domenica 30 ottobre 2011

Come una pellicola avvolgente.



Fuori da questa finestra tutto il mondo mi è ostile, pensava l’anziano pensionato mentre osservava qualcosa lungo la strada, scansando appena la tendina dentro la stessa stanza dove passava la maggior parte del tempo. Qualche automobile si rincorreva con i fanali già accesi, alcuni pedoni camminavano in fretta lungo il muro di fronte, quasi intimoriti dai motori e dai rumori del traffico, anche se la giornata scorreva come sempre aveva fatto a quell’ora. C’erano delle volte in cui l’uomo doveva addirittura sforzarsi per non ridurre ad una serie di impressioni del tutto individuali la realtà che osservava attorno a sé, cercando un punto di vista maggiormente obiettivo, una logica che potesse dargli il senso di quanto era percepito da tutti, anche se in altri casi gli pareva impossibile che le persone non si accorgessero di quanto lui continuava a registrare nella sua mente.

Devo cercare gli aspetti importanti che colpiscono gli altri, e tentare di reagire nella stessa maniera, si diceva a volte nei momenti in cui restava seduto sulla sua poltroncina a ripensare qualcosa di cui tentava di trovare un giudizio maggiormente distaccato di quanto generalmente gli tornava naturale. Poi usciva di casa, anche se fuori non era a suo agio, e si inoltrava lungo le strade per cercare di capire da che cosa erano attratti i cittadini che vivevano in quel suo stesso quartiere. Infine tornava a rimettersi dietro quella tendina, o seduto sulla poltrona, e spesso riprendeva ad immergersi nei suoi pensieri di sempre, senza trovare la maniera per sentirsi veramente sereno.

La sua dottoressa gli aveva detto tante volte che abitare da solo alla sua età era quasi un elemento di rischio per la sua salute mentale, e che doveva cercare di uscire da quell’isolamento in cui inesorabilmente tendeva a cadere. Così gli aveva spiegato come dovesse sforzarsi, ed evitare di lasciarsi andare a pensieri ed idee troppo individuali, che riguardavano soltanto lui, e riflettere meno sulla sua persona e sulle sue cose, impegnandosi al contrario ad immaginare quello che era importante per gli altri, assumendo un atteggiamento maggiormente collettivo, qualcosa che lo riportasse a confrontarsi con le persone, a cercare un dialogo, un rapporto con tutti.

In questo processo però si era messa di mezzo anche una maledetta paura: di cadere lungo le scale, per esempio; di restare vittima del traffico lungo le strade; di essere additato per qualche motivo da quel vicinato che neanche gli rivolgeva un saluto quando lo incontrava sul marciapiede. Per questo l’anziano pensionato aveva deciso di uscire di casa il meno possibile, anche se tutto, tra le sue mura, anche se dava sicurezza, gli pareva peggiorare progressivamente. Ma dietro a quella finestra ritrovava il punto di osservazione tramite il quale comprendere in maniera speciale tutte le cose: la realtà complotta contro di me, pensava; la nevrosi della gente, la tecnologia incomprensibile, la fretta, l’isolamento di tutti. Sono sempre più solo, si diceva, e mi risulta impossibile interrompere questo processo.

Poi, un pomeriggio, aveva preso il suo bastone da passeggio, si era avvicinato con calma alla solita finestra, e con decisione ne aveva rotto il vetro, lasciando che si sbriciolasse in mille piccoli pezzi. Un po’ di vento era entrato, aveva smosso quella tendina, e lui si era sentito più vivo, come se quel gesto fosse l’inizio di qualcosa di veramente diverso. Infine era uscito da casa indossando la sua giacca migliore, aveva incontrato una donna appena fuori dal suo portone e l’aveva guardata negli occhi: buongiorno, le aveva detto con un sorriso; oggi può essere sicuramente una bella giornata per tutti; è sufficiente avere la volontà per viverla in questa esatta maniera, non trova?

Bruno Magnolfi

giovedì 27 ottobre 2011

Gli amanti della fine del Giorno (terza parte).



Non mi interessa avere un motivo per restare fuori da tutto, mi è già sufficiente poter starmene qui, sdraiato su questa poltrona all’aperto, aspirare l’aria della sera che lentamente, tra qualche minuto, sfumerà nel buio della notte, soltanto per sapere che ogni cosa va bene, che non ho bisogno di altro, se non di questa sensazione di vita che oltre ad ogni apparenza continua a scorrere in modo deciso fuori e dentro di me. Osservo senza interesse qualcosa di cui non comprendo appieno neppure la natura, poi volgo lo sguardo verso un altro interesse, un elemento che mi sembra più vicino alle mie idee, ai miei liberi pensieri.

La vita è fatta così, penso, poi riprendo a sorridere agli altri che stanno qui insieme a me, ad ammirare questo tramonto di sole che in apparenza ci accomuna in maniera insperata, e che in realtà ci rende isolati e distanti l’uno dall’altro. Mi è stato detto che è la morte che fa amare la vita, e la paura cosciente che non sorga più il sole, e che tutto si concluda qui, esattamente stasera, ci fa desiderare la sua rinascita in maniera spasmodica, anche se ognuno mette del proprio dentro a questi pensieri, e i paragoni tra noi, pur stando insieme, sembrano oltremodo difficili.

