domenica 16 giugno 2013

Neppure un sorriso.

            
            Una donna osserva un uomo sull’autobus. Ambedue stanno in piedi, con il braccio sollevato ad impugnare il sostegno. La vettura pubblica lascia sobbalzare le sospensioni scariche sulle irregolarità dell’asfalto, i viaggiatori ondeggiano alle curve e tremano seguendo ogni movimento della macchina. Lei finge di guardare qualcosa dal finestrino, lui finge di non essere guardato o veramente non si accorge di niente. Eppure in quei minuti c’è qualcosa che non è una cosa qualsiasi, e c’è un momento che non può essere scambiato per un momento qualunque. A lei piacerebbe pronunciare una serie di parole tali che potessero incuriosire l’uomo, ma non riesce a dirle, e neppure a pensarle, e poi non sa decidersi, continua a riflettere ogni frase che le viene in mente come fosse soltanto quella sbagliata.
Il mezzo pubblico si ferma, alcuni scendono e altri salgono, ma l’uomo è sempre lì, imperterrito, e lei ha sempre più voglia di toccargli una spalla sopra la giacca, di sorridergli, mostrare per intero la sua debolezza che è umana, naturale, spontanea. Ma non lo fa, non fa niente che possa essere interpretato come una tappa di avvicinamento verso di lui: tutto deve essere affidato al caso, pensa; oppure venire direttamente da quest’uomo. Forse basterebbe un cenno, un semplice sfioramento per sbaglio del piede o di una mano, mi scusi, un sorriso, ecco fatto, scendo alla prossima, anche io, dicono in fretta.
Invece no, e lui adesso si muove, fa un passo, si avvicina alla porta pneumatica, tutto sembra improvvisamente perduto, allora anche lei cerca di muoversi, va verso l’uscita, l’autobus stride mentre si ferma, scorrono le porte, in molti scendono. Oppure no, è sufficiente lasciare un’espressione nell’aria, la velatura vaga di un viso già visto per il giorno seguente, medesima ora, la stessa linea, buongiorno, si, scendo tra poco, e ancora il giorno dopo, così, sempre lo stesso percorso, tutto identico, come vanno le cose? Benissimo, adesso. Certo, potremmo prendere assieme un caffè, magari andare a cena una di queste sere, e imbastire alla svelta una relazione.
Non è possibile, pensa la donna; per quanto sia interessante una cosa del genere, non si può fare. Bisogna trovare un’altra maniera, rapida, immediata, adesso; oppure nessun’altra maniera, e lasciar correre, come fanno tutti, che tanto ogni cosa va avanti da sé se vuole, senza impegnarsi, con indifferenza, che basta fare esattamente quello che fanno gli altri, uguale agli altri, e lasciare che le giornate scorrano senza inventarsi certi inciampi o certe alternative improbabili, ed anche questo autobus, pieno di gente distante da me, pensa ancora la donna, sarà lo stesso anche domani, nessun problema, e il giorno seguente, e dopo ancora.
L’uomo improvvisamente la nota, la guarda un momento, poi si volta. Anche lei si volta, lascia che adesso sia lui ad osservarla, a darle un’occhiata esauriente, che gli faccia venire a mente la possibilità di invitarla a prendere un caffè, portarla a cena, e tutto il resto. Qualcuno più avanti parla al telefono, altri si scambiano qualche opinione, nessuno comprende che quello che sta per succedere sia una cosa fondamentale per lui e per lei, l’elemento essenziale che infonde di senso una giornata per il resto come tutte le altre. Poi la porta pneumatica torna a chiudersi, e l’uomo non c’è, non c’è più, è già sceso anche lui, perso tra una folla omogenea.
Bruno Magnolfi

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