giovedì 29 aprile 2010

Il crollo del panorama





Lei generalmente osservava il panorama fuori dall’abitacolo, intorno alla strada, quella porzione di strada che si snodava davanti al parabrezza dell’auto. In certi momenti pareva che i suoi pensieri seguissero le onde sinuose delle colline, evitando che gli oggetti di quelle sue immagini si scos...tassero mai troppo dai suoi preferiti. “Guarda la fila di quei cipressi, come disegna tutto il profilo…”, diceva certe volte con voce calma e sussurrata, e lui osservava quanto indicato continuando a guidare e annuendo, convinto della straordinaria capacità che lei aveva, di notare dei particolari che da solo non avrebbe mai visto. L’andatura che teneva con la sua macchina in quelle occasioni risultava addirittura leggermente più lenta di una velocità già prudenziale, ed a volte lui, senza mezze misure, uscendosene con un’espressione o un gesto di stizza, se la prendeva con coloro che volendo sorpassare la sua auto suonavano il clacson o lampeggiavano con i fari, quasi che la sua guida fosse solo un ostacolo al percorso nevrotico di quei pazzi che neppure guardavano le bellezze del panorama che avevano attorno. Fondamentale, per loro due, restava viaggiare come alla scoperta di un mondo nuovo, spesso meraviglioso. C’erano momenti in cui la loro attenzione era interamente catturata da quella natura verdeggiante, e i loro discorsi pareva che solo distrattamente si andassero ad occupare di altre cose, come se l’argomento principale restasse sempre e comunque godersi il paesaggio. Così facendo pareva ad ambedue che tutti i loro problemi rimanessero chiusi alle spalle, ed evitassero così di venire a contatto con quel panorama. Certe volte però lui diceva qualcosa a proposito della loro situazione: si lamentava di quell’abitare troppo lontano, di quel vedersi di rado, e soprattutto dello scarso interesse che lei pareva dare alla loro relazione ogni volta che si erano salutati, quasi che, una volta tornati, dentro di lei si chiudesse invariabilmente qualcosa. Era come se, una volta lontana, in lei venisse meno qualsiasi volontà per incontrarlo di nuovo, e così ecco che lui si metteva a studiare sulla carta stradale un percorso che si inerpicasse tra nuovi paesaggi e vedute, in modo da poterle proporre, almeno per il fine settimana seguente, un nuovo viaggio alla scoperta di qualcosa, qualcosa di cui poi ambedue, vivendo assieme e intensamente quel loro viaggiare, restavano assolutamente soddisfatti e felici, almeno per quel paio di giorni. Poi iniziavano per tutta la settimana quelle telefonate antipatiche in cui lei, abitando con i genitori ormai anziani, pareva rispondergli con un certo distacco, quasi che la sua vita vera e propria fosse tutta a contatto solo con quella realtà, quella della sua famiglia, in quel paese ad un’ora di treno, lanciando lungo quel filo del telefono quasi una malcelata indifferenza nei confronti di lui. Lui al contrario viveva da solo in quel piccolo appartamento in città, e sapeva bene quanto quella sua solitudine certe volte fosse un pugno allo stomaco, e quanto purtroppo fosse qualcosa che lei non riusciva a comprendere e forse neppure ad immaginare, nonostante le sue spiegazioni su ciò che provava, e certe volte anche l’insistenza a cui era dovuto ricorrere per riuscire a trascinarla, quelle rarissime volte, fin nella sua casa. In certe occasioni, per piccola ma pura provocazione, lui aveva parlato di quei fine settimana, durante i quali spesso si fermavano a dormire in qualche pensione sperduta, come di una fuga dalla realtà, ma lei, pur non sentendosi assolutamente d’accordo con quella espressione, aveva sempre evitato di farne oggetto di qualsiasi polemica. Però quel giorno era diverso, lei lo aveva raggiunto col treno pur sentendosi preoccupata per un malessere della sua mamma, lui si era mostrato attento e sensibile alla sua inquietudine, e in questa maniera, fermandosi ogni tanto per qualche telefonata, si erano messi in viaggio per raggiungere una zona che volevano visitare. Ma le cose parevano complicarsi a ogni metro, non c’era niente che sminuisse la preoccupazione di lei per quella sua madre ammalata, tutto pareva riportarle la mente verso quei suoi genitori, come non esistesse nient’altro, niente di cui lei si interessasse davvero, compresa la sua vicinanza. Così lui ad un tratto sbuffò, con gesto spontaneo e liberatorio, senza con questo voler essere scostante e offensivo, ma lei non riuscì a sopportare quel suo atteggiamento. Si fermarono, discussero, alzarono la voce, si scagliarono contro tutte le parole che forse in tanti mesi di incontri avevano soffocato; infine lei, rabbiosa, gli chiese di accompagnarla alla stazione ferroviaria più vicina. Per tutto il tragitto che seguì non si scambiarono più una sola parola, ognuno arroccato sulle proprie ragioni, poi, quando lei scese, si salutarono con affettazione, come si saluta una conoscenza casuale fatta ai giardini, ma sapendo perfettamente ambedue che non si sarebbero visti mai più.

Bruno Magnolfi

mercoledì 28 aprile 2010

Apoteosi della signora Bertani


Si sbaglia, disse la donna ad un’altra che le aveva appena detto, buongiorno signora Bertani; non mi chiamo così, mi dispiace. Mi scusi, disse quella, non sono molto fisionomista, ma adesso che la osservo un po’ meglio devo riconoscere che ha proprio ragione. Eppoi sarebbe stato ben strano, la signora Bertani abita oltre il viale e non ci viene mai a piedi da queste parti; difatti ne ero quasi stupita. Se è per quello anche io molto raramente passo da questo quartiere, disse lei, ma la cosa più buffa, adesso che ci penso, è che conosco la signora Bertani, perché sua mamma abita nel mio stesso palazzo e certe volte la incontro in ascensore o lungo le scale, quando viene a farle visita. Quanto è strano il mondo, disse quella, non c’è proprio mai da stupirsi di niente; ma se posso essere indiscreta perché allora oggi lei si trova in giro da queste parti? No, è solo per una combinazione di cose, stavo cercando un medico di cui mi hanno parlato, uno che cura con un metodo nuovo, e siccome ultimamente ho qualche disturbo, mi sono presa la briga di farmi dare l’appuntamento per una visita. Anzi, adesso che ci penso, me ne aveva parlato proprio la signora Bertani, una di quelle volte che ci eravamo incontrate lungo le scale, non perché lei ne avesse avuto bisogno, ma solo perché sua mamma sembra sia allergica ad un tipo di farmaco, e si sa con l’età. Si, è comprensibile, siamo sempre tutti alla ricerca di un qualcosa meno invasivo e che dia il minor numero possibile di effetti collaterali, poi la signora Bertani è sempre così attenta a tutte queste cose. Lo sa che mi sono perfino lasciata trascinare da lei a certe sedute psicologiche di gruppo che sembra aiutino ad essere maggiormente ottimisti, ci sono andata solo due volte, proprio io che in queste cose non ci ho mai creduto, però mi pare già di sentirmi un po’ meglio. Interessante, riprese lei, non ne avevo mai sentito parlare, forse non sono così in confidenza con la signora Bertani perché potesse aver avuto voglia di dirmi di una cosa del genere. Però è certo che appena la incontro le chiederò qualcosa di più. Si, certo, lo deve fare, disse l’altra, e sicuramente lei potrà parlarne in maniera più adeguata di me, perché svolge un ruolo, diciamo così, di coordinatrice tra tutte noi, e siamo già più di dieci ad aver preso l’abitudine di ritrovarci una volta ogni settimana. Ma certo, disse lei, e dove vi ritrovate, sempre in un medesimo posto, oppure in luoghi diversi? No, semplicemente abbiamo a disposizione una saletta nell’edificio della sede del quartiere, e comunque, almeno per il momento, è decisamente più che sufficiente per le nostre esigenze. C’è soltanto una piccola quota da pagare, giusto per coprire le spese, ma le saprà dire tutto, meglio di me, la signora Bertani, sicuramente. E’ vero, disse lei, adesso che mi ha messo questa curiosità non vedo proprio l’ora di incontrarla, peraltro mi fermo sempre così volentieri a parlare con lei. E’ come se le cose che dice siano sempre gli argomenti maggiormente adeguati al momento o alla situazione, ha come dentro di sé un sesto senso. Lo sa che ha proprio ragione, anche per me è così, riprese l’altra, quello che dice la signora Bertani è sempre appropriato, qualche volta mi sono fidata più di lei che di me stessa. Adesso però bisogna proprio che la saluti, sono già in ritardo, ma stia tranquilla, parlerò senz’altro di lei con la signora Bertani. La ringrazio, disse lei, anche io ormai non vedo proprio l’ora di incontrarla per poterle chiedere maggiori spiegazioni di tutte queste cose e spiegarle come sono riuscita ad averne notizia. Penso proprio che ne sarà più che contenta di questo nostro incontro la signora Bertani. Allora la saluto. Arrivederci.