Ma una scintilla d’improvviso scatena la pianura e le colline, una vibrazione percorre la nostra parte sensibile, qualcosa come la paura di perdere ciò che apparentemente abbiamo acquisito: mi alzo dal posto dove mi trovo seduto, guardo gli altri quasi negli occhi, chiedo loro quanto davvero potremmo resistere ad immaginare la luce sopra di noi, le ombre che pian piano si allargano, quell’ultimo spicchio di sole che lentamente ci lascia orfani di qualcosa che non sappiamo neppure cosa sia veramente. Loro mi guardano soltanto un momento: c’è probabilmente qualcosa che non va nei miei pensieri, decidono senza parlare, però si alzano come ho fatto io, tolgono i loro occhiali, si rendono conto che questo confronto renderà tutti più poveri, privi anche di quell’entusiasmo assolutamente necessario, degno di cose importanti, ma poi lentamente tornano a risistemarsi seduti, stanchi di parole e di gratuito raziocinio, come se quel tramonto fosse più importante di ogni altro aspetto, necessario alla stessa esistenza.

Anch’io torno a sedermi; forse è proprio questo il punto, immagino: non c’è una vera logica in molto di ciò che facciamo, si può essere d’accordo su tutto, oppure no, decidere una volta per sempre che la mancanza di senso non è cosa umana, o che dentro di noi sappiamo da tempo remoto ciò che va bene e quello che invece non va. Oppure si, possiamo decidere proprio al contrario che siamo alla ricerca di qualcosa che non riusciamo a trovare, e che alla fine è proprio questo l’elemento più umano di tutti. Proseguiamo a guardare; forse sarà una serata speciale.

Bruno Magnolfi

lunedì 24 ottobre 2011

Gli amanti della fine del Giorno (seconda parte)



La casa sul lago appariva immobile, solo leggermente tremolante nei suoi contorni dentro al riflesso dell’acqua. Da lontano pareva appoggiata proprio alla fine della collina sovrastante, dentro a uno spiazzo orizzontale inventato dalla natura proprio per lei, come a lasciare un luogo di vedetta da cui ammirare quella natura. L’ultimo tratto di strada era tutto malandato e sconnesso, ma quando si riusciva a fermarsi e a spegnere il motore dell’auto sul piccolo piazzale dietro alla casa di selce, immediatamente arrivava un silenzio e una pace che giustificavano qualsiasi sacrificio per arrivare fin lì. Il bosco attorno allo spiazzo che racchiudeva la casa era tutto costituito da alberi adulti, giganteschi con quei tronchi spesso diritti, su verso il cielo, a troneggiare sul tetto, la loggia di fianco, la grande terrazza appoggiata sull’acqua, quasi a rimpicciolire i contorni di tutto ciò che costituiva quella abitazione isolata, frutto di una scommessa col mondo: restarsene separata da tutto. Pensare di dare una festa, o attirare persone fin lì senza una motivazione precisa superiore ai comportamenti mondani, era impensabile: troppo lontano da tutto, quel luogo, troppo isolato, forse troppo romantico se non per stare due o tre giorni nel silenzio completo a leggere libri, a parlare sottovoce, a gustare un silenzio irreale. Si erano ritrovati in diversi quel giorno, consapevoli di quello che avrebbero scoperto arrivando alla casa, tutti ragazze e ragazzi, uomini e donne, conoscenti ed amici, in tutto dieci persone, che avevano preso in affitto quel posto per riunirsi in un modo un po’ insolito, e restarsene lontani da ogni altra cosa forse per indagare entro se stessi, allontanare dalla mente la noia borghese di sempre, e lasciare che il pensiero assumesse una forma diversa, qualcosa che desse la misura negativa della evanescente quotidianità. Avevano preso una sedia ciascuno, senza neanche suggerirselo a vicenda, e si erano piazzati sopra la grande terrazza, quasi senza parlare, solo assumendo punti di vista e posizioni diverse per osservare con calma l’acqua del lago. Il sole rosseggiava su un fianco, ed il lago riproduceva il profilo della collina di fronte raddoppiandone la maestosità e la leggerezza, tracciandone un’impercettibile linea laggiù, sull’altra riva. Ci sarebbe voluta probabilmente un’altra ora al tramonto, e quei raggi scaldavano ancora ogni superficie in modo piacevole, fiammeggiando i colori in un modo sublime, mescolandoli ad un fondo pieno e maturo. Non c’era bisogno di pensare ad un futuro oltre quell’ora: tutto in un attimo si sarebbe spento nella vallata, dopo quel breve tempo, e il mondo avrebbe capovolto se stesso proiettando ogni cosa in un suo aleatorio rovescio. Piero era contento di esser riuscito a trascinare tutti fin lì, di aver riunito quelle persone in quel luogo convincendoli soltanto con poche parole, con la sua capacità di far immedesimare gli altri nelle sue fantasie, ma aveva desiderato tanto quello che relativamente con facilità aveva ottenuto, che adesso non sapeva del tutto cosa aspettarsi dalla situazione creata. All’improvviso quel silenzio gli metteva paura, sembrava che i pensieri di tutti agissero come a formare qualcosa di cui ognuno non fosse cosciente. Lui avvertiva quella vibrazione che univa le menti e ne moltiplicava ogni potenzialità, e mentre il sole cadeva oltre quell’orizzonte, pareva che un potere diverso assumesse i contorni del loro riunirsi, come una forza che sfuggisse al loro controllo per andare a scagliarsi chissà contro chi, o contro cosa. Lentamente, alle spalle di tutti, si era alzato dalla sua sedia, era scivolato verso la casa mentre il sole moriva, e subito prima di entrare si era voltato ancora, impaurito, dalla parte degli altri che erano rimasti lì, immobili. Era stato allora che tutti si erano girati a guardarlo, come se lui fosse diverso, come se lui fosse una persona lontana dagli altri, come se loro avessero assunto all’improvviso un potere comune di cui Piero era immune, e in funzione di questo, adesso lui appariva da solo, terribilmente da solo.

