lunedì 31 dicembre 2012
Buon Anno
“I pensieri sono perle false finché non si
trasformano in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel
mondo”Gandhi
domenica 30 dicembre 2012
Chiuso dentro un pensiero.
Era uscito
dal locale quasi con stizza. Aveva perduto a carte, anche se questo in
fondo non era particolarmente importante. Però non era riuscito ad
essere il giocatore di sempre, spiritoso, brillante, di compagnia. Si
era lasciato andare anche ad un piccolo sfogo contro la sfortuna che
secondo il suo parere lo aveva perseguitato per tutta la sera, e questo
non era da lui.
Così era
uscito dal circolino con l’impellente necessità di starsene solo, ma
quel nervosismo che aveva accumulato lo faceva ancora star male. Perciò
si era incamminato verso la stazione ferroviaria, giusto per guardare
qualche treno in partenza e prendersi un caffè in quel bar quasi
anonimo, in mezzo a qualche faccia che probabilmente non aveva mai
visto.
Ma alla
fine si era ritrovato ad osservare la parte lucida dei binari, ad essere
stanco senza il coraggio di tornarsene a casa, e ad avere sonno senza
la possibilità di andare a dormire. Un barbone gli si era avvicinato
senza neppure chiedergli niente, e lui aveva sopportato con indifferenza
quella presenza, senza la volontà di allontanarsi o di dire qualcosa.
Poi era
arrivato un treno locale, fermandosi con un certo stridore dei freni,
qualche passeggero era sceso dai vagoni e lui era rimasto ancora quasi
impassibile. Non c’era alcun senso in ciò che stava pensando, eppure non
riusciva neppure a riflettere qualcosa di minimamente diverso.
Osservava gli sportelli aperti di quel convoglio come una possibilità di
fuga da tutto, repentina, irrazionale, inspiegabile, e questa era
l’unica idea che riusciva ad avere.
Infine il
barbone all’improvviso gli aveva chiesto sottovoce dei soldi, come se
ognuno prima o dopo dovesse pur fare la propria parte: prima che parta,
aveva detto, me lo lascia uno spicciolo? Ma lui lo aveva guardato a
lungo senza rispondere, quasi incantato; e infine, come lasciando
affiorare alle labbra un pensiero sofferto, aveva detto semplicemente:
mi dispiace, in tasca ho soltanto il biglietto del treno, nient’altro; e
con queste parole era salito senza più indugi.
mercoledì 26 dicembre 2012
Stretta dai sogni.
E’ soltanto il risveglio il vero problema. Io dormo e sogno, ed il mio mondo in questa fase meraviglia per la sua ricchezza.
La
donna in genere inizia la sua giornata per automatismi, assaporando a
volte, insieme alla consapevolezza del giorno reale, il gusto residuo
che certe volte trattiene del suo assopimento. Qualche volta, proprio
per questo, lei ha addirittura provato ad annotare ciò che riesce a
ricordare di quei suoi sogni, ma non è mai riuscita a restituire
minimamente qualcosa di quei sapori. Così affronta la realtà, esce da
casa e osserva gli altri sopra il suo autobus, quasi come figure
fantastiche imprigionate all’interno di un ruolo.
Va da suo
padre, quasi ogni giorno, a tenergli compagnia un’ora o due, a sbrigare
qualche faccenda per lui, a rendersi conto con attenzione del suo stato
corrente. Lui abita da solo la sua vecchiaia, non troppo distante da
casa della donna, e trascorre le giornate in silenzio, seduto accanto
alla finestra, come in attesa di qualcosa. Lei si muove in fretta, gli
fa delle domande, a volte gli racconta qualche piccolo fatto, ma non gli
parla mai dei suoi sogni e di come tutto sia diverso quando questi si
snodano di notte nella sua mente addormentata ma vigile.
Anche la
donna vive nell’attesa, e intanto inganna le giornate portando avanti
ciò che le sembra più naturale. Suo padre non le chiede mai niente di
sé, forse per pudore, forse perché secondo lui tutta la vita è soltanto
riuscire ad essere concreti, realizzati nello scandire il tempo nei
giusti attimi. Lei non si sofferma quasi mai ad osservarlo, però qualche
volta gli tocca un braccio, o una mano ruvida, lo sfiora come per
sentirne la corporalità. Le giornate si assomigliano tutte in questa
maniera, eppure ciascuna ha una sua peculiarità, una qualche
caratteristica propria.