Bruno Magnolfi

senza gli occhiali a volte...

....Il mondo appare meno definito, più lento, e a volte si vede il mare.



martedì 20 aprile 2010


Sangue e dolore.
Lui stava spesso seduto sulla sua solita sedia, nella medesima posizione, ma il forte ronzare di quel silenzio era impietoso, lo faceva quasi star male. Allora certe volte gli accendevano il televisore davanti, ma lui non lo vedeva neanche, sentiva soltanto un brusio inconcepibile in mezzo a delle macch...ie di colore luminoso. Quando se ne stava lì, dentro la casa, le sue mani spesso tremavano, non riuscivano a trovare una posizione per starsene ferme, a riposo, senza far niente. Negli ultimi tempi aveva preso perciò ad uscire per delle brevi passeggiate attorno al quartiere, senza allontanarsi mai troppo. Camminava molto, lungo i soliti itinerari, cercando di non avere pensieri, concentrandosi solo sui suoi passi, sui piedi, sui marciapiedi che aveva di fronte. Il dottore aveva detto che i suoi pensieri facevano male, qualche volta lo portavano ad avere delle idee che non andavano bene, e se lui non riusciva ad essere più forte di loro, tutto prendeva una piega sbagliata, come quella volta quando aveva cercato di abbracciare per strada quella ragazza che neppure conosceva. Certe cose non si dovevano proprio pensare, aveva detto il dottore, lui doveva impegnarsi ad allontanare i pensieri, tenerli distanti da sé. Così camminava, non guardava nessuno, teneva le sue mani sprofondate dentro alle tasche e non faceva nient’altro, non si faceva venire neppure un pensiero. Qualcuno per strada forse lo osservava, altri lo conoscevano almeno di vista: c’era un uomo in un chiosco che qualche volta gli aveva regalato un panino e gli diceva sempre qualcosa di divertente, che lo faceva sorridere, ma lui non dava retta a nessuno, tirava diritto e si sentiva bene così. Poi era arrivata chissà da dove una donna con dei seni grossi, per metà già fuori dalla scollatura del suo vestito. Gli aveva detto, senza vergogna, se mi dai cento lire ti faccio vedere le zinne. Lui non aveva neanche un soldo, e si era sentito confuso per quelle parole, forse non gli interessava neanche vedere com’era fatta quella donna sotto alla sua camicetta, ma lei aveva aggiunto qualcosa che lui non aveva neppure capito, e il giorno dopo lei era ancora lì, in quel giardinetto, e i pensieri nella sua testa avevano cominciato a girare. Per questo l’aveva evitata, e quasi di corsa era tornato subito indietro, sui suoi passi. Aveva visto davanti a sé quel chiosco con l’uomo che sempre lo salutava, ed era andato da lui, senza riuscire a capire di che cosa avesse veramente bisogno, ma come cercando un aiuto senza neppure saper bene cosa chiedere. L’uomo aveva da fare, gli aveva detto qualcosa di divertente come ogni volta, senza quasi guardarlo, e aveva continuato ad occuparsi di altro, mentre lui intanto si era accorto che tutto il mondo aveva preso ad emanare un brusio insopportabile. Guardava intorno, sentiva il brusio, guardava quell’uomo del chiosco, i panini, le salse, i salumi, il bancone che era coperto di roba da mangiare, e in bella vista c’era lì quel coltello appuntito. Doveva far smettere tutto il frastuono, quel brusio inammissibile, aveva bisogno assolutamente che qualcuno lo guardasse, che si interessasse di lui, che gli desse un aiuto, così prese di scatto il coltello e se lo infilò dentro ad un fianco, spingendo, spingendo sempre più forte, fino a che il sangue e il dolore iniziarono a dimostrare che lui c’era, la sua presenza era vera, anche se adesso si sentiva confuso, e gli era impossibile dire che non avrebbe mai voluto esserci, e anche se non voleva del tutto annientarsi, ora bastava smettesse il rumore di tutti i pensieri, quei pensieri che adesso parevano pazzi. Restava lì a terra, nel suo dolore, nel sangue, contorcendosi ancora, e tutti correvano intorno al suo corpo, a curiosare su quello che stava accadendo, ma i suoi pensieri adesso volavano via da quella ferita, pur con tutto il dolore che lui sentiva dentro di sé, erano liberi loro, andavano dove volevano, non c’era più niente che poteva tenerli rinchiusi; lo avrebbe detto al dottore, si sarebbe spiegato, erano quei maledetti pensieri che sciupavano tutto nella sua vita.

Bruno Magnolfi

domenica 18 aprile 2010

Al ritmo di salsa


Dietro al sipario della mia scrivania, di questi fogli, delle cartelle, di tutti gli insopportabili incartamenti che si ammucchiano, e di quelle pratiche delle quali, da quando sono entrato qua dentro, vincitore come molti di un qualsiasi concorso per impiegato comunale, devo occuparmi per ruolo, per posizione lavorativa, per mestiere, non posso fare altro che abbassare lo sguardo su un punto qualsiasi e restarmene lì, senza più alcuna volontà di essere né una persona né un impiegato comunale. Qua dentro spesso si parla di gente che viene da fuori, che toglie ogni caratteristica a chi ha sempre vissuto in questi paesi, in queste campagne, nel territorio di qui; si parla sempre degli altri in termini strani, come di chi ha avuto la fortuna di essere arrivato, in qualche maniera, e di potersi godere questi paesaggi, questa economia superiore, questa cultura che sembra più millenaria di ogni altra. Chi non pensa così, almeno nei corridoi tra questi uffici, irrimediabilmente è fuori dalla mentalità più corrente.

