione si allontana sempre di più, tanto vale annullare questa esigenza, credo, e starsene qua, dentro al vento, a rimuginare qualcosa, senza importanza.

Bruno Magnolfi

Ora di pranzo per una bella signora.


Lei aveva bevuto un piccolo sorso di vino rosso dal calice, poi si era toccata leggermente le labbra con il tovagliolo, infine aveva guardato qualcosa fuori dal finestrone, in fondo alla vasta sala da pranzo. Non erano rimasti in molti nel ristorante, oltre loro soltanto due tavolate di famiglie complete di bambini e di persone anziane, dall’altra parte del locale, nella forte luce di quel primo pomeriggio della domenica. Si vedeva una collina verde, fuori dai vetri, con il suo fianco cosparso di ulivi e vigneti, e una casa, forse un rudere ristrutturato, una pennellata di rosso sbiadito sul corpo grigio e giallastro della pietra dei muri.

Il cameriere aveva portato la frutta, sistemato qualcosa sulla tovaglia bianca, dopo si era allontanato, mostrando gesti e portamento meno impeccabili e più rallentati del momento quando la sala si era riempita di gente, ogni gruppo vantando la propria prenotazione, a cui si era dato seguito con l’immancabile biglietto sul tavolo dal cognome ben scritto, in evidenza. Erano belli da vedere, quei pranzi di famiglia retaggio di vecchie tradizioni, quasi un contrasto con il loro tavolo piccolo, per due persone soltanto, una tristezza forse, sottolineatura forzata del giorno di festa, da trascorrere in modo diverso praticamente per obbligo.

Lui aveva gradito, come suo solito, gli arrosti abbondanti che erano stati serviti; aveva elogiato più di una volta la cucina ottima e semplice di quel ristorante, e si era dedicato in modo quasi completo a quel pranzo cadenzato con calma, completo di tutto, coronamento perfetto di una bella giornata di sole, dei suoi pensieri ottimistici, del suo sorriso di soddisfazione. Aveva parlato quasi senza interesse di alcune altre cose, il suo lavoro, le feste impellenti, qualche aneddoto della sua vita, ma giusto per non lasciare nell’aria troppi silenzi. Lei lo aveva ascoltato, immersa in una calma disappetente, toccando qualcosa nei piatti qua e là, giusto per dare importanza alla tavola. Poi si era svagata, più di una volta, con quella campagna che si vedeva fuori dai vetri, poco lontano, ed aveva pensato alla sua infanzia, chissà perché, come tentando di fuggire dai suoi quarant’anni di adesso.

In fondo non era nostalgica, però si perdeva certe volte nei ricordi di qualche giornata di tanti anni fa, in occasioni in cui si era sentita distante da tutto, e aveva iniziato ad osservare e a valutare le persone che in quei casi aveva d’intorno, come estraniandosi, osservando di tutti quanti solo i lineamenti, i gesti, gli sguardi, fino ad annullare le loro parole, come se soltanto il silenzio desse loro la giusta collocazione, immergendo ogni situazione che si presentava ai suoi occhi dentro ad un tempo irreale, dilatato, quasi distorto.

Un piccolo vezzo della sua mente di bambina, forse, ma anche una maniera diversa per rendersi conto di aspetti minori, quasi per ritrovare un senso comune nelle persone che conosceva, valutandone discorsi e argomenti, per come quelle riuscivano a interpretarli col viso, con le mani, coi gesti, annullando le loro parole, i loro argomenti, qualsiasi discorso ordinario. Ecco, insieme a quell’ultimo sorso di vino, le erano tornate a mente quelle volte, come se adesso potesse ancora permettersi di rivivere quello stesso comportamento, quella medesima curiosità.

Lui aveva detto qualcosa, lei aveva sorriso guardandolo; poi aveva notato la piega che dal naso andava diritta fino all’angolo della bocca, come se fosse la prima volta che la vedeva. Aveva valutato il naso, leggermente spugnoso, le guance, ben rasate ma quasi inerti dietro al bisogno di sorridere di tutta la faccia. Una distanza incommensurabile le era parsa stagliarsi dietro quella espressione, forse la maggiore tra tutte quelle che aveva registrato nella sua infanzia. Infine aveva appoggiato il suo tovagliolo sul tavolo, si era alzata in piedi lentamente scostando la sedia, ma quasi senza averne coscienza. Il cameriere aveva detto che le avrebbe chiamato subito il taxi, non c’era alcun dubbio: una bella signora, aveva detto, non si deve mai far aspettare.

Bruno Magnolfi

Il sorriso delle bambine.


Adesso stiamo tutti in silenzio mentre il motore della macchina di papà sembra il lamento monotono di un animale domato. Guardo dal finestrino le case, la campagna, gli alberi, mentre fuori continua a piovere e le gocce d’acqua scivolano giù lungo il vetro, a pochi centimetri dal mio naso. Io e mia sorella come sempre stiamo sistemate sui sedili di dietro, i nostri genitori davanti. Ci siamo divertite un sacco a prendere in giro papà che non riusciva a vedere la segnaletica giusta lungo la strada, anche perché lui con noi è costantemente in minoranza. Ma dopo un po’ la mamma ci ha detto: via bambine, ora basta, lasciate guidare papà in santa pace, e io e mia sorella ci siamo raggomitolate qua dietro, ognuna per conto suo, dando corso ai nostri pensieri.

Non so neppure verso dove stiamo andando, e neppure perché, in fondo che importa, a me piace star qui a sonnecchiare, a lasciare che tutto scivoli intorno, come questo paesaggio troppo veloce per poter essere racchiuso dentro a un pensiero, troppo rapido per definire un’immagine che possa restare dentro la mente. Così tutto corre, e per me è come se questa giornata fosse infinita, e questa automobile riuscisse ad attraversare tutto il possibile, senza tornare mai indietro, lasciando alle spalle la scuola, i giocattoli, la cameretta che divido con mia sorella, tutti i pianti e gli scherzi in cui abbiamo ecceduto in questi ultimi tempi.

