domenica 3 marzo 2013

Come un fiume.

            
            Il giorno in cui decisi di entrare in clandestinità, i carabinieri mi stavano ormai cercando da tutte le parti. L’unica possibilità che mi era rimasta era quella di comprare in fretta al mercato nero dei documenti fasulli e cambiare immediatamente città. Gli amici mi avevano fatto capire che dovevo sparire, tenermi fuori dal giro per almeno un anno o anche più, ed io avevo inevitabilmente seguito quel loro consiglio, e così con quei pochi soldi che avevo da parte mi ero semplicemente preso quel monolocale in affitto con un buon televisore per tenermi aggiornato.
Ero solo, e di quella città di provincia dove ero giunto con il treno, cambiando diversi convogli locali, in pratica non conoscevo un bel niente, e neppure mi incuriosiva troppo andarmene in giro lungo le strade. Niente telefono, niente contatti, niente di niente. Ma in poco tempo quella solitudine che inizialmente mi pareva quasi un rifugio, aveva iniziato a trasformarsi in una specie di condanna terribile. Il mio monolocale pareva una gabbia, e tutti i pensieri che riuscivo ad avere sembravano tramare contro di me, dimostrandosi ogni giorno un elenco sempre più corposo di paure e nient’altro.
Così iniziai ad uscire, timidamente, giusto per incontrare la gente, per sentire gli altri parlare e trovare la maniera per scambiare con normalità qualche opinione, ed anche se evitavo di entrare in locali e luoghi troppo affollati, le semplici persone che vedevo per strada o lungo i marciapiedi, mi sembravano ricche di cose da dire, forti della loro vita ordinaria. Una sera un barbone mi chiese dei soldi, ed io spontaneamente lo scansai, ma quando lo rividi, qualche sera più tardi, gli misi nella mano degli spiccioli che avevo con me. Quello mi guardò nella stessa maniera come si guarda qualcosa di stravagante, mi dette una stretta leggera e mi disse: io ti conosco; usando un modo e una determinazione che mi fecero subito tremare.
Non era vero, pensavo, non poteva essere vero, eppure qualcosa dentro ai suoi modi pareva affermare che la sua non era una stupidaggine sparata così a caso. Ritirai la mia mano e tornai sui miei passi, però il giorno seguente percorsi di nuovo quel marciapiede dove in genere stava il barbone, e lui era lì, con la stessa espressione sorniona, quasi aspettandomi. Gli chiesi se voleva qualcosa di caldo, e così lo portai dentro al bar poco lontano. Sorrideva, senza guardarmi, sembrava perso tra sé dietro chissà quali pensieri. Biascicava alcune frasi, ma come parlasse da solo, io capivo solamente qualche parola, così gli chiesi qualcosa, niente di particolarmente diretto, naturalmente. Lui continuava a sorridere, e rispondeva a suo modo con qualcosa che aveva a che fare con la sua scarsa memoria di vagabondaggio e probabilmente di alcol.
Poi si fermò, come se avesse d’improvviso trovato quello che in mezzo a chissà quante altre cose della sua vita andava cercando; mi guardava in fondo agli occhi come già aveva fatto una volta, e mi disse di nuovo: conosco il tuo viso; la tua faccia è quella di un uomo che ha paura di tutto, persino di me. So cosa significa essere in fuga. Si inizia un giorno, magari quando siamo ormai pieni di tutto, e si va via. Ma poco alla volta ci si sente sempre più soli, fino al punto in cui non è più possibile tornarsene indietro. Tu sei a quel punto, riconosco quel tuo sguardo. Del resto non so, per me non è interessante, ognuno ha un motivo per fare o non fare qualcosa, non esistono i buoni e i cattivi, esistono solo i pensieri difficili e quelli più facili, ma certe cose si sentono dentro e non si può andare contro natura, bisogna essere soltanto ciò che si è, bisogna dare fiato a ciò che sentiamo dentro di noi. Troverai anche tu la tua soluzione, sarà stasera, fra un giorno, tra un anno, anche mai, ma quando saprai finalmente che cosa vuoi dalla tua vita, tutto all’improvviso inizierà a scorrere intorno a te come un fiume, e non ci sarà più alcun bisogno di chiedere in giro, e di girare con lo sguardo perso nel vuoto.
Cercai anch’io di dire qualcosa, ma le sue parole non lasciavano molto spazio, e poi non avevo veramente niente da dire, ero vuoto, così come lui aveva appena finito di spiegarmi. Uscimmo dal bar poco dopo, lui mi salutò nella stessa maniera con cui ringraziava chi gli allungava dei soldi, ed io ritornai verso il mio monolocale, con la sensazione di sentirmi scoperto, nudo in quello che ero, ben consapevole di avere davanti delle decisioni da prendere, in fretta però, prima che l’inerzia veramente mi prendesse del tutto la mano.

            Bruno Magnolfi

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