Il mio capo certe volte viene da me, chiede qualcosa, parla con voce leggermente più alta di ciò che sarebbe normalmente necessario; parla della pratica numero qualcosa, dandosi importanza per tenere a memoria una filza di numeri, di nomi, di situazioni da prendere in esame, come se li avesse tutti con sé, sotto agli occhi, in mezzo alle dita. Poi, mentre torna nel corridoio, dice Batistini, senza guardarmi, ma a voce forte per farsi sentire da tutti, mettiamoci più grinta, più slancio, non addormentiamoci su queste sciocchezze. Io osservo la luce dalla finestra e mi sembra lontana. Sposto qualche carta, riprendo il lavoro, metto da parte le cose che trovo via via, quelle che appaiono strane, da chiarire, da approfondire. Quando torno ad osservare ancora la finestra la luce si è spostata, i colori sono cambiati. In fondo tutto subisce variazioni continue, penso, anche dentro ad un ufficio grigio e impietoso come quello.

Spesso i miei pensieri assumono una grande capacità di astrazione che mi porta lontano dal luogo dove mi trovo, ma questo è l’unico modo che mi fa sopravvivere in questa realtà che sento distante. Nessuno si spiega i miei modi, qualcuno forse pensa che io sia ritardato. Certe volte credo che non ci sia alcuna necessità di spiegare ad altri cosa io sia: sono così, nessuno deve preoccuparsi, semplicemente mi chiedo se i miei colleghi provano le mie stesse identiche sensazioni, pur non ammettendolo. Non ci vuole poi molto a sentirsi lontani, basta osservare qualcosa, incuriosirsi, immaginarsi piccole variazioni nella realtà, minuti cambiamenti inaspettati, e tutto il resto viene da sé.

Certe volte mi sento come un tizio dentro a un locale da ballo che resta per un’intera serata ad osservare una coppia ben affiatata che continua a danzare al ritmo di salsa, con grande impegno psicofisico, variando continuamente le figure e compiacendosi di essere guardata almeno da quello, da quel signore dall’espressione indecifrabile, visto che il locale praticamente è deserto. Trovo una bellezza straordinaria nell’intesa tra i due ballerini: fanno qualcosa che io non potrei mai sognare di fare, forse hanno una cultura diversa da me, forse sono proprio diversi, differenti dai miei modi di sentire la musica, accarezzare quel ritmo, muoversi inseguendo dei gesti difficili e profondamente calibrati. Mi affascina la loro cultura che neppure conosco, ma non vorrei mai danzare come riescono a fare: mi basta apprezzare quello che mostrano, seguire il loro accordo perfetto, e riconoscere la fortuna che ho di poterli almeno guardare, sentire la loro presenza vicina, quasi come se qualcosa del mondo fosse con me.

Bruno Magnolfi

Villi


Certe volte si pretendeva che tutto fosse chiaro e tranquillo, e intanto si sguazzava nella complicazione più alta senza riuscire a ritrovare il nesso delle cose. Si fingeva controllo, e c’era sempre chi riusciva ad essere più credibile di altri, ma in generale era evidente il vuoto atteggiarsi senza alcun aggancio al concreto. Tutto ciò permetteva una leggerezza e una facilità di pensiero superiori al normale, e in questo comportarsi uscivano fuori idee e spunti creativi a getto continuo. Le amicizie spesso erano finte o superficiali, ma in certi casi ci si aiutava a vicenda in modo insperato, senza chiedere niente, senza farsi neppure domande o porsi dei dubbi. Si sentiva che il cemento comune era la sconfitta continua dell’ovvietà, e si cercava di rifugiarsi tra le cose scontate solo a patto di coniugare questo comportamento con una dose massiccia di autoironia. Infine si cercava di essere veri, ed era rara la mancata sincerità, e in questo modo anche da soli si riusciva a sentirsi solidali con gli altri. Non si parlava quasi mai dell’amore, sentimento troppo egoistico, però ci innamoravamo continuamente, e spesso delle persone sbagliate.

Lungo la strada, quando ci incontrammo, Villi per prima cosa mi chiese se mi ricordavo di lei. Non sono mai stato fisionomista, così dissi di si solo per non sembrare scortese. Di fatto qualcosa mi ricordavo di lei, l’avevo vista solo una volta assieme ad altre persone, ma la sua faccia non mi era rimasta nella memoria. Prendemmo assieme un caffè dentro a un bar, si parlò in generale di noi, e lei continuò a sorridere molto, come fosse agitata. Poi disse che erano tutti partiti coloro che abitavano in casa con lei, e lei aveva paura a rimanere da sola, così si stava facendo ospitare da una sua amica. Era luglio, ricordo, e le cose sembravano scorrere leggere in quel lungo periodo. Così quando mi chiese se per un po’ volevo andare a stare a casa da lei, a me sembrò quasi normale.

6 marzo 2009

Quando entrai nella casa dei greci, se percorrendo le due rampe di scale fino a quel primo piano mi ero sentito a disagio, vuoi per il grande portone di legno in pieno centro storico, vuoi per l’odore di pietra serena che emanava dai grandi gradini sagomati della scala, mi parve, al contrario di ogni impressione, che tutto all’interno mi fosse più familiare di quanto avessi pensato, e che già dall’ingresso pareti e arredamenti attorno fossero ancora più consoni ad ogni mia positiva aspettativa. Nella mia stanza troneggiava un basso letto dalla struttura di legno, e sulle pareti scaffali vuoti a vista, illuminati dalla luce rossastra di un bel tramonto estivo che penetrava da una grande finestra ai piedi del letto. Due porte opposte dominavano la camera, immettendo in altrettanti corridoi misteriosi, e si intuiva come sia le altre stanze che tutto il resto del grande appartamento girava attorno ad una corte interna fresca e silenziosa. Presi possesso del posto in maniera formale, senza capire realmente quale comportamento era meglio tenere, così mi limitai ad appoggiare sopra a qualche scaffale i pochi oggetti che avevo con me, che mi sembravano più indicativi della mia personalità. Finsi una fretta che scongiurava qualsiasi domanda ed un rapportarsi con una persona che non conoscevo per niente, e ammantato di cose da fare e di impegni accettai di sfuggita la copia della chiave di casa ed uscii senza indugi, per tornare in quel luogo da sogno soltanto in tarda serata.

12 marzo 2009

Durante l’occupazione dell’ateneo si era girato in lungo e in largo dentro alle facoltà fingendo sempre di cercare di qualcuno, ma di fatto cercando una propria collocazione, un proprio ruolo, certe caratteristiche che rendessero specchiate le personalità di ognuno di noi. Avevo conosciuto un ragazzo, non so neanche come e perché, un tipo di Roma, con il quale andai in giro per un giorno intero, e che mi aveva detto una frase che non mi sarebbe più uscita di mente: “…conosco tanta gente ma non ho neanche un amico…”. Eppure lo invidiavo. Girare per strada con lui era quasi imbarazzante: tutti lo salutavano, tutti avevano qualcosa da dirgli o da chiedergli, come un punto di riferimento, una boa attorno alla quale giravano piccole e grandi imbarcazioni che veleggiavano in acque scure, a volte minacciose.

