venerdì 31 agosto 2012

Amico di tutti


Certe volte potevi incontrarlo nei pressi della stazione ferroviaria, sulla vasta piazza antistante, per esempio, oppure addirittura dentro l’edificio, mentre con attenzione seguiva il tabellone con gli orari delle partenze dei convogli, oppure, con il medesimo interesse, quello degli arrivi. In fondo, poi, tutto questo non aveva molta importanza: girando per strada avevi la sensazione che lui fosse perennemente lì, ad ogni angolo, con il suo sguardo attento, l’espressione seriosa di chi prende ogni cosa con scrupolo, lasciando i rumori, la confusione, il mescolarsi continuo delle cose in ogni via della città, ad uno stadio inferiore ai suoi interessi, come qualcosa da non prendere per nessun motivo in considerazione.

Pareva perennemente da solo, ecco il punto, ma non tanto da solo perché in mezzo alla gente, quanto perché la sua persona mostrava, rispetto a tutti, di mantenersi in una differente dimensione. Potevi fermarlo per strada, se ti andava, offrirgli un caffè, chiedergli come andassero le cose, ma non potevi sperare di ottenere delle risposte esaurienti. C’era indifferenza nei suoi occhi, certamente per tutto ciò che tu potevi dirgli, ma molto probabilmente anche per ciò che avrebbe potuto dirti lui.

Certe volte ti ritrovavi a cercarlo, come se la sua presenza in qualche modo fosse una rassicurazione, un elemento della realtà capace di far andare tutto per il verso giusto. Nessuno però chiedeva davvero di lui, quasi non esistesse.

Bruno Magnolfi


mercoledì 29 agosto 2012

Meditazioni sul niente. 7




Qualche tempo fa mi ero seduto ad un tavolo libero di un ristorante. Non avevo molto appetito, a dire il vero, però mi sembrava un preciso dovere quello di prendermi cura del mio organismo, e quindi cibarlo, fargli sentire quel senso di sazietà che a volte riempie quasi per intero tutta una giornata ordinaria. Non avevo mai messo piede dentro quel bel locale, se non parecchio tempo più addietro, però mi trovavo casualmente a passeggiare proprio lungo quella strada, e questo era stato il motivo che mi aveva spinto là dentro più di qualsiasi altra cosa: non tanto la curiosità, osservare le sale, gli arredi, e i menu, soprattutto; quanto la certezza di non essere riconosciuto da nessuno, né dai camerieri, e neppure da qualche barboso cliente.

Un uomo, su un lato dell’ampia sala, seduto su un alto seggiolino, suonava melodiosamente la sua chitarra, intrattenendo piacevolmente i tanti frequentatori del luogo, e molti di loro per questo se ne stavano quasi in silenzio, e se avevano qualcosa da dire ai commensali, lo facevano sottovoce, per non disturbare l’arte di quel musicista. Tutto appariva celebrato con garbo, il personale si muoveva tra i tavoli con grande professionalità, gli avventori cercavano di far tintinnare il meno possibile le loro posate su porcellane e bicchieri.

Avevo notato una donna, quasi di fronte al mio tavolo, elegante nel portamento e nei modi, voltata appena di tre quarti nei miei confronti, ed appena mi ero seduto, quella aveva gettato un’occhiata proprio verso di me, appena per un attimo, a dire la verità, per poi andare a chiudere immediatamente le palpebre, e tornare subito dopo ad interessarsi soltanto del suo tavolo e delle altre due persone che erano sedute con lei. Mi pareva interessante la sua figura, ma non potevo certo insistere ad osservare ciò che faceva e soprattutto verso dove volgesse lo sguardo, così con immediatezza mi ero interessato soltanto del mio pranzo e di nient’altro.

Mentre gustavo con calma ciò che mi era stato servito dal cameriere, sentivo poco a poco la musica dare perfetto coronamento a quel cibo squisito che avevo ordinato, tanto da trasportare ogni mio pensiero verso altri luoghi, fino a lasciarmi rivedere dentro la mente, come esempio di altrettanta grande armonia, alcune verdi e ondulate colline nei pressi del mare, dove mi ero dovuto recare per ragioni di lavoro soltanto poche settimane più indietro. Il chitarrista aveva iniziato a cantare qualche vecchia canzone della tradizione italiana, e le sue parole mi avevano portato in giro per tutta la penisola, come se l’immaginazione avesse bisogno soltanto di un piccolo invito per poter allargare le ali.

