martedì 26 marzo 2013

Nell'immagine del gatto.

            
            Consultando con attenzione la pianta, apparentemente le cose sembrano tutte al loro giusto posto. Eugenio immagina le persone che passeggiano lungo le strade, le famiglie rannicchiate nei propri alloggi, i capannoni industriali dove macchinari rumorosi vengono seguiti dall’occhio attento degli addetti ai lavori. Le automobili scorrono lungo l’asfalto, i treni muovono dalla stazione come nei giochi dei ragazzi degli anni sessanta. Eppure Eugenio pensa che sia tutto inutile, anzi assurdo, come se quello fosse soltanto un mondo immobile, privo ormai della spinta iniziale, dell’abbrivio che fa girare il mondo costantemente.
            Le zone della città sono riconoscibili e caratterizzate da qualcosa di evidente, ma alla fine tutto appare omogeneo: uguali aspirazioni, medesimi pensieri, discorsi di sempre fatti e rifatti inserendo ogni volta qualsiasi variante possibile. L’immagine è quella di un gatto che lentamente attraversa una strada deserta dell’agglomerato di case dove non succederà nulla.
            Poi Eugenio piega la carta, si alza, esce di casa, proprio per andare a rendersi conto di quello che è rimasto là fuori, se ci siano ancora i discorsi, i sorrisi, le idee: la volontà. Lungo la strada si avverte una presenza di polvere, le auto si muovono, le persone passeggiano. Entra in un negozio per comprare qualcosa, ma si sente del tutto fuori posto, come essersi spinto già troppo oltre quella quotidianità che fa da collante dei gesti e degli atteggiamenti degli altri. La donna dietro al banco gli chiede che cosa desideri, lui osserva in giro alcuni scaffali con sopra i prodotti, indica qualcosa ma senza alcun convincimento. Lei esce da dietro la sua postazione, gli dice qualcosa con evidente gentilezza, Eugenio cerca di seguirne tutti i gesti e le parole di spiegazione.  
            Accetta il flacone che la donna gli porge, si fa dire ancora qualcosa, infine tira fuori dei soldi e paga il prezzo che la negoziante gli chiede. Vorrebbe uscire da lì, ma crede di non avere del tutto compreso alcune motivazioni, osserva ancora la confezione del prodotto che ha tra le mani, chiede con ingenuità se può cambiarlo nel caso non sia esattamente ciò che si aspetti. La donna lo guarda, finisce di comprendere che c’è qualcosa che non è a posto nella persona di fronte a lei, così con grande amabilità dice soltanto: è semplicemente una schiuma da barba, Eugenio; al momento che l’hai usata non puoi più sostituirla, e d’altra parte le altre marche non sono molto differenti, il principio con cui sono state confezionate è sempre il medesimo.
            Eugenio annuisce, sa che la donna ha ragione, che lui cerca soltanto di inserire il dubbio all’interno di cose che appaiono scontate, nient’altro. Infine muove per uscire da dentro al negozio, saluta la donna, apre la porta vetrata, ma sulla soglia si ferma, si gira, dice in fretta che c’è qualcosa di cui non è affatto convinto, ma al momento non sa cosa sia. Poi si ritrova da solo sul marciapiede, ha adempiuto completamente ai suoi compiti principali, pensa, può tornarsene tranquillamente alla sua abitazione, e forse sentirsi bene, proprio come tutti.
            Bruno Magnolfi

domenica 24 marzo 2013

Cattiva sorte.