Due anni dopo entravo in casa di Villi a serata avanzata nella penombra estiva fresca della bianca luce lunare che penetrava dai finestroni. Sulla lunga terrazza che dava sul cortile interno del grande appartamento lei stava lì, forse aspettandomi, con una bottiglia di Pinot grigio ghiacciata e due dita di vino bianco dentro ad un calice. Presi il mio bicchiere in cucina senza accendere luci, e andai a sedermi dall’altra parte del piccolo tavolo, nella stessa posizione di lei, spalle al muro, come ad un cinema, con i piedi appoggiati alla ringhiera di ferro, ad osservare i tetti delle case di fronte e il cielo giallo-rossastro delle luci cittadine di sopra. Dei gatti si erano rincorsi miagolando arruffati, ed io dopo un po’ di silenzio, avevo iniziato a narrare la storia di gatto mammone, che era un animale timido, poco adatto alla vita all’aperto con gli altri. I gatti continuavano a correre e a rincorrersi forse felici, ma lui no, introverso e sensibile, si teneva in disparte, e cercava un angolo buio dove ritirarsi da solo, senza mai mescolarsi con gli altri. La continuazione di tutta la storia l’avrei poi raccontata la sera seguente e tutte le altre a venire, fino a quando litigai con la Villi, non mi ricordo neppure perché, e lei andò via, in Grecia, lasciandomi padrone di una casa stupenda.

23 marzo 2009

Gatto Mammone si era stufato. Stufato dei tetti da dividere con gatti senza cervello, stufato di fare quello che se ne stava da solo in un angolo, stufato di fare quel personaggio in mezzo a dei simili che quel personaggio non riuscivano neanche a comprendere, che non faceva parte dei loro orizzonti, sempre ammesso che ne avessero avuti. Gatto Mammone si sentiva fondamentalmente diverso, e il suo aggirarsi per i tetti con gli altri era solo una dimostrazione per gli altri della sua capacità di mostrarsi sociale. Ma ora era finita. Era saltato giù, sopra un lungo terrazzo, nella parte più buia che aveva trovato, e aveva intercettato la conversazione dei due che bevevano da calici freddi e parlavano in toni soffusi, probabilmente cercando un’intesa che andava semplicemente creata, inventata dal niente. Lei parlava di un’isola greca, Thassos, davanti alla città di Kavala, e lui seguiva i percorsi di ogni frase che lei soggiungeva cercando di spiegarne i contorni, come fosse un accrescimento strategico di ogni sua conoscenza. C’era del fascino in quella serata, e gatto Mammone passò la sua coda come una piuma lungo le gambe delle sedie dei due, mentre nel buio, tramite parole sommesse, i due si scambiavano forti impressioni senza peraltro conoscersi affatto. Gatto Mammone era una variabile astratta di ogni concetto venisse sotteso, in un contesto in cui lei si sentiva già fragile, più di qualsiasi ingrediente di un sogno, e lui, alla finestra sul mondo, fotografato ad osservare e misurare la sua capacità di assumere il pensiero e la sofferenza degli altri.

31 marzo 2009

Gatto Mammone aveva strisciato a lungo contro i muri, senza neanche dare troppa importanza a ciò che faceva o che lasciava pensare di sé, usando il suo fare solito di chi non è interessato quasi a nulla e sta passando da lì solo per caso. La Villi aveva riposto la sua bottiglia di vino quasi terminata e i calici di vetro appoggiandoli sopra al lavabo, e di passata aveva augurato la buonanotte ritirandosi nella sua stanza, forse irritata, forse delusa, chissà. D’improvviso la casa era piombata nel silenzio, non che precedentemente fosse stata particolarmente rumorosa, solo che adesso i pensieri sembravano strisce di carta colorata che passavano davanti alle lampadine accese, brillando per un attimo nel buio generale. La luna fredda della luna invece illuminava i finestroni della camera con la sua luce bianca omogenea, rassicurante. Il gatto, con la sua riconoscibile livrea bianca e nera asimmetrica, era entrato senza chiedere alcun permesso, soffermandosi a lungo ai piedi del letto, ad osservare e a farsi osservare. Un senso di sospensione spasmodica era rimasto in aria, senza conseguenze, senza epilogo, e questo apriva il sipario ai pensieri più sfuggenti, forse al preambolo dei sogni da vivere e da scoprire nel corso della notte. Poi Villi era tornata indietro, come cercando un’ultima possibilità, o forse solo per concedere quella stessa ultima possibilità a sé, o agli altri, o alla sera sfumata. Aveva visto Gatto Mammone, aveva sorriso, come di fronte alla materializzazione di tante frasi inventate e di tanti discorsi tentati, e infine aveva pianto tra sé, solo con un timido e isolato singhiozzo, come per la comprensione improvvisa dell’impossibilità di quanto stava cercando. Il Gatto cercava di pensare tra sé qualcosa di positivo attorno a quegli esseri goffi che ritrovava ogni giorno incantati a guardarlo, così limitati nei movimenti, così assurdi nel loro sentirsi perfetti, ma così capaci di tutti quei versi così simili e monotoni tra loro da divenire qualche volta un canto alla luna, o alle stelle, o al cielo di notte, ricco di tanti presagi per il giorno ancora lontano.

15 e 16 aprile

La Villi era partita di giovedì, in silenzio, senza particolare risalto. Sarebbe tornata un mese più tardi, o poco più, ma io non l’avrei più rivista, le nostre strade si interrompevano lì, anche se non lo sapevo e neppure l’avrei immaginato. Quella sera tornai in quella casa che mi parve persino troppo grande solo per me. Chiusi subito le stanze che non mi servivano, sistemai qualcosa in cucina e nella mia camera, poi aprii il frigorifero, quasi come un gesto automatico. C’era ancora rimasta una mezza bottiglia di quel vino bianco leggero che mi aveva fatto passare parecchie serate in compagnia della Villi, così presi un bicchiere e mi misi seduto sulla terrazza, come avevo fatto quasi ogni sera da circa due mesi. Sopra al tetto di fronte, per estrema normalità, un paio di gatti svogliatamente si chiamavano, e la serata appariva terribilmente tranquilla. Gatto Mammone si fece avanti più tardi, quando il vino oramai era quasi finito; probabilmente notò la mia solitudine, ma rimase al suo posto, rispettando quei dettagli che non conosceva. Mi aveva osservato dal tetto, poi si era stirato le zampe girellando là attorno. Gatto Mammone era cosciente di essere solo e semplicemente un felino, però era sornione più di ogni altro, comprendendo le cose che ad altri sfuggivano. “Un giorno, forse, scriverò qualcosa che ti riguardi…”, dissi verso di lui a voce alta, quasi più per esorcizzare la mia solitudine che per sentire il suono della mia voce. Era chiaramente un augurio che mi facevo: quello di riuscire a descrivere cose che al momento soltanto vedevo o pensavo. Poi il Gatto parve capire qualcosa del mio stato d’animo sperso e irrequieto, con due salti scese dal tetto, venne con flemma verso di me e promise alla Luna di tenermi compagnia per quella e per tante altre sere. Quando alla fine del mese andai ad abitare in una casa diversa, in un diverso quartiere, lo portai assieme a me, e lui si adattò senza problemi alla sua e alla mia nuova vita. Morì sotto una macchina, come è destino degli spiriti liberi.