Lei torna a
casa, rivedrà suo padre la mattina seguente, gli porterà qualcosa di
buono da mangiare, forse, starà di nuovo con lui, a tenergli un po’ di
compagnia, perché certe volte ha paura che la solitudine per lui poco a
poco diventi un disturbo o un malore. Nel pomeriggio si occuperà della
sua famiglia, del marito, della sua casa. Sarà esattamente ciò che
ognuno si aspetta che sia, senza minimamente cercare qualcosa di
diverso. Certe volte poi la donna si siede a pensare, senza un oggetto
preciso a cui riferirsi, e immagina tutta la sua giornata come una lunga
pausa di sospensione nell’attesa dei sogni che coroneranno come sempre
il suo sonno notturno.
In molte
occasioni le pare una forma solo egoistica la sua, ma non può farci
niente. La rende felice quel suo pensiero, e la coscienza che tutto il
suo tempo prima o poi terminerà in quel cullarsi di immagini oniriche,
per lei è più importante di tante altre cose; ed anche se sa che i suoi
sogni sono solamente proiezioni positive della sua fantasia, ugualmente è
contenta soltanto al pensiero che la sua mente riuscirà ancora a vagare
in quei suoi mondi fantastici, e forse questo, anche se non è
sufficiente a darle una serenità che comunque non riesce quasi mai ad
avere, sa che è comunque qualcosa di estremamente importante, almeno per
lei.
Bruno Magnolfi
Distanza di sicurezza
Ero entrato nel piccolo appartamento alle spalle di quella signora che
neppure conoscevo, ma alla quale avevo spiegato, con poche parole
pronunciate sottovoce sulla porta, di essere un amico del figlio, e di
avere notizie di lui. Ristagnava un vago odore di minestra nell’aria, e
forse di chiuso e di mobili vecchi. Ero stato fatto sedere presso il
tavolo del salottino, e la signora, in piedi, tenendosi le mani, mi
aveva presentato rapidamente a sua figlia, una ragazza non bella e forse
timida, che era rimasta in disparte e in silenzio, alzando appena il
suo sguardo giusto un momento.
Avevo spiegato con poche parole di non essere propriamente un amico, ma
anzi di avere conosciuto Armando solo nell’arco di due o tre giorni,
quando casualmente ci eravamo ritrovati insieme, a fronteggiare una
situazione complessa quale quella di sopravvivere in qualche maniera in
una terra straniera. Per me era stata solo una condizione momentanea,
dicevo, ma lui non aveva più documenti, e per questo motivo mi aveva
spiegato che non poteva arrischiarsi a varcare il confine e rientrare
nella sua patria; e d’altra parte neppure cercare un lavoro era qualcosa
in cui potesse facilmente confidare. Così stava vivendo alla giornata,
spiegavo alle due donne, senza più un soldo né un indirizzo a cui farsi
spedire un aiuto da voi o da chiunque altro.
La signora sembrava comprendere perfettamente le mie parole, anzi,
sembrava che fosse già preparata ad un rapporto del genere, tanto che
fermò ad un tratto le mie parole giusto per chiedermi di quale città si
stesse parlando e in che situazione fisica avevo trovato il suo Armando.
Dissi che lui stava bene, almeno in apparenza, soltanto cercava di non
dare troppo nell’occhio, e quindi si spostava continuamente, tanto da
non permettermi di sapere con esattezza se attualmente fosse ancora
nello stesso luogo in cui lo avevo lasciato, oppure no. In ogni caso è
una persona che sa cavarsela, dissi con forza, sicuramente troverà la
maniera di uscire da quella situazione.
