giovedì 25 novembre 2010
(Profilo n. 6). Quasi oltre le case.
Un uomo cammina per strada, si guarda attorno, indubbiamente non ha alcuna fretta, tiene le mani sprofondate dentro le tasche di un soprabito logoro, mentre nelle sue idee tutto di quella strada cittadina appare indifferente ai suoi passi. Ci sono persone che lo incrociano, alcuni lo sfiorano, qualcuno forse lo nota, vestito malmesso com’è. Un signore vestito in maniera elegante gli tocca un braccio, gli chiede: ha bisogno di qualcosa?, ma l’uomo scuote la testa sotto al suo cappellaccio consunto, senza neppure girarsi; non ha bisogno di niente, lui, solo di percorrere quel lungo marciapiede, fino alla fine, nel punto dove quella strada si immette in un viale alberato. Non sa perché, ma ha deciso così, e questo è tutto ciò che adesso ha importanza per lui.
Poi ci ripensa, si ferma, guarda dietro di sé. In fondo è vero che non abbia bisogno di niente, che cosa importa se la sua vita si sia ridotta allo stremo, riesce benissimo a tirare avanti in qualche maniera; in fondo, tra la moltitudine delle persone di una città, qualcuno deve pur fare la parte del povero e del senza casa. No, lui vive di piccole cose, percezioni da niente, sottili messaggi che gli giungono in modo inconsueto, che ritiene di saper interpretare, di vivere appieno, e la sua ritiene sia una gran libertà, quella cioè di sentirsi sempre pronto e adeguato a quei segnali.
Resta fermo, sopra a quel marciapiede, annusa l’aria come farebbe un cane che cerca una pista, infine vede il portone semichiuso di un condominio lì accanto, ed entra dentro, come rispondendo a qualcosa che non sa neanche lui a quale natura appartenga. In fondo all’ingresso ci sono le scale, e lui si siede, come in attesa di qualcosa che non riesce a capire cosa possa mai essere, ma sa che arriverà, sicuramente, mentre in apparenza resta su quel gradino soltanto per riposarsi, per uscire dalla vista della gente lungo la strada.
Il palazzo sembra deserto, non si sentono giungere neanche rumori, oltre quelli della via transitata, e dall’alto arriva una luce diffusa, trasmessa probabilmente da un lucernario che si apre sul tetto. L’uomo si sente curioso, volge lo sguardo in mezzo alle scale, su verso il tetto, e vede la luce che giunge da lì. Allora si alza, sale le scale con tutta la calma possibile ed evitando qualsiasi rumore. C’è una porta alla fine di tutte le rampe, là dove la luce è più intensa, lui gira quella maniglia e la apre.
Una vasta terrazza malandata torreggia sopra tutte le case là attorno, l’uomo osserva con calma tutto il quartiere, guarda a lungo la chiazza di verde lontano dove ci sono i giardini pubblici, poi si incuriosisce del viale alberato, quello verso cui era diretto, poco distante da lì. Le automobili si muovono svelte lungo le strade, lui si sente bene in quell’aria piacevole che circola lenta tra i tetti e i comignoli. Poi si sporge dal muro, guarda la strada, il marciapiede, vede persone rispetto alle quali adesso si sente preferito, in qualche maniera, come se fosse al di sopra delle sciocchezze ordinarie di cui è preda chiunque.
Infine si siede, con le spalle appoggiate a quel muro scrostato e con tutta la città sotto mano, quasi lì accanto: no, pensa, non ho bisogno di niente; posso spostarmi da una parte a quell’altra, guardare la gente, la loro nevrosi; ho la capacità riflessiva per apprezzare cose che gli altri non vedono, la libertà di sentirmi al di fuori da quasi tutte le regole, nessuno mi attende, nessuno si aspetta qualcosa da me; ecco, è questo il messaggio che doveva arrivare, sapevo che era nell’aria, era evidente che avessi necessità di questo sostegno, adesso posso tornare a camminare lungo quel marciapiede, adesso sto bene, mi sento ricco.
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