           
            Avevo sentito giungere, dall’appartamento di fianco a dove abitavo, direttamente attraverso le pareti, diversi rumori forti e antipatici, come di trascinamento di mobili sui pavimenti, e la cosa mi aveva disturbato parecchio, in considerazione soprattutto dell’interruzione che ne era immediatamente derivata delle mie ordinarie meditazioni, tanto che quasi subito mi ero ritrovato quasi inconsapevolmente ad urlare qualcosa, e per più di una volta, verso qualcuno che non sapevo neppure chi fosse, non ottenendo peraltro nessun risultato, almeno in tempi brevi o ragionevoli. In seguito però si era fatto silenzio, e quel silenzio si era protratto praticamente per una parte della giornata, ma tutto in fondo era parso trovare soltanto una momentanea situazione di stallo, che io immaginavo avrebbe potuto tranquillamente degenerare da un attimo all’altro. Così era stato, difatti, e l’agitazione che aveva prodotto in me questa ripresa di incomprensibile confusione era stata tale da spingermi in fretta ad indossare la giacca e ad uscire da casa.
            Naturalmente ero rientrato molto più tardi, e purtroppo soltanto per rendermi conto che se anche l’appartamento era adesso immerso in un momentaneo e completo silenzio, i rumori di cui avevo subito l’attacco erano rimasti là dentro come nell’aria, pronti a scatenarsi di nuovo da un attimo all’altro. Il giorno seguente difatti, come peraltro avevo già immaginato ampiamente, i rumori d’improvviso avevano ripreso la loro consistenza, spandendosi in ogni stanza del mio appartamento senza che neppure fossi riuscito a stabilire da dove precisamente giungessero. Arrivai a mettermi disperatamente le mani sopra le orecchie, nel tentativo che il mio gesto servisse ad attutire il dolore profondo che provavo dentro di me. Già, perché quel disturbo pazzesco stava poco per volta diventando un vero e proprio dolore, quasi una malattia, praticamente uno squarcio sanguinolento nel mezzo del mio organismo. Ma con ogni evidenza a niente serviva ogni mio tentativo. Impossibile per me era suonare il campanello di qualche condomino nel tentativo di trovare la fonte dei miei disturbi, e così, dopo profonda riflessione, decisi che il mio compito sarebbe stato nient’altro che quello di sopportare la cattiva sorte a me capitata.
            Si susseguivano momenti di silenzio ad altri di insopportabile confusione, ma io, seduto nella mia poltrona di raccoglimento, cercavo in tutti i casi di fingere una quasi completa indifferenza. Infine tutto quanto parve trovare termine, lasciando purtroppo una nuova tregua armata dentro di me che pareva farmi ugualmente soffrire. Tanto che quel silenzio poco per volta mi parve quasi un’ironia, sicuramente un’assenza importante, laddove sentivo all’improvviso dentro di me quasi la necessità di quel pieno orchestrale che in varie riprese avevo precedentemente avvertito, forse anche per mostrare a me stesso la mia capacità di sopportazione. Appoggiavo adesso l’orecchio alle pareti e al portoncino del mio appartamento, arrivando perfino a sdraiarmi sui pavimenti per ascoltare le vibrazioni leggere che parevano giungere da quei solai. Ma niente, tutto si era come dissolto. L’agitazione che mi prese fu forte, mi pareva impossibile poter vivere adesso in quella maniera; così, quasi senza pensarci, tornai a prendere la giacca, nonostante l’ora di notte, e ad indossarla per uscire da casa: ero cosciente che non era più possibile per me restarmene ancora in quel vuoto completo, tanto che mi pareva di vivere adesso soltanto una perfetta astrazione.
            Bruno Magnolfi

giovedì 21 marzo 2013

Dietro ai sogni (cortometraggio n. 3).