Il mio pranzo proseguiva così nella maniera migliore, e le portate si dimostravano tutte all’altezza di un ottimo locale, tanto da invogliarmi nel futuro a tornare altre volte e più spesso in quella strada e in quel luogo. Il chitarrista, poi, aveva terminato tra applausi scroscianti la sua esecuzione, ma non per questo il comportamento di tutti, e le loro conversazioni tra i tavoli, avevano variato di tono o adoprato maniere diverse: il clima rimaneva disteso, la tranquillità sembrava perfetta regina di tutta la sala.

Tornai ad osservare di nuovo la signora che avevo di fronte, ma soltanto per accorgermi che, aiutata alle spalle, si era alzata da tavola, lasciando il ristorante insieme alle persone con cui si era accompagnata. Mi dispiaceva non averla osservata di più durante quel pranzo: adesso che la vedevo in tutta la sua persona mi pareva ancora più interessante di quando stava seduta, e così, quasi per riparare, ne ammiravo adesso il vestito, i gioielli, l’acconciatura dei lunghi capelli nero corvino. Ma quando era passata vicino al mio tavolo in direzione del cameriere che le stava aprendo la porta: arrivederci, mi disse, con un largo sorriso, lasciandomi assolutamente di sasso.

Bruno Magnolfi


domenica 26 agosto 2012

Sotto al cappello.


In ogni momento, ogni volta che compio un’azione, anche la più sciocca del mondo, ecco che mi dico: niente sarà più come prima! Dico questo e subito ne ho quasi paura, come se ciò che di grande o di piccolo possa accadere, sono convinto abbia nelle sue mani il mio futuro, la vita, ogni possibilità. Poi succede qualcosa, un pensiero mi salta dentro la testa, mi alzo dal tavolo, indosso il cappello, esco da casa. Non ho una meta precisa, eppure so con precisione che devo muovermi, frequentare dei luoghi pubblici, incontrare le persone che affollano questa città.

Giro per le strade, lo sguardo basso, la camminata ben scandita: non vorrei accadesse niente, mi piacerebbe che tutto si conservasse così per un tempo indefinito. Percorro una via di negozi ben frequentata, se trovo il giusto esercizio devo acquistare qualcosa per me, per alcune ordinarie necessità. Invece, ecco, una persona mi ferma con un semplice saluto, mi fa dei complimenti accompagnati da grandi sorrisi, mi chiede come mi vadano tutte le cose. E’ un conoscente, un tizio di cui ricordo soltanto le cose essenziali, ma a sufficienza per permettere a lui di stringermi la mano, pormi qualche domanda, invitarmi a bere un bicchierino in un locale proprio di fronte.

Mi piacerebbe avere la personalità per declinare l’invito, dirgli con determinazione che ho qualcosa da fare, che non ho tempo per lui, invece lascio che questo tizio mi porti dentro a quel bar, mi spieghi con foga le sue vicissitudini, mi parli di tutto quello che vuole, tanto da mettermi in condizioni di dover dire anch’io quello che penso, ciò che rifletto ogni giorno, i miei dubbi, le perplessità. Sono a disagio, ne ho la coscienza, eppure non posso fare a meno di lasciarmi prendere dal gioco, come non ci fosse altro da fare, non esistesse neppure una diversa possibilità.

Infine usciamo, lui dice che dobbiamo rivederci, che è piacevole parlare con me, che sono una persona squisita, di quelle che oggi è sempre più difficile incontrare per strada. Mi sento la fronte imperlata di sudore, non so neppure che cosa aggiungere, i miei argomenti mi paiono così stupidi che penso da un momento all’altro possa accorgersi che sto solo fingendo una socialità che non ho dentro di me, non ho neanche mai avuto. Sorrido ai suoi argomenti, ma non vorrei farlo, mi guardo attorno e cerco soltanto di guadagnare di nuovo il mio equilibrio.

