mercoledì 21 marzo 2012

Giorno di primavera.



Lei era rimasta in silenzio, osservava qualcosa fuori dalla finestra, lasciava che le parole dette fino ad allora esaurissero l’eco rimasto sul fondo dei suoi pensieri. Non aveva voglia di muoversi, quasi neppure di respirare, le pareva che qualsiasi anche impercettibile gesto potesse rendere più precario quel fondale di espressioni e di forzate verità messe assieme fino ad allora.

Lui, al tavolino, continuava a sfogliare un vecchio giornale, quasi per non dare importanza alle cose che erano state dette negli ultimi dieci minuti, in quella stanza. Che importa, pensava tra sé, tra poco l’abbraccerò e tutto si ripristinerà, nella stessa maniera di sempre, e anche questa, come qualsiasi altra discussione, diverrà, proprio come ogni volta, la benvenuta, ricostituente del nostro fondamentale equilibrio. Se ci pensava, non ricordava neanche più da cosa era stato generato quel battibecco: quello che gli aveva dato fastidio era quel vuoto seguente e improvviso di parole che adesso, ad ogni secondo, si faceva un po’ più opprimente. Certe volte era difficile parlare: le parole apparivano non soltanto inadeguate a veicolare il pensiero, ma addirittura in contrasto con quello, e ascoltarle uscire dalla propria gola, misurarne quella continua vibrazione spesso insopportabile, quasi un ingombro della testa e del corpo, pareva la peggiore tortura tra tutte quelle che era possibile auto infliggersi.

Lei rifletteva su quello che era appena stato detto, e le pareva sempre di più che fossero le medesime cose di sempre, quasi che una successione stregata di elementi fosse destinata a ripetersi, esattamente come lo stesso sottile male allo stomaco che era pronto a rifiorire ogni volta. Si era allontanata leggermente dalla finestra, lo aveva osservato per un attimo, poi aveva detto: non c’è neanche più alcuna soddisfazione nel parlare con te; ripeto da anni le medesime cose, e pare proprio non ti arrivino neppure, come se la tua indifferenza riuscisse ogni volta a mostrarsi superiore a qualsiasi altro elemento.

Lui, a queste parole, si era alzato dalla sua sedia, le era andato vicino, senza arrivare a toccarla, ed era rimasto lì, come a respirare la sua stessa aria, ad osservare qualcosa dalla finestra lì accanto, forse la stessa cosa che fino ad un attimo prima lei aveva osservato, quasi a cercare di avere gli stessi pensieri che parevano adesso così naturali nella sua mente. Se si chiedeva se tra di loro ci fosse ancora un sentimento d’amore, non sapeva rispondere, forse perché non era mai riuscito a chiarire dentro di sé il significato più vero di quella parola, o forse perché gli pareva che non ci fosse alcuna necessità di sottoporsi a domande del genere.

Lei, approfittando della sua vicinanza, aveva detto qualcosa sottovoce, quasi per confidargli un segreto.

Lui non aveva compreso perfettamente il senso di quella piccola frase, però gli era piaciuta quell’improvvisa intimità. Non sentiva il bisogno di dirle niente, così restava ancora in silenzio, scostando con la mano la tenda della finestra, e infine aveva sorriso, quasi a voler dimostrare di riuscire a comprendere ciò che lei aveva osservato là fuori, fino ad un attimo prima.

Lei, per un moto spontaneo, ebbe voglia di abbracciarlo, ma non lo fece, e d’un tratto ambedue si ritrovarono a guardarsi negli occhi, vicini, come una cosa del tutto naturale. Forse non c’è amore, pensarono insieme, ma certe volte l’intesa tra noi è comunque perfetta.

Bruno Magnolfi

sabato 17 marzo 2012

Cause di guerra n. 2


Maledetti, ho pensato immediatamente appena li ho visti. Non riuscivo neppure a riflettere quale fosse il comportamento migliore da tenere, di fronte a quella specie di sfida; avrei forse voluto semplicemente fermarli, se avessi avuto questo potere, o convincerli in qualche maniera ad andarsene da tutt’altra parte: quella strada non era per loro, avrebbero dovuto saperlo ancora prima di venire a sfilare, nessuno di quei debosciati poteva transitare da lì, proprio da noi, che avevamo abitato da sempre le case che costeggiano la via, che non avremmo mai permesso lasciar passare sotto silenzio una cosa del genere.