La signora era rimasta in silenzio sulle mie ultime parole, tanto che
per uscire da quell’aria di imbarazzo che pareva aleggiare, stavo per
alzarmi e prendere congedo da lei e da sua figlia, quando quest’ultima
disse qualcosa, come parlando tra sé: voglio andare da lui, spiegò con
una smorfia del viso; ho bisogno di vederlo di persona, o almeno di
andare a cercarlo, anche se ho capito che non sarà facile. Dissi in due
parole che era una faccenda complicata e pericolosa, che sconsigliavo
vivamente, ma lei insisteva, quasi come una ripicca, o forse un proprio
bisogno di staccarsi per un po’ di tempo da quella casa. In ogni caso
spiegai con precisione dove avevo lasciato Armando l’ultima volta che lo
avevo veduto, per il resto, dissi, ci vuole soltanto un po’ di fortuna.
Quindi mi alzai, mi accorsi che la signora stava rigidamente in
silenzio, come conservando una grande dignità, e ugualmente mi
accompagnò verso la porta senza aggiungere una sola parola. La figlia,
al contrario di ogni mia aspettativa, iniziò a dire che in quella casa
c’era bisogno di Armando, che lei lo doveva trovare, che non poteva
esserci nessuna soluzione diversa, quello era il suo compito, quella la
missione a cui era chiamata. La signora mi guardò un momento negli occhi
come a spiegare con uno sguardo ciò che non poteva con le parole, io le
strinsi la mano ed uscii, ma fu mentre scendevo le scale che sentii
urlare: lo amo, è un amico di Armando, voglio dedicargli la vita,
andremo insieme a trovare mio fratello, lui saprà dove dirigersi.
Raggiunsi la strada allontanandomi velocemente da lì, poi, più tardi,
quando mi ritrovai con Armando, gli dissi soltanto che le cose che mi
aveva precedentemente fatto presente, purtroppo non sembravano affatto
cambiate.
Bruno Magnolfi
domenica 16 dicembre 2012
Sofia.
Come un aquilone senza corda e una farfalla senza ali, mia madre mi ha insegnato a volare con i sogni.
domenica 9 dicembre 2012
Sofia.
"Ogni bambino che nasce è in qualche misura un genio, così come
un genio resta in qualche modo un bambino." (Arthur Schopenhauer)
giovedì 6 dicembre 2012
Malamore.
Le donne provano la temperatura del ferro da stiro toccandolo. Brucia ma
non si bruciano. Respirano forte quando l’ostetrica dice «non urli, non
è mica la prima». Imparano a cantare piangendo, a suonare con un
braccio che pesa come un macigno per la malattia, a sciare con le ossa
rotte. Portano i figli in braccio per giorni in certe traversate del
deserto, dei mari sui barconi, della città ai piedi su e giù per gli
autobus. Le donne hanno più confidenza col dolore. Del corpo,
dell’anima. È un compagno di vita, è un nemico tanto familiare da esser
quasi amico, è una cosa che c’è e non c’è molto da discutere. Ci si
vive, è normale. Strillare disperde le energie, lamentarsi non serve.
Trasformandolo, invece: ecco cosa serve. Trasformare il dolore in forza.
Ignorarlo, domarlo, metterlo da qualche parte perché lasci fiorire
qualcosa. È una lezione antica, una sapienza muta e segreta: ciascuna lo
sa.
Maria Malibran, leggendario mezzosoprano, che impara a nascondere le lacrime durante le terribili lezioni di canto inflitte dal padre. Jaqueline du Pré che suona come un angelo il violoncello e sorride a ogni fitta alle ossa del braccio malato, il braccio che finirà per ucciderla. Denise Karbon che scia ingessata, Vanessa Ferrari che volteggia con una frattura al piede. La prostituta bambina che chiude gli occhi e pensa al prato della sua casa nei campi. La giovane donna che si lascia insultare e picchiare dal suo uomo perché pensa che quella sua violenza sia una debolezza: pensa di capirne le ragioni, di poterle governare, alla fine. Pensa che lui sia fragile quando strilla e quando alza le mani: si calmerà, basterà lasciargli il tempo, si placherà. La compagna del genio, la donna di Picasso che, lei sola, ne conosce e ne tollera le miserie: in questo più forte e più grande di lui. L’artista straordinaria che si lascia soggiogare in una vita ordinaria e la trasforma in poesia, la donna ordinaria che fa dei suoi giorni un capolavoro di pazienza. Le migliaia, milioni di donne che vivono ogni giorno sul crinale di un baratro e che anziché sottrarsi quando possono, quelle che possono, ci passeggiano in equilibrio: un numero da circo straordinario, questo di tentare di addomesticare la violenza la violenza degli uomini qualche volta andando a cercarla, persino. Perché è un antidoto, perché è un prezzo, perché non si può fare diversamente, perché il tempo che viviamo è questo e chiede uno sforzo d’ingegno per conciliare la propria autonomia con l’altrui brutale insofferenza.
