martedì 28 maggio 2013

Due calci.

         Il primo calcio Enrico lo aveva sferrato nel buio con tutta la forza che aveva, senza neppure pensare alle possibili conseguenze del suo gesto, ma quasi d’istinto, forse per allontanare il più possibile da sé quella minaccia, come per una sorta di spontanea autodifesa, immediata, semplicemente naturale. L’altro, pur piegandosi in due dal dolore al basso ventre, aveva proseguito a brandire il coltello dentro la mano, come fosse l’ultimo elemento a cui affidare la sua persona e i suoi gesti, quasi una sorta di finale possibilità per essere ancora se stesso. Si era appoggiato a terra con l’altra mano, forse imprecando qualcosa di incomprensibile o piangendo per il dolore, ed Enrico aveva immediatamente fatto uno scatto in avanti, giusto per ritrovarsi alla fine del vicolo buio da cui stava passando, e sfuggire il più velocemente possibile alla morsa di quell’agguato assurdo di cui non sapeva neanche darsi una spiegazione, se non ci fosse stata quella sua borsa per documenti, piena di cartacce in realtà, però vistosa, quasi elegante.
            Si era subito vergognato del suo gesto poco maschile: colpire in quella maniera la persona che lo aveva minacciato non era da lui, e così aveva percorso quei pochi metri per uscire dalla zona più pericolosa per poi voltarsi indietro, quasi a rendersi meglio conto di ciò che effettivamente era accaduto. L’altro si era già rialzato, adesso sembrava volesse guardarlo pur proseguendo a respirare con grande affanno, e forse conservando nell’espressione una specie di prolungamento dei suoi modi aggressivi, anche se in realtà faceva più pena che altro. Enrico si era fermato, probabilmente volendo chiedergli qualcosa magari usando un modo sprezzante: che cosa avesse creduto di fare in quella maniera, per esempio; ma non gli era venuto in mente che il suo comportamento potesse sembrare soltanto un modo per umiliare l’avversario e cercare di stravincere.
            L’altro, ancora piegato in avanti, con difficoltà aveva fatto semplicemente un passo o due, infine aveva gettato a terra il coltello, quasi in senso di resa, come volesse mostrare che era pienamente consapevole della sua stupidaggine. Enrico aveva proseguito a guardarlo, si era meglio reso conto della sua giovane età, dell’aspetto malmesso, immaginando lo stato di miseria in cui versava la sua situazione. Avrebbe voluto fare qualcosa piuttosto che andarsene via come dettava una norma di prudenza, ma non era facile, non voleva neppure essere male interpretato, e comunque non gli sembrava il caso di correre a quel punto altri rischi. Così aveva proseguito a restare immobile, forse sperando semplicemente che qualcun altro passasse da lì.
            Alla fine si era mosso leggermente verso il ragazzo che adesso pareva stringersi dentro le spalle, come se un attacco di febbre lo avesse portato a provare dei brividi di freddo; gli aveva chiesto davvero che cosa avesse creduto di fare, poi, a scanso di equivoci, gli aveva chiarito che non aveva soldi o preziosi con sé, che quell’aggressione era un assurdità. Mentre parlava però gli montava la rabbia, come una semplice reazione al pericolo, e quasi per scandire bene le sue parole, si era avvicinato ancora a quell’altro, fino a ritrovarsi ad una distanza solo di un paio di metri. Il ragazzo stava ancora in silenzio, il coltello distante, lo sguardo basso, quasi come a provare vergogna.
            Era stato allora che Enrico gli aveva assestato il secondo calcio, piazzandolo con tutte le forze che aveva, e stavolta non più per paura o per allontanare un pericolo, ma per puro disprezzo, quasi un colpire con il peggio di sé quello che all’improvviso gli pareva inaccettabile, lontano, distante dai suoi modi e dalla sua vita. Il ragazzo era subito caduto a terra, si era rotolato su di sé dal dolore, neppure tentando una reazione, non accorgendosi neppure che il suo avversario era già uscito dal suo campo visivo. Aveva soltanto sentito qualcuno ridere, ormai in lontananza.

            Bruno Magnolfi

domenica 26 maggio 2013

Ritratto.