Quando ho veduto quel loro corteo di imbecilli transitare proprio sotto alla finestra della mia abitazione, ho avuto per prima reazione come una mancanza, quasi uno svenimento: mi pareva del tutto impossibile, inaudito, noi dovevamo reagire, ho pensato immediatamente, ma non sapevo per nulla quale sarebbe stato il modo migliore per far pagare a tutti loro, a quella gente indegna, un affronto del genere. E’ stato un difetto il mio, lo confesso, sarebbe stato meglio se avessi avuto una reazione più forte, che mi fossi comportato maggiormente da uomo, ma certe volte la debolezza d’animo è incontrollabile, e anche se mi montava il sangue alla testa a vedere quella gente piena di odiose bandiere e di assurdi striscioni, a me è riuscito soltanto di stringere i pugni, e continuare semplicemente a guardarli, fino a quando la manifestazione ha smesso di scorrere ed è confluita verso il viale.

Fin da ragazzo ho sempre avuto grande antipatia per i facinorosi che scendono nelle piazze e sembra che vogliono cambiare in un attimo tutte le cose, anche se non ho mai avuto niente da dire, almeno fino a quando se ne sono rimasti lontano da me e dalle mie cose. Ma adesso, vederli passare proprio sotto al mio naso, come se questa strada fosse stata una delle loro, quelle che frequentano abitualmente, è stato veramente qualcosa di intollerabile. Avrei voluto semplicemente avvertire tutti i miei vicini di casa, dire loro che si guardassero bene dal confondere quelle ragioni riportate sopra gli striscioni di quella gente, con i nostri storici modi di essere, così distanti da quelle idiozie, e che ognuno di noi, ben chiuso nel suo appartamento, preparasse la giusta reazione ad un comportamento di così aperta ostilità nei nostri confronti.

Quando poi mi sono deciso a tirare fuori dall’armadio il mio fedele fucile, forse era già troppo tardi, anche se ero convinto che tanti dei miei vicini di casa stessero facendo la mia medesima scelta, tanto che in quegli attimi li sentivo tutti con me, come a darmi almeno un supporto morale, di cui forse avevo anche bisogno. Mi sono affacciato alla finestra con il fucile già carico, ma lungo la strada ormai non c’era più quasi nessuno, e anche questo fatto mi ha gettato nel panico, come se ormai avessi perso il momento fondamentale.

Per questo, quando ho notato la donna, quella persona che conoscevo soltanto di vista, ma che viveva in una casa a poche decine di metri dalla mia abitazione, non avuto più alcuna perplessità. Lei stava andando incontro proprio a loro, non c’era alcun dubbio, si era lasciata convincere dalle loro idee, si stava gettando sicuramente nelle braccia del nostro nemico, e questo era troppo, era impossibile accettare una cosa del genere. Ho sparato senz’altro mirando alle parti vitali, ma avrei voluto, oltre che ammazzarla all’istante, farla scomparire del tutto, distruggerla, disintegrarla, e insieme a lei tutti coloro che soltanto per un attimo avessero pensato di comportarsi nella stessa maniera di quella strega. Poi sono rientrato nella mia stanza, spossato, ma mi sono sentito subito a posto con la mia coscienza.

Bruno Magnolfi

giovedì 15 marzo 2012

Cause di guerra.




Adesso c’è una certa calma lungo la strada, ma si avverte nell’aria una tensione che è pronta ad accendersi di nuovo da un attimo all’altro. Protette dai grandi e vecchi portoni condominiali di legno, qualche persona si è appena affacciata ad osservare la via, e per il resto è rimasta dentro gli ingressi, a parlare sottovoce di quello che ormai sta accadendo, meravigliate, perplesse, scambiando parole di sgomento e stringendosi ognuna nei propri panni.