Papà dice qualcosa alla mamma, io non ascolto, mi lascio cullare dalla presenza rassicurante dei miei genitori, e questo mi basta. Adesso piove di meno, ma le ruote ogni tanto fanno schizzare l’acqua da dentro le pozze. Non so cosa sia voler bene, so che vorrei tanto che questo viaggio non avesse uno scopo, che non ci fosse niente che definisse il bisogno di aver affrontato questa giornata piovosa, vorrei che mio padre dicesse che stiamo facendo soltanto una gita, un giro qualsiasi per vedere se in un’altra città riesce a piovere alla stessa maniera come in quella dove abitiamo.

Forse i miei genitori hanno accennato qualcosa di questa giornata, forse ci hanno spiegato, a me e a mia sorella, il motivo per cui oggi non c’è stato bisogno di andarcene a scuola. Magari è qualcosa di particolarmente importante, ma io non ho ascoltato le loro parole, mi sono rifugiata nel gusto di questo viaggio, senza preoccuparmi di altro. Penso tra me che forse ho sbagliato, avrei dovuto stare più attenta a quanto dicevano, ma in fondo che importa, rifletto, a me basta star qui, aver piena fiducia nel loro essere perfettamente consapevoli di cosa sia meglio per noi.

L’auto va avanti, adesso è smesso di piovere, mia sorella mi ha dato una spinta col piede, forse solo per stuzzicarmi, ma io l’ho ignorata, ho voglia solo di starmene qui, per conto mio, in mezzo ai pensieri. Forse lei ha capito dove si va, e questo un po’ mi dispiace, però poi rifletto che non è niente di particolarmente importante, che lei ne sappia un po’ più di me non cambia assolutamente le cose. Infine la nostra automobile rallenta, entra dentro un enorme parcheggio, riconosco i simboli di un ospedale, guardo mia sorella con un’espressione interrogativa.

Andiamo a trovare lo zio ammalato, dice lei sottovoce, coprendo perfettamente in un attimo ogni vuoto che all’improvviso mi si era aperto dentro la testa. Giusto, penso tra me, la nostra famiglia è più larga di noi quattro che stiamo qua dentro, dobbiamo avere un pensiero per tutti, anche per chi vediamo di rado, portare il conforto a chi non può muoversi. Infine la macchina è ferma, gli sportelli si aprono, mi sento restia a scendere da qui, ma poi esco fuori, guardo il grande edificio di fronte e tiro un respiro nell’aria lavata; adesso credo di sapere cosa sia voler bene: guardo i miei genitori e so che stiamo portando un sorriso allo zio, forse perché è proprio di questo che lui ha un gran bisogno.

Bruno Magnolfi

giovedì 25 novembre 2010

(Profilo n. 6). Quasi oltre le case.



Un uomo cammina per strada, si guarda attorno, indubbiamente non ha alcuna fretta, tiene le mani sprofondate dentro le tasche di un soprabito logoro, mentre nelle sue idee tutto di quella strada cittadina appare indifferente ai suoi passi. Ci sono persone che lo incrociano, alcuni lo sfiorano, qualcuno forse lo nota, vestito malmesso com’è. Un signore vestito in maniera elegante gli tocca un braccio, gli chiede: ha bisogno di qualcosa?, ma l’uomo scuote la testa sotto al suo cappellaccio consunto, senza neppure girarsi; non ha bisogno di niente, lui, solo di percorrere quel lungo marciapiede, fino alla fine, nel punto dove quella strada si immette in un viale alberato. Non sa perché, ma ha deciso così, e questo è tutto ciò che adesso ha importanza per lui.

Poi ci ripensa, si ferma, guarda dietro di sé. In fondo è vero che non abbia bisogno di niente, che cosa importa se la sua vita si sia ridotta allo stremo, riesce benissimo a tirare avanti in qualche maniera; in fondo, tra la moltitudine delle persone di una città, qualcuno deve pur fare la parte del povero e del senza casa. No, lui vive di piccole cose, percezioni da niente, sottili messaggi che gli giungono in modo inconsueto, che ritiene di saper interpretare, di vivere appieno, e la sua ritiene sia una gran libertà, quella cioè di sentirsi sempre pronto e adeguato a quei segnali.

Resta fermo, sopra a quel marciapiede, annusa l’aria come farebbe un cane che cerca una pista, infine vede il portone semichiuso di un condominio lì accanto, ed entra dentro, come rispondendo a qualcosa che non sa neanche lui a quale natura appartenga. In fondo all’ingresso ci sono le scale, e lui si siede, come in attesa di qualcosa che non riesce a capire cosa possa mai essere, ma sa che arriverà, sicuramente, mentre in apparenza resta su quel gradino soltanto per riposarsi, per uscire dalla vista della gente lungo la strada.

Il palazzo sembra deserto, non si sentono giungere neanche rumori, oltre quelli della via transitata, e dall’alto arriva una luce diffusa, trasmessa probabilmente da un lucernario che si apre sul tetto. L’uomo si sente curioso, volge lo sguardo in mezzo alle scale, su verso il tetto, e vede la luce che giunge da lì. Allora si alza, sale le scale con tutta la calma possibile ed evitando qualsiasi rumore. C’è una porta alla fine di tutte le rampe, là dove la luce è più intensa, lui gira quella maniglia e la apre.

Una vasta terrazza malandata torreggia sopra tutte le case là attorno, l’uomo osserva con calma tutto il quartiere, guarda a lungo la chiazza di verde lontano dove ci sono i giardini pubblici, poi si incuriosisce del viale alberato, quello verso cui era diretto, poco distante da lì. Le automobili si muovono svelte lungo le strade, lui si sente bene in quell’aria piacevole che circola lenta tra i tetti e i comignoli. Poi si sporge dal muro, guarda la strada, il marciapiede, vede persone rispetto alle quali adesso si sente preferito, in qualche maniera, come se fosse al di sopra delle sciocchezze ordinarie di cui è preda chiunque.

