martedì 26 aprile 2011

Una minima vita possibile.


Una minima vita possibile.

Sono tutte uguali le stanzette di questo istituto, ma a me la mia sembra più bella, più grande, più accogliente di qualsiasi altra. Spesso mi piazzo lì da solo, specialmente durante i lunghi pomeriggi, e mi sembra quasi che tutto sia migliore, e certe volte mi sento addirittura contento che i miei figli abbiano deciso di portarmi qui, dove sto bene, ho tutto ciò che serve, forse anche più del necessario. A volte cammino avanti e indietro nella camera, con il mio passo lento, zoppicando leggermente come faccio sempre, dal letto alla finestra e viceversa, e gli spazi mi sembrano aumentare mentre vado da una parete all’altra, quasi che la mia stanza fosse magica, capace di sorprese di cui non so neppure dare spiegazione.

Poi scendo giù nel salottino, dove stanno gli altri, o nella refezione, tanto per vedere se ci sono delle novità, o se magari sia cambiato qualche cosa, e parlo con qualcuno dei miei compagni di viaggio, come li chiamo io, e chiedo loro quasi sempre le cose di cui amano parlare, quelle medesime da cui si sentono assillati, i loro malesseri, i dispiaceri, le antipatie, ed io annuisco, faccio capire che sono dalla loro parte, siamo tutti una famiglia, come ripeto spesso a tutti. Con un’occhiata, proprio mentre parlo e ascolto, e quasi con indifferenza, ma in realtà con grande interesse, guardo subito in quegli ambienti comuni se è di turno Caterina, se c’è lì in giro, con le sue mani perennemente impegnate e i suoi capelli lunghi legati sulla nuca, e se la vedo mi sento subito contento: soltanto sapere che c’è, che è lì da qualche parte, mi fa sentire quasi un altro. Lei parla con tutti a voce alta, generalmente dà sempre risposte sbrigative, per questo io a lei non faccio mai delle domande: le parlo, questo si, ma a bassa voce, e soltanto quando mi passa vicino, così le dico qualche cosa probabilmente di ordinario, ma come fosse un patrimonio dell’umanità, e lei credo gradisca quel mio atteggiamento, forse sorride addirittura dentro di sé, e mentre sbriga le sue cose, mostrando quanto importanti reputa quei piccoli momenti, evita quasi sempre di guardarmi.

La mia giornata sembra diversa quando è di turno Caterina, io la osservo mentre si muove svelta tra tutti questi vecchi, e mi sento migliore solo perché lei è qui vicina, sarei capace di affrontare anche qualche sacrificio pur di stare ad osservarla, pur di starle accanto. Agli altri certe volte li rimprovera, ma a me non dice niente, se proprio non ne è costretta. Io continuo ad amoreggiare sempre così con lei, per tutto il tempo che riesco a farlo, e non cambierei una virgola di queste sensazioni. Forse non c’è alcun significato in ciò che faccio e in ciò che penso, ma se non ci fosse lei la mia giornata sarebbe terribilmente triste e vuota, di questo sono sicuro, assolutamente.

Quando Caterina infine se ne va, saluta tutti con un gesto, chiude alle sue spalle la grande porta a vetri, poi esce dal giardino con la macchina, una piccola vettura di colore verde scuro, ed io spesso corro, come posso, ad osservarla dalla mia finestra, almeno fino a quando non sparisce fuori dall’alto cancello di metallo nero, e sempre le dico, anche se solo tra me e me: arrivederci; perché tra i miei pensieri so quanta felicità sia stata aver potuto ancora guardarla, stare con lei, parlarle per un altro giorno, e so mentre va via che resterò in attesa tutto il tempo fino a quando non la rivedrò, che sia domani o chissà quando; e immagino che un giorno riuscirò persino a dirle: sei tu, Caterina, la persona più importante della mia stupida vita; è poca cosa, lo so, ma in questo poco sappi pure che c’è tutto me stesso.

Bruno Magnolfi

lunedì 25 aprile 2011

La strada per sempre.