La grande manifestazione è proprio passata di lì, una strada quasi anonima della città, dove non era successo mai niente, normalmente ignorata da cose del genere, ed ha come spiegato, per la prima volta, agli abitanti di quel quartiere, che ci si attende una presa di coscienza anche da loro, da tutta quella gente benpensante e integrata come senz’altro si credono d’essere tutti quelli che abitano in quella zona.
n fondo indignarsi non è certo retaggio soltanto di alcuni facinorosi, anzi, sono i tranquilli borghesi che più di altri hanno buoni motivi per fasi sentire. Questo sembra aver voluto sottolineare il corteo che è passato lungo la strada, e che ha lasciato alle spalle, in quegli abitanti, un senso di incerto, uno strano presagio, assieme alle cartacce e ai rifiuti sui marciapiedi e lungo la via.
Una donna improvvisamente esce di casa da sola, forse qualcuno l’osserva, nascosto tra le tende della propria finestra; lei accenna una corsa leggera, poi continua a camminare con passo veloce, rasentando i muri delle abitazioni. Porta una giacca di lana sopra le spalle, e una specie di scialle sopra la testa; sembra diretta verso la piazza, in fondo alla strada, forse cerca soltanto di raggiungere uno dei negozi che si aprono là, da quella parte, magari la farmacia, sicuramente le serve qualcosa di urgente per cui è stata spinta ad uscire.
La donna si muove senza neppure guardare dietro di sé, pare che abbia interesse soltanto per ciò da cui è stata spinta lungo la via, come se niente potesse distoglierla da ciò che si è prefissa di fare. Niente si muove adesso lungo la strada, escluso lei, eppure si percepisce che la manifestazione non è molto lontana, forse si è soltanto fermata lungo il vicino viale, chissà.
Niente pare più innocuo e poco importante di una persona che se ne va come quella donna per la sua strada, indifferente quasi a tutto quanto succeda, magari senza neppure immaginarsi che la farmacia e gli altri negozi adesso sono chiusi, con le serrande abbassate, ad evitare di essere presi di mira da qualche gruppo di scalmanati che non ha niente di meglio da fare che scagliarsi contro qualche bottega.
Così tutto sembra scorrere in qualche maniera, e in fondo, nella casistica di tutti gli avvenimenti possibili, può darsi benissimo che una donna possa avere bisogno di uscire per strada e raggiungere qualcosa che le sembra estremamente importante, superiore anche al rischio di essere fermata da qualcuno per futili motivi, forse addirittura soltanto per il gusto di farlo.
Poi, per un attimo, qualcosa brilla lucente nell’aria, sopra al davanzale di una finestra del primo piano. La fucilata parte senza preavviso, ma producendo come un rumore qualsiasi, un elemento urbano subito composto tra le cose possibili in una città. La donna si accascia sul marciapiede senza neppure un lamento, e resta lì, come un fagotto di stracci, a riprova del fatto che certe volte persino una persona inoffensiva come lei può essere il simbolo di una guerra di cui non si è neppure riusciti a capire la natura. Tutti gli altri non hanno visto un bel niente, ci sarà tutto il tempo per prenderne atto.

Bruno Magnolfi


mercoledì 14 marzo 2012

Semplici soluzioni.



Mi sono seduto nella sala d’attesa, e quasi senza rendermene conto, il tempo se n’è andato via, giorni e giorni senza che quasi mi sia reso conto di nulla. E’ arrivato un uomo, una persona piuttosto anziana, mi ha toccato una spalla, ha detto: scusi, dobbiamo chiudere, bisogna che lei se ne vada. Mi sono alzato dalla sedia, ho guardato l’ambiente mentre uscivo, mi sono reso conto che appariva completamente diverso da quando ero arrivato. Così ho chiesto al vecchio che cosa mai fosse accaduto, ma lui si è limitato a fare un gesto come per spiegare che era una storia troppo complessa per poterne parlare così.

Sono tornato sulla strada, ho osservato il portone e mi sono reso conto che probabilmente non avevo alcuna necessità di recarmi in un posto del genere. Ciò nonostante sono tornato il giorno seguente per osservare le persone che frequentavano quel luogo, e il giorno dopo ancora ho fatto la medesima cosa, fino ad iniziare a segnare su un taccuino delle brevi descrizioni dei personaggi che mi passavano davanti andando ad affollare la sala d’attesa. Mi pareva che ci fosse una caratteristica comune a tutti coloro che arrivavano lì, ma era molto difficile capire quale fosse, e soprattutto appariva misterioso il motivo per cui erano spinti in quel luogo.

Poi, a fine giornata, sono tornato nel mio appartamento, mi sono seduto allo scrittoio, ed ho ripreso in mano tutti i miei appunti. Ho visto che, di quelle persone, nessuna di loro mi assomigliava, camminavano addirittura in modo diverso dal mio, e soprattutto pareva, nel loro procedere, che fossero assorti in pensieri piuttosto complessi, tanto da farli sembrare distratti, con la testa dentro alle nuvole. Mi sono incuriosito di quel modo di essere, e sono tornato davanti alla sala d’attesa per cercare di scoprire che cosa potesse essere ad occupare la mente di ciascuno di loro.