Mi saluta, se ne va, non prima di avermi assicurato che verrà a farmi visita nella mia casa, a vedere dove abito, direttamente fra due o tre giorni: potremo ancora chiacchierare dei bei tempi, dice, e mi stringe con calore la mano, mentre con l’altra mi assesta una pacca d’amicizia quasi all’altezza della mia spalla. Mi confondo immediatamente tra tutta la gente, mi fo piccolo, ad evitare che qualcun altro riconosca in me ciò che realmente sono, però mi stringo nella mia giacca e proseguo a camminare lungo la strada costellata da molti negozi. Mi accorgo poco dopo che ho dimenticato il cappello dentro al locale in cui mi sono recato insieme a quel tizio, e questa per me è una grande disdetta.

Non posso tornare in quel bar, non è proprio il caso di farlo, penso, lascerò che qualcun altro, con indifferenza, indossi prima o poi il mio cappello, e quando lo riconoscerò, camminando per strada, apprezzerò in quella persona che adesso lo calza, qualcuno che potrei essere io. Dovrò acquistare un nuovo cappello, penso, mi sentirò subito una persona diversa, sarà sufficiente indossarlo.

Bruno Magnolfi



Sotto al cappello




giovedì 23 agosto 2012

Nessuna diversa maniera


Fuori da qui non c’è niente, mi dico, niente che possa minimamente interessarmi; osservo la strada dalla mia finestra per sincerarmene, e sento di odiare tutto ciò che laggiù si muove, il traffico e ciò che continua ad andare avanti e indietro, senza sosta. Scosto la tenda con circospezione, guardo la palazzina di fronte al mio piccolo appartamento, ci sono alcuni vasi di fiori ai davanzali, e i fili di plastica con i panni stesi ad asciugare, le serrande quasi tutte abbassate, ad evitare sguardi indiscreti, e solo un infisso aperto, a far prendere aria qualche stanza.

La porzione di cortile che vedo da qui è deserta, adesso, ma lungo il marciapiede là vicino ci sono diverse persone che passeggiano, o che si recano verso i loro affari, a sbrigare le faccende che ogni giorno impegnano tutta quella gente. Potrei essere diverso da come sono, penso; potrei essere indifferente verso chiunque si metta a camminare sopra quel marciapiede, lungo quella strada, quasi sotto a questa mia finestra. Potrei pensare che tutto è normale, per esempio, che va tutto bene procedendo in questo modo, e disinteressarmi di ogni altro aspetto, richiudere la tenda della mia finestra, versarmi un bicchierino di acquavite, sedermi sopra la poltrona e godermi la vita e queste giornate calde e intense, dai pensieri forti, solo apparentemente febbricitanti.

Invece non riesco ad essere così, per quanto possa sforzarmi. Guardo la strada, il cortile, la facciata della palazzina che ho di fronte, e mi pare non ci sia niente che vada bene in ciò che vedo, almeno non come lo vorrei. Vado in cucina, mi verso un bicchiere d’acqua fresca, cerco di stemperare il subbuglio che provo dentro me; poi ancora mi sforzo, cerco addirittura di pensare ad altro, di svagarmi con qualche idea lasciata apposta per occasioni come questa. Ma non riesco a far andare avanti le cose in altro modo, per quanto mi impegni, giri per casa, cerchi di evitare la finestra, di interessarmi agli altri, a quei comportamenti che hanno tutti, così normali da riuscirmi assolutamente ripugnanti.

Torno a scostare la tenda, resto in piedi a lungo accanto ai vetri, osservo ancora tutto quanto, percepisco l’odio che mi corre dentro al corpo senza che possa farci niente. Infine impugno una sveglia di metallo rimasta sopra al tavolo, torno ad osservare la finestra aperta della palazzina qua di fronte. Non c’è più l’ombra di un pensiero dentro me, nessuna riflessione, solo un istinto smisurato che non permette alcuna razionalità. Apro i vetri, e con tutta la forza che il mio braccio riesce ad imprimergli, scaglio questa sveglia pesante contro quell’appartamento. Poi mi siedo; va bene così, penso, e del resto non potrebbe proprio andare in nessun’altra maniera.