Infine si siede, con le spalle appoggiate a quel muro scrostato e con tutta la città sotto mano, quasi lì accanto: no, pensa, non ho bisogno di niente; posso spostarmi da una parte a quell’altra, guardare la gente, la loro nevrosi; ho la capacità riflessiva per apprezzare cose che gli altri non vedono, la libertà di sentirmi al di fuori da quasi tutte le regole, nessuno mi attende, nessuno si aspetta qualcosa da me; ecco, è questo il messaggio che doveva arrivare, sapevo che era nell’aria, era evidente che avessi necessità di questo sostegno, adesso posso tornare a camminare lungo quel marciapiede, adesso sto bene, mi sento ricco.

domenica 21 novembre 2010

Laboratorio teatrale, lungo la strada.



La finestra è chiusa, come sempre, ma scostando appena la tendina riesco a scorgere la strada, con il marciapiede di fronte e i due negozi che si aprono lì, uno di generi alimentari e l’altro di ferramenta. Passano di fronte a me le persone di tutto il quartiere, qualcuno lo conosco, altri no; acquistano il pane o una scatola di chiodi, e ognuno sorride, si salutano incontrandosi, si augurano l’un l’altro una buona giornata.

Non c’è mai niente di nuovo, solo quelle solite cose, quei comportamenti ordinari, quegli identici gesti così precisi, così importanti, che mostrano di quanta umanità la gente di questo piccolo quartiere sia capace. Io li guardo, li riconosco, spesso, e quando parlano tra loro è come se parlassero anche insieme a me, mi spiegassero le loro cose, i piccoli problemi, le faccende di cui devono occuparsi, lasciando i saluti da portare a qualcuno rimasto a casa, qualcuno che non si vede da un bel po’, proprio come me.

Io non esco mai, resto qui, tra queste stanze, mi basta guardare le persone che si incrociano sopra al marciapiede, davanti a questa mia finestra. Sono d’accordo con il negoziante di fronte, e lui, quando arriva l’ora di chiusura e non ha più nessuno dentro al suo negozio, attraversa la strada e mi porta le cose che mi servono, quelle che gli ordino ogni volta. Non mi dice niente, mi saluta con riguardo, prende i suoi soldi, rispetta la mia solitudine, anche se io so perfettamente cosa pensa.

Pensa di me che sono solamente un povero vecchio curioso, senza speranza, ristretto a guardare la vita che scorre da dietro una tenda, senza più nessuna socialità, privo di qualsiasi interesse vero per il mondo fuori dalla mia casa. Ma non è così, lui si sbaglia, a me piace molto quel piccolo teatro che si snoda fuori, sulla strada, lungo quel loro marciapiede, ci passo tante ore a immaginare come declami, per esempio, la signora imbellettata che ogni giorno transita da lì solo per farsi vedere, o cosa dica sempre a voce alta l’insegnante in pensione, mio vicino di casa.

Li osservo, ne studio i gesti, le espressioni del viso, i sorrisi e gli ammiccamenti, mentre spiegano con convinzione le loro ragioni, ed io riesco perfino a comprendere quei loro argomenti, quei modi di dire, quei saluti più o meno convinti, fino a poterne quasi decifrare le parole. E’ la vita quella che ho di fronte, per qualcuno sciocca, semplice, superficiale, per altri più complessa, da spremere per cercarne la sostanza, per sfruttarne ai propri scopi e per ragioni più importanti di quanto vogliono mostrare.

Il negoziante viene da me ogni giorno, in silenzio, con la sua busta di provviste, io gli sorrido, lo ringrazio, gli corrispondo i soldi che mi chiede. Una volta invece dice qualcosa, come tra sé, mentre prende i suoi soldi: si sono litigati gli inquilini qua di fronte, dice, come se per me fosse importante, come se mi avesse preso per uno che spia la vita della gente, o si diverte alle spalle degli altri. Io lo osservo, dico che a me non interessa, gli spiego che quando guardo le persone che passano lungo il marciapiede è solo per immedesimarmi in loro, per essere con loro a dar vita a questa strada, a questo piccolo teatro, non per curiosità su ciò che fanno o per come conducono le loro esistenze.

Il negoziante non capisce, mi guarda con un sorriso ironico, poi mi saluta, se ne va. A me non è piaciuto quel suo atteggiamento, così il giorno seguente mi vesto di tutto punto, con una bellissima cravatta, prendo anche il cappello ed il bastone, esco sopra al marciapiede, affronto ciò che devo, attraverso la strada ed entro dentro al negozio dei generi alimentari. Non c’è nessun cliente in quel momento, lui è dietro al bancone, come sempre, mi guarda con sorpresa, io lo fisso, sollevo lentamente ma di poco il mio bastone, e dando un senso teatrale al mio viso e alla mia voce, dico soltanto: buongiorno, vorrei solo del pane; non mi serve altro.

Bruno Magnolfi

venerdì 19 novembre 2010

Scena n. 11. Stupide illusioni.




A piccoli passi, in una luce morbida e calda, con un paio di scarpine celesti, giunge sul palcoscenico una bambola dal largo vestito di pizzo, un delizioso cappellino, il viso di meravigliosa porcellana, con grandi occhi brillanti e labbra rosse; si ferma al centro della scena, accenna un saluto, resta immobile e in silenzio per un attimo, poi dice: ero stata abbandonata in un angolo della soffitta, nel buio e nella polvere, e la tristezza dell’immobilità era calata su di me. Per questo avrei voluto essere viva, per ribellarmi al mio destino, per andarmene, vedere il mondo.

