sabato 27 novembre 2010

Il sorriso delle bambine.


Adesso stiamo tutti in silenzio mentre il motore della macchina di papà sembra il lamento monotono di un animale domato. Guardo dal finestrino le case, la campagna, gli alberi, mentre fuori continua a piovere e le gocce d’acqua scivolano giù lungo il vetro, a pochi centimetri dal mio naso. Io e mia sorella come sempre stiamo sistemate sui sedili di dietro, i nostri genitori davanti. Ci siamo divertite un sacco a prendere in giro papà che non riusciva a vedere la segnaletica giusta lungo la strada, anche perché lui con noi è costantemente in minoranza. Ma dopo un po’ la mamma ci ha detto: via bambine, ora basta, lasciate guidare papà in santa pace, e io e mia sorella ci siamo raggomitolate qua dietro, ognuna per conto suo, dando corso ai nostri pensieri.

Non so neppure verso dove stiamo andando, e neppure perché, in fondo che importa, a me piace star qui a sonnecchiare, a lasciare che tutto scivoli intorno, come questo paesaggio troppo veloce per poter essere racchiuso dentro a un pensiero, troppo rapido per definire un’immagine che possa restare dentro la mente. Così tutto corre, e per me è come se questa giornata fosse infinita, e questa automobile riuscisse ad attraversare tutto il possibile, senza tornare mai indietro, lasciando alle spalle la scuola, i giocattoli, la cameretta che divido con mia sorella, tutti i pianti e gli scherzi in cui abbiamo ecceduto in questi ultimi tempi.

Papà dice qualcosa alla mamma, io non ascolto, mi lascio cullare dalla presenza rassicurante dei miei genitori, e questo mi basta. Adesso piove di meno, ma le ruote ogni tanto fanno schizzare l’acqua da dentro le pozze. Non so cosa sia voler bene, so che vorrei tanto che questo viaggio non avesse uno scopo, che non ci fosse niente che definisse il bisogno di aver affrontato questa giornata piovosa, vorrei che mio padre dicesse che stiamo facendo soltanto una gita, un giro qualsiasi per vedere se in un’altra città riesce a piovere alla stessa maniera come in quella dove abitiamo.

Forse i miei genitori hanno accennato qualcosa di questa giornata, forse ci hanno spiegato, a me e a mia sorella, il motivo per cui oggi non c’è stato bisogno di andarcene a scuola. Magari è qualcosa di particolarmente importante, ma io non ho ascoltato le loro parole, mi sono rifugiata nel gusto di questo viaggio, senza preoccuparmi di altro. Penso tra me che forse ho sbagliato, avrei dovuto stare più attenta a quanto dicevano, ma in fondo che importa, rifletto, a me basta star qui, aver piena fiducia nel loro essere perfettamente consapevoli di cosa sia meglio per noi.

L’auto va avanti, adesso è smesso di piovere, mia sorella mi ha dato una spinta col piede, forse solo per stuzzicarmi, ma io l’ho ignorata, ho voglia solo di starmene qui, per conto mio, in mezzo ai pensieri. Forse lei ha capito dove si va, e questo un po’ mi dispiace, però poi rifletto che non è niente di particolarmente importante, che lei ne sappia un po’ più di me non cambia assolutamente le cose. Infine la nostra automobile rallenta, entra dentro un enorme parcheggio, riconosco i simboli di un ospedale, guardo mia sorella con un’espressione interrogativa.

Andiamo a trovare lo zio ammalato, dice lei sottovoce, coprendo perfettamente in un attimo ogni vuoto che all’improvviso mi si era aperto dentro la testa. Giusto, penso tra me, la nostra famiglia è più larga di noi quattro che stiamo qua dentro, dobbiamo avere un pensiero per tutti, anche per chi vediamo di rado, portare il conforto a chi non può muoversi. Infine la macchina è ferma, gli sportelli si aprono, mi sento restia a scendere da qui, ma poi esco fuori, guardo il grande edificio di fronte e tiro un respiro nell’aria lavata; adesso credo di sapere cosa sia voler bene: guardo i miei genitori e so che stiamo portando un sorriso allo zio, forse perché è proprio di questo che lui ha un gran bisogno.

Bruno Magnolfi

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