Bruno Magnolfi


mercoledì 22 agosto 2012

Piccoli enormi progressi.



Certe volte, improvvisamente, penso che tutto sia inutile. Osservo, seduto, il piano del tavolo che rimane di fronte, e sento in me come una febbre che distorce gli oggetti attraverso i miei occhi, fino a farli apparire comuni, familiari, gli stessi di sempre, forse soltanto offuscati da una patina di umido presente sotto le palpebre, forse vicini a me in un senso pratico, ma di fatto del tutto estranei al modo di essere che ho appena deciso di assumere da ora in avanti. Non trovo più alcun interesse nell’osservazione del tavolo e degli oggetti che ci stazionano sopra, penso, ho bisogno di vuoto, di assenza, di un nulla che adesso è oltraggiato da queste immobili cose.

Ho tutto il diritto di rendermi conto, alla fine dei miei pensieri, che il comportamento che ho tenuto per anni sia senza scopo, ed è quasi un avvertimento quello che mi sento di dare, e probabilmente mi piacerebbe che almeno in questa stanza si giungesse a tenere conto di queste deduzioni precise. Allontano con la mano il bicchiere con due dita di acqua che mi è stato sistemato vicino, poi sento alle mie spalle che è entrata, socchiudendo come sempre con lentezza la porta, mia sorella Rosina, a rendersi conto che io stia ancora bene, che non abbia bisogno di niente e altre cose del genere. Vai via, penso in silenzio, e intanto bofonchio qualcosa come se la mia meditazione mi avesse trasportato in una dimensione diversa.

Vuoi che ti sistemi un cuscino dietro la schiena?, sembra chiedere lei con quelle maniere sempre troppo dedite agli altri per non apparire del tutto insopportabili. Non dico niente, neppure tento di girarmi verso Rosina, non c’è alcun bisogno che io la veda per sentirmi certo della sua presenza, del suo modo di tenermi perennemente sott’occhio. Il nulla, penso, ho soltanto bisogno del nulla. Lei si avvicina, osserva i miei oggetti di sempre sparsi sul piano del tavolo, e li riordina, come se una disposizione diversa ne cambiasse il significato. Poi esce.

Questo è esattamente il senso di inutilità di ogni sforzo che compio. E’ come se ogni volta che cercassi di uscire da una vecchia maniera di essere, per spingermi a trovare una dimensione migliore, un modo più giusto per comprendere questa realtà, tutto improvvisamente tornasse a riprendere le antiche fattezze, come non esistesse mai un oltre, ma soltanto un tentativo, perennemente sconfitto. Torna Rosina, porta una tazza di tè, come ogni sera a quest’ora. Ecco, dice con morbida voce, adesso scotta, la metto sul tavolo, tra un attimo torno per aiutarti, rilassati solo un momento, non aver fretta. Torna il silenzio dentro la stanza.

Mi viene voglia di toccarmi col dito la punta del naso; c’è un’essenza di qualcosa che esala nell’aria, penso, mi piacerebbe poterla descrivere, ma è un compito ingrato, e poi ho deciso di non dare più alcuna importanza agli oggetti e alle cose che vedo e che sento. Torna Rosina, prende la tazza, soffia sul tè, poi me lo avvicina alla bocca. Lascio fare, sono soltanto normali consuetudini, penso. Infine va via con la tazza e col resto. Il tè mi ha scaldato, improvvisamente mi sembra di stare meglio. Se soltanto potessi muovermi da questa sedia a rotelle, muovere almeno le mani, liberarmi di questi stupidi oggetti che ho perennemente davanti ai miei occhi mi sentirei un’altra persona, rifletto; ma forse non ha neppure una grande importanza: se proseguo la concentrazione su questi pensieri riuscirò a modificare quanto ormai ho deciso, ne sono sicuro. E ‘ soltanto una questione di tempo, penso, il mio nuovo modo di essere porterà grandi vantaggi, e non ci sarà più neppure bisogno di ricordarsi com’era stato una volta.

Bruno Magnolfi


mercoledì 15 agosto 2012

Diverso dal consueto.