Con grande sforzo mossi una mano, voltai la faccia verso un sottile spiraglio di luce che arrivava da sotto la porta, infine mi alzai in piedi. Non so neppure come feci a ritrovarmi lungo la strada, forse qualcuno mi aveva messo insieme ad altra spazzatura, ma io ero riuscita a liberarmi dal sacchetto, e avevo deciso di cercare qualcosa che valesse la pena di tutti quei miei sforzi.

Passarono gli uomini, e qualcuno di loro mi prese con sé per un’ora, a volte anche di meno, riabbandonandomi ogni volta lungo quella strada. A me non importava delle loro manie, ero felice di scoprire il mondo, mi guardavo attorno e mi pareva imcredibile poter essere lì, in mezzo alle persone vive, dove ogni cosa è possibile acquistarla ed i soldi girano per rendere tutti contenti e spensierati.

Mi sollevavano la gonna di pizzo, quegli uomini, è vero, ma io li lasciavo fare, in fondo era solo il mio corpo di bambola quello di cui abusavano, non dei miei pensieri, e in cambio quelle persone mi mostravano le loro debolezze, la loro incapacità ad essere gentili, premurosi, e quel non sapersi comportare era così lontano dal mondo delle fiabe che certe volte mi meravigliava.

Le macchine sopra a cui salivo erano tutte uguali, come quegli uomini d’altronde, ma ognuno di loro cercava a suo modo di essere spiritoso, di lasciare qualcosa di sé alle sue spalle, come se portasse dentro una grande solitudine, una tristezza infinita, un’incapacità a vivere bene, in modo solare, senza la necessità di confondersi con una povera bambola come potevo essere io.

Proseguivo con la mia scoperta del mondo, e lo stupore più grande era sapere che riuscivo ad avere dei pensieri sempre più liberi e sempre più complessi, lontani dalla vita lungo quella strada, e in mezzo a quella gente senza grandi sogni, laddove i sogni per me, al contrario, erano tutto. Dopo un certo tempo, poi, trovai qualcuno che mi disse che potevo andare via da lì, che poteva aiutarmi, ed io lo lasciai dire, per me era tutto nuovo quello che poteva capitarmi, così sbattei i miei occhi e mi abbandonai a qualunque cosa stesse succedendo, senza fare alcuna resistenza.

Mi ritrovai in una casa insieme a diverse ragazze, tutte con la testa piena di sogni come me, ma che dicevano delle cose orribili, che eravamo tutte segnate, che non potevamo essere diverse, dovevamo accontentarci di essere un corpo con la testa altrove, come secondo loro erano quelle che facevano la nostra vita. Io le ascoltavo, avevo tutto da imparare, però iniziavo a vedere quel mondo come qualcosa ben più triste di come lo avevo immaginato, e le persone che lo abitavano delle figure sole, perse certe volte nella ricerca di apparire anche peggiori di com’erano. Non rimpiansi mai la soffitta da cui ero partita, ma forse lo feci solo per orgoglio.

Infine decisi che era venuto anche per me il tempo di parlare, di spiegare agli altri che cosa avevo visto fino a quel momento, che cosa mi era capitato e tutto quello che ero riuscita a pensare. Per questo adesso sono qui, per dire a tutti voi che le illusioni esistono, che spesso non sono neppure così distanti dalla nostra esistenza, e forse sono anche migliori di tante cose vere.

Bruno Magnolfi

Viaggio oscuro nella propria città


Avevo la febbre quel giorno, e la mia faccia doveva avere un’espressione contorta mentre continuavo a ridere nervosamente senza motivo. Restavo alla fermata, in attesa, come gli altri, sicuro che tutti là attorno mi osservassero come si osserva un pazzoide. Non mi importava, neanche io sapevo che cosa stessi facendo, e neppure dove dovessi recarmi, però mi stringevo dentro alle spalle e davo corso ai miei pensieri, alle mie incomprensibili voglie.

Salii sopra l’autobus appena il mezzo aprì le porte pneumatiche, guardai con una rapida occhiata le poche persone là sopra, poi mi sedetti di fronte ad una donna che mi fissò per qualche secondo. Subito dopo quella strana signora con una buffa sciarpa attorno alle spalle ebbe un moto come di preoccupazione, si toccò leggermente la fronte, tornò ad osservarmi, quindi si alzò da dove si trovava avviandosi verso l’uscita. Sentii come scendere una calma improvvisa e momentanea dentro di me, mi volsi senza un motivo, osservai con occhi appannati fuori dai vetri il gruppo di palazzi a cui stavamo passando vicino, ed ebbi la forte impressione di trovarmi in un luogo e in una città a me sconosciuti.

La giornata era grigia, l’asfalto appariva umido anche se non pioveva; rimasi ancora un minuto seduto, infine mi alzai spostandomi vicino all’autista. Devo scendere alla fermata dopo al mercato, dissi strascicando le parole ma come fosse la cosa più importante del mondo. Quale mercato, rispose l’autista che continuava a guidare con estrema tranquillità; da queste parti non ce ne sono di mercati, o almeno io non ne conosco. Va bene, risposi, spostandomi con estrema difficoltà verso l’uscita.

L’autobus ebbe un sussulto rallentando, infine si fermò. Scesi, e quando fui sopra al marciapiede mi accasciai subito a terra, colpito da un dolore fortissimo. La donna di prima, con la strana sciarpa sopra le spalle, mi era vicino, mi guardava, pareva quasi felice del mio stare male. Tutti mi fissavano ma nessuno aveva il coraggio di toccarmi, né di chiedere di che cosa avessi bisogno. Mi sentivo un estraneo, lontano da tutto, non riuscivo neppure a pensare come comportarmi, cosa chiedere per farmi aiutare. Mi rialzai da solo, con uno sforzo notevole, e mi allontanai barcollando lungo quel marciapiede. Incontravo persone che si fermavano a guardare che cosa facessi, come se tutto nel mio aspetto fosse fuori da qualsiasi logica minimamente accettabile.

