domenica 30 giugno 2013

Ultima annotazione.

            
            Nella stanza adiacente a questa cameretta dove mi tengono relegato, chiuso a chiave ogni volta che qualcuno di loro esce dall’appartamento per qualche commissione, sono sicuro che in questo momento stanno parlando di me, di come giorno per giorno stia diventando sempre più un problema, e del peso che rappresento per chi, come tutti loro, sente l’oppressione della mia presenza in questa casa. Non riesco a sentire del tutto i loro discorsi, soltanto qualche parola o sillaba isolata, ma immagino con facilità il mio nome ripetuto più volte, quasi ad esorcizzare la persona che lo abita, in un crescendo di opinioni probabilmente sempre più sferzanti e cattive, dette magari con voci alterate, a malapena tenute sotto controllo, per non farsi sentire dal vicinato.
            Da un giorno all’altro attendo il verdetto che immancabilmente mi colpirà: mi toglieranno la possibilità anche di aprire un semplice spiraglio della finestra, di uscire da questa stanzetta per gironzolare lungo il corridoio e sedermi su una sedia del largo salotto; forse hanno addirittura già in mente di aumentare la dose del calmante che mi costringono ad assumere regolarmente. Vorrebbero annullarmi, questo è il punto, ne sono quasi sicuro; vorrebbero farmi sparire da qui, di davanti la loro presenza, forse trovare la maniera morale per lasciarmi richiudere in qualche istituto.
            Resisto: cerco di dormire la maggior parte delle ore del giorno, e qualche volta, quando mi sento irrequieto, magari proprio durante la notte, nel silenzio profondo di questo quartiere dimenticato, scrivo qualcosa sui margini dei pezzi di carta che trovo qua e là, strappati da qualche rivista illustrata o dai libri vecchi e ingialliti sugli scaffali. Cerco di appuntare le cose che sento, quelle che mi sembrano maggiormente importanti, utilizzando un vocabolario mentale ridotto ai minimi termini, ma che ugualmente certe volte mi pare efficace, adatto in qualche maniera a spiegare con parole semplici i miei poveri pensieri.
            Sono un essere scomodo, questa è la verità. Un vecchio rincitrullito che ha sempre cercato di parlare di tutto, di dire quello che pensa, di non vergognarsi mai dei propri modi di intendere tutte le cose. Non ho mai cercato consapevolmente di oppormi a loro, piuttosto mi è sempre sembrato importante cercare di essere onesto, giusto, capace di valori in cui credere. Ma tutto questo ormai non ha alcuna importanza: proseguo nelle mie convinzioni a tirare avanti come posso per allineare queste mie semplici parole, tutto ciò che mi resta. Infine qualcuno socchiude la porta, mi osservano per un attimo restando poco oltre la soglia. Non cambio espressione, resto fermo a guardare le loro facce, i visi seri e tirati che forse devono comunicarmi qualcosa. Non ti chiuderemo più in questa camera, dicono in fretta; ma solo se ci prometti che non scriverai più i tuoi foglietti che getti continuamente dal davanzale, e che ormai hanno attirato curiosi e sostenitori delle tue idiozie.
            Naturalmente rifiuto ancora una volta qualsiasi trattativa, anche se mi rendo conto che la mia battaglia sarà persa comunque; però sorrido, non ho assolutamente paura di loro, penso come ultima riflessione. Ho le mie parole con me, questo mi basta.

            Bruno Magnolfi

lunedì 24 giugno 2013

Dietro uno sguardo.