Bruno Magnolfi

sabato 22 ottobre 2011

Scena n. 21. Abbagliato di luce.



Ormai lo spettacolo lo conosco a memoria, non ho neppure bisogno di seguire il copione con gli appunti del regista sui margini, e i cambi di luce durante i tre atti della commedia non sono poi neanche tanti, anche se molto precisi. Lascio che scorra la prima parte con una lampada fredda e sfumata sul primo personaggio, poi arriva lei. E’ una donna fantastica, credo non ci sia altro da aggiungere, quando lei è sul palcoscenico tutto il resto non ha paragone. Anche se chiudo gli occhi la sua voce è come se riuscisse a mostrare tutte le espressioni che assume la sua figura e il suo viso là sopra. Mi piace pensare che le mie luci le accarezzino con dolcezza il vestito, che riescano a rendere la sua recitazione ora cupa ora brillante, ora seria ora leggera, come se il mio non fosse un lavoro, ma qualcosa di più: un completamento di lei, della sua incomparabile arte.

Le cose vanno avanti come tutte le sere, lo spettacolo scorre quasi sull’olio anche se l’impegno di tutti c’è ed è forte. Osservo ancora una volta il copione, giusto per sicurezza, devo sfumare un faretto tra poco, poi ci sarà un cambio di luci piuttosto repentino. Lei è senz’altro la mia attrice preferita, penso, mentre continuo a guardarla ammirato da dietro le quinte. In tanti anni di lavoro di elettricista nessuna come lei è mai riuscita a farmi sognare così, semplicemente scolpendo nell’aria le sue parole. Devo dirglielo prima o poi, penso, senza’altro avanti che finiscano tutte le repliche di questo spettacolo, ma più lo desidero più mi sento ridicolo, in fondo ho persino qualche anno meno di lei, e lei ha sempre il camerino pieno di ammiratori.

Mando avanti il cambio previsto, le metto un pizzico in più di bianco caldo sopra ai capelli; la osservo, mi sembra bellissima adesso, quasi l’avessi scolpita, mi innamoro di lei ogni volta che torno a guardarla. Allora mi volto, cerco di guardare qualcosa da un’altra parte, ormai basta solo la sua voce per mostrarmi il suo viso, i suoi movimenti, i suoi gesti, le sue espressioni. Lo spettacolo procede, tutto sembra filare in maniera perfetta; lei esce di scena, c’è un cambio d’abito, è previsto così sul copione, ci incontriamo tra le pannellature dietro le quinte, la guardo negli occhi, lei neppure mi vede: è nervosa, lo capisco benissimo, qualcosa non va come vorrebbe, forse non avrebbe neppure voglia di tornare là sopra, chissà.

Si chiude nel camerino, si cambia, forse riesce persino a calmarsi, poi torna a passarmi vicino, più lentamente; mi faccio forza, esco dal buio, la fermo, le chiedo: andavano bene le luci, è tutto a posto? Lei volta la sua faccia sopra di me, mi guarda, anche se per un attimo sembra quasi sia avanti, dietro ad un pensiero diverso, ma infine torna presente, sorride in modo leggero, poi di nuovo sembra già allontanarsi. Infine una ruga le appare sopra la fronte, apre leggermente la bocca, mi dice: siete tutti bravissimi, poi va a prendersi qualcosa da bere, lasciandomi lì, come uno stupido; infine torna sui suoi passi, tra poco deve rientrare, allora mi si accosta vicino, con il bicchiere accanto alle labbra, ma senza guardarmi, e in un soffio mi dice: non mettermi addosso tutta la luce che hai; non la merito proprio.

Bruno Magnolfi

mercoledì 19 ottobre 2011

Il male minore (ripresa cinematografica n. 6).



Non so neppure per quale motivo fossi entrato in quel capannone industriale dismesso, forse soltanto per curiosità, tanto che quando ero caduto malamente da una scaletta metallica arrugginita, avevo subito pensato che era quasi giusto che mi fossi fatto del male, e che era quella la perfetta punizione per essermi andato ad impicciare di cose che non mi riguardavano affatto. Avevo provato quasi immediatamente a rimettermi in piedi, nonostante i forti dolori dappertutto, ma mi ero velocemente reso conto che non ne ero capace. Così ero rimasto immobile il più a lungo possibile, e quando avevo notato che oramai iniziava a far buio, una paura sottile aveva iniziato a farsi strada velocemente dentro di me.