In fondo le città sono tutte identiche, pensavo mentre continuavo a camminare senza una meta precisa; ci convinciamo di essere parte di qualcosa solo perché abbiamo paura di essere soli, e anche se sappiamo di esserlo - isolati, senza riferimenti - fingiamo che gli altri siano solidali con noi; invece è vero che ognuno pensa a se stesso, e ci aiuta soltanto in casi sporadici, forse perché in rare occasioni non riesce a mostrarsi del tutto indifferente. Nel mio caso la gente mi guardava, ma solo per fare attenzione a scansarmi, come non fossi uno di loro, uno identico a loro.

Cercavo di sorreggermi anche con le mani, appoggiandole ai muri delle case vicine, e strisciavo lentamente in quella maniera pensando a cosa mi sarebbe stato possibile fare, ma senza riuscire a trovare nessuna soluzione, se non andare avanti, sperare in qualcosa, qualsiasi cosa fosse. Vidi la medesima donna con la sciarpa che adesso mi seguiva, pareva divertirsi cinicamente con le mie difficoltà, così feci un gesto di sfida verso di lei, a cui seguì una delle mie risate nervose.

Vidi una piccola chiesa aperta a fianco del marciapiede: pensai di entrare là dentro, chiedere aiuto a qualcuno dei fedeli, poi mi resi conto che non c’era nessuno, che era deserta, così passai oltre. I locali pubblici al contrario erano pieni di gente che beveva e si divertiva, ma nessuno di loro avrebbe mai mosso un dito per me, era del tutto evidente. Infine, con le ultime forze rimaste, girai ad un angolo che immetteva in una strada minore, poco frequentata, e con sorpresa mi trovai davanti alla mia porta di casa. Frugai dentro alle tasche trovando anche la chiave, così entrai. Ero a casa, ero salvo, pensavo: potevo chiamare il mio medico, mettermi a letto, farmi curare, potevo fare ciò che volevo, perché tanto ormai l’inferno era rimasto alle mie spalle.

Bruno Magnolfi

mercoledì 17 novembre 2010

Viaggio oscuro nella propria città.




Avevo la febbre quel giorno, e la mia faccia doveva avere un’espressione contorta mentre continuavo a ridere nervosamente senza motivo. Restavo alla fermata, in attesa, come gli altri, sicuro che tutti là attorno mi osservassero come si osserva un pazzoide. Non mi importava, neanche io sapevo che cosa stessi facendo, e neppure dove dovessi recarmi, però mi stringevo dentro alle spalle e davo corso ai miei pensieri, alle mie incomprensibili voglie.

Salii sopra l’autobus appena il mezzo aprì le porte pneumatiche, guardai con una rapida occhiata le poche persone là sopra, poi mi sedetti di fronte ad una donna che mi fissò per qualche secondo. Subito dopo quella strana signora con una buffa sciarpa attorno alle spalle ebbe un moto come di preoccupazione, si toccò leggermente la fronte, tornò ad osservarmi, quindi si alzò da dove si trovava avviandosi verso l’uscita. Sentii come scendere una calma improvvisa e momentanea dentro di me, mi volsi senza un motivo, osservai con occhi appannati fuori dai vetri il gruppo di palazzi a cui stavamo passando vicino, ed ebbi la forte impressione di trovarmi in un luogo e in una città a me sconosciuti.

La giornata era grigia, l’asfalto appariva umido anche se non pioveva; rimasi ancora un minuto seduto, infine mi alzai spostandomi vicino all’autista. Devo scendere alla fermata dopo al mercato, dissi strascicando le parole ma come fosse la cosa più importante del mondo. Quale mercato, rispose l’autista che continuava a guidare con estrema tranquillità; da queste parti non ce ne sono di mercati, o almeno io non ne conosco. Va bene, risposi, spostandomi con estrema difficoltà verso l’uscita.

L’autobus ebbe un sussulto rallentando, infine si fermò. Scesi, e quando fui sopra al marciapiede mi accasciai subito a terra, colpito da un dolore fortissimo. La donna di prima, con la strana sciarpa sopra le spalle, mi era vicino, mi guardava, pareva quasi felice del mio stare male. Tutti mi fissavano ma nessuno aveva il coraggio di toccarmi, né di chiedere di che cosa avessi bisogno. Mi sentivo un estraneo, lontano da tutto, non riuscivo neppure a pensare come comportarmi, cosa chiedere per farmi aiutare. Mi rialzai da solo, con uno sforzo notevole, e mi allontanai barcollando lungo quel marciapiede. Incontravo persone che si fermavano a guardare che cosa facessi, come se tutto nel mio aspetto fosse fuori da qualsiasi logica minimamente accettabile.

In fondo le città sono tutte identiche, pensavo mentre continuavo a camminare senza una meta precisa; ci convinciamo di essere parte di qualcosa solo perché abbiamo paura di essere soli, e anche se sappiamo di esserlo - isolati, senza riferimenti - fingiamo che gli altri siano solidali con noi; invece è vero che ognuno pensa a se stesso, e ci aiuta soltanto in casi sporadici, forse perché in rare occasioni non riesce a mostrarsi del tutto indifferente. Nel mio caso la gente mi guardava, ma solo per fare attenzione a scansarmi, come non fossi uno di loro, uno identico a loro.

Cercavo di sorreggermi anche con le mani, appoggiandole ai muri delle case vicine, e strisciavo lentamente in quella maniera pensando a cosa mi sarebbe stato possibile fare, ma senza riuscire a trovare nessuna soluzione, se non andare avanti, sperare in qualcosa, qualsiasi cosa fosse. Vidi la medesima donna con la sciarpa che adesso mi seguiva, pareva divertirsi cinicamente con le mie difficoltà, così feci un gesto di sfida verso di lei, a cui seguì una delle mie risate nervose.