            
            Oggi se ne rimane da solo nel suo angolo, Renato, come fa sempre quando sta passando un periodo buio. Noialtri lo osserviamo, ogni tanto, ma senza un vero interesse, come se non ci si aspettasse  niente dalla sua immobilità, da quel suo rinchiudersi, dall’isolarsi in quel modo da tutto il mondo. La giornata va avanti, le cose procedono come sempre, e lui ad un tratto si alza dalla sua sedia, va a prendersi un semplice bicchiere d’acqua, guarda qualcosa fuori dalla finestra, poi torna esattamente dove era rimasto fino a quel momento.
            Rosanna si avvicina, gli dice qualcosa a voce bassa, ma lui non risponde, resta indifferente, immobile come se non avesse bisogno di nulla, degli altri meno che del resto. Ma lei non si dà per vinta, gli spiega qualcosa con tranquillità, e poi, senza insistere troppo, si allontana per qualche momento, ma infine torna lì, da lui, in silenzio, come a tenergli compagnia. Sembra soltanto testardaggine la sua, eppure non è così, lo sanno tutti.
            Certe volte Renato volge lo sguardo sopra tutti noi, e allora noi immaginiamo che ci voglia dire qualcosa, che abbia bisogno di spiegarci il suo pensiero. Lui parla, usando parole ferme, calme, come fossero state riflettute innumerevoli volte, fino a condensarsi in quelle semplici espressioni così pacate. Non c’è niente di male, pensa Rosanna, lui è così, ha bisogno dei suoi tempi per decidere come spiegarsi, cosa dire per farci capire come è fatto, che cosa gli è passato nella testa.
            Poi si alza, osserva gli altri, con una semplice occhiata fa capire a tutti noi che siamo condannati, non sarà mai possibile che le cose evolvano in maniera differente. Rosanna forse lo comprende più di tutti, per questo in certi giorni lo evita del tutto, perché sa perfettamente quando non verrà mai niente di buono dai suoi comportamenti. Lei lo guarda e riesce con semplicità ad interpretare il suo modo di essere.
            Certe volte invece Renato si dispera, come se sapesse di essere relegato nel suo corpo strambo, che non c’è per lui alcuna possibilità di farsi capire per davvero. Vaga nervosamente per i corridoi, noi non lo perdiamo mai di vista, naturalmente, e lui lo sa, lascia che i nostri sguardi lo attraversino, che forse lo accompagnino. Si muove cercando qualcosa, ma sa perfettamente che non troverà mai niente. Rosanna lo lascia perdere, certe volte; in alcuni casi però lo avvicina, cerca di cambiare qualcosa del suo umore, ma è difficile, lo sa perfettamente.
            Infine si calma, Renato, si sistema nella sua solita sedia, lascia che accanto a sé arrivi Rosanna, e infine regala un sorriso a tutti noi, come fosse il distillato della sua personalità deviata, capace di essere sensibile oltre ogni misura, fino ad immaginare realtà ed espressioni che tutti noi non riusciremo mai a comprendere, anche se non smetteremo di tentare. Chissà cosa c’è dietro ai suoi occhi, ci chiediamo a volte tra di noi; chissà che cosa ha visto mentre era assente, lontano, via da questa clinica psichiatrica.
            Bruno Magnolfi

domenica 23 giugno 2013

Oltre i pensieri

        Sto seduto nella mia cella, su questa piccola panca di legno senza schienale, mentre il tempo stilla lentamente l’espiazione dei miei presunti peccati. Certe volte ripenso ai miei errori, ma non ne trovo mai di fondamentali, se non quest’essermi lasciato andare a vivere come tutti gli altri, senza scelte precise ritagliate intorno alla mia vera indole. Poi esco, vado per strada ad incontrare le persone, qualcuna mi saluta, ed arrivo sempre in fondo al corso, dove si apre la piazza che preferisco. Mi siedo su una panchina di pietra e mi pare che tutto si muova come in una giostra, ritornando continuamente al punto di partenza. Fa ridere la mia espressione assorta, penso; forse dovrei semplicemente smettere di essere così, e probabilmente anche di pensare.
            Siede accanto a me una persona anziana, sembra indifferente a tutto, invece dice qualcosa, un ordinario apprezzamento al bel tempo di oggi, invitandomi così alla conversazione, ma senza impegno. Rispondo alle sue parole, lui si gira leggermente verso di me, poi fa una pausa. Dice sottovoce di chiamarsi Armando, di portare su di sé ormai parecchi anni, ma di non avere alcuna voglia di morire. Sorrido, annuisco, chiedo con garbo se faccia qualcosa per ovviare a questo inevitabile inconveniente. Cerco di parlare con le persone, dice. Cerco di raccontare agli altri quello che mi ricordo, le piccole sciocchezze accadute quando ero un ragazzo, o anche prima, e di come si riusciva ad essere persone anche senza l’uso della tecnologia.
            Nessuna nostalgia, immagino, dico senza enfasi. No, fa subito: assolutamente. Non ha alcuna importanza quello che accade di nuovo, importante è non farsi prendere la mano, le persone sono sempre uguali, soffrono e gioiscono delle stesse cose: a volte hanno la fortuna di poter raccontare qualche fatterello che è successo nel corso della propria vita, e questo è quanto di maggiormente importante per la loro salute mentale.
            Apprezzo la schiettezza e l’incisività delle parole che mi ha dedicato Armando, mi alzo con calma dalla panchina, gli stringo la mano con calore e lo saluto: devo andare, dico. Lui mi spiega che con probabilità ci rivedremo, perché siamo persone che dedicano importanza ad una cosa apparentemente sciocca come questa piazza, dice. Torno sui miei passi, rifletto che tornerò nella mia stanza a crucciarmi di nuovo con le mie povere cose, ma non posso fare altro.
            Ripenso ad Armando mentre salgo svogliatamente le scale del condominio. In fondo ha perfettamente ragione, penso: cosa c’è di più importante dell’avere ancora qualcosa da dire agli altri, mettere insieme delle storie che parlino di noi, delle nostre esperienze, della vita oggettiva e concreta. Decido che rifletterò a lungo su questo argomento stasera, le sue parole lo meritano, e in fondo è la cosa migliore a cui posso dedicare ancora del tempo, prima che la mia mente si chiuda del tutto attorno ai miei isolati pensieri.