13 maggio 2009

Tutto il problema sta dentro alla comunicazione. Si dice una cosa pensandone una simile ma non proprio la stessa. Chi ascolta accetta il gioco e cerca di scoprire cosa si sottenda veramente. Basta poco per scatenare una ridda di equivoci. Con la Villi era andata più o meno in questo modo quando aveva riposto i bicchieri e la bottiglia. Non voleva più parlare con me, non voleva più ascoltare le mie storie sui gatti, tutto annullato, non voleva più avermi tra i piedi. “Non ho fatto niente”, le avevo detto, ma la sua gelosia la sopraffaceva. Le pareva tradita quella dolce intimità che avevamo coltivato sul terrazzo interno, ad osservare i tetti, i gatti, le stelle, i nostri pensieri illuminati per un attimo sul muro di fronte, quell’atmosfera calda e piacevole da vino bianco fresco e noi due, senza un passato comune da interpretare, solo le nostre diverse vite da raccontarci nella maniera che ritenevamo più opportuna, o a fantasticare sul presente e sul futuro. Lei persa tutto il giorno nelle biblioteche e in facoltà a preparare la sua tesi di laurea, io preso tutto il giorno da un mestiere assurdo che mi nevrotizzava. Quelle serate erano belle, ma non obbligatorie. Ci eravamo ritrovati lì, nella debole luce della terrazza, ma non ci eravamo dati mai appuntamento. Come quei gatti che si rincorrevano sui tetti, e certe sere non si erano neppure fatti vivi, forse proprio per sentirsi più liberi.

15 maggio 2009

Telefonai alla mia mamma qualche giorno prima di partire. Lei mi chiese il giorno in cui sarei arrivata, l’orario, come stavo, a che punto fossi con la mia tesi. Poi, dopo una pausa disse: “Villi, hai una voce strana, un modo diverso di dirmi le cose, che ti succede?”. Sull’immediato cercai di rispondere “…niente, solo un po’ di stanchezza…”, però sapevo che con mia mamma era difficile quel gioco, e poi, forse, avevo voglia di parlarle di me, di dirle qualcosa che tenevo troppo chiuso in fondo ai miei pensieri. “Sai, in quest’ultimo periodo ho conosciuto un ragazzo. No, non è greco, è di qui, della Toscana. Non sono stata molto assieme a lui, solo qualche sera. Però mi ha fatto sognare con i suoi racconti fantastici, con le sue invenzioni. Ci sono state delle sere che non ci siamo neppure salutati; semplicemente ci siamo seduti, abbiamo guardato nella stessa direzione, e poi abbiamo parlato, tirando fuori la nostra sensibilità, forse i nostri pensieri e i segreti più nascosti, e li abbiamo condivisi, senza commentarli, solo lasciandoli andare a liberarsi contro un muro bianco, come forme di fumo nel vento debole, che si innalzano da terra, piccole come sono, a cercare di raggiungere le nuvole e di unirsi a loro. Non lo so, mamma, ma all’improvviso non vorrei rompere questo momento, non vorrei più partire…”. La mia mamma capì al volo tutto quanto, e non insistette in niente, cercando solo di alleggerire un po’ il mio affanno, cambiando argomento e non chiedendomi nient’altro. Ricordo bene, fu proprio quella stessa sera che rimasi sola, ed il mio vino bianco fresco continuò sul tavolo a scaldarsi e a far compagnia a due bicchieri vuoti.

27 maggio 2009

Il cielo era chiaro quel giorno, e l’autobus che la portava in città era pieno di gente. La strada era identica, e quando arrivò ad entrare in quella che era stata la sua casa per tutti quei cinque e più anni, la colse un sentimento malinconico. Erano già trascorsi sei mesi dall’ultima volta che Villi era tornata, e forse questa sarebbe stata la sua ultima volta, ma in questo periodo le pareva fossero già cambiate dentro di sé così tante cose che adesso cercava di lasciare i pensieri a riposo, per paura di scoprirsi diversa anche in quelli. Stavolta sarebbe rimasta soltanto cinque o sei giorni, il tempo per sistemare le ultime cose, salutare gli amici, la facoltà che le aveva concesso quella laurea sudata, e poi tornarsene in Grecia, a costruire il futuro. In casa le parve tutto come si ricordava, la sua stanza, i finestroni, gli scaffali di legno, anche quel terrazzino che era stato presente a quelle serate da sogno. Chissà dove mai era fuggita quella persona di cui non aveva più niente, un oggetto, una foto, una cosa qualsiasi. Solo i ricordi, ricordi di sogni inventati sotto ad un cielo di stelle tra i gatti sornioni, che forse sapevano già più di lei. Era decisa, avrebbe camminato per strada, avrebbe girato per lungo e per largo, in tutti quei posti dove avrebbe potuto incontrarlo, per tutti quei giorni che sarebbe rimasta; poi, sarebbe partita. Aveva iniziato chiedendo a qualcuno che poteva sapere qualcosa, ma non era riuscita ad avere alcuna notizia. Era assurdo tenersi nell’anima una persona senza riuscire a vederla, neppure una volta, e così continuava a girare per strada guardando ogni persona come potesse essere lui, con la stessa speranza incrollabile. Infine lo vide, ad una certa distanza, davanti a un negozio, mentre parlava con altri. Si fermò accanto a un portone, lo osservò quanto poteva, i suoi modi, le espressioni, le sue mani che esprimevano all’aria parole che lei non poteva sentire. Infine si volse, Villi, e andò via. Bruno Magnolfi.



L'attesa


L'attesa

Sul mare, in quella giornata di sole, tutto appariva più bello, anche i pensieri tristi, anche gli elementi spiacevoli degli ultimi tempi. Le avevano fatto una bella festa i colleghi per il suo ultimo giorno di lavoro all’ufficio postale, ormai quasi un anno fa, spesso le tornava a mente, ma ritrovarsi in pensione con tutto quel tempo libero da riempire in qualche modo per lei era stato più difficile di quel che aveva previsto. Si era seduta su di una barca capovolta ad osservare l’orizzonte fermo, ad ascoltare quel ritmo sonnacchioso delle piccole onde di risacca, e i suoi pensieri fluivano via leggeri, come sempre. In fondo vivere da sola aveva i suoi vantaggi, pensava. Passeggiare, riflettere, tutte cose attorno alle quali sviluppava spesso le sue giornate, attività che ormai conosceva anche troppo bene. Se n’era andata anche Ernesta, la sua amica di sempre. Suo marito era rientrato in casa e l’aveva trovata così, seduta sulla sua poltrona dove le piaceva leggere il giornale, con ancora il sorriso sulle labbra, aveva detto. Ma a quello non doveva pensarci, altrimenti le veniva la malinconia.