Sentivo un piede come incastrato in qualcosa sul pavimento, ed una gamba così dolorante da non permettermi alcun movimento. Sotto alle mani sentivo la polvere e la sporcizia di anni, e tutta quella situazione mi appariva così assurda che continuavo a immaginare una soluzione immediata, casuale, qualcosa come aprire gli occhi all’improvviso e ritrovarmi fuori da lì, tranquillo, sul marciapiede della strada di casa. Invece, al contrario della mia assurda fiducia, la realtà pareva delinearsi molto più seria e concreta di ogni mia supposizione, mentre inesorabilmente continuava a scorrere il tempo, e i rumori delle rare auto in transito lungo la strada, sembravano giungere da un luogo talmente lontano da farmi apparire assurdo cercare di richiamare l’attenzione di qualcuno con qualche stupido grido di aiuto. Continuavo tenacemente a pensare che tutto in qualche maniera si sarebbe risolto, anche se la mia fiducia sentivo che poco per volta iniziava a incrinarsi.

Poi avevo cominciato a cercare di muovermi, pensando ad ogni minuta azione da compiere come al raggiungimento di un grande traguardo. Mi ero reso conto velocemente che c’era del sangue sulla mia gamba, ma questo non mi aveva creato nessun particolare problema aggiuntivo, e anche se con certezza sentivo il mio corpo fortemente indebolito da quella caduta, cercavo ugualmente di portare a compimento tutti quei gesti che ritenevo assolutamente fondamentali alla risoluzione dei miei problemi. Con grande fatica ed impegno ero riuscito alla fine ad appoggiare un ginocchio per terra, e a sollevare leggermente il busto sugli avambracci, ma fu proprio allora che mi ero reso conto che quella gamba ferita non mi avrebbe sorretto in nessuna maniera, e che non ce l’avrei probabilmente mai fatta a rimettermi in piedi.

Così, con la poca energia che mi era rimasta, mi ero trascinato, fermandomi a riprendere fiato ogni due o tre movimenti, sopra la polvere di quel pavimento, riuscendo ad arrivare vicino ad una parete, cosa questa che mi parve già un grande successo, mentre sentivo tutto il mio corpo, per quello sforzo estenuante, ormai quasi esausto. Ero tornato allora a puntare il ginocchio per terra cercando con le mani un appiglio sulla superficie del muro, riuscendo con grande sforzo a tirarmi su in piedi, giusto per rendermi conto che non ricordavo neppure verso dove avrei dovuto dirigermi per ritrovare l’uscita da quel capannone. Ero perduto, pensavo, era evidente; mi avrebbero ritrovato ormai cadavere chissà quanto tempo più tardi, forse tra un mese, forse anche di più.

Fu allora che mi lasciai andare, ricadendo di fianco sul pavimento, ma fu quasi nello stesso momento che qualcuno vicino, con una torcia accesa di cui già iniziavo a vedere le lame di luce, chiese a voce alta dove mi fossi nascosto. Il resto, avvocato, lei lo conosce meglio di me: la denuncia che è stata spiccata nei miei confronti, probabilmente era il minimo che potesse essere fatto; del resto io mi reputo già fortunato nel poter raccontare ciò che è accaduto, il resto, in fondo, se devo essere del tutto sincero, non mi interessa neppure.

Bruno Magnolfi

domenica 16 ottobre 2011

(Profilo n. 14). Il sapore di un giorno qualunque




Aveva sistemato la sua auto nel parcheggio antistante il palazzo dove lavorava da quasi trent’anni, aveva preso l’ascensore da solo, dopo avere strisciato il suo badge, e infine era entrato nella sua stanza, che divideva con altri due impiegati con i quali scambiava in genere poche parole, nonostante la condivisione di quei pochi metri di spazio. Al signor Giorgio piaceva arrivare in ufficio per tempo, quasi sempre prima degli altri colleghi, e giunto davanti alla sua scrivania compiere tutti quei gesti quasi automatici che mettevano in moto la sua nuova giornata lavorativa. Mentre il computer iniziava a far ronzare la ventola di raffreddamento lui sistemava il telefono, riordinava le carte rimaste sul piano della sua scrivania dal giorno precedente, apriva con calma i cassetti per assicurarsi che tutto fosse al suo posto, quasi come dar seguito a dei piccoli riti di iniziazione, sentirsi a suo agio, perfettamente calato nella sua parte.

Ma quella mattina qualcosa strideva terribilmente nella sua testa, al signor Giorgio pareva che niente fosse davvero al suo posto, e che quella stanza si fosse fatta più piccola, opprimente, addirittura priva di aria. Si era alzato dalla sua sedia e si era avvicinato alla finestra: lungo la strada c’era il solito traffico, qualche casa poco distante sbandierava i panni stesi ad asciugare sopra dei fili lungo i balconi, qualche passante sul marciapiede camminava con la massima attenzione ai propri passi. Niente di diverso dal solito, questo era il punto, così come niente sembrava che potesse veramente cambiare le cose.

Si allontanò dalla finestra, il signor Giorgio, ma invece di tornare a sedersi uscì lentamente sul corridoio, osservò gli altri impiegati che stavano giungendo al loro posto di lavoro, poi entrò dentro al bagno per uomini, poco distante. Osservò le sue mani grigie in contrasto con il bianco del lavandino, si specchiò per un attimo, poi decise che aveva bisogno di andarsene via, almeno quel giorno, lontano da tutte quelle solite cose. Il colore rosa del sapone lavamani attirò la sua attenzione, ne prese una goccia col dito e ne assaggiò con la bocca il sapore aspro e sgradevole. Poi inumidì la carta per asciugarsi e l’appiccicò sopra lo specchio, fino ad eliminare dalla superficie di vetro qualsiasi immagine riflessa.