Caddi, è vero, ma forse riuscii a rialzarmi, diceva il vecchio al piccolo gruppo di settantenni e oltre che lo ascoltava senza sognarsi neppure di interromperlo. Non si vedeva spesso la sua faccia accigliata in quell’angolo di piazza, al sole del primo pomeriggio, dove invece amavano ritrovarsi tutti quegli altri, e quando arrivava, quelle poche volte, spesso senza neppure salutare, se ne restava in disparte, in silenzio, senza sentire la necessità di dire qualcosa, di spiegare la propria opinione, come invece tutti facevano. Stava lì, seduto al margine di una panchina, fermo ad osservare soltanto qualcosa intorno, gli alberi immobili, le case, le aiuole poco curate del giardinetto, quasi che le persone presenti, o quelle che stavano in giro in quella zona, non lo interessassero affatto.

Aveva iniziato il suo discorso quasi senza sentire la necessità di riferirsi ad altre parole, cominciando a parlare dal niente, come per dare a tutti e a nessuno una sua versione particolare di alcune cose, quasi come scavando dentro se stesso, alla ricerca di qualcosa di cui gli altri avrebbero addirittura potuto provare interesse, anche se non era questo il punto importante. Non ricordo neppure se ero ancora giovane allora, diceva; ricordo che ero consapevole di tutto, proprio come mi sento ancora adesso, e questo esclude già molto della mia gioventù. Avevo conosciuto una donna, l’avevo osservata attentamente, le avevo chiesto qualcosa, e tutto ciò era bastato a farmi capire quanto importante fosse il suo sguardo per me.

Non dissi niente, le feci solo intuire il mio stato d’animo, e lei non cambiò di una virgola la sua espressione, ma venne da me soltanto per dirmi che lei era pronta. Ce ne andammo, senza bagaglio, senza salutare nessuno, ma quegli anni erano davvero difficili, e tutto si complicò in pochi giorni. Tornare indietro sarebbe stata una sconfitta amarissima, così la accompagnai alla corriera solo per salutarla, restando a guardare la polvere che si alzava dietro di lei. Cercai del lavoro, vagai per diversi paesi della zona e così mi ritrovai qui, dove ho trascorso tutto il resto della mia vita, e dove forse morirò. Che importa ricordarsi adesso tutto il resto, pensare a chi era lei, che cosa accadde in seguito: non ha alcuna importanza, perché era solo quello il momento difficile che mi trovai ad affrontare, tutto il resto ne è stato soltanto conseguenza.

A un certo punto però sentii di essere riuscito a ritornare in piedi; certo, questo non dice niente di ciò che continuai a portare dentro di me, ma ad un tratto seppi che non aveva più alcuna importanza. Forse era il percorso tortuoso che avevo completato la cosa essenziale, ma non mi piace più neppure ricordarlo: solo a volte, senza che lo voglia, la memoria torna ancora lì, quasi a riaffrontare quei pensieri, ed è soltanto in quei momenti che mi convinco di come non sarebbe mai potuta andare in una maniera differente.

Gli altri erano rimasti in silenzio, avevano ascoltato tutte le parole, nessuno si era sognato di interromperle, poi avrebbero voluto abbracciarlo, ma nessuno lo fece.

Bruno Magnolfi

domenica 24 aprile 2011

Un percorso da intraprendere coi piedi nudi



Non c’è una ragione precisa che mi spinga ad andarmene via; eppure è sufficiente che io chiuda gli occhi, mi assenti da questa semplice quotidianità, tolga il presente da tutti i miei pensieri, per sentirmi con naturalezza subito lontana, via da tutto, da tutto ciò che ogni giorno mi circonda, tutto ciò che oramai sento spremuto fino all’osso, che non mi offre quasi più nient’altro di tutto ciò che sento di aver già avuto, quasi come se niente di questo ormai mi appartenesse, o come se io non appartenessi più a ciò che forse vorrei ancora. Penso confusamente queste cose mentre esco, la borsetta con le solite cose, la gonna che rammenta la mia femminilità.