Il mare era bellissimo in primavera a quell’ora del mattino, quando la sabbia umida dell’arenile pareva lisciata dalla notte, e l’acqua trasparente un elemento quasi immobile, rimasto così da sempre. Lei camminava ed osservava. Abitava da sola, non aveva mai avuto un marito; e adesso quella solitudine era prepotente, le dettava tempi e modi, la faceva sentire trascinata via dalle giornate, senza che potesse farci niente. Certe volte aveva trovato qualche oggetto interessante sopra al bagnasciuga, piccole cose arrivate lì chissà da dove, portate dal vento e dalle correnti: sugheri sagomati usciti dalle reti dei pescatori, statuette di legno intagliato sciupate dall’acqua e dal sale, bottiglie di vetro vuote, senza alcun messaggio. Le piaceva trovare quegli oggetti, era come immaginare la presenza di qualcosa di vivo, un piccolo contatto con qualcuno che aveva adoperato quelle cose, e poi le aveva perse, come spesso succede nella vita.

Si sentiva importante quando lavorava all’ufficio postale, tutti la conoscevano e la salutavano, e poi c’erano quegli anziani silenziosi in fila a ritirare la pensione: non avrebbe immaginato che tutto finiva un giorno, stupidamente, con la festa dei colleghi. C’era una scatola insieme a un ciuffo d’alghe, lì sulla riva, una piccola scatola di legno forse per tenerci le matite, come si usava tanto tempo fa. Pareva un quadro surrealista, una natura morta fatta di conchiglie, sassolini colorati, fili d’alga e quel bordo bianco di spuma di mare che arrivava a tratti, lì vicino. Era bella quella scatola, ma adesso le dispiaceva sciupare quel quadro ben composto, quell’immagine così ben fatta. Pareva come la sua vita, dove ogni elemento era scorso via bene, nella maniera giusta, se non ci fosse stata quella maledetta solitudine di adesso.

Infine prese la scatola: era bella, di legno scuro, l’aprì. Non c’era niente dentro, solo un po’ d’acqua e dei granelli di sabbia, ma sotto al coperchio c’era scritto un nome, il suo. Certe volte la vita fa dei giri strani, pensò. Certe volte va a rinchiudersi in luoghi scuri, da dove sembra impossibile possa ancora avere un senso, però bisogna aprirli quei contenitori, scoprire ciò che è rimasto dentro nell’attesa. Con la mano tolse la sabbia appiccicata sopra al legno e mise via la scatola dentro la sua borsa. Guardò il mare e pensò che ormai lo conosceva bene, lo aveva osservato a lungo persino troppe volte. Doveva fare altre cose, forse dipingere, forse aiutare gli altri, trovare un senso a quel vuoto che adesso la martellava prepotentemente; questo le indicava la realtà, questo le dicevano gli oggetti attorno a sé: l’attesa era finita, ora stava a lei reagire.

Bruno Magnolfi

venerdì 16 aprile 2010

Briciole di pane


Briciole di pane.
Praticamente, come tutta la casa, la cucina era piccola, il tavolo era addossato ad una parete, e il resto era lì, il gas con la bombola, il frigorifero che funzionava anche come piano d’appoggio, il lavello perennemente ingombro di qualcosa. Quello era l’appartamento che Carlo aveva trovato in affitto... all’inizio dell’università, là dentro ci poteva abitare soltanto una persona, tanto era minuscolo, ma lui non aveva mai desiderato cambiare. Certe volte, è vero, gli era pesato abitare da solo, ma ciò nonostante, e anche oltre al fatto che ai suoi genitori, quando qualche volta erano venuti fin lì dal paese, non fosse piaciuto per niente quel suo appartamento, ugualmente lui non aveva mai cercato nient’altro, era sempre rimasto ad abitare in quelle due stanze. Gli piaceva mettersi seduto al suo tavolo, da solo, con la tovaglia ancora cosparsa di briciole di pane e l’unico piatto ormai ripulito spostato su un lato, prendere un libro ed appoggiarsi con la spalla a quella parete, con la finestra subito lì, che dava sul cortiletto, a leggere piano, con la radio in sottofondo che parlava, parlava per conto proprio. Certe volte si addormentava su quella sedia, ma per pochi minuti, con un dito tra le pagine a tenerne il segno, pronto a riprendere la sua lettura subito dopo. Erano trascorsi più di tre anni dalla sua laurea, e quel breve periodo era bastato per togliergli ogni entusiasmo, estirpare quel sogno di trovare un lavoro decente, di iniziare a vivere in modo un po’ meno approssimativo. Forse non aveva cercato abbastanza, a volte pensava, forse si era rilassato anche troppo; forse aveva immaginato qualcosa che non esisteva in realtà, e la sua delusione lo portava nella sua piccola cucina, con la luce del sole di quel primo pomeriggio che filtrava dalle tendine, ad assaporare quei rumori di vita lontana, a lasciarsi cullare nella proroga di ogni decisione. Cosa poteva mai essere di diverso la vita, certe volte pensava, se non quello starsene lì, senza dar noia a nessuno, accarezzato dal sole, da quelle parole del libro? Con qualche lavoretto che riusciva a trovare ce la faceva giusto a tirare avanti, ma che prospettiva poteva mai essere quella, passavano gli anni senza che nulla variasse, seppure di poco. Poi aveva conosciuto quella ragazza e un po’ aveva perso la testa, ma non era durata, e Carlo si era ritrovato più solo di prima. A volte ci ripensava a quelle poche volte che lei era salita fin lì, lui le aveva cucinato qualcosa, avevano parlato di tutto, lui l’aveva baciata abbracciandola in piedi, addossato a quella stessa parete in cucina o accanto al tavolo. Che sciocchezze, pensava adesso, però belle da ricordare, anche se lei dopo un po’ non aveva più voluto saperne di quelle sue maniere trasognate e indecise. Chissà in quanti modi sarebbe potuta andare la loro storia, a volte pensava: con l’entusiasmo di quel periodo lui avrebbe bussato a tutte le porte, avrebbe trovato un lavoro, cercato una casa più grande, andato ad abitare con lei, e poi chissà, tutto sarebbe facilmente stato diverso. E invece ancora adesso lui era lì, con le sue cose di ogni giorno, con il suo libro da leggere, la finestra, la tovaglia cosparsa di briciole di pane. Però continuava a piacergli quel mondo minuto: a volte scostava la tendina, si sporgeva in avanti, riguardava il cortile con la luce del sole che riusciva a scaldarlo, e si sentiva felice, almeno per altri cinque minuti.