Le storie che ho raccolto sono scie luminose, stelle cadenti che illuminano a volte molto da lontano una grande domanda: cosa ci induce a non respingere, anzi a convivere con la violenza? Perché sopporta chi sopporta, e come fa? Quanto è alta la posta in palio? Alcune soccombono, molte muoiono, moltissime dividono l’esistenza con una privata indicibile quotidiana penitenza. Alcune ce la fanno, qualche altra trova nell’accettazione del male le risorse per dire, per fare quel che altrimenti non avrebbe potuto. Grandissimi talenti sono sbocciati da uno sfregio. Altrettanto grandi sono stati spenti. Per mille che non hanno nome, una cambia il corso della storia. Sono, alla fine, gesti ordinari. Chiunque può capirlo misurandolo su di sé. Sono esercizi di resistenza al dolore.
«Le femmine servono ai cuccioli» dice il bambino seduto davanti alla tv, danno un documentario sugli animali. Poi ripete: «Lo sai mamma? Le femmine servono perché devono fare i cuccioli, i maschi da soli non li possono fare».
Non c’è dubbio, i maschi da soli non possono. Però le femmine non «servono» solo a fare i cuccioli, penso di rispondere. Non dico niente, invece. Ci sono cose che non si spiegano con le parole. Lo capirà, lo vedrà, lo imparerà strada facendo. Certo, bisogna sempre ricominciare da capo. A ogni generazione di nuovo. Dimostrare, convincere. A cosa servono le femmine? Sembra proprio, nelle parole di un bambino, l’origine di tutte le questioni. Non sono sicura che a fare la stessa domanda a cento adulti, uomini e donne, si otterrebbero risposte convincenti. «Servono a far più bella la vita» mi ha risposto un amico credendo di dire cosa gradita, immagino sentendosi galante. Deve essere qui il cuore di tutto. Siamo proprio certi che le femmine servano a qualcos’altro che a fare i cuccioli, a rendere piacevole l’esistenza altrui? E loro, le donne, dietro le parole e i gesti di una sicurezza ogni giorno esibita in pubblico ne sono davvero convinte in privato? Cosa sono disposte a offrire a sopportare in cambio della possibilità di dimostrare che no, non servono solo a fare i cuccioli né ad allietare con la loro deliziosa presenza le impegnative vite altrui? Ma soprattutto, perché in fondo sentono, anche quando non lo dicono, di doverlo dimostrare?
Vorrei poter dire che se devi uscire alle cinque per un impegno improrogabile e alle cinque meno dieci la persona con cui dividi l’esistenza ti pone una questione epocale da cui dipende l’esito della tua giornata, della settimana e della vita, ecco, quella è una prova di forza, una forma sottile di violenza che si esercita nel celebre quesito: dimostrami che cosa è più importante per te. Perché si sa che l’amore viene prima di tutto, per le donne è certamente così. Perché se hai interessi fuori, più importante deve essere sempre, tuttavia, l’interesse dentro. Perché se un uomo può dire scusami ma ho da fare, e dimenticarsi l’anniversario, la spesa, la festa di compleanno del bambino, la consegna a domicilio, una donna no, non può farlo. O meglio: può, ma paga un prezzo.