Mi inchino per un attimo, quasi per abitudine, aggiustando il fermaglio di una scarpa dal suono secco che fa il tacco sopra al pavimento: poi chiudo la porta, un altro suono fermo, deciso, senza alcuna possibilità di sfumature. La giornata è bella, piena di sole, vorrei soltanto potermi soffermare ad aspirarne il sapore, sentirne sulla pelle la piacevolezza che riesco solo a immaginare. Vado, devo spingermi oltre, lo so, ne ho piena consapevolezza. Gli altri intorno sembra che si spieghino tra loro le medesime cose di sempre, ma non importa, non provo alcun minimo interesse a vivere diversa da me stessa. Mi spingo avanti, non so neppure verso dove, eppure so che uno scopo mi attrae, ci deve essere per forza qualcosa oltre le lacrime che velano il mio sguardo.

Lungo il marciapiede mi salutano, sorrido, non ci vuol niente ad essere cortesi, in questo quartiere mi conoscono, eppure so che questa falsità di cui tutti siamo consapevoli non porterà niente di buono, prima o poi presenterà il suo conto, dovremo allora essere onesti. Mi spingo oltre, devo percorrere la strada che mi è più congeniale, nessun dubbio neppur minimamente può incrinare la mia consapevolezza. Eppure le mie convinzioni si ammorbidiscono mentre cerco qualcosa senza importanza dentro la mia borsa, e forse vorrei urlare qualcosa che non ho assolutamente chiaro, e dire a voce alta a tutti quanti che sto male, ma che non so neppure io perché, e che forse se ne avessero la voglia di rifletterci, anche loro probabilmente si renderebbero conto di star male, perché è solo una finta quella del compiacimento di queste stupidaggini, e che alla fine non è vero che siamo tutti dalla stessa parte: anzi, probabilmente siamo costantemente in una aperta competizione, immersi in una forte, terribile competizione; e tutto ciò soltanto per riempire questo vuoto, quello che anche io sento proprio adesso, che sento qui, da qualche parte.

Mi rifugio in un negozio, uno qualsiasi dove sono stata già parecchie volte, osservo le cose, saluto, mi guardo attorno: non ho più alcuna certezza, potrei acquistare qualche cosa, adagiarmi sopra le solite abitudini, ma anche se non voglio essere così, non riesco proprio a pensare qualcosa di diverso. Esco, la giornata è ancora la medesima, non è successo niente se non dentro di me, ma io sono una spugna, riesco ad assorbire qualsiasi cosa, tutti possono continuare a salutarmi ed io a sorridere fino alla nausea, se mai questa si farà davvero avanti. Poi mi inchino nuovamente e con un gesto secco mi slaccio questi stupidi sandali primaverili con il tacco, li tolgo dai piedi con gesto rabbioso e li getto lontano. Rido senza vergognarmi mentre cammino scalza lungo il marciapiede, qualcuno evita il mio sguardo: ma il mio percorso è solo iniziato.

Bruno Magnolfi

Scena n. 18. Una ragione per essere se stessi.


Il tempo si è allungato, all’improvviso, e chissà come io non me ne sono proprio accorto, e d’un colpo mi sono semplicemente reso conto di quanto adesso tutto sia più intenso, più duraturo, fin quasi ogni pensiero, ogni pur minima attività da compiere; all’improvviso so che ognuno di questi fatti richiede maggiore impegno, assorbe un’intensità che probabilmente dura più a lungo, e mi sento quasi spossato nella mia minuta capacità di fare anche queste piccole cose a cui in precedenza non avevo neanche dato peso. Che cosa strana, mi trovo a dover riempire un tempo che non scorre, e quelle poche attività a cui devo adempiere sembrano gravose, tanto quasi da cogliere il semplice suggerimento di disinteressarmene.