Ho fermato una donna, là davanti, le ho chiesto che ore fossero, tanto per attaccare discorso, lei ha risposto che non aveva orologio, ma immaginava fossero almeno le cinque, sicuramente non prima. Allora le ho chiesto come potesse essere sicura di questo, e lei mi ha osservato con maggiore intensità, ed infine ha spiegato che aveva sentito suonare da poco cinque rintocchi alla campana della chiesa di quel nostro quartiere, perciò era sicura di ciò che diceva. L’ho guardata con espressione dubitativa di quelle parole, e lei subito ha aggiunto: lei quale ora vorrebbe che fosse, se non avesse certezza di ciò che le ho detto?

Sul momento non ho saputo che dire, ma subito dopo mi è presa la voglia di spiegarle che per me non faceva una gran differenza, secondo me il tempo era soltanto un luogo astratto che si allungava e accorciava a seconda delle necessità o dei desideri. Infine la donna mi ha spiegato che doveva proprio andare, aveva un appuntamento proprio per le cinque e trenta, e visto che ancora era presto, avrebbe potuto sedersi nella sala d’attesa e riguardare i suoi incartamenti, in modo da presentarli completi ed in ordine. Così ho lasciato che andasse, ma quando, dopo un bel po’ di tempo, è tornata indietro a varcare la soglia di quell’edificio, ha subito detto che forse avevo ragione: il tempo era solo un’entità astratta, non c’era alcun gusto nel parcellizzare le cose usando degli spazi assegnati per tutto; dovevamo interessarci di più di ciò che era giusto, non vedeva alcun motivo per comportarsi in altra maniera. Ho annuito a tutto quanto, l’ho salutata con cortesia, e infine, con tutta la calma del mondo, ho ripreso la strada di casa.

Bruno Magnolfi

giovedì 8 marzo 2012

Assolo d'uomo (ritratto n. 2).

Mi sono seduto sopra una panchina, sul lato vicino al viale, nel parco pubblico della mia città, ed ho osservato a lungo le macchine che transitavano lungo la strada, qualche pedone indifferente sui marciapiedi, e poi, dopo qualche minuto, mi sono disinteressato di tutto. In fondo, ho pensato, cosa mi interessa degli altri: ritengo quasi tutto sbagliato in questa logica che ci circonda, ed io da solo non posso certo immaginare di poter cambiare anche soltanto alcune di queste cose, anche semplicemente una loro minima parte. Perciò sono rimasto lì a lungo, inerme, seduto, lasciando che tutta la realtà mi scorresse attorno senza neppure sfiorarmi.
Poi si è avvicinata una donna, mi ha sorriso, si è seduta con me sulla mia stessa panchina. Non le ho detto niente, e anche lei è rimasta a lungo in silenzio. Eravamo completamente estranei, ho pensato, non c’era motivo di ricercare un dialogo. Infine è stata raggiunta da un uomo, questo l’ha salutata giungendo a piedi dal vialetto di ghiaia, lui mi ha guardato appena un momento, come cercando di comprendere quali fossero le mie intenzioni. Non ho avuto necessità di fare alcun gesto, lei si è sollevata all’impiedi, hanno detto qualcosa tra loro, con voce bassa, parole per me del tutto incomprensibili, infine si sono allontanati con calma, la donna ha voltato la testa solo un momento verso di me, e mi ha salutato.
Ho osservato ambedue allontanarsi, ho notato i loro modi di scambiare parole e sorrisi, poi mi sono disinteressato di tutto, anche di loro. Non è passato molto tempo, ho allungato leggermente le gambe e mi sono sistemato nella maniera più comoda che mi riusciva sopra quella panchina; la donna di prima, ad un tratto, è tornata verso di me, con passi più rapidi adesso, da sola. Mi ha sorriso di nuovo, è tornata a sedersi, ha iniziato a dire di sentirsi una persona semplice e soprattutto spontanea, che non riesce quasi mai a valutare le sfumature di molte delle cose da cui è circondata. Io non ho detto un bel niente, ma ho lasciato che si soffiasse sonoramente il naso con il fazzoletto, come per evitare di piangere, e poi che riprendesse a parlare: credo nei sentimenti sinceri, mi ha detto, nell’immediatezza del loro appalesarsi. Infine mi ha guardato, voltandosi leggermente verso di me; io le ho allungato una mano, con il palmo aperto, lei l’ha presa e l’ha stretta a sé.
Non so dire quanto altro tempo sia trascorso in questa maniera, io ho lasciato che tutto scorresse, come se già fossi cosciente dell’epilogo di quella faccenda, ma ad un tratto, non so bene per quale motivo, mi sono sentito fortemente a disagio, così ho osservato con noncuranza dei ragazzi che giocavano a rincorrersi sull’erba poco distante, ed ho provato la voglia profonda di andarmene. Lei ha detto ancora qualcosa, un po’ sottovoce, ma io non le ho dato importanza. Mi sono sollevato lentamente, ho voltato la faccia verso la donna che ha continuato a guardarmi come aspettandosi da me chissà cosa. Così le ho sorriso, nella stessa esatta maniera come aveva fatto lei; infine, me ne sono andato per la mia strada, senza neppure voltarmi.
Bruno Magnolfi