Dolore e forza delle donne in Malamore
Maria Malibran, leggendario mezzosoprano, che impara a nascondere le lacrime durante le terribili lezioni di canto inflitte dal padre. Jaqueline du Pré che suona come un angelo il violoncello e sorride a ogni fitta alle ossa del braccio malato, il braccio che finirà per ucciderla. Denise Karbon che scia ingessata, Vanessa Ferrari che volteggia con una frattura al piede. La prostituta bambina che chiude gli occhi e pensa al prato della sua casa nei campi. La giovane donna che si lascia insultare e picchiare dal suo uomo perché pensa che quella sua violenza sia una debolezza: pensa di capirne le ragioni, di poterle governare, alla fine. Pensa che lui sia fragile quando strilla e quando alza le mani: si calmerà, basterà lasciargli il tempo, si placherà. La compagna del genio, la donna di Picasso che, lei sola, ne conosce e ne tollera le miserie: in questo più forte e più grande di lui. L’artista straordinaria che si lascia soggiogare in una vita ordinaria e la trasforma in poesia, la donna ordinaria che fa dei suoi giorni un capolavoro di pazienza. Le migliaia, milioni di donne che vivono ogni giorno sul crinale di un baratro e che anziché sottrarsi quando possono, quelle che possono, ci passeggiano in equilibrio: un numero da circo straordinario, questo di tentare di addomesticare la violenza la violenza degli uomini qualche volta andando a cercarla, persino. Perché è un antidoto, perché è un prezzo, perché non si può fare diversamente, perché il tempo che viviamo è questo e chiede uno sforzo d’ingegno per conciliare la propria autonomia con l’altrui brutale insofferenza.
Le storie che ho raccolto sono scie luminose, stelle cadenti che illuminano a volte molto da lontano una grande domanda: cosa ci induce a non respingere, anzi a convivere con la violenza? Perché sopporta chi sopporta, e come fa? Quanto è alta la posta in palio? Alcune soccombono, molte muoiono, moltissime dividono l’esistenza con una privata indicibile quotidiana penitenza. Alcune ce la fanno, qualche altra trova nell’accettazione del male le risorse per dire, per fare quel che altrimenti non avrebbe potuto. Grandissimi talenti sono sbocciati da uno sfregio. Altrettanto grandi sono stati spenti. Per mille che non hanno nome, una cambia il corso della storia. Sono, alla fine, gesti ordinari. Chiunque può capirlo misurandolo su di sé. Sono esercizi di resistenza al dolore.
«Le femmine servono ai cuccioli» dice il bambino seduto davanti alla tv, danno un documentario sugli animali. Poi ripete: «Lo sai mamma? Le femmine servono perché devono fare i cuccioli, i maschi da soli non li possono fare».
Non c’è dubbio, i maschi da soli non possono. Però le femmine non «servono» solo a fare i cuccioli, penso di rispondere. Non dico niente, invece. Ci sono cose che non si spiegano con le parole. Lo capirà, lo vedrà, lo imparerà strada facendo. Certo, bisogna sempre ricominciare da capo. A ogni generazione di nuovo. Dimostrare, convincere. A cosa servono le femmine? Sembra proprio, nelle parole di un bambino, l’origine di tutte le questioni. Non sono sicura che a fare la stessa domanda a cento adulti, uomini e donne, si otterrebbero risposte convincenti. «Servono a far più bella la vita» mi ha risposto un amico credendo di dire cosa gradita, immagino sentendosi galante. Deve essere qui il cuore di tutto. Siamo proprio certi che le femmine servano a qualcos’altro che a fare i cuccioli, a rendere piacevole l’esistenza altrui? E loro, le donne, dietro le parole e i gesti di una sicurezza ogni giorno esibita in pubblico ne sono davvero convinte in privato? Cosa sono disposte a offrire a sopportare in cambio della possibilità di dimostrare che no, non servono solo a fare i cuccioli né ad allietare con la loro deliziosa presenza le impegnative vite altrui? Ma soprattutto, perché in fondo sentono, anche quando non lo dicono, di doverlo dimostrare?