            Bruno Magnolfi

lunedì 17 giugno 2013

Rinuncia del domani.

     Mi sento stanco, praticamente provo quasi la nausea, dice Umberto sottovoce; è qualche tempo che cerco di riflettere su ciò che possa aver determinato questa mia condizione persistente, ma non riesco neppure minimamente a comprendere che diamine possa essere stato. Capita, dice Sandro con una leggera aria di sufficienza; non c’è da preoccuparsi, e in tutti i casi ad ogni periodo che viviamo ne segue sempre un altro di segno diverso; perciò, con una semplice dose di pazienza, tra non molto neppure ricorderai questi tuoi affanni di oggi che sembrano così intollerabili.
            I due stanno seduti uno di fronte all’altro; sorseggiano ognuno la propria birra, appoggiando i gomiti su un tavolino di legno con il piano consumato della bettola più in vista del loro quartiere.
            Non è esattamente così, riprende Umberto: non è che sto male, o comunque, non è che provo delle difficoltà a mandare avanti come sempre le giornate; soltanto non sopporto quasi più nulla di questa situazione che mi trovo intorno, senza peraltro avere dei precisi motivi per pensare le cose in questo modo, ma è come se tutto da qualche mese si fosse trasformato in una terribile noia che non lascia spazio ad alcuno slancio. Mi pare di mandare avanti le giornate insensatamente, senza uno scopo, anche se fino adesso credo di aver fatto tutto quello di cui ero capace per essere una persona come tutti: ho messo su una famiglia, ho una casa, un lavoro, frequento gli amici di sempre, mi permetto qualche piccola vacanza ogni tanto. Eppure qualcosa ha smesso di funzionare, ed adesso avverto soltanto un grande vuoto.
            Va bene, dice Sandro senza dare troppo peso a tutto il discorso. Hai soltanto bisogno di spassartela un po’, trovare la maniera più giusta per evadere dalla monotonia di questi giorni uguali l’uno all’altro. Non c’è da farsene una malattia, succede a chiunque di avere un periodo di leggera depressione, devi staccare la spina e prenderti una boccata di aria diversa, ecco quanto. Nessuno avrà mai da dare un giudizio negativo su di te per una cosa di questo genere: lasciati andare verso uno scopo che allontani da te i pensieri di sempre, e vedrai che sarà di grande giovamento.
            Sento che sta montando dentro di me una rabbia sorda e incontrollabile, ecco quale è il punto, insiste Umberto. Qualcosa che prima o poi dovrò scatenare sulla più sciocca avversità che mi capiterà a tiro. Riesco a sopportare sempre meno questa monotonia di ogni giorno, questo circolo vizioso che è diventata da un po’ di tempo tutta la mia vita. Mi pare come se avessi creduto fermamente nel futuro, e fossi rimasto in attesa per molto tempo di qualcosa che non so neppure io cosa potesse essere, ma che adesso non arriva, nemmeno in minima parte, mostrandomi così che non arriverà mai più, e che tutto resterà in questo modo, lasciando solo spazio ad un lento ma inesorabile decadimento.
            I due si guardano ancora qualche volta continuando a bere. Poi si alzano, pagano le birre, escono dal locale. Vedi, dice Umberto, è tutto grigio, non c’è alcuna soluzione, sarà sempre peggio per me. Forse, dice l’altro; in ogni caso il futuro che cercavi era già dentro di te, da molto tempo, e tu ci hai lavorato a fondo per portarlo avanti, a volte magari anche inconsapevolmente. Adesso è qui, accanto a te: devi apprezzarlo, non puoi far altro, è solo il frutto maturo di tutto ciò che hai sempre coltivato.
            Bruno Magnolfi