Ero uscito da casa mia per tempo: essendo invitato ad un pranzo di una certa importanza presso la residenza di una famiglia in vista della città, non volevo in nessun caso giungere in ritardo all’appuntamento, e quindi far pensare di me un’incapacità di giudizio adeguato a certe situazioni di indubbia rilevanza. Però non avrei mai neppure voluto arrivare da quelle persone con un anticipo tale da mettere a disagio i proprietari dell’appartamento, così durante la strada che avevo da percorrere a piedi, in considerazione della relativa vicinanza, mi ero avviato con un ritmo lento da tranquilla passeggiata, fermandomi addirittura in un caffè dove ero conosciuto per le numerose frequentazioni, e dove intendevo fare giusto due chiacchiere con il cameriere che conoscevo bene e da parecchio tempo, e magari bere qualcosa per prepararmi al pranzo.

Siamo eleganti, aveva detto lui con ironia vedendomi; ed io mi ero schernito trovandomi leggermente a disagio, a dire la verità, con quella cravatta e il vestito migliore dell’armadio, che aveva peraltro riposato già parecchi mesi dall’ultima volta in cui aveva preso aria. Il cameriere continuava a sorridere come tra sé mentre mi preparava un bel bicchiere di pernod, ed io, cercando di riprendermi da quello smacco, allentavo con un gesto di finta stizza il colletto della camicia ed il nodo alla cravatta. Di certi impegni ne farei anche a meno, dicevo dopo il primo sorso dell’aperitivo, ed il mio amico in giacca bianca annuiva senza aggiungere nient’altro.

Piuttosto, avrei voglia di rimanere qui per tutto il giorno, continuavo a dire giusto per aggiungere qualcosa. Ho l’impressione che durante il pranzo a cui sono invitato mi sentirò a disagio per tutto il tempo, almeno fino a quando non riuscirò a venirne via. Tenere un buon contegno ed alimentare la conversazione con argomenti scelti non è semplice, specialmente se non ne hai affatto voglia, diceva il cameriere mentre mi versava il secondo pernod, tanto per infondermi il coraggio necessario ad avviarmi verso quella casa, ed io intanto gli spiegavo che non avrei proprio dovuto fare una brutta figura con quei signori, che già in passato mi avevano più volte invitato e intendevano probabilmente farlo ancora nel futuro.

Poi, nel locale, arrivavano alla spicciolata altri clienti, ed io, sempre seduto al bancone ed osservando con indolenza ogni tanto l’orologio, decidevo che mi sarei mosso da lì non prima di aver buttato giù un altro aperitivo. Così facevo, difatti, e subito dopo, con gesti lenti e svogliati, pagavo quanto era dovuto al cameriere, lo salutavo con un gesto, e mi avviavo, pur senza alcun desiderio di muovermi da lì, rendendomi conto che quell’alcol a digiuno mi aveva già procurato dei leggeri giramenti della testa. Ciò nonostante mi incamminavo senza preoccuparmi di nient’altro, arrivando a suonare il campanello del portone nella casa in cui ero atteso, con un orario molto probabilmente già sballato. Guardavo ancora una volta l’orologio mentre entravo nell’appartamento, e mi rendevo conto di essere in ritardo almeno di mezz’ora.

Stringevo la mano ai proprietari scusandomi con parole vaghe per quel leggero contrattempo, e mi rendevo conto all’improvviso di avere ancora la cravatta e la camicia allentate al collo, probabilmente come un volgare uomo di fatica. Non vi preoccupate, dicevo allora con coraggio: sono semplicemente fatto in questa maniera; non dovete pensare che assuma un atteggiamento in vostro favore oppure contro di voi, sono fatto così, ne dovete essere consapevoli, altrimenti sarei soltanto falso nel cercare di essere diverso.

Bruno Magnolfi


sabato 11 agosto 2012

L'arbitro di sempre


Nel quartiere il ragazzo era conosciuto come un tipo serio, taciturno, che certe volte si metteva a guardare gli altri mentre in un campetto giocavano al pallone, senza chieder mai loro di far parte di una squadra o di quell’altra, evitando persino di avvicinarsi un po’ di più, tanto da permettere agli altri di chiedergli qualcosa: fare l’arbitro, ad esempio, contare i punti, calcolare i tempi di gioco, cose del genere. Lui stava lì, con estrema serietà, osservava la partita seduto con il viso tra le mani, oppure in piedi, con le mani sprofondate nelle tasche, l’espressione identica, immobile. Poi, appena prima che finisse la partita, se ne andava.