Vorrei poter dire che se devi uscire alle cinque per un impegno improrogabile e alle cinque meno dieci la persona con cui dividi l’esistenza ti pone una questione epocale da cui dipende l’esito della tua giornata, della settimana e della vita, ecco, quella è una prova di forza, una forma sottile di violenza che si esercita nel celebre quesito: dimostrami che cosa è più importante per te. Perché si sa che l’amore viene prima di tutto, per le donne è certamente così. Perché se hai interessi fuori, più importante deve essere sempre, tuttavia, l’interesse dentro. Perché se un uomo può dire scusami ma ho da fare, e dimenticarsi l’anniversario, la spesa, la festa di compleanno del bambino, la consegna a domicilio, una donna no, non può farlo. O meglio: può, ma paga un prezzo.
Dolore e forza delle donne in Malamore
L'ultimo saggio di Concita De Gregorio
La notte in città
Allungo
una mano nel buio insonne della mia camera. Avverto il vuoto, e l’aria
ferma, assieme a quel senso di protezione e di silenzio dato dalle
pareti mentre racchiudono lo spazio finito di questa stanza. Mi metto
seduto sul bordo del letto, non mi interessa neppure sapere che ore
siano, mi basta immaginarmi sperduto come sono tra i sogni e il riposo
di tutta la gente che abita questa città. Vorrei spingermi fino ad una
finestra, osservare dai vetri la strada vuota rischiarata da qualche
lampione, ma non lo faccio, resto qui a pensare al miglior comportamento
da seguire appena si sarà fatto giorno.
Sono una
persona comune, penso; uno qualsiasi che persegue una lotta di
sopravvivenza per riuscire a conservare se stesso; uno come tutti, un
altro tra coloro che si ritengono capaci di avere ancora pensieri
propri. Non voglio però sentirmi in balia della solita angoscia di cui
soffrono gli altri, voglio reagire, immaginarmi qualcosa di diverso per
la giornata che vado ad affrontare, magari sentirmi capace di riflettere
a fondo sui gesti e le espressioni che mi appaiono di fronte, quali
elementi da interpretare ed a cui almeno provare a dare un significato.
Resto
seduto sul letto, nel buio, ma immagino la stanza, non riuscendo a
vederla, molto più grande di quanto lo sia veramente, e mi sento quasi
sperduto in questa specie di capannone industriale dove è stato
collocato per me questo giaciglio. L’aria adesso sa di lavoro, di
persone che affrontano dei sacrifici, di gesti consuetudinari portati
avanti nella ricerca di qualcosa che almeno sia di sollievo a questo
niente di cui siamo fatti. Osservo il procedere delle cose che mi
circondano, tutto mi sembra un assurdo, tanto vale distogliere la mente
da questi pensieri.
Vado alla
finestra, la apro, lascio che il freddo mi punga la pelle, ma ancora non
riesco a sentire la solidarietà che vorrei manifestare verso tutti
coloro che avverto in tutte le case che ho intorno. Mi vesto, scendo per
strada, mi pare che adesso tutto sia vivo, che attenda soltanto il
momento in cui l’ingranaggio riparte, che la macchina ritrovi il suo
moto. Corro, mi metto ad urlare lungo la via come fossi uscito
completamente di senno. Nessuno mi ferma, vado avanti a sentire il
freddo della notte sopra la faccia, sento la disperazione farsi largo
nella mia testa. Infine mi fermo, mi accuccio per terra, spossato:
spesso la realtà è incomprensibile, penso; adesso mi sento figlio di
questa incomprensibilità, e anche di tutta questa follia.
Bruno Magnolfi
mercoledì 5 dicembre 2012
Un saluto frettooso.
Forse, in
tanti anni, ho soltanto cercato delle varianti, degli argomenti
alternativi, delle possibilità differenti, che mi permettessero di non
vedere quello che ero veramente, pensa Ernst; e tutto questo almeno fino
a quando non ho conosciuto te, che mi hai fatto scoprire, soltanto con
uno sguardo, la semplice umanità da cui ero composto.
Poi lui
esce dalla stanza, s’incammina verso la strada che lo attende, non si
volta indietro, ciò che aveva da dire lo ha già detto, chiude la porta
alle sue spalle ed improvvisamente ha la coscienza di essere da solo,
come se questo stato fosse un vantaggio e non un limite. Guarda la
campagna che si snoda avanti a sé, respira l’aria fresca che lo
accompagnerà, e infine si avvia, senza alcun ripensamento.