  Alla fine lei resta seduta in cucina, accarezzando come fosse il gatto la sua vecchia sciarpa di lana appoggiata alla spalliera di una delle sedie. Devo uscire, mormora tra sé; indossare la gonna, la camicetta, un soprabito, le scarpe adatte, fare una lista delle cose che servono, ricordarmi le chiavi, il sacchetto della spazzatura da portare giù, chiudere a doppia mandata la porta, lasciare accesa la radio, per i ladri, che sembri ci sia in casa qualcuno, e poi scendere le scale con lentezza e attenzione, che all’inquilino del piano di sotto i miei tacchi danno fastidio.
            Quando sarò rientrata nel mio appartamento con le buste della spesa, pensa ancora, che ad ogni passo si faranno più odiose e pesanti, sistemerò tutto nel frigorifero e nella dispensa, e rifletterò solo a quel punto che non ho praticamente fatto un bel niente: soltanto servizi, sopravvivenza, semplici gesti rituali di tutti, praticamente abitudini.
            Bruno Magnolfi

domenica 12 maggio 2013

sassi nel lago.

Il viaggio attraverso il dolore è molto lungo, buio, difficile e doloroso .

Supplica a mia madre.

E’ difficile dire con parole di figlio
  ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

  Tu sei sola al mondo che sa, del mio cuore,
  ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

  Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
  è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

  Sei insostituibile. Per questo è dannata
  alla solitudine la vita che mi hai data.

  E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
  d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

  Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
  sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

  ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
  alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

  Era l’unico modo per sentire la vita,
  l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

  Sopravviviamo: ed è la confusione
  di una vita rinata fuori dalla ragione.

  Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
  Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

Pier Paolo Pasolini

L'uomo dal berretto di lana


     Elisa non aveva neppure osservato la strada davanti a sé, neanche aveva concesso un’occhiata al condominio dove aveva abitato in quegli ultimi tre anni: semplicemente era salita sulla sua automobile e ne aveva avviato il motore; poi era partita. Facile andar via, pensava, quasi sorridendo tra sé; anche senza una destinazione precisa. Qualcuno le aveva detto che in fondo non era così facile, ma a lei, che da un po’ di tempo gli avvenimenti apparivano estranei quasi fosse diventata insensibile, tutte le cose adesso pareva scorressero per conto proprio, in autonomia. Le complicazioni a seguito ci sarebbero state, era evidente, ma questo non aveva alcuna importanza: ormai era avvenuto il passaggio principale, lei adesso non si sentiva più la stessa di sempre.
            La vettura di Elisa, quasi in sintonia con i suoi pensieri, ronzava tranquilla, la direzione imboccata la spingeva verso la costa, sul mare, e una volta da quelle parti avrebbe deciso senza fretta il da farsi. In tasca aveva una riserva di soldi, alle spalle il rapporto con una persona tutta da dimenticare. Ma non era questo il motivo della sua fuga. Anzi, la sua non era neppure una fuga, bensì un semplice allontanarsi, prendere una pausa dalla vita di sempre, andare a vedere e a respirare qualcosa di diverso.
            Immaginava un gruppo di balordi scappati fuori da una baracca di legno lungo la spiaggia. L’avrebbero rincorsa, fatta cadere sulla sabbia calda e poi violentata, una volta strappati con rabbia i vestiti da dosso. Elisa sorrideva, non aveva paura di retaggi del genere, le persone non sono nate cattive, pensava, ci sono delle condizioni che le fanno diventare così, ma lei si sentiva tranquilla, avrebbe vigilato con molta attenzione sulla sua solitudine, in quel suo dormire di notte dentro quella automobile circondata soltanto da cose essenziali.
            Ecco, forse era proprio questo il tema principale di tutto: avere con sé soltanto lo stretto necessario, tornare a sentire attraverso la pelle il caldo ed il freddo del giorno, il vento, gli odori, respirare l’aria libera, decidere qualcosa senza alcun obbligo. Forse anche correre qualche pericolo, ma anche questo faceva parte del gioco, non era evitabile. A tratti, guardando l’asfalto davanti a sé,  ad Elisa le pareva di vivere l’America di qualche decennio più indietro, ma era chiaro come non fosse questa la cosa importante: non c’era nessuno a cui volesse neppure minimamente assomigliare, cercava qualcosa di se stessa, ritrovare una persona che col tempo forse si era assopita, nient’altro.
            Per prima cosa tolse le scarpe e mise i piedi nudi nell’acqua, poi camminò a lungo da sola sulla sabbia scura e levigata del bagnasciuga. Non c’era nessuno in quel tratto di costa, ma quando arrivò l’uomo dal berretto di lana, a lei parve che tutta la spiaggia fosse piena di gente. Lui disse qualcosa, lei gli rispose, infine si avviarono insieme, verso qualcosa che probabilmente non era chiaro a nessuno dei due, ma che in quel momento pareva quasi avere la precedenza su tutto.
            Bruno Magnolfi

