sabato 27 novembre 2010
Ora di pranzo per una bella signora.
Lei aveva bevuto un piccolo sorso di vino rosso dal calice, poi si era toccata leggermente le labbra con il tovagliolo, infine aveva guardato qualcosa fuori dal finestrone, in fondo alla vasta sala da pranzo. Non erano rimasti in molti nel ristorante, oltre loro soltanto due tavolate di famiglie complete di bambini e di persone anziane, dall’altra parte del locale, nella forte luce di quel primo pomeriggio della domenica. Si vedeva una collina verde, fuori dai vetri, con il suo fianco cosparso di ulivi e vigneti, e una casa, forse un rudere ristrutturato, una pennellata di rosso sbiadito sul corpo grigio e giallastro della pietra dei muri.
Il cameriere aveva portato la frutta, sistemato qualcosa sulla tovaglia bianca, dopo si era allontanato, mostrando gesti e portamento meno impeccabili e più rallentati del momento quando la sala si era riempita di gente, ogni gruppo vantando la propria prenotazione, a cui si era dato seguito con l’immancabile biglietto sul tavolo dal cognome ben scritto, in evidenza. Erano belli da vedere, quei pranzi di famiglia retaggio di vecchie tradizioni, quasi un contrasto con il loro tavolo piccolo, per due persone soltanto, una tristezza forse, sottolineatura forzata del giorno di festa, da trascorrere in modo diverso praticamente per obbligo.
Lui aveva gradito, come suo solito, gli arrosti abbondanti che erano stati serviti; aveva elogiato più di una volta la cucina ottima e semplice di quel ristorante, e si era dedicato in modo quasi completo a quel pranzo cadenzato con calma, completo di tutto, coronamento perfetto di una bella giornata di sole, dei suoi pensieri ottimistici, del suo sorriso di soddisfazione. Aveva parlato quasi senza interesse di alcune altre cose, il suo lavoro, le feste impellenti, qualche aneddoto della sua vita, ma giusto per non lasciare nell’aria troppi silenzi. Lei lo aveva ascoltato, immersa in una calma disappetente, toccando qualcosa nei piatti qua e là, giusto per dare importanza alla tavola. Poi si era svagata, più di una volta, con quella campagna che si vedeva fuori dai vetri, poco lontano, ed aveva pensato alla sua infanzia, chissà perché, come tentando di fuggire dai suoi quarant’anni di adesso.
In fondo non era nostalgica, però si perdeva certe volte nei ricordi di qualche giornata di tanti anni fa, in occasioni in cui si era sentita distante da tutto, e aveva iniziato ad osservare e a valutare le persone che in quei casi aveva d’intorno, come estraniandosi, osservando di tutti quanti solo i lineamenti, i gesti, gli sguardi, fino ad annullare le loro parole, come se soltanto il silenzio desse loro la giusta collocazione, immergendo ogni situazione che si presentava ai suoi occhi dentro ad un tempo irreale, dilatato, quasi distorto.
Un piccolo vezzo della sua mente di bambina, forse, ma anche una maniera diversa per rendersi conto di aspetti minori, quasi per ritrovare un senso comune nelle persone che conosceva, valutandone discorsi e argomenti, per come quelle riuscivano a interpretarli col viso, con le mani, coi gesti, annullando le loro parole, i loro argomenti, qualsiasi discorso ordinario. Ecco, insieme a quell’ultimo sorso di vino, le erano tornate a mente quelle volte, come se adesso potesse ancora permettersi di rivivere quello stesso comportamento, quella medesima curiosità.
Lui aveva detto qualcosa, lei aveva sorriso guardandolo; poi aveva notato la piega che dal naso andava diritta fino all’angolo della bocca, come se fosse la prima volta che la vedeva. Aveva valutato il naso, leggermente spugnoso, le guance, ben rasate ma quasi inerti dietro al bisogno di sorridere di tutta la faccia. Una distanza incommensurabile le era parsa stagliarsi dietro quella espressione, forse la maggiore tra tutte quelle che aveva registrato nella sua infanzia. Infine aveva appoggiato il suo tovagliolo sul tavolo, si era alzata in piedi lentamente scostando la sedia, ma quasi senza averne coscienza. Il cameriere aveva detto che le avrebbe chiamato subito il taxi, non c’era alcun dubbio: una bella signora, aveva detto, non si deve mai far aspettare.
Bruno Magnolfi
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