Anche a scuola era così, sempre in disparte. Tanto che la mamma era stata richiamata dagli insegnanti per spiegarle il comportamento di suo figlio. Ma niente era cambiato. Certe volte gli altri cercavano di prenderlo un po’ in giro, ma smettevano subito, perché lui restava indifferente a quegli scherzi, togliendo loro qualsiasi soddisfazione. Da tutti era giudicato uno posato, quasi superiore a tutti con i suoi atteggiamenti.

Quando la sua famiglia aveva cambiato casa, andando ad abitare uno di quegli appartamenti nuovi, lontano da quel vecchio quartiere, nessuno praticamente aveva sentito la sua mancanza, anche se certe volte qualche compagno lo aveva immaginato ai bordi di un altro polveroso campetto da calcio, proprio come quello che loro avevano sempre avuto, e a starsene lì, quasi indolente, come aveva sempre fatto.

Si fece vedere soltanto un giorno con la sua bicicletta nuova, quasi sorridente nel mostrarsi agli altri, come se la sua strada avesse finalmente preso il percorso che lui aveva sempre desiderato. Qualcuno gli aveva lanciato un saluto, senza insistenza, e lui aveva risposto appena con un cenno della testa, e allora gli avevano chiesto come andavano le cose, come se la cavava nel nuovo ambiente, ma lui si era schernito e non aveva detto quasi nulla di sé. Poi tutti avevano ripreso a giocare col pallone, come sempre, e così gli avevano chiesto di fare l’arbitro della partita, facendolo accettare, tanto che nessuno seppe spiegarsene il motivo, ma quel giorno ognuno di loro aveva cercato di dare il meglio di se stesso, come sapendo che quello sarebbe stato un giorno unico, particolare, come forse non ce ne sarebbe mai stato uno simile.

Bruno Magnolfi

Altrove (ritratto n. 6).

Tutto è contro di me, di questo sono ormai certo. Osservo i gesti, le espressioni, i piccoli accenni di ogni persona che gira tra queste mura, e sono sempre più convinto che sia così, che le mie non siano soltanto stupide fantasie. Per questo da qualche giorno sperimento l’assenza del respiro, e sono già arrivato a stare un tempo piuttosto lungo senza aprire bocca ed inghiottire l’aria, però conto di riuscire a fare ancora dei progressi.

Se non respiro non sono vivo, e se non sono vivo non sono qui, insieme agli altri. Mi guardo attorno e mi sembra tutto sempre più distante. Gli infermieri del padiglione parlano tra loro, certe volte, ma sempre sottovoce, per non farci capire quali siano i loro argomenti. A me importa poco, so per certo che cospirano, si sono messi in testa di tenerci qua dentro per tutto il tempo che vogliono, senza darci alcuna possibilità di comprendere le cose: ci tengono tranquilli, ci chiedono a volte qualcosa, ma sono tutte quante solamente finzioni.

Nei miei confronti inscenano abitualmente una farsa; hanno capito che sono un osso duro, che non gliela darò vinta facilmente, così spesso evitano persino di rivolgermi le solite domande. Io sto seduto, il viso appoggiato nelle mani, gli occhi vigili, e intanto mi esercito. Sono attento a tutto ciò che accade, aspetto sempre il momento più opportuno, poi smetto di respirare. Posso cadere in catalessi, questo lo so perfettamente, ma ancora attendo prima di arrivare fino a quel punto, aspetto che sia il momento giusto, che le cose siano arrivate alla maturità.

Il tempo si dilata, grandi cerchi rossi appaiono intorno a me, le orecchie si chiudono, non lasciano più arrivare alcun rumore, così le urla degli altri rimangono lontane, come non esistessero. Nessuno sospetta niente, sono sicuro, a volte fingo di muovermi con flessuosità per concedere l’impressione a tutti che io sia ancora qui, tra queste mura, anche se in realtà è solo la mia controfigura quella che riescono a vedere: l’immagine di un degente come gli altri che respira, mangia senza sporcarsi, prende tutte le medicine senza alcuna ribellione.