Vidi una piccola chiesa aperta a fianco del marciapiede: pensai di entrare là dentro, chiedere aiuto a qualcuno dei fedeli, poi mi resi conto che non c’era nessuno, che era deserta, così passai oltre. I locali pubblici al contrario erano pieni di gente che beveva e si divertiva, ma nessuno di loro avrebbe mai mosso un dito per me, era del tutto evidente. Infine, con le ultime forze rimaste, girai ad un angolo che immetteva in una strada minore, poco frequentata, e con sorpresa mi trovai davanti alla mia porta di casa. Frugai dentro alle tasche trovando anche la chiave, così entrai. Ero a casa, ero salvo, pensavo: potevo chiamare il mio medico, mettermi a letto, farmi curare, potevo fare ciò che volevo, perché tanto ormai l’inferno era rimasto alle mie spalle.

Bruno Magnolfi

Per le violette fiorite.




La casa era silenziosa a quell’ora, la lampada bassa diffondeva nella stanza una luce calda, lei stava seduta sulla sua poltrona preferita, e scorreva le parole delle pagine di un libro, un romanzo che aveva già letto molti anni prima. Le piaceva rivedere le cose che le erano piaciute durante la sua gioventù, era un po’ come ritrovare anche qualcosa di sé, di quelle passate emozioni, di quegli stupori che spesso aveva provato nella scoperta del mondo.

Le capitava spesso di ripensare qualcosa dei tempi passati, a volte anche senza volerlo, come se i suoi ricordi affiorassero alla mente da soli, composti da una propria vitalità, ma ogni volta lei si mostrava pronta a scacciarli, in dei casi con un gesto, oppure con un sorriso, o con un repentino ritorno al presente, quasi che il tempo dedicato a quei sentimentalismi si dimostrasse a lungo un comportamento deteriore, e comunque una sciocchezza poco importante. Loro tornavano, lo sapeva benissimo, lievemente, poco alla volta, senza ingombrare, e lei lasciava che si affollassero attorno alla sua poltrona per la lettura, per poi riprendere di nuovo ad allontanarli da sé, come un piccolo gruppo di animaletti curiosi.

Non si era sentita mai troppo vecchia, lei, che ancora andava a spasso con le sue amiche, sapeva adeguatamente truccarsi gli occhi, e spesso in giro riusciva a dar mostra di sé, con la sua personalità non da tutti e i suoi capelli curati, anche se quella solitudine che spesso provava certe volte indubbiamente la faceva soffrire. I libri la portavano via, ma lei voleva restare con i piedi ben piantati per terra, essere cosciente di tutto ciò che avveniva, informarsi, stare aggiornata sulla realtà ed i suoi cambiamenti continui.

La sua piccola casa certe volte le pareva perfetta per le sue esigenze: ogni angolo aveva uno scopo e da ogni parte lei si sentiva a proprio agio, come se tutto fosse disegnato per ogni sua piccola necessità. Ma più di ogni altro, era il posto dove teneva i piccoli vasi con le violette ciò che le dava una soddisfazione particolare. Aveva trovato il sistema per riprodurle, quelle piantine, partendo ogni volta da una semplice foglia, e ciascuna di loro, quando nasceva sopra a quel tavolo su cui le curava, accanto ad una finestra, mostrava, dopo aver messo le minute radici, una fioritura di colori sempre diversi. Non chiedevano molto, le sue violette, solo un poco di cure e di attenzioni, il resto lo facevano da sé, in bella mostra sopra la mensola, con delle fioriture meravigliose.

Le guardava, le toccava, ed era come se loro sapessero che lei era lì, ad osservarle con attenzione, pronta con orgoglio a mostrarle ogni volta che qualcuno andava da lei a farle visita. Prima di uscire di casa passava ancora da loro, come ad assicurarsi che tutto fosse a posto, poi si fermava davanti al grande specchio del corridoio, e dava un ultimo sguardo al suo viso, ai suoi capelli, come a raccogliere con un gesto il meglio di sé, e affrontare ogni aspetto che fuori l’attendeva.

Ma quel giorno non si era sistemata per uscire, non aveva guardato le sue piante, era rimasta seduta a leggere il libro, quel romanzo della sua gioventù, e quando si era alzata, forse in modo repentino, dalla sua poltrona, era andata, chissà come, a cadere come una sciocca, quasi senza rendersene conto. Il dolore fortissimo a una gamba le aveva reso evidente in un attimo la gravità di ogni cosa, e lei, impossibilitata a muoversi, era rimasta lì, semisvenuta, incapace di chiedere aiuto.

Il silenzio della casa non le dava sollievo, i suoi pensieri adesso correvano veloci, si soffermavano su tutto ciò che avrebbe potuto portale un aiuto, ma restarsene ferma là a terra era qualcosa che non aveva mai preso in considerazione, e il telefono era lontano, proprio all’ingresso, sotto allo specchio. L’avrebbero trovata lì, priva di vita, pensò in un attimo, fra tre o quattro giorni, o anche di più, ma in fondo tutto questo era un aspetto che riusciva persino ad accettare.

Ma poi le erano venute a mente le sue violette: non poteva lasciarle, avevano bisogno di lei, sarebbero seccate senza la sua mano esperta: quell’esperienza che aveva maturato con loro non poteva averla nessuno come lei, ne era sicura. No, non poteva lasciarle, sarebbero rimaste lì ad appassire, giorno dopo giorno, ignorate da tutti, e questo non lo meritavano. Si fece coraggio, pensando queste povere cose, si trascinò alla meglio lungo quel pavimento, e alla fine raggiunse il telefono. Non mi importa niente di me stessa, aveva detto alla sua amica che fortunatamente abitava vicino, spiegandole tutto ciò che era successo, ma devo pensare a queste violette, sono anche loro che hanno bisogno di cure, hanno bisogno di me, ed io non posso permettere che quei fiori meravigliosi appassiscano.