     
Non vedo niente qua attorno, pensava Vittorio, se non i miei soliti passi di sempre sull’erba. La campagna primaverile pareva immobile, lui camminava lungo il viottolo verso la cima della bassa collina sopra al paese. Il piccolo aereo all’improvviso era arrivato da dietro, poco sopra le cime degli alberi, aveva ronzato abbassandosi ancora, lasciando immaginare qualche evidente difficoltà, e infine aveva lasciato toccare le ruote sull’erba circa cinque o seicento metri più avanti, sparendo alla vista subito dietro la cima del poggio. Lui aveva aumentato il suo passo, fino quasi a correre, e anche se non era abituato a quell’ansia che d’improvviso provava, sentiva adesso la convinzione di poter dare un aiuto nel caso l’impatto del velivolo col suolo fosse stato maggiormente traumatico di quanto era riuscito ad immaginare.
            Era giunto sulla cima tonda della collina dopo circa dieci minuti, ormai senza fiato, e aveva visto che l’aereo era già fermo, ancora più avanti, il motore spento, ma senza alcun danno almeno apparente. Vittorio aveva raggiunto il velivolo, ma alla guida non c’era già più nessuno, l’elica era ferma, la persona che lo aveva pilotato fin lì forse era andata da qualche parte, forse verso una delle case poco lontane, una di quelle che rimanevano mezze nascoste dal fitto degli alberi. Osservava quell’aereo, non ne aveva mai visto uno del genere così da vicino, poi, poco per volta, aveva ripreso fiato, decidendo di rimanere là attorno a curiosare e a capire qualcosa di più.
            Ehi, sentì dire da dietro; così si era voltato, doveva essere senz’altro il pilota dell’aereo. Si sentiva come colto nel vivo, quasi entusiasta di quanto stava accadendo. Un ragazzone di circa trent’anni si era avvicinato a lui quasi correndo, gli aveva spiegato che a bordo si era soltanto guastato uno strumento minore, niente di particolarmente importante, aveva bisogno però degli utensili giusti, tipo qualche cacciavite e una pinza, poi avrebbe cercato di effettuare la riparazione da solo. Si erano fermati vicini, in piedi sull’erba e nel silenzio del prato, per presentarsi e parlare con una calma maggiore di tutto ciò di cui c’era bisogno. Vittorio aveva detto subito quale fosse il paese più vicino e verso quale direzione, ma all’altro non interessava per niente quell’argomento: gli aveva chiesto di andare lui a prendere gli utensili che gli servivano, ma subito, perché avrebbe dovuto ripartire al più presto. Lui era confuso, forse avrebbe dovuto terminare la sua passeggiata, voleva quasi pensare, ma l’altro insisteva, doveva andare immediatamente, diceva, per favore, di corsa, era un gesto estremamente importante, lo avrebbe ripagato in qualche maniera.
            Vittorio alla fine non riusciva a far altro che assentire a quelle richieste: è importante, pensava all’improvviso anche lui; così si era staccato dall’altro e dalla cima della collina assolata, e in un attimo era sparito lungo il viottolo tra quel fitto di alberi, quasi senza sapere cosa stava veramente facendo. Di corsa aveva fatto quasi tutta la strada fino al paese, e poi di nuovo al contrario aveva affrontato quella salita con la pesante borsa di utensili che aveva trovato nella rimessa della sua casa, insieme a tutti i soldi che aveva, ed era già trascorsa però una buona mezz’ora, e lui aveva sempre più fretta adesso, una fretta incredibile.
            Posso andarmene con lui, su quell’aereo, pensava correndo, via dal paese, da questa gente, da questi campi senza futuro. Non poteva essere soltanto un caso quell’opportunità che pareva offrirsi in maniera così inaspettata, lui non poteva certo rifiutarla proprio ora. C’era quasi qualcosa che gli indicava come tutto fino a quel giorno si fosse proteso verso quel semplice epilogo, fino a quel momento in cui avrebbe potuto incredibilmente spiccare il volo su quel piccolo aereo, oltre qualsiasi immaginazione. Vittorio, senza più fiato, quasi con le lacrime agli occhi per lo sforzo e l’emozione, era pronto, si sentiva benissimo, come mai si era sentito.
            Corse, senza pensare a nient’altro, fino quasi alla cima di quella collina, un solo pensiero dentro la mente, le parole già pronte per spiegare le cose a quel ragazzone, ciò di cui lui aveva bisogno, ed era come se conoscesse già la risposta, come se tutto fosse già sistemato in maniera perfetta. Ma quando tirò su lo sguardo, ormai sopra al poggio, l’aereo non c’era già più, e la sua speranza parve sfumare in un attimo, per lasciare soltanto due solchi nell’erba.
Bruno Magnolfi .
            

lunedì 18 marzo 2013

Coscienza sociale.

