mercoledì 17 novembre 2010
Viaggio oscuro nella propria città.
Avevo la febbre quel giorno, e la mia faccia doveva avere un’espressione contorta mentre continuavo a ridere nervosamente senza motivo. Restavo alla fermata, in attesa, come gli altri, sicuro che tutti là attorno mi osservassero come si osserva un pazzoide. Non mi importava, neanche io sapevo che cosa stessi facendo, e neppure dove dovessi recarmi, però mi stringevo dentro alle spalle e davo corso ai miei pensieri, alle mie incomprensibili voglie.
Salii sopra l’autobus appena il mezzo aprì le porte pneumatiche, guardai con una rapida occhiata le poche persone là sopra, poi mi sedetti di fronte ad una donna che mi fissò per qualche secondo. Subito dopo quella strana signora con una buffa sciarpa attorno alle spalle ebbe un moto come di preoccupazione, si toccò leggermente la fronte, tornò ad osservarmi, quindi si alzò da dove si trovava avviandosi verso l’uscita. Sentii come scendere una calma improvvisa e momentanea dentro di me, mi volsi senza un motivo, osservai con occhi appannati fuori dai vetri il gruppo di palazzi a cui stavamo passando vicino, ed ebbi la forte impressione di trovarmi in un luogo e in una città a me sconosciuti.
La giornata era grigia, l’asfalto appariva umido anche se non pioveva; rimasi ancora un minuto seduto, infine mi alzai spostandomi vicino all’autista. Devo scendere alla fermata dopo al mercato, dissi strascicando le parole ma come fosse la cosa più importante del mondo. Quale mercato, rispose l’autista che continuava a guidare con estrema tranquillità; da queste parti non ce ne sono di mercati, o almeno io non ne conosco. Va bene, risposi, spostandomi con estrema difficoltà verso l’uscita.
L’autobus ebbe un sussulto rallentando, infine si fermò. Scesi, e quando fui sopra al marciapiede mi accasciai subito a terra, colpito da un dolore fortissimo. La donna di prima, con la strana sciarpa sopra le spalle, mi era vicino, mi guardava, pareva quasi felice del mio stare male. Tutti mi fissavano ma nessuno aveva il coraggio di toccarmi, né di chiedere di che cosa avessi bisogno. Mi sentivo un estraneo, lontano da tutto, non riuscivo neppure a pensare come comportarmi, cosa chiedere per farmi aiutare. Mi rialzai da solo, con uno sforzo notevole, e mi allontanai barcollando lungo quel marciapiede. Incontravo persone che si fermavano a guardare che cosa facessi, come se tutto nel mio aspetto fosse fuori da qualsiasi logica minimamente accettabile.
In fondo le città sono tutte identiche, pensavo mentre continuavo a camminare senza una meta precisa; ci convinciamo di essere parte di qualcosa solo perché abbiamo paura di essere soli, e anche se sappiamo di esserlo - isolati, senza riferimenti - fingiamo che gli altri siano solidali con noi; invece è vero che ognuno pensa a se stesso, e ci aiuta soltanto in casi sporadici, forse perché in rare occasioni non riesce a mostrarsi del tutto indifferente. Nel mio caso la gente mi guardava, ma solo per fare attenzione a scansarmi, come non fossi uno di loro, uno identico a loro.
Cercavo di sorreggermi anche con le mani, appoggiandole ai muri delle case vicine, e strisciavo lentamente in quella maniera pensando a cosa mi sarebbe stato possibile fare, ma senza riuscire a trovare nessuna soluzione, se non andare avanti, sperare in qualcosa, qualsiasi cosa fosse. Vidi la medesima donna con la sciarpa che adesso mi seguiva, pareva divertirsi cinicamente con le mie difficoltà, così feci un gesto di sfida verso di lei, a cui seguì una delle mie risate nervose.
Vidi una piccola chiesa aperta a fianco del marciapiede: pensai di entrare là dentro, chiedere aiuto a qualcuno dei fedeli, poi mi resi conto che non c’era nessuno, che era deserta, così passai oltre. I locali pubblici al contrario erano pieni di gente che beveva e si divertiva, ma nessuno di loro avrebbe mai mosso un dito per me, era del tutto evidente. Infine, con le ultime forze rimaste, girai ad un angolo che immetteva in una strada minore, poco frequentata, e con sorpresa mi trovai davanti alla mia porta di casa. Frugai dentro alle tasche trovando anche la chiave, così entrai. Ero a casa, ero salvo, pensavo: potevo chiamare il mio medico, mettermi a letto, farmi curare, potevo fare ciò che volevo, perché tanto ormai l’inferno era rimasto alle mie spalle.
Bruno Magnolfi
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