domenica 16 giugno 2013

Neppure un sorriso.

            
            Una donna osserva un uomo sull’autobus. Ambedue stanno in piedi, con il braccio sollevato ad impugnare il sostegno. La vettura pubblica lascia sobbalzare le sospensioni scariche sulle irregolarità dell’asfalto, i viaggiatori ondeggiano alle curve e tremano seguendo ogni movimento della macchina. Lei finge di guardare qualcosa dal finestrino, lui finge di non essere guardato o veramente non si accorge di niente. Eppure in quei minuti c’è qualcosa che non è una cosa qualsiasi, e c’è un momento che non può essere scambiato per un momento qualunque. A lei piacerebbe pronunciare una serie di parole tali che potessero incuriosire l’uomo, ma non riesce a dirle, e neppure a pensarle, e poi non sa decidersi, continua a riflettere ogni frase che le viene in mente come fosse soltanto quella sbagliata.
Il mezzo pubblico si ferma, alcuni scendono e altri salgono, ma l’uomo è sempre lì, imperterrito, e lei ha sempre più voglia di toccargli una spalla sopra la giacca, di sorridergli, mostrare per intero la sua debolezza che è umana, naturale, spontanea. Ma non lo fa, non fa niente che possa essere interpretato come una tappa di avvicinamento verso di lui: tutto deve essere affidato al caso, pensa; oppure venire direttamente da quest’uomo. Forse basterebbe un cenno, un semplice sfioramento per sbaglio del piede o di una mano, mi scusi, un sorriso, ecco fatto, scendo alla prossima, anche io, dicono in fretta.
Invece no, e lui adesso si muove, fa un passo, si avvicina alla porta pneumatica, tutto sembra improvvisamente perduto, allora anche lei cerca di muoversi, va verso l’uscita, l’autobus stride mentre si ferma, scorrono le porte, in molti scendono. Oppure no, è sufficiente lasciare un’espressione nell’aria, la velatura vaga di un viso già visto per il giorno seguente, medesima ora, la stessa linea, buongiorno, si, scendo tra poco, e ancora il giorno dopo, così, sempre lo stesso percorso, tutto identico, come vanno le cose? Benissimo, adesso. Certo, potremmo prendere assieme un caffè, magari andare a cena una di queste sere, e imbastire alla svelta una relazione.
Non è possibile, pensa la donna; per quanto sia interessante una cosa del genere, non si può fare. Bisogna trovare un’altra maniera, rapida, immediata, adesso; oppure nessun’altra maniera, e lasciar correre, come fanno tutti, che tanto ogni cosa va avanti da sé se vuole, senza impegnarsi, con indifferenza, che basta fare esattamente quello che fanno gli altri, uguale agli altri, e lasciare che le giornate scorrano senza inventarsi certi inciampi o certe alternative improbabili, ed anche questo autobus, pieno di gente distante da me, pensa ancora la donna, sarà lo stesso anche domani, nessun problema, e il giorno seguente, e dopo ancora.
L’uomo improvvisamente la nota, la guarda un momento, poi si volta. Anche lei si volta, lascia che adesso sia lui ad osservarla, a darle un’occhiata esauriente, che gli faccia venire a mente la possibilità di invitarla a prendere un caffè, portarla a cena, e tutto il resto. Qualcuno più avanti parla al telefono, altri si scambiano qualche opinione, nessuno comprende che quello che sta per succedere sia una cosa fondamentale per lui e per lei, l’elemento essenziale che infonde di senso una giornata per il resto come tutte le altre. Poi la porta pneumatica torna a chiudersi, e l’uomo non c’è, non c’è più, è già sceso anche lui, perso tra una folla omogenea.
Bruno Magnolfi

domenica 9 giugno 2013

Urgenza di cambiamento.