Bruno Magnolfi

martedì 16 novembre 2010

Sul mare coperto di nuvole





Il lungomare era il solito, l’acqua appariva grigia in autunno, quando il cielo era coperto di nuvole come in quel giorno. Inutile cercare di farsi portar via dai richiami di qualche gabbiano che batteva le ali svogliatamente poco distante dal largo marciapiede. Tutto sembrava come immobile, inutile, senza prospettiva, e un’ombra di tristezza si allungava sulla città e sul suo litorale.

Era domenica, Vittorio aveva camminato guardandosi attorno, si era sistemato su una panchina di pietra, aveva sfogliato distrattamente il suo quotidiano. Poi aveva notato un ragazzo che andandogli incontro lentamente, lo aveva salutato come si fa con una persona che si è riconosciuta. Si era fermato davanti a Vittorio, gli aveva sorriso, e infine, senza dir niente, si era seduto al suo fianco.

Ho perso l’entusiasmo, aveva detto con la faccia triste, come tra sé; fino a poco fa tutto mi pareva perfetto, andavo in giro, incontravo gli amici, passavo serate divertenti. Subito dopo ho incontrato una ragazza che mi ha fatto immaginare il futuro, mi ha chiesto che cosa rappresentasse per me, ed io mi sono sentito diverso da lei, come se il mio pensare fosse tutto racchiuso in un piccolo spazio e non riuscisse ad uscirne. Ho risposto vagamente, allora, ma per lei non è stato sufficiente e così se n’è andata.

Ho cercato di tornare dai miei amici, riprendere le cose di sempre, ma li ho visti diversi, come se qualcosa tra me e loro si fosse incrinato. La ragazza era sparita, improvvisamente ero solo, come mai mi era successo. Mi sono messo seduto e ho cercato di pensare alle cose migliori da fare in un caso del genere, ma non sono riuscito a costruire neppure un progetto, neanche a dare un senso ai miei giorni. Ho un lavoro, anche se non so quanto possa durare. Mi pare adesso che tutto il mio tempo si trasformi automaticamente in spazzatura, materiale da nascondere, da incenerire, da allontanare da me. Ecco, questo è tutto quanto mi sta succedendo, e non riesco a trovare nessuna risposta.

Vittorio intanto aveva piegato il giornale ascoltando con attenzione il ragazzo, lo sguardo rivolto al mare e ai gabbiani. Infine si era alzato da quella panchina, aveva sprofondato le mani dentro alle tasche, ed era rimasto un momento in silenzio, come preso da una riflessione difficile. Non posso aiutarti, gli aveva detto alla fine. Sei tu che devi trovare delle risposte, senza che gli altri ti suggeriscano quale sia il percorso che cerchi. Forse ci vorrà molto tempo, forse no: dipende da te, e da nessun altro. In ogni caso credo sia positivo che tu ne parli, come hai fatto qui oggi: solo analizzando le proprie difficoltà si riesce a superarle, solo affrontando le cose queste smettono di essere problemi, soltanto conoscendo se stessi si riesce a capire che cosa è meglio per noi.

I gabbiani continuavano con il loro richiamo, le nuvole sul mare parevano sempre più compatte, come se il sole non fosse mai esistito e il mare non potesse essere di altro colore se non di quel grigio spiacevole. Vittorio riprese la sua camminata, il ragazzo rimase sulla panchina: su quel lungomare non c’era nessuno, soltanto loro, e niente lasciava sperare in qualcosa di meglio.



Bruno Magnolfi

domenica 7 novembre 2010

La muffa, sulle risate.



Vorrei tanto non essere mai nata in questo vicolo, in questo posto da derelitti, dove si respira soltanto aria umida, con la vita che va avanti tra le grida che arrivano dalle finestre delle case scalcinate di fronte, e le parole che nessuno vorrebbe mai sentir dire, giù nella strada, quando i soliti scansafatiche si scambiano insulti o anche peggio, magari per niente, a volte solo per qualche sciocchezza. Io mi affaccio, guardo giù nella strada sempre identica, e mi pare impossibile come si possa vivere qui, e si continui a credere che le cose in questo modo possano essere ancora accettabili.

Certe volte prendo la mia borsetta ed esco da questo quartiere, me ne vado in giro, a vedere gli altri posti della città, quelli più signorili, e qualche volta faccio delle compere, acquisto per me una camicetta o una gonna, e torno a casa con la sensazione che le cose possano andare in maniera diversa da quella a cui tutti qui siamo ormai abituati. Certe mattine c’è il sole, io guardo quello spicchio di cielo che riesco a vedere dalla finestra, e mi sembra che tutto possa cambiare, basterebbe poco, mi illudo, un minimo di buona volontà.

Mio fratello, prima di andarsene definitivamente da casa, disse che se fossi stata soltanto un po’ più passabile avrei almeno potuto battere il marciapiede; così disse, e poi aggiunse che nel modo com’ero combinata, invece, non c’era proprio niente da fare. Hai ragione, pensai io in quel momento, da me non si riesce proprio a tirar fuori niente di buono, se non questo star qui a piangere, a guardare dalla finestra il vicolo maledetto, che mi lascerà portare via solo da morta, senza che neppure i vicini di casa quel giorno riescano a dare troppa importanza al mio funerale.

Guardo la strada, certe sere, e non riesco a vedere nient’altro che persone senza futuro, che vagano in mezzo alle case muffite fingendo di essere vivi, forse immedesimandosi in qualcun altro che apparentemente sembra solo più fortunato, ma proprio per questo quasi migliore di loro. Io li guardo, dalla finestra, e mi pare che niente potrà mai cambiarli: urlano, si dicono dietro delle cose del tutto irripetibili, credono di essere furbi, soltanto perché qualcuno concede loro un po’ di importanza, un elemento che in questo quartiere viene subito chiamato rispetto, e con questo procedono avanti, fingendo di non aver bisogno di altro, e di essere superiori alla media.