Invece non ci sono; ormai la maggior parte del tempo la trascorro in assenza di respiro, nessuno lo sa, nessuno se ne accorge, ed io mi lascio accompagnare da questi cerchi rossi, fuori di qui, via da questi giorni inutili e dannosi. Non chiudo mai gli occhi, lascio che mi credano afflitto dai miei pensieri, dalle ordinarie preoccupazioni del malato, di chi perde un po’ per volta ogni speranza. Invece è tutto il contrario, potrei ridere, mostrarmi divertito delle giornate dietro a queste mura, anche se non farò mai un errore del genere: potrebbero nascere sospetti, ed io non ne ho bisogno, non adesso perlomeno.

Entra luce dalle finestre; io percorro il corridoio, la mia bocca è chiusa, forse barcollo per un po’, e infine cado a terra, me ne rendo conto prima di perdere del tutto i sensi e lasciare che i miei occhi si chiudano per automatismo. Quando li riapro sento di essere contento: non ho ancora ripreso a respirare, tutti si affannano intorno alla mia controfigura; io non ci sono, non sono più qui con loro, il mio esperimento è riuscito perfettamente; così lascerò per un tempo indefinito che si prendano cura come vogliono di questo corpo, e intanto me ne andrò in giro dimenticandomi di questa compagnia, di queste mura: per vedere ancora i cerchi rossi, se voglio, e respirare l’aria vera.

Bruno Magnolfi

domenica 5 agosto 2012

L'osservazione silenziosa



Michele Bandini osserva qualcosa muoversi lungo la strada, mentre rimane completamente immobile, seduto in maniera composta ad un tavolino sulla terrazza del Caffè Centrale, dove lascia trascorrere il tempo, alle diciotto di un giorno qualunque, sorseggiando il suo aperitivo preferito. A lui piace pensare che ci potrebbe essere qualcuno che venisse all’improvviso a cercarlo lì, a chiedergli magari la sua opinione su una cosa qualunque, oppure che il cameriere che si occupa di quella terrazza, lo avvertisse di una telefonata urgente, anche se di fatto questo non sta accadendo, e non ci sono motivi precisi affinché questo accada, e a Michele Bandini non resta altro che immedesimarsi in ciò che si sente di essere in quel momento, sperimentando quel lento e cupo ritrovarsi nei panni dell’osservatore della realtà.

Di fronte a lui transitano automobili, persone che passeggiano, coppie di fidanzati senza una meta precisa; lui sorseggia il suo aperitivo e cerca di ridurre al minimo i propri pensieri, proprio per non allontanarsi troppo con la mente da quel suo punto di osservazione. Avverte adesso in modo più dolce e benevolo la sua solitudine, gli sembra quasi di essersi guadagnato quella sua posizione privilegiata, e quel continuare ad osservare la strada improvvisamente lo fa sentire bene, come al di sopra di coloro che si muovono là sotto, lungo la via principale, e comunque in una posizione di indubbio rilievo rispetto a tutti coloro che riesce a vedere.

Ma qualcuno lo chiama da un tavolo poco lontano: Michele, dice con garbo una voce femminile, e lui si volta, come scosso da una scarica elettrica in quel fluido scorrere del tempo. Ciao, buonasera, dice una donna di mezza età sorridendo e muovendo leggermente una mano, senza peraltro spostarsi minimamente dalla sua sedia dove riposa accompagnata, lì accanto, da una sua probabile amica che pare comunque indifferente a lui e a quei saluti. Michele Bandini strizza gli occhi, guarda con attenzione quel volto, e infine riconosce dietro quei lineamenti una vecchia conoscenza di tanti anni prima. Buonasera, risponde, e sorride, ma senza aggiungere altro, tornando in un attimo a preoccuparsi soltanto del suo bicchiere sopra al suo tavolino, ma solamente per un moto di timidezza che spesso riesce a nascondere meglio.