            
            Ormai avevo deciso: da quel momento in avanti avrei usato una maggiore precisione nel tenere a memoria nomi, luoghi, situazioni e fatti. Si trattava di una variazione di comportamento del tutto epocale per me, abituato da sempre come ero, ad atteggiarmi in modo pressappochista, persino superficiale certe volte, e in qualche caso addirittura ambiguo. Questo proposito, preso dopo molte riflessioni, al momento mi procurava già una certa ansia, considerato l’impegno a cui mi esponevo. Comunque si trattava senza dubbio di qualcosa di fondamentale per me: dare importanza a certe cose magari tralasciandole molte altre, ed evitare qualsiasi parere, giudizio, convincimento; delle informazioni prescelte studiarne i dettagli, scavare nei particolari, fino a trovare delle connessioni esatte che mi permettessero di tenere a mente la maggior quantità possibile di notizie precise, e sottrarsi in questo modo all’ordinario e superato formarsi di una semplice opinione.
            Non volevo parlarne a nessuno di questo progetto, così, fin dai primi giorni, mi costringevo a fingere con gli altri, pur con molte difficoltà, un comportamento identico a quello che avevo sempre avuto, anche se allo stesso tempo dentro di me cercavo di portare avanti il lavoro che mi ero prospettato di affrontare. Avevo anche iniziato ad analizzare alcuni presupposti: incamerare dati, pensavo, probabilmente era un fatto naturale, ma a me era sempre parso che tutto quanto fosse parte di un’idea generale del mondo che andava giorno dopo giorno semplicemente a depositarsi nella coscienza. Ricordarsi di ogni particolare come elemento a sé stante, invece, cambiava completamente le cose. Mi sentivo all’improvviso libero di non farmi più un’opinione generale, nessun giudizio sulle cose del mondo, annullamento di ogni ordinario punto di vista, e questo mi pareva un vantaggio assolutamente innegabile.
            Gli amici al caffè avevano preso a guardarmi con un certo sospetto mentre lasciavo degli ampi silenzi su argomenti dei quali normalmente in passato aveva sempre espresso un parere. Pur non volendo calcare la mano, adesso preferivo dilungarmi su certi dettagli piuttosto che dire che cosa pensavo in generale. Uno mi aveva addirittura chiesto se stessi male, ma io avevo semplicemente sorriso: in fondo la necessità di cambiare era nell’aria, secondo il mio tacito parere; e non si poteva peraltro disconoscerne a lungo l’urgenza. Le cose di cui adesso parlavo con tutti, si limitavano ormai sempre più all’esposizione di fatti infarciti di date, di nomi e di altri particolari, tralasciando qualsiasi parere in merito. Erano i dettagli a spiegare il mondo, nient’altro.
            Uno dei ragazzi al caffè, forse comprendendo il mio nuovo spirito, mi aveva voltato decisamente le spalle, evitando persino di rivolgermi la parola. Qualcosa non va, gli avevo chiesto sorseggiando come sempre il mio bicchiere di birra; e lui lentamente aveva voltato il dorso verso di me, poi mi aveva guardato a lungo, e infine aveva detto: neppure io ho un’opinione precisa, però forse come te credo che l’epoca del dialogo sia ormai al tramonto. Stiamo qui, beviamo in silenzio, assaporiamo il gusto dei risultati di calcio e delle ultime elezioni politiche, ma senza farci neppure un’idea per il prossimo futuro. Questo è ciò che ci vuole, il resto è chiacchiera insulsa.

            Bruno Magnolfi

Strumento del demonio.