Lei lo
osserva con distacco dalla sua finestra: quando lo rivedrà saranno
ambedue diversi, non si può far niente per evitare tutto questo; tanto
vale cercare di raccogliere tutti quei piccoli elementi positivi che
possono quasi per gioco essere rimasti impigliati nella personalità di
ognuno, e in questo modo archiviare il vissuto sotto l’egida
dell’esperienza, perché nient’altro è possibile pretendere.
Bruno Magnolfi
martedì 4 dicembre 2012
Solamente un ragazzo a cavallo.
Non so,
dice lei; forse ci potrei pensare. E’ strana certe volte Rita quando
parla di alcuni argomenti. Non riesci a capire se una cosa le vada
oppure no, pensa lui mentre guarda da qualche altra parte per non
dimostrarle di essere leggermente deluso. Certe volte lei lascia delle
pause piene di interrogativi, lui si sente quasi imbarazzato in quei
casi, anche se proprio non saprebbe neppure dire effettivamente per
quale motivo.
Poi
all’improvviso Rita lo abbraccia, forse per rassicurarlo, ma è come se
non lo toccasse nemmeno, tanto il suo comportamento appare impalpabile,
quasi incomprensibile. E in un orecchio gli dice: va bene, come se
l’entusiasmo che lui aveva inserito nella sua proposta di prima, non
fosse ormai irrimediabilmente perduto.
Rita si
siede sul letto della sua camera, in silenzio. Non è un invito, lui lo
sa bene, ma soltanto un comportamento come un altro, una maniera forse
per prendere tempo, per vedere che cosa potrà dire lui adesso. Invece
lui va verso la finestra, guarda fuori qualcosa mentre continua a tenere
aperta tra le mani una rivista di arte dove ci sono, in molte pagine,
una serie infinita di riproduzioni di altrettanti dipinti; il soggetto è
un ragazzo a cavallo che galoppa come solo il vento può fare, tanto da
plasmare le forme e i colori di tutto, quasi un’espressione di nuovo
futurismo, portato in questa maniera fino al paradosso.
A lui
piace passare il tempo con Rita in quella stanza, gli sembra l’ambito
dove possa capitare di tutto, e difatti, se ancora ci pensa, tante cose
sono accadute là dentro, quasi fosse un vero spazio teatrale, un
ambiente all’interno del quale tutto o quasi possa essere ammesso. Lei
dice: usciamo; ma sottovoce, quasi parlasse soltanto a se stessa. Lui le
risponde in modo ambiguo, come se davvero ne avesse gran voglia, ma
qualcosa fosse capace di trattenerlo là dentro.
Hai
visto?, fa lui mostrando a Rita le illustrazioni che aveva osservato.
Non mi piace, risponde lei senza aggiungere altro. Forse sarebbe
possibile parlare a lungo di queste immagini, pensa lui muovendo qualche
passo dentro la stanza e richiudendo la sua rivista. Ma non ha forse
alcuna importanza; gli torna a mente la domenica precedente, quando loro
due sono andati a vedere il mare in burrasca, e stringendola a sé gli è
quasi venuto da piangere, tanto sentiva che lei era lì, con lui, non
come adesso.
D’accordo,
dice alla fine, quasi con una leggerissima forma di rassegnazione:
usciamo. Rita si alza, lo guarda, forse si attende qualcosa d’altro,
magari cerca soltanto di studiare il suo comportamento. Raccoglie la
rivista d’arte che lui ha lasciato sul letto, dice: portiamo anche
questa, così parliamo di quelle immagini che ti hanno colpito. Lui la
guarda, sa che è quello il suo vero abbraccio, così sorride, e le dice:
va bene, vorrei anche parlare di noi, qualche volta, anche se credo
proprio non mi sarà mai possibile. Ma forse non ha alcuna importanza,
pensa; spesso le nostre sono soltanto parole destinate a sfumare in modo
confuso nei concetti che esprimono, tanto da lasciarne nell’aria appena
un’interpretazione possibile. E poi davvero, cosa importa: va bene
così.
Bruno Magnolfi
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