Io accudisco mia mamma, tiriamo avanti con i soldi della sua pensione, lei non si interessa quasi di nulla, non scende neanche più fino alla strada, guarda la televisione e questo le basta. Io spesso mi stringo nella mia cameretta, so che non ci sarà alcun futuro per me, eppure, quando posso, apro la mia finestra e guardo fuori, quel piccolo stupido mondo che posso vedere da qui. A volte fantastico, mi immagino che le cose possano andare in altra maniera, mi stringo nei miei scialletti sopra le spalle, e osservo la forma che ha assunto l’intonaco umido sulla facciata della casa di fronte. Poi rientro e chiudo la finestra accostandoci sopra le tendine fiorite.

Preparo qualcosa da mangiare, scambio giusto due parole con la mamma, ogni tanto, poi la lascio lì, davanti alla sua televisione, a dormire e a sprofondare nella sua poltroncina. Io torno a guardare fuori, appena posso. Stasera ci sono le stelle, riesco a vederne qualcuna nello spicchio di cielo qua sopra, poi guardo di nuovo la macchia d’umido sulla facciata di fronte: col buio ha assunto una forma ancora diversa, mi sembra bellissima, non saprei spiegare perché. Qualcuno parla a voce alta nel vicolo, come se stesse dentro a un deserto; altri rispondono, poi ridono, tutti in maniera sguaiata. Lo so che cadrà prima o poi quell’intonaco umido, quello sotto alla macchia che continua ogni giorno a farsi più larga. So che cadrà tutto insieme, e spero tanto che lo faccia proprio quando quelle persone sono lì sotto ad urlare, a ridere forte, a rendere la vita impossibile a tutti noi che vorremmo un’esistenza diversa, che cerchiamo una speranza qualsiasi, qualcosa che valga la pena di campare così, una vita che sia almeno priva di quelle loro risate.

Bruno Magnolfi

venerdì 5 novembre 2010

(Profilo n. 3). Un dito sporco.








Certe volte, prima ancora che tutti si spieghino, che trovino le parole per dirmi ciò che hanno pensato, io sento che le loro cose le conosco già, come se avessi già sentito i loro discorsi, e non avessi bisogno di altro. Non guardo mai in faccia nessuno, quando mi parlano, non ne ho alcun bisogno; loro dicono qualcosa, sento il brusio di quei ragionamenti, ma per me è già tutto chiaro, come non ci fosse neppure bisogno di quei discorsetti. Rido mentre guardo a terra un punto qualsiasi; rido di quelle parole che già conosco, che ho già sentito nella mia testa, e nessuno capisce che cosa io abbia bisogno di ridere, così aspettano un po’, lasciano tutti che io dia loro la possibilità di dire ancora qualcosa, e intanto mi guardano, come se non mi avessero mai visto in precedenza.

Io vorrei ridere soltanto tra me, dico la verità, e giusto di quelle parole, di quel loro modo di dirmi le cose, come a un bambino, ma non riesco proprio a resistere: guardo ancora quel punto là a terra, e rido senza riuscire a fermarmi. Qualcuno scuote la testa, mi guarda e pensa che io non sappia far altro che quello: ridere e basta. Invece no, loro non lo sanno, ma certe volte io piango.

Piango soltanto quando sono da solo, quando nessuno può rendersi conto che io sono triste. Sono triste perché quelle parole che in precedenza credevo di sapere così bene, che non avevo neppure bisogno di ascoltare per comprenderne il significato, quelle che tutti gli altri mi riferivano, che avrebbero voluto farmi ascoltare, ma che io avevo già compreso, ecco che improvvisamente, quando sono da solo, si confondono tutte tra loro, si distorcono, si sformano, non hanno più nessun senso, ed io, derubato di quelle parole, mi sento completamente svuotato, vuoto di tutto.

Non lo so perché questo succeda, ma all’improvviso tutto quello che credevo di conoscere bene cade a terra, proprio verso quel punto che precedentemente stavo osservando, ed io rimango a vagare nel vuoto, senza niente. E’ allora che piango, ma loro non se lo possono immaginare neppure, perché mi sento così soltanto quando sono da solo, e quindi nessuno mi vede.

Quando ritornano tutti, si mettono subito a dirmi qualcosa, scherzano, pensano alle parole migliori da dirmi, ed ecco che dentro di me tutto riprende la solita logica, di nuovo le parole diventano inutili, ed io sento dentro di me tutto quello che vogliono dirmi. Non parlo mai, io, non ho alcun bisogno di usare le loro parole, quelli mi guardano, mi fanno le analisi, sostengono che non ci sia niente che impedisca a me di parlare; eppure non parlo, non dico niente, e alla fine ricomincio anche a ridere, con le mie risate che lasciano tutti storditi, delle quali in nessuna maniera io sento di poter fare a meno.

Che male c’è, in fondo, penso; lascio a loro tutta la logica delle parole, tanto a me neppure serve, io le cose le capisco senza bisogno di altro, mi basta guardare per terra in un punto qualsiasi per tornare a ridere forte. Poi un giorno come tutti quegli altri si mettono in tre a parlare tra loro e a farmi domande. Io guardo a terra il solito punto, poi dico: silenzio!, sorprendendo un po’ anche me stesso. Così quelli mi guardano e dopo un po’ se ne vanno. Più tardi mi fanno entrare dentro a una stanza e dicono che forse la cosa migliore di tutte è che io inizi a fare qualche disegno.

La faccenda a me pare interessante, non ho mai fatto cose del genere, però non ho alcuna voglia di far vedere a loro che mi piace l’idea. Guardo per terra e infine mi metto a fare dei segni con un dito sporco. Mi forniscono di tutto il materiale che serve: carta, matite, penne, tutte cose del genere, poi mi lasciano solo. Io prendo un foglio, lo strofino a terra fino a quando quello si sporca per bene, poi con il dito ci faccio qua e là delle macchie, e infine torno da loro. Silenzio, dico a voce bassa mostrando il disegno, e rido di nuovo, proprio come un pazzo, di tutti.



Bruno Magnolfi