La prima volta che accadde, dottore, fu molti anni fa; ero ancora un ragazzino che non voleva studiare, mio padre era vivo, e prima dell’inizio della sua lunga malattia mi aveva trovato un lavoro, niente di speciale: andavo ad aiutare una signora in età un po’ avanzata al suo negozio di frutta e verdura che fino ad allora aveva gestito da sola. Stavo lì, servivo i clienti, portavo avanti e indietro le cassette con le patate, i pomodori, le mele, e la proprietaria dietro alla cassa prendeva i soldi e contava i resti, non dimenticandosi mai di trattarmi praticamente come il suo servo. Poi, un pomeriggio che mi trovavo sul retro a sistemare qualcosa, ecco che iniziai d’improvviso a parlare con una voce diversa dalla mia, e a dire delle cose sconclusionate, cose che neppure pensavo.
La signora si impressionò intimandomi di starle lontana, dottore, mi creda; mi disse anche di correre a casa, lontano da lei, ed io, con una mano sopra la bocca, corsi da mio padre, ormai allettato, e da mia madre, senza neppure sapere come spiegarmi con loro. Il medico di allora mi mise a riposo, mi fece prendere dei tranquillanti per diversi giorni, ma sinceramente non accadde più nulla, e tutto alla svelta riprese un andamento piuttosto normale, così tornai a lavorare, ad occuparmi delle cose di sempre, anche se la signora del negozio di frutta e verdura ormai mi guardava con un certo sospetto, come se fosse sicura che da me non sarebbe venuto mai niente di buono. Per lei forse era quasi una sfida: mi disprezzava, era evidente, ma questo non le impediva di avere bisogno dei miei servizi.
Poi accadde qualcosa: all’ora di chiusura di un giorno qualsiasi la signora mi aveva già fatto uscire dal negozio, aveva anzi detto ad alta voce e in malo modo di andarmene, che tanto non riusciva più neppure a sopportare la mia presenza, e lei era rimasta a sistemare qualcosa là dentro prima di serrare tutte le porte: fu allora, dottore, che nel magazzino sul retro cadde d’improvviso una fila di cassette piene di frutta, proprio mentre la vecchia era lì, e così la portarono subito all’ospedale, ma lei non si rialzò, e rimase su una sedia a rotelle. Il negozio fu chiuso e quando andai a farle visita, la signora non disse niente, ma mi guardò come se la colpa di tutto fosse solo la mia. In quei giorni, dottore, avevo ripreso di nuovo a parlare con una voce diversa. Questa volta mi ero chiuso da solo dentro una stanza cercando di capire come fosse possibile, e alla fine ero riuscito a rendermi conto che dentro di me era come ci fosse un’altra persona. Dentro alla testa riuscivo come a sentirne i pensieri, e poco per volta mi rendevo conto che per me era impossibile avere un minimo di controllo su quanto accadeva.
Tramite le preghiere dei miei genitori la signora, che intanto aveva ceduto la sua bottega, mi prese a lavorare in casa sua, visto che quasi non poteva più muoversi, ed io andavo lì a sbrigare alcune delle faccende di cui aveva bisogno, anche se lei mi trattava ancora peggio di quando eravamo al negozio. Una mattina, quando entrai nella sua abitazione, alla stessa ora di ogni giorno, la trovai lì, dottore, stecchita sulla sua sedia a rotelle, con gli occhi e la bocca spalancati, come se avesse gridato chissà cosa fino alla fine. Sapevo che in qualche modo la colpa era mia di quanto successo, anche se non riuscivo a capire in quale maniera, così mi chiusi in casa soltanto con la mia mamma, mio padre ormai era già morto, e per molto tempo non accadde più neanche una volta che io parlassi con quella voce diversa.
Da allora sono trascorsi quasi due anni e tutto è filato via liscio, senza che sia successo niente di nuovo. Ma negli ultimi tempi, dopo che è morto anche il mio vecchio medico, quello con cui parlavo di tutto, e quando negli ultimi giorni ho iniziato di nuovo a sentirmi un po’ strano, come se stesse per accadere qualcosa, ed ho ripreso, anche se sottotono, a parlare con la voce di quell’altro - è accaduto ormai per tre volte in due sole settimane -, mi sento davvero preoccupato: ho paura che succeda ancora qualcosa di cui non riesco ad avere controllo.
Il dottore lo aveva osservato in silenzio, inizialmente aveva annuito per incoraggiarlo a spiegarsi, infine si era alzato dalla sua sedia, gli aveva toccato una spalla, poi aveva detto: non c’è affatto bisogno che ti preoccupi ulteriormente, adesso devi solo cercare di allontanare da te ogni pensiero diverso da tutti i tuoi soliti: il compito che avevi da assolvere, ormai, è stato eseguito.