Si slacciò la cintura di pelle alla vita quasi con un certo sollievo, si sbottonò quanto poteva lasciando che i calzoni gli calassero fino alle caviglie, poi li tolse del tutto sfilando via anche le scarpe. Quando aprì la porta per tornarsene nel corridoio, solo allora si accorse di essere quasi nudo, ma non gli parve affatto una cosa terribile. I suoi colleghi si passarono la voce in un attimo, e alla fine erano tutti lì, chi ridendo, chi cercando di dirgli qualcosa, ma il signor Giorgio sembrava non dare importanza a nessuno di loro. Nemmeno il capufficio cercò di fermarlo, pur arrivandogli vicino: forse per imbarazzo, forse perché gli pareva quasi impossibile che accadesse una cosa del genere, e probabilmente riteneva che niente potesse fermare davvero un comportamento così assurdo. Si limitò ad osservare con un certo distacco i gesti di quel bravo impiegato sempre ligio al proprio dovere, mentre ignorando chiunque cercava di rientrare nella sua stanza, senza cercare neppure una spiegazione qualsiasi, anzi, comportandosi come fosse quello il comportamento più normale del mondo.

Il certificato medico nei giorni seguenti riportava la dicitura: esaurimento nervoso, e in capo ad un mese il signor Giorgio tornò al suo lavoro, quasi come niente fosse successo. Non ci fu un vero seguito a quanto era accaduto tra quegli uffici, e le cose ripresero velocemente il loro normale andamento, anche se a qualcuno ogni tanto veniva ancora da ridere incrociandolo nel corridoio, ma era giusto per fare qualcosa, forse semplicemente per rompere la noia che opprimeva quel luogo.

Bruno Magnolfi


giovedì 13 ottobre 2011

La nonna


La nonna veniva a prendermi generalmente nel primo pomeriggio. Avevo quattro o cinque anni, e in quelle giornate assolate andavo volentieri con lei ad accompagnarla nei suoi giri, che poi erano sempre i medesimi: una visita al cimitero, a pulire la tomba del nonno che non avevo mai conosciuto ma che in vita si era chiamato proprio come me; oppure in qualche vecchio negozio a far quattro chiacchiere con qualcuno che la nonna conosceva chissà da quanto tempo, oppure per comprare qualcosa che le serviva; e immancabilmente in chiesa, ogni giorno, però non alla messa, ma all’ora in cui non c’era nessuno, e giusto per stare lì in silenzio per cinque minuti o pochi di più. La chiesa era grande e i soffitti con volte a crociera a me parevano altissimi, e nel fresco silenzio dei muri e all’ombra del grande pronao di ghisa, rimbombava il formidabile colpo del maglio che spaccava le loppe di minerale e di pirite nella fonderia poco lontana. Era bello pensare in silenzio, senza alcuna fretta in mezzo a confondermi, e quel suono profondo, quello che arrivava immancabile ogni poco dalla fonderia, prolungato nel tempo dai muri e dagli alti soffitti, pareva una parte costituente la chiesa, come se fosse il lavoro, il sudore dei minatori che estraevano il minerale e degli operai che fondevano il ferro e la ghisa, a entrare là dentro, a parlare di loro, delle difficoltà della vita, e forse anche del nonno, morto per essere caduto da un’impalcatura mentre portava avanti anche lui il proprio lavoro. La nonna aveva cresciuto i suoi figli ancora piccoli tutta da sola, fin da quel giorno, chissà con quante e con quali difficoltà, ed ora che quelli erano grandi, aveva me, che volentieri le stringevo la mano callosa, e le facevo capire ogni volta che mi piaceva andare con lei, ero contento di accompagnarla in tutti i suoi giri, ed io davvero sarei andato dappertutto al suo fianco, in ogni posto dove lei avesse voluto.

Bruno Magnolfi

Di nuovo primavera.


Resto seduto, in questa piccola stanza quasi vuota, ammobiliata solo con un tavolo di legno ed una libreria, e mi sento bene a leggere qualcosa, sfogliare vecchi volumi che in molti casi ho letto già, ma in cui riesco a ritrovare sempre cose nuove, frasi e parole su cui la volta precedente non mi ero sufficientemente soffermato, e mentre svolgo questa attività mi sembra spesso di non aver bisogno di nient’altro.

Poi però penso a quante cose ci possono essere fuori, fuori da qui, dai miei pensieri, da queste pagine consunte, e allora torno ad osservare quello spicchio di strada che si vede dalla mia finestra, e mi sembra che tutto sia ordinario, monotono, consolidato, come se, qualsiasi cosa potessi mai trovare dentro alla mia testa o in queste pagine, sarebbe comunque qualcosa che non vale, che non porta alcuna novità.

Mi sollevo dalla sedia, cammino dentro alla mia piccola stanza, e mi sento nervoso, preda di un tormento che giunge dal di fuori, ed è come se tutti i miei pensieri subissero un attacco alla loro legittimità, o come se non fosse giustificato neppure ciò che penso, o tutto quello che riesco a riflettere sopra a questi libri, proprio come se le pagine che sfoglio fossero rimaste preda della loro bella età, risultando vecchie, una volta per tutte, fuori scala, senza possibilità di dire altro.