martedì 7 maggio 2013

Memoria del niente.


           

            
            Quasi ogni giorno vengo qui, ad osservare questo pezzo di terra dopo le ultime case del mio paese. Non c’è niente di particolare qui: gli alberi rimangono in fondo, dove inizia il bosco, il muretto di pietre costeggia la strada da dove non passa nessuno; e questo campo incolto, abbandonato da chissà quanti decenni, dove qualche volta un pastore della zona spinge una ventina di pecore a brucare l’erba, mostra soltanto la pace e la calma del niente.
            Torno indietro, rientro in paese, saluto qualcuno, raggiungo la piccola piazza ed entro dentro al caffè, a perdere un po’ di tempo e bere una birra. Qualcuno mi ha detto che è stato acquistato quel pezzo di terra, gente che non si conosce, un altro si chiede chissà cosa faranno. E’ solo un pezzo di terra, dico alle persone che conosco di più, non si può farne molte cose, forse costruirci un capannone, oppure villette a schiera, o farci una serra per coltivazioni intensive.
            Così tutti i giorni torno a vedere se qualcosa è accaduto, se siano arrivate le ruspe, le gru, gli operai, a cambiare l’immagine di tutta la zona. Non me ne importa moltissimo, non si può essere nostalgici di tutto, addirittura per quello che non è ancora accaduto, ma in ogni caso mi pare quasi ci sia qualcosa di me in quel pezzo di terra, e vorrei tanto non gli succedesse niente di brutto.
            Mi siedo sopra una pietra, aspetto qualcosa, come se le mie stesse giornate dipendessero soltanto da quanto forse è già stato deciso. Le ortiche e i papaveri continuano a crescere su quel pezzo di terra, ed io mi sento con loro, con quella maniera casuale e distaccata che hanno le piante spontanee di uscire fuori da una parte o dall’altra. Poi, qualcuno che sa, mi tocca una spalla, mi dice che non accadrà proprio un bel niente, nessuno ha intenzione di fare nulla in quel luogo, se non lasciare le cose così come stanno.
            Mi sento quasi deluso, torno al caffè, sulla piazza, saluto qualcuno e mi faccio servire una birra: siete soltanto paurosi, dico a tutti i presenti; non sapete affrontare le cose. Vi basta non mettervi mai in discussione, o che qualcuno non venga a togliervi le vostre abitudini. Io sono pronto, al contrario di voi, ad ogni variazione possibile. Perciò cerco di conservare un atteggiamento vigile e critico, che non significa semplicemente far niente, bensì un comportamento che tenga conto di quanto possa accadere, se mai accadrà, e di guardare le cose col valore che hanno nel tempo, perché tutto è destinato a cambiare, questo caffè, questo paese, noi e le nostre stesse espressioni.
            Poi bevo un sorso della mia birra, gli altri mormorano qualcosa senza rispondere niente. Per questo dobbiamo avere memoria, riprendo; ricordarci perfettamente di quanto è accaduto ieri ed il giorno prima, perché niente, una di queste volte, sarà ancora com’è sempre stato, e noi ci abitueremo alla svelta ai nuovi modi, ai cambiamenti avvenuti, e saremo diversi, per forza, senza neppure riuscire a rammentarci da dove tutto questo in un giorno qualsiasi è potuto uscir fuori.
            Bruno Magnolfi