Bruno Magnolfi

domenica 2 giugno 2013

Delusione.


         
            Mi sono fermato a guardare il miracolo di uno stecco piantato a terra mentre lasciava germogliare da se stesso foglie e fiori. Poi ho osservato il cielo in alto, ed ho intuito che sarebbe venuto a piovere di lì a poco, così sono andato a ripararmi sotto ad una pensilina dove già stavano altre persone. Un uomo mi ha guardato con indifferenza, le sue mani parlavano di lavoro, di necessità di fare, di utilità nei confronti degli altri, ed ho avuto invidia di lui, così proteso verso qualcosa sicuramente di importante, lo stringere a sé un compito che senz’altro ne innalzava l’esistenza. Allora, visto che la pioggia non si decideva ancora a cadere, mi sono spostato da quel luogo ed ho iniziato a camminare tra la gente della strada, girando attorno alla piazza antistante, anche per riflettere meglio su questi aspetti, ed entrando alla fine dentro un caffè, giusto per incontrare qualcuno, una donna, che probabilmente era già ad un tavolo ad attendermi.
            Ci siamo salutati, e per un po’ siamo rimasti seduti soltanto a guardarci e a sorridere, davanti a noi qualcosa da bere a piccoli sorsi, e tra i desideri probabilmente migliaia di momenti simili a quello, pur con la consapevolezza che non si sarebbero mai verificati. Certe volte sono perplessa, diceva lei: mi occupo di qualcosa rispondendo semplicemente a degli automatismi, ma sempre più spesso da qualche tempo mi trovo a criticare questo mio comportamento. Così mi prendono i dubbi, e alla fine non so mai di che cosa sia meglio interessarsi, e di cosa invece sia meglio non preoccuparsi affatto.
            Io continuavo ad ascoltare quelle sue parole, e comprendevo perfettamente quale potesse essere il problema che la stava assillando. Non so, le dicevo, però credo che per sopravvivere si debba essere maggiormente ottimisti; e forse semplicemente evitare tutto ciò che non ci procura almeno un minimo entusiasmo. Poi restavamo in silenzio, senza altre parole a cui affidarsi. E Infine ci salutavamo sulla soglia del locale, lei se ne andava dalla parte opposta di quella dove dovevo andare io, e così tornavo a passi lenti verso la pensilina sotto alla quale c’erano ancora molte persone. All’improvviso iniziava a piovere, dapprima senza impegno, in seguito con maggiore intensità. Attendevo senza fretta cercando con gli occhi l’uomo che avevo notato in precedenza, ma adesso c’era soltanto una gran confusione di gente che cercava soltanto un riparo, e nessuno, tra tutti coloro a cui mi sfioravo, che avrei veramente voluto vedere.
            La pioggia si calmava alla fine, ed io prendevo la strada verso casa, ma sopra un marciapiede incontravo di nuovo l’uomo che avevo visto poco prima: adesso però sembrava serio, quasi corrucciato; fermo, guardava qualcosa dalla parte opposta della strada, come forse avrei potuto fare io stesso, ma probabilmente in assenza ormai di quello spirito positivo che pareva emanasse dalla sua persona fino a poco fa, e come se ogni buona impressione che avevo avuto di lui, si fosse in quel momento del tutto dileguata. Gli andavo vicino, allora, lo salutavo sorridendo, gli stringevo la mano senza neppure dargli una spiegazione del mio gesto, forse solo dettato dal bisogno di far nascere di nuovo in mezzo alla sua faccia quell’espressione da cui ero rimasto così colpito in precedenza. E infine me ne andavo, deluso, come sempre.
            Bruno Magnolfi