Apro la porta, esco in corridoio, indosso velocemente la mia giacca e scendo senza tentennamenti le scale di questo condominio: fuori non c’è niente, niente che io abbia altre volte visto e riflettuto, eppure oggi c’è il sole, forse è primavera, la giornata è calda, l’aria piacevole, come qualsiasi altra primavera.

Bruno Magnolfi


domenica 9 ottobre 2011

Istruzioni per regole nuove.





L’uomo stava disteso sull’erba, apparentemente senza pensieri, la donna, accanto seduta, lo osservava in silenzio. Abbiamo soltanto due ore per noi, aveva detto lui, poi non potremo rivederci prima di due settimane. Non gli piaceva preventivare il futuro, ma con lei era sempre meglio dire con calma e con chiarezza le cose, in modo da evitare qualsiasi suo irrigidimento. Forse non ci vedremo neanche più, aveva invece detto lei, mostrando il suo carattere particolare, lanciando le parole nell’aria, ma come parlando a se stessa. Anche in altre occasioni le sue riflessioni erano apparse più catastrofiche e definitive di quanto ce ne fosse stato bisogno, ma in questo caso qualcosa nella sua voce era più fermo e deciso di ogni altra volta.
L’uomo generalmente interveniva in questi casi spiegandosi meglio e cercando di alleggerire le cose, ma stavolta gli parve di non avere argomenti, come se tutto quello di cui adesso avrebbe potuto parlare, almeno in maggior parte, gli apparisse scontato, già risaputo, addirittura ridicolo. Rimase fermo e in silenzio, dando appena una timida occhiata verso di lei che aveva lo sguardo fisso sugli alberi in fondo a quel pezzo di verde. Lungo la strada che costeggiava quel parco pubblico passavano raramente delle auto, e il rumore del loro transito, da dove si trovavano loro, risultava appena percettibile. Inconsciamente lui si volse verso il cancello in fondo al giardino dove stava parcheggiata la loro macchina, e lei intercettò il suo movimento pur rimanendo in silenzio.
Ci sono cose che non ho ancora capito, aveva detto lui cercando un argomento che non riguardasse niente di riconducibile al loro rapporto; altre che inizio soltanto adesso a comprendere; e ce ne sono anche di ulteriori che credo mi sfuggiranno per sempre; però penso che sia questa la vera maturità, la coscienza che ci siano elementi che hai avuto sotto agli occhi da sempre e che d’improvviso si presentano del tutto diversi, e mostrandosi sotto una luce completamente variata ti fanno sentire bisognoso di tutto, anche di imparare correttamente a guardare.
Poi era rimasto in silenzio, e d’improvviso gli era parso che nessun argomento potesse rompere lo stallo che si era creato, tanto che, pur continuando a cercare qualcosa da dire, senza peraltro riuscirci, si mise a trastullare una foglia, giusto per fare qualcosa. Andiamo?, disse lei d’improvviso sollevandosi in piedi. Lui comprese che qualcosa gli stava effettivamente sfuggendo di mano, ma non riuscì a contrapporre nient’altro che un timido: vuoi davvero andar via? Lei annuì senza rispondere, e in un attimo prese il vialetto di ghiaia che conduceva al cancello, con passi calmi ma risoluti, e lui la seguì.
La sensazione più forte era per lui la perdita improvvisa di tutto, ma il pensiero che lo tormentava di più era l’incapacità, che provava quasi come un dolore, di opporre qualcosa di sensato ad una decisione probabilmente già presa. Fuori dal giardino tutto pareva scorrere in maniera ordinaria, i bambini erano per mano alle mamme, le automobili rallentavano in prossimità dei passaggi pedonali; soltanto lì, accanto a loro, qualcosa di irreparabile stava accadendo senza che niente, probabilmente, fosse capace di arrestarne il proseguo.
Infine erano giunti al cancello, lei aveva già tirato fuori le chiavi per aprire la propria automobile e accompagnarlo fino all’area di sosta dove, come d’accordo, si erano incontrati poco prima, prendendosi ambedue quel pomeriggio di libertà. Lui allora si era fermato un momento, aveva abbassato la faccia, l’aveva osservata con una semplice occhiata esauriente, poi aveva detto: vai pure; io preferisco tornarmene a piedi.
Bruno Magnolfi

mercoledì 5 ottobre 2011

Senza riferimenti certi.






Avevo guardato a lungo nello specchio una figura che non ero del tutto riuscito a riconoscere. Poi mi era venuto da sorridere: forse era uno scherzo ottico, avevo subito pensato, un abbaglio senza seguito, un elemento sciocco di un periodo un po’ più complicato di altri, probabilmente un momento in cui avrei dovuto impegnarmi in misura maggiore per decifrare meglio tutti quei segnali che normalmente possono giungere. Mi ero seduto al tavolo, avevo lasciato che scorresse qualche minuto con la testa appoggiata ad una mano, quasi come se fosse sufficiente starmene fermo a pensare per risolvere le cose, poi ero tornato ad osservarmi attorno.

Sapevo che la sedia su cui mi ero seduto, pur essendo la mia preferita, ogni volta che mi muovevo scricchiolava, e a me dava fastidio quel rumore di legno vecchio, secco e tarlato, anche se non potevo farci niente. Ero da solo, questo era il punto, anche se la solitudine mai mi era pesata. Guardavo le cose, i mobili, le stanze della mia casa, e quasi stentavo a riconoscere tutto, come se una mano diversa dalla mia avesse deciso dove farmi abitare, come comportarmi, forse addirittura cosa pensare. Ecco, d’improvviso era come se scoprissi di non essere esattamente me stesso.