Stella del Sud (ritratto n. 1).



Certe volte vorrei vedermi con gli occhi degli altri, dice Santo mentre da solo torna verso il piccolo pontile, sulla riva del suo grande fiume, lasciando scorrere lentamente il barchino sulla superficie dell’acqua, un colpo ogni tanto con l’unico remo, e nient’altro. Non c’è vento, le canne sulla riva sono tutte immobili, non si sentono quasi rumori, se non quel leggero sciabordio dell’acqua lungo la chiglia, e qualche rana gracidare lontano. Nel secchio solamente quattro piccole anguille, di fronte la mattinata vagamente nebbiosa, come qualsiasi altro giorno, come se alcuna differenza potesse calcare apprezzabili variazioni tra una mattina ed un’altra.

Certe volte, nel controllare le nasse, Santo si era specchiato nell’acqua ferma del fiume, non tanto per vedere il suo viso, quanto per riuscire a capire, quasi con un occhio sforzato, da estraneo, quale potesse essere il proprio futuro. Nei bracci d’acqua del delta, ormai di pesce ce n’è sempre meno, inutile illudersi; alla sera si ritrovano spesso in paese, all’Osteria del Bersagliere, e sono tutti pronti a dire con forza che non c’è più un futuro per loro, devono farsi coraggio, prendere decisioni importanti, andarsene via, via da quella miseria, con le loro barche e col resto, all’altro mare, quello che tutti dicono ricco, quello che sembra l’unica possibilità per vivere ancora per dei pescatori.

Santo ha una moglie, due figli per ora troppo piccoli, non possono ancora aiutarlo, e la terza è una femmina che ha appena due anni. Sarebbe andato da solo, emigrante interno, come dicono quelli che se ne intendono, insieme ad un pugno di amici, lo ha quasi promesso a quel fiume, come una parola a cui non si può non tener fede. Lui non ha mai avuto paura, neppure del mare in burrasca, quando l’onda del fiume frange alla foce e non riesce neppure a sfondare; sarebbe passata anche quella, ci sarebbero stati altri giorni, tempi migliori, un futuro. E’ anarchico lui, la vita la deve sentire sopra la faccia, nelle sue mani, piegarla ogni volta con forza, imprimendo la sua volontà per cambiare gli eventi, anche quelli più sfavorevoli.

Non c’è bisogno di pensarci di più, la scelta ormai è fatta, pensa, mentre imprime a quell’acqua l’ultimo colpo di remo; accosta lentamente la Stella del Sud al suo piccolo attracco, e aggancia la sagola bagnata ad una specie di bitta. Una folata di vento muove allora le canne, il loro suono frusciante sembra dire qualcosa, Santo si ferma, vuole ascoltare la voce del fiume, vuole sentire la risposta finale che attende: persino le rane sembrano adesso incantate, tutto esprime come un sospiro, le canne proseguono a dire qualcosa. Addio, ripetono in coro, arrivederci sarebbe una parola ruffiana, inadatta, fuori luogo in un giorno del genere.