Giro per casa ancora in pigiama, con le ciabatte ai piedi, e mi accendo con piacere la mia prima sigaretta della giornata: il fumo grigio sale piano verso il soffitto, osservo l’orologio e scopro che è prestissimo. Riordino le cose lasciate in giro dalla sera precedente, mi preparo un caffè, osservo albeggiare oltre le tende alle finestre, riprendo in mano una vecchia lettera a cui non ho ancora risposto, poi torno ad osservare le lancette: sono passati soltanto due minuti, forse tre, di una giornata che si prospetta infinita, piena di piccole cose da fare, ma che paiono esistere soltanto per definire un senso alla giornata stessa.

Decido di uscire, mi lavo, mi preparo, indosso una giacca a cui sono affezionato, infine scendo le scale senza fretta, evitando di procurare rumori molesti. L’aria fresca del mattino mi avvolge in un momento, il cielo grigio mostra una neutralità di indicazioni a cui non posso che dar seguito, e mi incammino, certo, senza neppure sapere verso dove io sia diretto. Il bar del quartiere è aperto e alcune persone stanno lì a dirsi le medesime cose di ogni giorno: evito il locale, proseguo verso la strada dei negozi anche se sono ancora chiusi, passeggio con calma e da solo sopra al marciapiede che tra un paio d’ore sarà pieno di persone; per abitudine torno ad osservare il mio orologio da polso: sono le otto di una giornata già da archiviare, inutile e sospesa come tutte le giornate da trascorrere senza alcun impegno.

Un buon esercizio potrebbe essere quello di ripercorrere con i pensieri le cose del passato, ma non è questa la mia indole, e poi non credo ci sia qualcosa di veramente interessante da ricordare adesso. Così vado avanti, osservando i piccoli dettagli della città già in movimento, e fingo consapevolezza in ciò che sto facendo, acquisto un giornale giusto per osservarne il primo titolo e poi riporre quei suoi fogli di carta ben piegati in una tasca. Potrei mettermi a correre, penso, prendere un tram all’ultimo momento trottando dietro a impegni inderogabili, forse costruirmi un personaggio realistico da interpretare con intensità, tanto da scambiare me con lui, ma a che cosa servirebbe, mi chiedo, forse solo a sentirmi uno come tutti.

Torno sui miei passi, costeggio un giardinetto spoglio, con le panchine vuote, ma non mi fermo, proseguo verso casa, d’improvviso sento dentro di me che devo rispondere a una lettera, qualcosa d’importante che adesso, non so neanche perché, avverto di avere tralasciato troppo a lungo. Salgo i gradini, entro dentro al mio appartamento, tutto è esattamente come l’ho lasciato, guardo l’orologio e mi accorgo che è trascorsa quasi un’ora: la lettera a cui devo rispondere è lì, sopra al mio tavolo: la prendo, la guardo, la soppeso, la strappo in tanti piccoli pezzetti che stringo dentro al pugno e risolutamente vado subito a gettarli nel cestino.

Bruno Magnolfi

domenica 17 aprile 2011

Sarà proprio così, probabilmente.



Ci sono delle volte che mi siedo qui e non penso niente, diceva la vedova del signor Carli ad una sua conoscente la quale, sapendola sola tutto il giorno, ogni tanto andava a farle una visita in quella bella casa un po’ periferica con un grazioso giardinetto sul davanti. Di fatto ormai erano diversi anni che era venuto a mancare suo marito, ma la vita della donna era sempre proseguita come se il signor Carli fosse stato assente per tutto quel tempo in maniera assolutamente momentanea, anzi, come se il suo rientro a cosa fosse un semplice ritardo, questione di un giorno o addirittura poche ore.

Certe volte, passando per caso lì davanti, si poteva notare la vedova del signor Carli mentre si affacciava con curiosità su quel suo giardinetto, forse per osservare le sue rose o qualche altro fiorellino che curava quasi ogni giorno, certo; ma era facile, in uno di quei frangenti, sorprenderla a gettare uno sguardo oltre la recinzione di ferro battuto, fino in fondo alla strada, come aspettandosi di veder sopraggiungere l’automobile di quel suo povero marito, morto d’infarto all’improvviso e lontano da casa, rientrato in anticipo dai suoi tanti impegni di lavoro. Poi la donna saliva quel paio di gradini senza alcuna delusione per essersi accorta che la vettura transitata non assomigliava affatto, neppure nel colore, a quella bella macchina che aveva avuto suo marito, e allora si piazzava lì, seduta su una vecchia poltrona di vimini, come armandosi di rinnovata pazienza, nella consapevolezza che forse ci sarebbe voluto più tempo di quanto si sarebbe aspettata.