Giravo dentro la mia casa, osservavo le mie mani, toccavo gli oggetti di ogni giorno, eppure sapevo che qualcosa era cambiato. Mi affacciai alla finestra per osservare le persone che camminavano lungo la strada, e qualcuno si volse a guardarmi, come se avessi qualcosa di strano, qualcosa che incuriosiva quasi tutti. Tornai allo specchio e vidi una persona che neppure conoscevo. Uscii di casa, corsi giù per le scale con l’idea di chiedere aiuto, forse anche per cercare di spiegare a qualcuno quello che mi stava succedendo, ma poi ne ebbi paura e mi paralizzai una volta sopra al marciapiede. Dopo un attimo iniziai ad incamminarmi lentamente con il massimo della noncuranza che potevo assumere, e intanto osservavo le vetrine dei pochi negozi di quella zona per vedere se riconoscevo la figura specchiata sopra a quelle superfici, e intanto cercavo di pensare cosa fosse meglio per me, come uscire da quella situazione.

Vidi qualcuno del quartiere che fino al giorno prima salutavo, ma nessuno di questi mi riconobbe, neanche uno rivolse un saluto verso di me. Smisi di pensare, mi concentrai soltanto sui miei passi, e in fretta arrivai al cavalcavia. Le auto sfrecciavano veloci, sentivo l’aria che muovevano sopra ai miei vestiti e nei capelli: mi appoggiai al corrimano pedonale e rimasi a guardare per lunghi minuti quel traffico monotono, costante, dove tutti pareva corressero verso qualcosa di importante. Mi sentivo perduto, non avevo neppure un posto verso cui dirigermi, eppure non riuscivo a mettere a fuoco neanche che cosa stessi perdendo veramente. Quando mi allontanai da lì fu soltanto per tornarmene a casa: pensavo alla mia sedia scricchiolante, forse l’unica cosa che adesso mi mancava; mi sarei seduto, pensavo, mi sarei comportato proprio come ogni giorno, e ogni mia difficoltà sarebbe scomparsa, se ci pensavo a fondo era così, all’improvviso ne ero certo, non c’era proprio alcun bisogno che mi lasciassi prendere dal panico.

Bruno Magnolfi

domenica 2 ottobre 2011

Nel senso delle cose.



Il loro solito percorso prevedeva il passaggio vicino ad una casa, una vecchia abitazione di campagna ormai in disuso, dove da chissà quanti anni non abitava più nessuno, ma che in qualche modo, almeno a giudicare dal di fuori, conservava il fascino di una costruzione ancora viva, seriosa, quasi autoritaria nel dominare gli spazi e il verde attorno. Non c’era niente di particolare nei pressi di tutto quello spiazzo, se non quel viottolo serpeggiante che girava poco lontano dalla casa fino ad arrivare, un chilometro più avanti, a costeggiare un piccolo fiume insieme agli alberi e ai cespugli spontanei, pieni di vento di verde e di grandi foglie ombrose.

I ragazzi, dopo la scuola, certe volte trascorrevano lì un’ora o due parlando sottovoce, seduti nel fresco e nella calma, cercando con lo sguardo qualche pesce guizzante tra le pietre e a tirare sulla superficie dell’acqua qualche sasso, per poi tornare indietro, verso il paese, ripassando lentamente davanti a quella casa con le imposte sempre sprangate, immaginandosi gli interni: l’acquaio di granito, i pavimenti di mattoni, il camino grande con le panche ai lati, e forse nell’aria un odore di fumo ancora forte. Tornavano verso le loro case senza dirsi niente, quasi in silenzio, ma come conservando un sottinteso che non riuscivano a spiegarsi.

Quando decisero, in un giorno come gli altri, tutti e quattro quanti erano, di sfondare la porta e di entrare dentro a quella casa, era come se le parole per l’accordo fossero la normale prosecuzione dei loro pensieri di sempre, come fosse in fondo una cosa già decisa, ormai quasi naturale. Lo fecero cercando di darsi coraggio l’uno all’altro, e forse non ne avevano davvero neanche bisogno, ma andarono avanti senza alcun ripensamento, con le torce che si erano portati dietro per scrutare con minuzia ogni particolare, e con gli occhi aperti, di chi sa che ci sarà solo una volta per rendersi conto delle cose, aspettando il tramonto, quando forse certi gesti, chissà perché, diventano possibili.

Nessuno di loro rimase all’esterno, dovevano tutti essere coinvolti ad armi pari in quell’impresa, e si ritrovarono là dentro, in quelle stanze completamente vuote, senza neppure sapere bene cosa fare. Girarono con circospezione da ogni parte, salirono al piano superiore lasciando chiusi gli scuri quasi per paura di cambiare l’assetto ormai assegnato a quella casa, poi, parlando tra loro sottovoce, dissero che non c’era niente, anche se non ne erano proprio convinti, ma allora tutti insieme decisero di andarsene. Fu in quel momento che notarono qualcosa, un piccolo quadro rimasto appeso, unico oggetto, su una parete d’angolo lungo il corridoio. Fecero luce con circospezione, si avvicinarono quanto era possibile, ma il vetro fece specchio e li confuse, poi infine videro l’immagine.