           
            I termosifoni sono appena tiepidi, rifletto, eppure fuori il freddo è pungente, ci sarebbe bisogno di una temperatura più alta per stare bene in queste mie stanze d’affitto. Giro per casa con un grosso maglione sopra le spalle, mi sposto con difficoltà perdendomi in nulla, ho i brividi, avrei voglia di sdraiarmi nel letto vestito come sono, raggomitolandomi sotto alle coperte alla ricerca di quel caldo e quella concentrazione che adesso mi mancano.
            Potrei uscire, andarmi a rinchiudere in un cinema e distrarmi. Poi penso che il mio dovere sia quello di starmene qui a cercare almeno di mettere insieme un programma per il mio futuro. Certe volte immagino di essere arrivato al culmine di tutto, più avanti di così non posso spingermi, ci vorrebbe un’occasione, un piccolo aiuto del caso o della fortuna, per uscire da questa fase.
            Sento bussare alla porta, è la signora che abita nell’altro appartamento sul pianerottolo, mi viene a chiedere come stia, se abbia bisogno di qualcosa. No, è tutto a posto, non deve preoccuparsi, le dico. Forse dovrei partire, proseguo; andarmene da qui, imbarcarmi per un lungo viaggio che serva a dimenticare tutto questo. Ha sempre voglia di scherzare, fa lei, dove vuole andare con la sua salute cagionevole, alla sua età.
            Forse ha ragione, sussurro, ma che cosa vuole che importi tutto questo: voglio andarmene, questo è ciò che conta più di ogni altra cosa. Va bene, va bene, fa la signora, vuole intanto che le porti un po’ di minestra calda? Faccio segno di si con la testa, lei mi sistema la tavola, io intanto mi siedo. Se non fosse per questo freddo che sento, rifletto tra me, sarebbe tutto più semplice, le cose apparirebbero sotto una luce senz’altro differente.
            La signora esce, ed io all’improvviso mi sento un pezzente ridotto ai minimi termini. Quando torna sento di aver preso una decisione importante dentro di me: tra un mese da oggi le cose dovranno andare in un’altra maniera, dovrò impegnarmi per un cambiamento radicale delle mie giornate. La signora mi spiega che fuori è in corso un assembramento non so in quale piazza, dicono tutti che le cose cambieranno tra breve.
            Ingoio lentamente un cucchiaio di minestra, la gola scaldata mi rinfranca, penso che anche io vorrei far parte di quella spinta verso un grande cambiamento, perciò mi spingerò fuori, con gli altri, prenderò parte alla vita sociale di questa città, fino a dimenticarmi dei miei piccoli guai, di questo freddo che continua ad attanagliarmi: fingerò di non sentirlo, forse, semplicemente, come se il clima fosse cambiato davvero, ancora prima che sia giunta la bella stagione e che si sia fuori davvero da questo inverno terribile.
            Mi sento la testa pesante, la signora prende il piatto ormai vuoto, dice che se ne va, se ho bisogno di qualcosa le devo bussare alla porta. Va bene, dico, la ringrazio. Poi mi alzo da tavola, vado a guardare dalla finestra lo spicchio di strada qua sotto: non c’è nessuno, chissà dove sono tutte le persone. Voglio uscire, penso ancora, andare a cercare la gente. Infine entro nella mia piccola camera, scosto le coperte del letto e mi corico: mi basta mezz’ora, penso, un’ora al massimo; poi sarò pronto, mi unirò agli altri, farò la mia parte, nessuno avrà niente da dire.
            Bruno Magnolfi

domenica 3 marzo 2013

Come un fiume.