Ecco, diceva adesso la vedova del signor Carli a quella conoscente; mi piazzo qui, sulla mia sedia, e nessun pensiero sembra passarmi per la testa: noto che non c’è niente che non va nella mia vita, ed anche se spesso sembra che io sia troppo sola, di fatto non è vero, lo sento dentro di me, nel mio profondo, che questo non è vero. Non sento alcun bisogno di riempire un vuoto, perché non c’è alcun vuoto, sono assolutamente consapevole di questo. L’altra la faceva parlare senza darle troppo retta, le spiegava al contrario qualcosa della sua famiglia, del suo essere sempre di corsa nel preoccuparsi di tutte quelle piccole cose che rendono completa una giornata, secondo lei, ma la signora Carli continuava semplicemente ad ascoltarla in silenzio, con quel mezzo sorriso sulle labbra che indicava come una superiorità e quasi uno stupore nell’apprendere di un’esistenza e di comportamenti così distanti dai suoi modi. Si formavano a volte delle pause nel loro discorrere tranquillo, ma la vedova del signor Carli era sempre tranquilla, quasi imperturbabile nel suo restarsene all’interno di quell’atteggiamento che non mutava mai.

Lo so che mio marito non tornerà, diceva a quella conoscente senza attendere neppure che le avesse rivolto una domanda di quel genere; però la sua presenza è qui, è nell’aria, e poco importa cosa sia la verità delle cose: so che una vettura ha svoltato ancora in questa mia piccola strada, forse è la sua, forse è lui che è qui, che sta già tornando, e a me non mi importa neppure sapere cosa mai io possa preparargli per la cena: quando sarà qui ci penserò, o decideremo insieme, probabilmente.

Bruno Magnolfi

sabato 9 aprile 2011

Decisioni sofferte.


Decisioni sofferte.

Certe volte ci si sente soli davanti a delle scelte difficili, pensava Eugenio mentre tornava verso casa a piedi, infagottato nella sua giacca forse troppo ampia. Molte cose dipendevano dalle decisioni che avrebbe dovuto prendere in quel breve periodo: il lavoro, il suo futuro, la sua situazione; tutto, in una parola sola; e dietro a ciascuna decisione pareva si annidassero sia aspetti positivi che lati svantaggiosi, lasciandolo continuamente perplesso. Camminava un po’ angosciato, con la testa presa dai pensieri e con le mani affondate nelle tasche, e aveva trovato con la punta delle dita, proprio mentre si guardava attorno quasi a cercare con gli occhi qualcosa che lo sollevasse da quelle sue preoccupazioni, un vecchio e minuto pezzetto di matita, nascosto in una piccola scucitura della fodera, qualcosa che era rimasto lì chissà per quanto tempo, retaggio della sua voglia quasi scomparsa di fare dei ritratti. Aveva sorriso di quel buffo segnale, ma si era fermato volentieri in un caffè lungo la strada, e si era seduto ad un tavolino, giusto per bere con calma qualcosa di fresco.

Si era guardato attorno nel locale quasi deserto, aveva pensato ancora per un attimo alle sue importanti decisioni da prendere, poi si era lasciato catturare da una tovaglietta chiara di carta ruvida sopra al suo tavolo, completamente immacolata. Non importava neppure riflettere molto per trovare un soggetto adatto per il suo disegno: il cameriere aveva mostrato un’espressione insolita servendo la sua consumazione, e la matita di Eugenio si era mossa quasi rispondendo ad un automatismo. Era un gioco, un divertimento, niente di più, ma tratteggiando velocemente quella faccia, lui si sentiva subito bene, come se la sua vita vera fosse quello, non le complicazioni da affrontare, non quelle scelte difficili e antipatiche che lo attendevano, senza alcun riparo.