Pareva quasi una fotografia, ma era un disegno sbiadito fatto con una matita: dei ragazzi che si guardavano tra loro sotto a un albero, come se attendessero qualcosa, quasi che chi aveva voluto disegnarli, li avesse sorpresi in pose strane, con espressioni insolite e curiose. Avrebbero potuto essere addirittura loro stessi, pensarono le loro menti sveglie: trovarono addirittura delle somiglianze, e se si guardava bene, sullo sfondo del disegno, c’era anche una casa che poteva essere benissimo quella dove adesso si trovavano, e di tutta quella riflessione provarono paura. Uno di loro disse che voleva andarsene, gli altri annuirono, così in un attimo si ritrovarono sopra lo spiazzo esterno con una gran voglia di tornarsene in paese e alle strade conosciute. Non dissero mai niente a nessuno di tutta quella storia, e soprattutto di quel quadro, ma non dimenticarono mai niente di quello strano pomeriggio, e forse dentro quel quadro sentirono di entrarci veramente, anche se non subito: forse ci si ritrovarono con calma, quasi per un gioco della mente, un giorno o quello seguente, un anno oppure un altro, poco per volta, senza alcun forzatura; prima o dopo, come una conseguenza naturale, praticamente inevitabile.

Bruno Magnolfi.

sabato 1 ottobre 2011

Il pianto di gioia

Camminare per strada, mettermi seduto su una panchina del giardinetto del mio quartiere, sfogliando un giornale giusto per occupare gli occhi e la mente, e far trascorrere il tempo. Tornare a casa, dopo il lavoro, accendere la radio sul mobile, compiere i soliti gesti di rito, pressappoco con i medesimi orari, quasi ad osservare delle direttive precise, e lasciar trascorrere il tempo. Scendere certe volte giù al bar a scambiare qualche parola con le conoscenze di sempre, ragazzi che giocano a carte, che si prendono in giro e che ridono, passare la serata a guardarli, e farmi fare un caffè dal barista, proprio per conservare quell’aura di cliente dentro al locale, e lasciare che il tempo trascorra. Questi i miei giorni, le mie settimane, gli anni che passano, come un percorso da compiere, e basta; ma qualcosa di differente si è inserito in mezzo a quei giorni, a quel tempo indolente. Una bella ragazza la Laura, abita in fondo alla strada, a volte ci siamo incontrati, ma non l’ho mai salutata, forse per timidezza, forse perché nessuno ci ha mai presentati. Ma ieri, dentro al negozio di generi alimentari, le è caduto qualcosa mentre ero lì, un foglietto di carta, una cosa da niente, ma io l’ho immediatamente raccolto, lei è arrossita e mi ha ringraziato. “E’ solo la lista delle cose che devo acquistare…”, ha aggiunto con voce piacevole, ed io, non so come, le ho detto, mentre uscivamo assieme da dentro al negozio: “Potrei accompagnarti, ti va?...”. Lei ha fatto segno di si con il capo, mentre sistemava la borsa, poi lentamente ci siamo avviati sul marciapiede. Le ho detto che sono triste in questo periodo, che a volte le giornate mi sembrano lunghe, che sono stufo di far trascorrere il tempo senza che questo comportamento mi dia nello scambio qualcosa per cui sentirmi contento. Le ho detto che credo di essere un ragazzo qualsiasi, come tutti, però mi sento sempre da solo, anche quando sono in mezzo alla gente. Certe volte ho invidia di chi si diverte, le ho detto; non so cosa abbiano di diverso da me quelli che ridono tanto, però qualche volta mi manca quel loro sentirsi leggeri, sereni. Lei ha guardato quasi sempre diritto, avanti ai suoi piedi sul marciapiede, ha fatto cenno di si con la testa, ha detto che mi comprendeva benissimo, che anche lei certe volte si sentiva nella stessa maniera. “Non so cosa manca nella mia vita”, le ho detto, “ma questa mancanza è così forte da annullare anche il resto, come se quello che ho perdesse di senso al confronto”. Poi Laura era arrivata, ci siamo fermati davanti al portone, le ho detto che mi aveva fatto tanto piacere parlare con lei, e lei mi ha risposto che dovevamo ancora parlare, faceva bene parlare, che avevamo iniziato un dialogo, una cosa importante, dovevamo vederci il giorno seguente, ai giardinetti, quelli dove io certe volte andavo da solo a sfogliare il giornale. Andava bene, era tutto perfetto, non c’era da aggiungere altro. L’ho salutata, poi ho quasi trattenuto il respiro. Un giorno intero è trascorso così, senza che io mi fossi accorto di niente: mi sono messo seduto a quei giardinetti, nel pomeriggio, come d’accordo, sopra la panchina di sempre, ho guardato gli alberi spogli, mi sono reso conto di sentirmi ancora più triste di quello che avevo creduto, e che l’unica cosa che adesso mi sollevava lo spirito era lei, sapere che Laura stava arrivando. Poi ho visto da lontano la sagoma, ho riconosciuto il suo passo, mi sono sistemato ancora meglio sopra quella panchina, ho cercato di assumere un’espressione che le facesse piacere vedere, e lei è arrivata davvero, si è fermata lì, davanti ai miei piedi, con il suo viso dolcissimo, ed io, proprio come un cretino, non ho saputo trattenere le lacrime.

Bruno Magnolfi