Il giorno
in cui decisi di entrare in clandestinità, i carabinieri mi stavano
ormai cercando da tutte le parti. L’unica possibilità che mi era rimasta
era quella di comprare in fretta al mercato nero dei documenti fasulli e
cambiare immediatamente città. Gli amici mi avevano fatto capire che
dovevo sparire, tenermi fuori dal giro per almeno un anno o anche più,
ed io avevo inevitabilmente seguito quel loro consiglio, e così con quei
pochi soldi che avevo da parte mi ero semplicemente preso quel
monolocale in affitto con un buon televisore per tenermi aggiornato.
Ero
solo, e di quella città di provincia dove ero giunto con il treno,
cambiando diversi convogli locali, in pratica non conoscevo un bel
niente, e neppure mi incuriosiva troppo andarmene in giro lungo le
strade. Niente telefono, niente contatti, niente di niente. Ma in poco
tempo quella solitudine che inizialmente mi pareva quasi un rifugio,
aveva iniziato a trasformarsi in una specie di condanna terribile. Il
mio monolocale pareva una gabbia, e tutti i pensieri che riuscivo ad
avere sembravano tramare contro di me, dimostrandosi ogni giorno un
elenco sempre più corposo di paure e nient’altro.
Così
iniziai ad uscire, timidamente, giusto per incontrare la gente, per
sentire gli altri parlare e trovare la maniera per scambiare con
normalità qualche opinione, ed anche se evitavo di entrare in locali e
luoghi troppo affollati, le semplici persone che vedevo per strada o
lungo i marciapiedi, mi sembravano ricche di cose da dire, forti della
loro vita ordinaria. Una sera un barbone mi chiese dei soldi, ed io
spontaneamente lo scansai, ma quando lo rividi, qualche sera più tardi,
gli misi nella mano degli spiccioli che avevo con me. Quello mi guardò
nella stessa maniera come si guarda qualcosa di stravagante, mi dette
una stretta leggera e mi disse: io ti conosco; usando un modo e una
determinazione che mi fecero subito tremare.
Non
era vero, pensavo, non poteva essere vero, eppure qualcosa dentro ai
suoi modi pareva affermare che la sua non era una stupidaggine sparata
così a caso. Ritirai la mia mano e tornai sui miei passi, però il giorno
seguente percorsi di nuovo quel marciapiede dove in genere stava il
barbone, e lui era lì, con la stessa espressione sorniona, quasi
aspettandomi. Gli chiesi se voleva qualcosa di caldo, e così lo portai
dentro al bar poco lontano. Sorrideva, senza guardarmi, sembrava perso
tra sé dietro chissà quali pensieri. Biascicava alcune frasi, ma come
parlasse da solo, io capivo solamente qualche parola, così gli chiesi
qualcosa, niente di particolarmente diretto, naturalmente. Lui
continuava a sorridere, e rispondeva a suo modo con qualcosa che aveva a
che fare con la sua scarsa memoria di vagabondaggio e probabilmente di
alcol.
Poi
si fermò, come se avesse d’improvviso trovato quello che in mezzo a
chissà quante altre cose della sua vita andava cercando; mi guardava in
fondo agli occhi come già aveva fatto una volta, e mi disse di nuovo:
conosco il tuo viso; la tua faccia è quella di un uomo che ha paura di
tutto, persino di me. So cosa significa essere in fuga. Si inizia un
giorno, magari quando siamo ormai pieni di tutto, e si va via. Ma poco
alla volta ci si sente sempre più soli, fino al punto in cui non è più
possibile tornarsene indietro. Tu sei a quel punto, riconosco quel tuo
sguardo. Del resto non so, per me non è interessante, ognuno ha un
motivo per fare o non fare qualcosa, non esistono i buoni e i cattivi,
esistono solo i pensieri difficili e quelli più facili, ma certe cose si
sentono dentro e non si può andare contro natura, bisogna essere
soltanto ciò che si è, bisogna dare fiato a ciò che sentiamo dentro di
noi. Troverai anche tu la tua soluzione, sarà stasera, fra un giorno,
tra un anno, anche mai, ma quando saprai finalmente che cosa vuoi dalla
tua vita, tutto all’improvviso inizierà a scorrere intorno a te come un
fiume, e non ci sarà più alcun bisogno di chiedere in giro, e di girare
con lo sguardo perso nel vuoto.
Cercai
anch’io di dire qualcosa, ma le sue parole non lasciavano molto spazio,
e poi non avevo veramente niente da dire, ero vuoto, così come lui
aveva appena finito di spiegarmi. Uscimmo dal bar poco dopo, lui mi
salutò nella stessa maniera con cui ringraziava chi gli allungava dei
soldi, ed io ritornai verso il mio monolocale, con la sensazione di
sentirmi scoperto, nudo in quello che ero, ben consapevole di avere
davanti delle decisioni da prendere, in fretta però, prima che l’inerzia
veramente mi prendesse del tutto la mano.
Bruno Magnolfi
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