Gli piaceva ancora disegnare a Eugenio, e tante volte negli anni passati aveva ricevuto i complimenti da molti, soprattutto per il colpo d’occhio con cui sapeva catturare un gesto, un atteggiamento, in qualche caso anche un carattere. Gli veniva naturale, ecco tutto, proprio al contrario di quello che accadeva alla sua vita, sempre contorta e complicata, quasi un compendio di sforzi in cui si trovava sempre invischiato, quasi che i suoi guai in certi casi lui se li andasse proprio a cercare, e tutto questo impegno gli servisse solamente per riuscire a sopravvivere.

Con pochi tratti veloci aveva messo insieme l’espressione che gli era rimasta impressa nella mente, poi aveva completato il suo disegno con qualche particolare di contorno, e infine aveva scritto il suo nome di battesimo in fondo a quella tovaglietta, alzandosi dal tavolo e pagando la sua consumazione, restando in piedi giusto un attimo davanti al cameriere. Uscì dal locale, Eugenio, e fu solo dopo qualche passo che sentì qualcuno che chiamava quel suo nome, da non molto lontano: grazie, gli diceva il cameriere sorridendo dalla soglia di quel bar, non solo per il ritratto che è bellissimo, ma anche per il mozzicone di matita che ha lasciato, quasi un monumento alla sua arte.

Bruno Magnolfi

lunedì 4 aprile 2011

Nel disegno della fantasia



Qualcosa sbatte fuori dalla casa, forse mosso dal vento freddo e antipatico di questa serata. Una presenza inquietante, un esterno che reclama qualcosa per sé, forse solo attenzione, oppure il semplice comprendere la natura delle cose. Ennio si alza, si avvicina ad una finestra, scosta la tenda e guarda fuori, proprio là, dove non c’è niente di invitante e tutto sembra oscuro e identico, quasi inamovibile. Poi riaccosta la tenda e torna alla sua comoda sedia con braccioli, mentre la radio nella stanza prosegue con i suoi notiziari intervallati da musica soffusa, quasi distensiva, se non fosse che questa va inesorabilmente a cozzare con la serata più inquietante tra quelle che Ennio ricorda da molto tempo a questa parte, proprio forse per quel vento che da ore ormai non accenna a diminuire.

Non succede niente di particolare, tutto appare come al solito, eppure è come se da un attimo all’altro potesse manifestarsi l’epilogo di tutto, quasi che una forza superiore tenesse in mano quei minuti e quelle ore meditandone la fine. La continua trasformazione delle cose è solo una maniera per evitare di annoiarsi, pensa Ennio; di fatto non sostituiamo mai troppo tra tutto quello di cui l’abitudine ci ha reso schiavi, e il solo pensiero di poter fare a meno di qualcosa, non è mai neppure preso seriamente in considerazione. Ennio si alza, prende in mano dalla libreria un vecchio romanzo che ha già letto, riflette sul titolo che per la prima volta gli appare bello, insolito, appropriato, poi torna ad infilare il volume nello stesso spazio da dove è stato preso.

Il vento adesso sibila leggermente, e da qualche parte gli strani colpi irregolari continuano esattamente come prima. La radio mette in onda le medesime notizie precedenti, sembra che niente di nuovo negli ultimi minuti si sia verificato di minimamente rilevante. Ennio torna a sedersi e immagina di guardare di nuovo fuori da una delle sue finestre: è buio già a pochi metri da quei miseri lampioni che illuminano appena davanti a loro stessi, e si intravedono soltanto in lontananza le sagome degli alberi che lasciano muovere le loro chiome nei colpi d’aria continui di quella strana serata. Un uomo, con le mani affondate nelle tasche, rimane fermo in fondo alla strada, lasciando che il vento gli spazzoli il soprabito. Guarda qualcosa davanti a sé, forse proprio la finestra da cui Ennio osserva la serata, e per un attimo probabilmente i loro sguardi si incrociano, ma subito dopo le rispettive solitudini riprendono immediatamente la supremazia su ogni altro pensiero.