Bruno Magnolfi

mercoledì 14 aprile 2010


Soltanto dieci minuti.
“Non sono nervoso; solo mi pare tu abbia messo sulle labbra un rossetto troppo vistoso, per esempio…”, aveva detto lui con parole tese, senza guardarmi. Io ero rimasta in silenzio, continuando a camminare al suo fianco e cercando come di mordere sulla mia bocca quel colore che a lui aveva dato tan...to fastidio. Quasi arrancando per cercare di stare al suo fianco, cercavo di portarlo su argomenti leggeri, che lo predisponessero bene a quella serata. “Non è colpa mia se abbiamo dovuto parcheggiare la macchina un po’ troppo lontano…”, avevo detto sbagliando, ma con tono di voce dimesso. In realtà quei nostri amici si facevano grandi ad abitare un appartamento nel pieno centro storico della città, sicuramente invidiabile per certi versi, però scomodissimo per le cose più pratiche. Continuavo a tacchettare con le mie scarpe alte su quel lastricato sconnesso scrutando il marciapiede a ogni passo per evitare incidenti, e intanto cercavo le parole più adatte almeno per strappargli un sorriso: “Chissà se a questa festa ci saranno anche i Dallai?”, dissi quasi tra me, tanto per dire, allungando la frase come ad una coda divertita della mia voce, che stesse a significare che trovavo quei due così buffi da essere contenta se ci fossero stati. Lui aveva subito rallentato lievemente l’andatura come pensando qualcosa. Poi aveva detto: “Speriamo proprio di no: in genere lui inizia a parlare del suo lavoro e non la finisce per tutta la sera…”. A me di solito non interessava affatto in occasioni di quel tipo dover ascoltare anche degli argomenti triti e noiosi, anzi mi era sempre sembrato un conto inevitabile da dover in qualche modo pagare: erano altre, anche se normalmente pochissime, le cose di una certa importanza che venivano fuori, ma soltanto così, con quei contatti sociali e con quello scambio di idee potevano emergere elementi positivi, conoscere da informazioni di prima mano cosa succedeva, cosa facevano, come vivevano coppie del tutto simili alla nostra. “Ma tu hai idea di quanti invitati saremo a questa serata?, avevo aggiunto, tanto per lasciarlo un po’ sciogliere. “Con le manie di grandezza che hanno in quella casa, sicuramente saremo in numero maggiore del necessario, immagino…”, aveva detto lui con tono polemico. “Però a me basta che non si siano messi in testa di farmi mangiare del sushi o altre schifezze alla moda del genere, e che soprattutto si possa venir via ad un’ora decente”, aveva aggiunto tutto di seguito, piazzando già i margini della sua soddisfazione per tutta la festa. Pensavo tra me, al contrario, che il periodo per quel ricevimento non poteva dimostrarsi maggiormente propizio per noi: avevamo prenotato i biglietti per una bella vacanza da lì a breve, e ne avrei sicuramente parlato con tutti; e poi la nostra decisione in un futuro a breve scadenza di avere un figlio, era per forza un altro argomento che mi metteva molto a mio agio. “Quindi non hai neanche intenzione di dire che ti hanno promosso in ufficio?”, avevo detto ben sapendo di lasciar scaturire il suo orgoglio. “Beh, si…”, aveva detto lui, come lasciando mostrare che non era sua intenzione avere segreti. “Sempre se viene fuori l’argomento, però…”. Restammo in silenzio per qualche secondo, ambedue pensando alle ultime avvertenze di cui tener conto, poi io dissi con voce decisa: “Mi raccomando…”, parlando con la coscienza di renderlo felice; “se vedi che non riesco a tirarmi fuori dagli argomenti di qualcuno terribilmente noioso, interrompi pure le chiacchiere con una scusa qualunque, e tirami fuori forzando le cose. Naturalmente mi ricorderò anche io di usare lo stesso stratagemma con te…”. Ma fu in quel punto di strada, quando i due ormai erano quasi arrivati, che qualcosa si mise nel mezzo. Lui inciampò in un piccolo ostacolo sul marciapiede, cercò il braccio di lei per sorreggersi ma non lo trovò in quanto lei era rimasta appena più indietro; fece due passi in modo scomposto ormai barcollando, cercò di mettere le mani in avanti, e infine andò a rovinare sul gradino di pietra di un palazzo settecentesco. Il polso cadendo fece un rumore sinistro e il dolore che lui disse di sopportare era fortissimo. L’ambulanza arrivò solo dopo dieci minuti.

Bruno Magnolfi

domenica 11 aprile 2010

Soprattutto abitudini.



Soprattutto abitudini.
I due era già molti anni che non si rivolgevano più la parola, il loro atteggiamento tra gli abitanti del loro paese era ormai proverbiale, ma quel comportarsi per loro era diventato con il tempo poco più di un’abitudine, e né l’uno né l’altro oramai ricordava il motivo per cui avevano iniziato a ...fare così. Naturalmente avevano sempre continuato a frequentare il medesimo bar, e trascorrevano spesso le serate monotone chiacchierando del più e del meno insieme alle stesse persone, ma uno da una parte e uno dall’altra, come se ognuno dei due non esistesse per l’altro. Gli amici erano a conoscenza del loro dissidio, ma pur apparendogli a chiunque di loro un comportamento poco meno che grottesco, ognuno evitava con accuratezza di andare a mescolare, nei discorsi che qualche volta venivano fuori, i ragionamenti dell’uno con quelli dell’altro. Se qualche volta si verificava una gaffe da parte di qualcuno, questa veniva immediatamente ignorata, riprendendo subito l’atteggiamento ormai abituale. Tutto trovò una sua conclusione in una sera d’estate, quando pare di non avere mai voglia di andarsene a letto, forse per godere di quel fresco serale così piacevole sulle sedie all’aperto, e i discorsi di tutti si dilungano su qualsiasi argomento, proprio per ritardare ogni cosa. Uno degli amici, il primo di tutta la comitiva, disse a un certo punto che doveva proprio rientrare, e si alzò dalla sedia, si sistemò la camicia, poi dichiarò buonanotte, incamminandosi svogliatamente. Fu allora, sul gradino di pietra al bordo di quel giardinetto del bar, che il suo piede andò ad inciampare. Cadde come uno sciocco, e urlò mentre cadeva, tanto da impressionare subito tutti quegli altri, così che i primi due a muoversi in suo soccorso, con un atteggiamento istintivo ma subito seguiti dal resto della comitiva, furono proprio quei due che non si parlavano, come per ironia della sorte, cercando di risollevarlo uno da una parte e uno dall’altra. Il malcapitato aveva la faccia piena di sangue, e i due loro malgrado continuavano a sostenerlo mentre altri portavano stracci, dell’acqua e altre cose per il primo soccorso. Poi quello svenne, tanto per complicare le cose, e fu allora che i due, ormai imbrattati di sangue anche loro, se lo caricarono a mezzo sopra le braccia per farlo salire su un’auto e portarlo al più vicino ospedale. Ma erano impressionati, forse preoccupati per quel loro amico, e dimentichi di tutto si scambiarono qualche parola giusto per sistemare le cose nel migliore dei modi. Poi andarono tutti ad accompagnare il ferito al pronto soccorso, e fu allora forse che si sentirono stupidi. Il ferito fu prontamente operato da un’equipe medica per una frattura facciale a uno zigomo, e tutti rimasero lì, solidali nell’attesa di notizie tranquillizzanti. Qualche giorno più tardi l’amico fu dimesso dall’ospedale, e quando finalmente tornò al solito bar a salutare e a ringraziare tutti, trovò ad aspettarlo quasi una festa, anche se i due che non si parlavano avevano intanto ripreso a comportarsi nello stesso identico modo di sempre. Li prese da parte, li ringraziò del loro aiuto, e dall’alto delle bende che ancora portava sul viso, chiese ad ambedue di smetterla con quel loro comportamento ormai assurdo. Nessuno promise un bel niente, però tutto in un primo momento parve terminare nella maniera migliore, quella che tutti si sarebbero attesi, ma non fu così. L’atteggiamento dei due riprese come quello che sempre era stato, e proseguirono a non rivolgersi mai la parola, e niente riuscì a cambiare quella loro abitudine, fino a che nessuno ci fece più caso.