            
            Il giorno in cui decisi di entrare in clandestinità, i carabinieri mi stavano ormai cercando da tutte le parti. L’unica possibilità che mi era rimasta era quella di comprare in fretta al mercato nero dei documenti fasulli e cambiare immediatamente città. Gli amici mi avevano fatto capire che dovevo sparire, tenermi fuori dal giro per almeno un anno o anche più, ed io avevo inevitabilmente seguito quel loro consiglio, e così con quei pochi soldi che avevo da parte mi ero semplicemente preso quel monolocale in affitto con un buon televisore per tenermi aggiornato.
Ero solo, e di quella città di provincia dove ero giunto con il treno, cambiando diversi convogli locali, in pratica non conoscevo un bel niente, e neppure mi incuriosiva troppo andarmene in giro lungo le strade. Niente telefono, niente contatti, niente di niente. Ma in poco tempo quella solitudine che inizialmente mi pareva quasi un rifugio, aveva iniziato a trasformarsi in una specie di condanna terribile. Il mio monolocale pareva una gabbia, e tutti i pensieri che riuscivo ad avere sembravano tramare contro di me, dimostrandosi ogni giorno un elenco sempre più corposo di paure e nient’altro.
Così iniziai ad uscire, timidamente, giusto per incontrare la gente, per sentire gli altri parlare e trovare la maniera per scambiare con normalità qualche opinione, ed anche se evitavo di entrare in locali e luoghi troppo affollati, le semplici persone che vedevo per strada o lungo i marciapiedi, mi sembravano ricche di cose da dire, forti della loro vita ordinaria. Una sera un barbone mi chiese dei soldi, ed io spontaneamente lo scansai, ma quando lo rividi, qualche sera più tardi, gli misi nella mano degli spiccioli che avevo con me. Quello mi guardò nella stessa maniera come si guarda qualcosa di stravagante, mi dette una stretta leggera e mi disse: io ti conosco; usando un modo e una determinazione che mi fecero subito tremare.
Non era vero, pensavo, non poteva essere vero, eppure qualcosa dentro ai suoi modi pareva affermare che la sua non era una stupidaggine sparata così a caso. Ritirai la mia mano e tornai sui miei passi, però il giorno seguente percorsi di nuovo quel marciapiede dove in genere stava il barbone, e lui era lì, con la stessa espressione sorniona, quasi aspettandomi. Gli chiesi se voleva qualcosa di caldo, e così lo portai dentro al bar poco lontano. Sorrideva, senza guardarmi, sembrava perso tra sé dietro chissà quali pensieri. Biascicava alcune frasi, ma come parlasse da solo, io capivo solamente qualche parola, così gli chiesi qualcosa, niente di particolarmente diretto, naturalmente. Lui continuava a sorridere, e rispondeva a suo modo con qualcosa che aveva a che fare con la sua scarsa memoria di vagabondaggio e probabilmente di alcol.
Poi si fermò, come se avesse d’improvviso trovato quello che in mezzo a chissà quante altre cose della sua vita andava cercando; mi guardava in fondo agli occhi come già aveva fatto una volta, e mi disse di nuovo: conosco il tuo viso; la tua faccia è quella di un uomo che ha paura di tutto, persino di me. So cosa significa essere in fuga. Si inizia un giorno, magari quando siamo ormai pieni di tutto, e si va via. Ma poco alla volta ci si sente sempre più soli, fino al punto in cui non è più possibile tornarsene indietro. Tu sei a quel punto, riconosco quel tuo sguardo. Del resto non so, per me non è interessante, ognuno ha un motivo per fare o non fare qualcosa, non esistono i buoni e i cattivi, esistono solo i pensieri difficili e quelli più facili, ma certe cose si sentono dentro e non si può andare contro natura, bisogna essere soltanto ciò che si è, bisogna dare fiato a ciò che sentiamo dentro di noi. Troverai anche tu la tua soluzione, sarà stasera, fra un giorno, tra un anno, anche mai, ma quando saprai finalmente che cosa vuoi dalla tua vita, tutto all’improvviso inizierà a scorrere intorno a te come un fiume, e non ci sarà più alcun bisogno di chiedere in giro, e di girare con lo sguardo perso nel vuoto.
Cercai anch’io di dire qualcosa, ma le sue parole non lasciavano molto spazio, e poi non avevo veramente niente da dire, ero vuoto, così come lui aveva appena finito di spiegarmi. Uscimmo dal bar poco dopo, lui mi salutò nella stessa maniera con cui ringraziava chi gli allungava dei soldi, ed io ritornai verso il mio monolocale, con la sensazione di sentirmi scoperto, nudo in quello che ero, ben consapevole di avere davanti delle decisioni da prendere, in fretta però, prima che l’inerzia veramente mi prendesse del tutto la mano.

            Bruno Magnolfi