C’è da starsene poco tranquilli, pensa Ennio, ci vuol niente per sconvolgere per sempre la vita ordinaria di una persona qualsiasi. Poi si alza, si accosta alla finestra e constata con sollievo che non c’è nessuno fermo laggiù in fondo alla strada, come aveva immaginato. Il vento prosegue il suo percorso, la radio costituisce una presenza di normalità, niente in fondo pare oscurare veramente la serata, se non quei colpi lontani che ancora si ripetono, e che mostrano quanto incomprensibile sia ancora la realtà, quanto distanti le cose da prendere seriamente in considerazione. Infine Ennio indossa velocemente il suo vecchio cappotto ed esce sulla strada, a rendersi conto di persona che cosa sia quell’inquietudine che quasi non gli concede più respiro: l’uomo che aveva immaginato è lì, lo vede, nel vento, lontano dai lampioni, e lo attende, proprio come se lo era immaginato, con le mani affondate nelle tasche ed il viso senza alcuna espressione, e niente c’è davvero di diverso da quello che lui aveva poco prima sospettato.

Bruno Magnolfi

domenica 3 aprile 2011

Queste mie mani mostrano soltanto ciò che io sono



La mie mani adesso sono strette a pugno, lentamente le apro, ma dentro non c’è niente, neppure una traccia di tutto ciò che hanno toccato, sfiorato, stretto, come se ogni oggetto, ogni gesto, qualsiasi azione fosse stata cancellata, e forse penso sia risultata sufficiente un poco d’acqua semplice, strofinarle insieme per pulirle con un normalissimo lavaggio, e via, tutto nello scarico. Mi alzo dalla sedia, penso a quante cose rimangono ogni momento alle mie spalle, quante sono già rimaste in tutti questi anni: perdute, dimenticate, inservibili persino nel grande alveo delle esperienze, quelle che formano opinioni e lasciano maturare le idee, certe volte, ma che in altri casi restano lì, senza alcun seguito, come semplici cose morte.

Guardo ancora le mie mani, e resto convinto che potrebbero forse dire molto, con tutte le loro pieghe ramificate dentro ai palmi, alle dita distese, ai polsi ancora forti, eppure le guardo, continuo a guardarle, e non riesco ad avere alcun pensiero, nessuna riflessione, nonostante cerchi a lungo di conservare la concentrazione. Queste mani sono cresciute con me, mi hanno aiutato in tutte le fasi in cui le mie idee hanno sentito la necessità di prolungarsi in un atto, in un gesto, in una qualsiasi attività, spesso risultando assolutamente necessarie al conseguimento dei fini che io mi ero proposto, tutto ciò che avevo già immaginato, le cose che avevo pensato di fare.

Stanno ferme adesso, immobili, come se ormai non trovassero altro da fare che starsene lì, dentro una tasca, o appoggiate sopra al tavolo, in fondo alle braccia quasi inerti, senza più niente di cui occuparsi. Poi mi muovo, sistemo qualcosa dentro casa, riordino gli oggetti usuali che forse servono soltanto per farmi sentire ancora vivo, padrone di questo tempo e di questo mio piccolo mondo, ma tutto sembra solo una semplice ironia: le mie mani si muovono veloci, risolute, occupandosi di elementi poco significativi, quasi senza importanza, ed io so che in questo modo riesco soltanto a riempire un vuoto che in altro modo apparirebbe come una ferita.

Dietro ad un mobile scopro delle vecchie fotografie, immagini che rimandano a qualcos’altro, ad altri tempi, a certi periodi per antonomasia più felici, e mi viene da sorridere guardandole: le mie mani erano lì, anche in quei momenti, sempre con me, mentre venivano scattati quei ritratti; forse immaginavano già l’indolenza e l’apatia in cui sarebbero cadute insieme a me prima o poi, eppure non indicavano niente che mostrasse questa consapevolezza. Continuo ad osservare quelle foto, ed immagino altre mani da cui saranno tenute prima o poi, forse anche quelle che con un gesto rapido le getteranno via, come oggetti ormai inservibili, proprio come tante altre volte le mie stesse mani hanno cercato di riassumere tante cose dentro un gesto solo, in una mossa unica. Torno a sedermi: le mie mani sono con me, forse è davvero tutto ciò che mi rimane.