Bruno Magnolfi

Lena

Perdersi


Hai parcheggiato e camminato non sai quanto
non sai dove , ma sei qui,
davanti ad uno specchio che non ti dice chi sei.

Ci sono giorni

giovedì 8 aprile 2010

Donne in amore


Amori troppo grandi per diventare realtà, amori serbati nell'intimo e poi scomparsi lasciano dietro di sé una sofferenza che non può essere condivisa con nessuno; soltanto il cielo potrà capirla e assorbirne la dolorosa grandezza nella sua infinità.
Per questo le donne in amore spesso le vedrai danzare.

Un dolore tra lo stomaco e il cuore

sabato 3 aprile 2010

Controvento



Ci sono donne che camminano controvento da una vita…
Ci sono donne che hanno occhi profondi e sconosciuti come oceani…
Ci sono donne che cambiano pelle per amore…
Ci sono donne che donano il loro cuore
…per poi ritrovarsi a raccattarne i cocci da sole…
Ci sono donne che in silenzio fanno ballare la loro anima
Su una spiaggia al tramonto…
…se ti fermi un istante le puoi sorprendere…
…mentre lottano contro il proprio istinto…
…mentre fanno passeggiare il proprio dolore a piedi nudi…
…affrontando onde che ad ogni mareggiata sono sempre più minacciose…
Ci sono donne che chiudono gli occhi…ascoltando una musica lenta…
…che rende ancora più salate le loro lacrime…
Ci sono donne che con orgoglio ma con il nodo in gola…rinunciano alla felicità…
Ci sono donne che con i loro occhi fotografano quegli splendidi ma così
fugaci attimi in cui si sentono abbracciate dall’amore…
…sperando di mantenerli vivi e colorati per sempre…
…se apri gli occhi un istante le puoi osservare…
…mentre disseminano briciole di se stesse
lungo il percorso verso quel treno che le porterà via…
…mentre urlano la loro rabbia contro vetri tremolanti di una casa diventata prigione…
…mentre sorridono di disperazione a chi le vorrebbe far tornare alla vita di sempre…
Ci sono donne che non si fermano davanti a nulla…
…perché non troveranno mai la fine di quel filo…
Ci sono donne che hanno fatto un nodo per ogni loro lacrima…
…sperando che arrivi qualcuno a scioglierli…
…non fermare il cuore di una donna… niente vale di più
… non far piangere una donna… ogni lacrima è un po’ di lei stessa che se ne va…
…non farla aspettare da sola ed impaurita seduta sul confine della pazzia…
… e se la vuoi amare… fallo davvero… con tutto te stesso…
Stringila e proteggila… lotta per lei… piangi con lei…
…donale il più bel raggio di sole… ogni giorno…
… tieni sempre accesa quella luce nei suoi occhi…
…quella luce è speranza… è amore… è puro spirito… è vento…
… è la più bella stella di qualsiasi notte…

Chiara de Felice

venerdì 2 aprile 2010

Solo un suono


Solo un suono nella testa.
Corrado Barresi camminava sul marciapiede lungo la strada. Non gli interessava il traffico delle auto, le nuvole nere che indicavano minaccia di pioggia, la direzione verso cui era diretto. Camminava e basta, disinteressato a tutto il resto. Era vestito come sempre: completo grigio, camicia... bianca, cravatta, soprabito leggero, così come normalmente si presentava al suo posto di lavoro. Osservò distrattamente il suo orologio da polso: le dieci e trenta del mattino; per il suo mestiere l’orario di punta, quando la filiale della banca era piena di clienti e gli impiegati dovevano muoversi se non volevano sfigurare coi colleghi e con la direzione.
Corrado Barresi pensava a quante poche occasioni aveva avuto nel passato di starsene in giro a quell’ora in un giorno feriale: certo, c’erano stati i periodi di ferie e qualche malattia di poco conto durante quei lunghi quindici anni di lavoro con la banca. Ma adesso era diverso: girava senza meta con la testa confusa e si chiedeva come fare a prendere coscienza di quel sentirsi disoccupato, senza più un lavoro. Tutto era iniziato parecchi mesi indietro con le prime lettere di avvisaglia per quel venti per cento di impiegati di cui la banca intendeva disfarsi, ma tutti erano arrivati fino all’ultimo giorno sperando in un ripensamento, in una soluzione differente da parte della direzione. Ma il destino si era abbattuto su tutti e anche su di lui, senza alcuna variazione.
Corrado Barresi sicuramente nelle prossime settimane avrebbe cercato un altro posto di lavoro, si sarebbe dato da fare, avrebbe bussato ad ogni porta possibile, ma le sensazioni che provava quella mattina, in quel primo giorno di forzata inattività, sarebbero rimaste indelebili dentro di lui per molto tempo. Non aveva avuto il coraggio di dirlo a nessuno dei suoi conoscenti, neppure a quegli amici che frequentava in modo saltuario. Si era tenuto per sé la verità, come se quella cosa fosse stata troppo grossa per permettergli di rivelarla in giro. Non tanto perché si vergognava di essere stato licenziato, quanto perché senza il suo lavoro non si sentiva niente, non aveva più un suo ruolo.
Corrado Barresi girava per le strade della sua città ma si sentiva un fantasma, trasparente, quasi come se non esistesse più. Si era fermato ad osservare una fontana d’acqua in un giardino, si era seduto per un po’ su una panchina, aveva finto di guardare interessato qualcosa in un opuscolo trovato sopra un muro. Non sapeva proprio come riempire il tempo, questo il problema principale di Corrado Barresi. Poi vide la vetrina di un piccolo negozio di rigattiere. La scrutò, fermò lo sguardo su ognuno di quegli oggetti unici esposti volutamente in modo caotico, quindi la sua attenzione fu attratta da una tromba. Una piccola tromba di ottone opaco che pareva parlasse di sé in quella vetrina, e di tutte le persone che avevano soffiato dentro di lei fino a quel giorno, lasciandola alla fine lì, apparentemente senza uno scopo.
Corrado Barresi entrò dentro al negozio ed acquistò la tromba, senza neppure chiedersi il motivo di quel gesto, senza averne mai suonata una in vita sua, senza discutere sul prezzo. Solo sentendosi come trasportato da qualcosa, dentro di sé. Nei giorni successivi provò a suonarla in qualche giardino poco frequentato. Con impegno cercò di impostare il labbro, di pigiare sui pistoni, di far uscire almeno un suono ben riconoscibile e convinto. Poi, alla fine di quella settimana, si presentò sul suo vecchio posto di lavoro, alla filiale della banca, entrò all’interno come un qualsiasi cliente, si mise in coda come tutti, e aspettò il suo turno. Ma ad un tratto Corrado Barresi tirò fuori la sua tromba, la portò alla bocca, impostò tutta la sua persona in quel gesto, come un musicista esperto, ed emise il suono più squillante e deciso che mai là dentro fosse stato udito, lasciando tutti di sasso e ridendo a squarciagola, immediatamente dopo, sia di sé che di quel luogo.
Bruno Magnolfi

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