Santo mette un piede sopra le tavole di legno quasi marcio del suo pontile, si ferma, ma giusto un momento, vede di nuovo la sua faccia appena tremolante specchiata nel fiume, si osserva, quasi non riconosce l’espressione del viso: devo andare, dice a se stesso, questo il responso, via da questo luogo di sempre, senza voltarmi neppure una volta, avanti, con tutto il coraggio che serve, nient’altro di diverso da questa scelta sarà mai possibile.

Bruno Magnolfi

domenica 4 marzo 2012

Scena n. 23. Dimostrazione di capacità.






Per un attimo ho tremato, dico al mio amico cercando di fargli immaginare la scena. Dovevo superare l’attimo buio, gli spiego, il momento difficile, la cosa più importante di tutte. Pareva che gran parte della mia esistenza fosse stata convogliata fino a quell’attimo, che tutto si fosse raddensato in quel punto, ed io disperatamente, all’improvviso, vivevo dentro di me, come in un incubo, la certezza di mancare la prova, di non riuscire in quanto mi era dato di dimostrare. Certo, probabilmente non avrei neppure dovuto provare, dico ancora al mio amico, che sembra proprio comprendere facilmente quanto gli vado spiegando; la strategia più adeguata, probabilmente, sarebbe stata quella di evitare qualsiasi riflessione, ogni ragionamento, concentrarsi su un’immagine assolutamente estranea alle cose, e lasciare che la parte più istintiva di me emergesse, fino a portare ogni speranza oltre l’ostacolo.
Il mio amico all’improvviso ha come un momento di distacco da quanto gli vado dicendo: si alza dalla sua sedia, compie qualche passo con calma sopra le assi nude del palco, sembra che cerchi con sforzo di dire qualcosa. Invece si ferma, alza la testa, guarda per un attimo il pubblico con sguardo severo. Impossibile non riuscire a far fronte ad una cosa d’importanza così decisiva, dice come a se stesso. Difatti, faccio subito io; è esattamente quello che anch’io in quell’attimo avevo dentro la mente, ma proprio per questo, non so per quale altro motivo preciso, ero contemporaneamente anche quasi sicuro che avrei fatto fiasco.
Entra la donna, con passo svelto, ma si ferma davanti a me ed al mio amico, ci guarda, porta una mano alla sua ciocca di capelli legati con un elastico dietro la nuca, quasi per un gesto composto poco per volta dall’abitudine. La sua espressione evidenzia incertezza, il mio amico le dice: stiamo soltanto parlando di cose senza importanza. La donna annuisce, senza alcuna convinzione, poi si rivolge a me, ma in modo impersonale: un fallito, ecco chi abbiamo davanti; una persona che neppure riesce a mostrare quello che vale, sempre ammesso che valga qualcosa. Poi si volta, porta la mano davanti alla faccia, come a nascondere una vergogna incipiente, e resta in silenzio.
Ecco, dico io, rivolgendomi di nuovo al mio amico; avrei fatto di tutto per evitare questo risultato, eppure, quando è stato il momento, le mani mi hanno tremato, gli occhi si sono rifiutati di vedere bene, non hanno avuto la chiarezza di cui c’era bisogno. Il mio amico sente di dover dire qualcosa, così alza la mano come a fermare le parole che continuo a mettere insieme, quasi a indicare che ormai è tutto chiaro, non c’è alcun bisogno di aggiungere altro. Chiunque di noi avrebbe fatto lo stesso, dice con parole che immediatamente suonano false, consolatorie, messe su apposta per chiudere definitivamente quell’argomento.
Mi sembra quasi di perdere l’equilibrio, pur proseguendo a restare fermo, in piedi, quasi inchiodato sul palco di legno. Infine mi muovo leggermente, mi sembra che la distanza con le persone che mi circondano si sia fatta maggiore di qualsiasi altra volta, i miei pensieri chiedono se possa essere giusto pagare così tanto in un’unica soluzione. Poi volto le spalle alla gente, raccolgo le idee, credo di non avere più niente da perdere. Così torno a guardare tutti quanti negli occhi, quasi con espressione di sfida: adesso sono maggiormente convinto di me, dico, sento una maggiore determinazione, una compostezza profonda; anzi, ora sono sicuro che niente avrebbe potuto essere minimamente diverso. Mi rivolgo al pubblico, chiarisco: l’errore mi ha mostrato la strada, dico quasi con foga; la mia vita adesso ha prodotto in me uno scarto in avanti, mi sento migliore; potrei addirittura dimostrarlo.

Bruno Magnolfi