Bruno Magnolfi

venerdì 1 aprile 2011

Con sguardo estraneo (quasi una vecchia fotografia)



Con sguardo estraneo (quasi una vecchia fotografia)

Dalla strada, sia a destra che a sinistra, si vedevano i bagnanti, durante la stagione, in un’aria così appiccicosa di caldo e di polvere che persino il mare, con la sua risacca dondolante e quasi bianco a quell’ora d’inizio della seconda metà del giorno, diventava in parte sgradevole, persino faticoso. I ragazzi spesso si sentivano arrivare con le loro biciclette: parlavano a voce alta e ridevano, certe volte fischiavano non forte avvicinandosi al cancello della villa, e subito ad una delle terrazze, al primo piano, si affacciava Alberto, il loro amico, e tramite un segreto meccanismo, ecco che i cardini di ferro tra le due imponenti colonne sul davanti, cigolavano leggermente, aprendo con lentezza il giardino ombroso e tutta la casa ai nuovi ospiti. Solo più tardi avrebbero attraversato tutti assieme la strada per andare a tuffarsi in mare davanti alla striscia di arenile privato quasi sempre deserta, dove solo qualche volta si vedeva qualcun altro di quella famiglia dal nome altisonante.

Passando là davanti si avvertiva un profumo di fiori che forse era soltanto una normale suggestione derivata da quegli alberi e da quei fitti cespugli che appena si intravedevano oltre le mura e le alte inferriate a torciglioni che costituivano il perimetro del parco, ma era impossibile non provare un moto d’invidia per tutta quella costruzione così perfetta agli occhi di ciascuno dei paesani, elegante e completa, in qualsiasi dettaglio. Come completa appariva la famiglia che là dentro abitava e trascorreva giusto l’estate, lasciando che una coppia di persone dignitose tenesse tutto in ordine e pulito nel resto di ogni anno.

Alberto era il primogenito di altri due fratelli distanziati da lui di parecchi anni, mostrandosi di fatto ancora dei bambini, e che certe volte, ma non sempre, si potevano notare di mattina in spiaggia con la loro mamma, e una persona o due della servitù per aiutare ad accudirli. Al pomeriggio invece era solo lui, con quei soliti tre o quattro amici, tutti di città, a dominare incontrastato l’arenile. Si tuffavano in acqua, giocavano al pallone, si piazzavano sdraiati sotto agli ombrelloni che qualcuno apriva loro, e si godevano quello spazio libero dalla calca dei paesani e della gente più normale, lasciando tutti a distanza, oltre due staccionate di contorno bianche ed eleganti. Qualcuno passeggiando da lontano sulla spiaggia li guardava, cercando forse di individuare proprio il figlio del proprietario della villa, e forse qualche ragazza prendeva a camminare ancheggiando oltre misura in quei dintorni.

Fu un giorno di vento, ma come tanti altri, a sconvolgere la normalità di quelle cose. Forse per gioco quel gruppo di ragazzi si era spinto più al largo per quel bagno, forse ad Alberto era mancato il fiato tutt’insieme, così almeno in molti raccontarono fin da quella sera: lo portarono a riva che già non respirava e gli urli degli amici non furono neanche presi troppo sul serio dalle persone un po’ distanti da quel loro arenile. Ci vollero tanti minuti prima che ci si rendesse conto e che arrivasse un medico, il quale riuscì soltanto a constatare ciò che ormai era avvenuto. La villa fu immediatamente chiusa, ogni cosa fu lasciata così come si trovava, e in seguito abbandonata completamente al suo destino, fino a degradarsi negli anni senza alcun rimedio, restando solo negli occhi dei paesani quell’immagine di completezza che forse un giorno era sembrata.

Bruno Magnolfi