Adesso vorrebbe riprendere il compito a cui stava attendendo, ma lo sguardo delle due donne alle sue spalle, assieme alle indubbie curiosità su di lui che sicuramente si staranno scambiando, lo pongono in una posizione di indubbio disagio, tanto che quasi vorrebbe pagare ed andarsene, magari manifestando una fretta improvvisa per un impegno di cui si era scordato. Invece rimane, cerca una posizione diversa sulla sua sedia, poi chiama il cameriere e gli chiede, con eleganza, di portargli un piccolo sandwich, qualcosa da accompagnare con il suo aperitivo.

Poi torna a voltarsi verso il tavolino dove le due donne di poco prima in silenzio prendono il tè. Mi piace stare qui, dice loro quasi a giustificarsi; riesco a pensare alle mie cose con una tranquillità che quasi non trovo in altri luoghi. Poi Michele Bandini volta leggermente la sedia verso quelle signore, anche se loro lo osservano senza dire alcunché. Sto bene a questi tavoli, insiste, certe volte non vorrei neppure andarmene via. Le due donne continuano a guardarlo annuendo alle sue parole, e lui, che si aspettava l’inizio di un qualche dialogo, si trova improvvisamente spiazzato di fronte a quel silenzio. Così torna a voltare loro le spalle, nello stesso momento che arriva il cameriere; lui lo guarda, gli chiede il conto, si alza, lascia una mancia, poi si volta per salutare le donne, sorride e si incammina, consapevole che su quella terrazza per molto, molto tempo, non sentirà alcuna voglia di ritornarci.

Bruno Magnolfi

giovedì 2 agosto 2012

La vita inutile.

Ho visto volare un uccello nero, per pochi metri, di fronte a me che stavo seduto, e infine scomparire, di colpo, come dietro ad un paravento costituito dagli stessi colori dello sfondo. Così mi sono alzato, sono andato a cercare quel paravento, ho girato lì nei pressi in lungo e in largo, ma naturalmente non ho trovato niente, se non quell’uccello ormai morto, come per avere vissuto inutilmente.

Bruno Magnolfi

Il domani di un giorno qualunque.

Sarebbe stato un giorno indimenticabile il prossimo, uno di quelli che forse segnano un intero periodo dell’esistenza di un uomo, ma nonostante lui fosse perfettamente a conoscenza di questo, nonostante avesse maturato da tempo la consapevolezza precisa di ciò che appariva essere uno dei momenti fondamentali della sua vita, si sentiva adesso assolutamente tranquillo, nessun segnale di apprensione sembrava minimamente turbarlo. Negli ultimi tempi, questo era forse il segreto della sua serenità, si era mentalmente preparato, almeno negli aspetti più evidenti, e soprattutto aveva cercato di mettere a fuoco la migliore psicologia utile per affrontare adeguatamente la situazione, ed adesso che aveva perlustrato tutte le possibilità che si sarebbero potute verificare, gli pareva addirittura inutile, se non dannoso, continuare a riferire i propri pensieri a quell’argomento.

Ciò che doveva succedere, anche se non era del tutto evidente, pareva comunque qualcosa di certo, almeno questo era quanto riusciva a supporre. In fondo, aveva spesso pensato, tutti viviamo in funzione del proprio futuro, che sia prossimo oppure remoto, e lui, che credeva di conoscere perfettamente il destino segnato in quel giorno a venire, all’improvviso sembrava però quasi disinteressarsene, come se nel cuor suo avesse già superato la prova di quel decisivo momento.

Si sarebbe alzato dal letto, la mattina seguente, questo era sicuro, proprio come ogni giorno; avrebbe indossato i suoi vestiti di sempre, si sarebbe preparato per uscire di casa, come ogni mattina aveva fatto. Con indifferenza completa avrebbe affrontato quella giornata, e soltanto ad un tratto si sarebbe ricordato che quello era proprio quel giorno prestabilito, quello che aveva aspettato da sempre. Allora si sarebbe immobilizzato in mezzo agli altri, proprio al centro delle cose ordinarie in cui stavano tutti, e forse avrebbe sorriso tra sé, mostrando una soddisfazione ineguale del senso che stava prendendo, da quel momento in avanti, la sua stessa esistenza.

Bruno Magnolfi