Certe volte si pretendeva che tutto fosse chiaro e tranquillo, e intanto si sguazzava nella complicazione più alta senza riuscire a ritrovare il nesso delle cose. Si fingeva controllo, e c’era sempre chi riusciva ad essere più credibile di altri, ma in generale era evidente il vuoto atteggiarsi senza alcun aggancio al concreto. Tutto ciò permetteva una leggerezza e una facilità di pensiero superiori al normale, e in questo comportarsi uscivano fuori idee e spunti creativi a getto continuo. Le amicizie spesso erano finte o superficiali, ma in certi casi ci si aiutava a vicenda in modo insperato, senza chiedere niente, senza farsi neppure domande o porsi dei dubbi. Si sentiva che il cemento comune era la sconfitta continua dell’ovvietà, e si cercava di rifugiarsi tra le cose scontate solo a patto di coniugare questo comportamento con una dose massiccia di autoironia. Infine si cercava di essere veri, ed era rara la mancata sincerità, e in questo modo anche da soli si riusciva a sentirsi solidali con gli altri. Non si parlava quasi mai dell’amore, sentimento troppo egoistico, però ci innamoravamo continuamente, e spesso delle persone sbagliate.
Lungo la strada, quando ci incontrammo, Villi per prima cosa mi chiese se mi ricordavo di lei. Non sono mai stato fisionomista, così dissi di si solo per non sembrare scortese. Di fatto qualcosa mi ricordavo di lei, l’avevo vista solo una volta assieme ad altre persone, ma la sua faccia non mi era rimasta nella memoria. Prendemmo assieme un caffè dentro a un bar, si parlò in generale di noi, e lei continuò a sorridere molto, come fosse agitata. Poi disse che erano tutti partiti coloro che abitavano in casa con lei, e lei aveva paura a rimanere da sola, così si stava facendo ospitare da una sua amica. Era luglio, ricordo, e le cose sembravano scorrere leggere in quel lungo periodo. Così quando mi chiese se per un po’ volevo andare a stare a casa da lei, a me sembrò quasi normale.
6 marzo 2009
Quando entrai nella casa dei greci, se percorrendo le due rampe di scale fino a quel primo piano mi ero sentito a disagio, vuoi per il grande portone di legno in pieno centro storico, vuoi per l’odore di pietra serena che emanava dai grandi gradini sagomati della scala, mi parve, al contrario di ogni impressione, che tutto all’interno mi fosse più familiare di quanto avessi pensato, e che già dall’ingresso pareti e arredamenti attorno fossero ancora più consoni ad ogni mia positiva aspettativa. Nella mia stanza troneggiava un basso letto dalla struttura di legno, e sulle pareti scaffali vuoti a vista, illuminati dalla luce rossastra di un bel tramonto estivo che penetrava da una grande finestra ai piedi del letto. Due porte opposte dominavano la camera, immettendo in altrettanti corridoi misteriosi, e si intuiva come sia le altre stanze che tutto il resto del grande appartamento girava attorno ad una corte interna fresca e silenziosa. Presi possesso del posto in maniera formale, senza capire realmente quale comportamento era meglio tenere, così mi limitai ad appoggiare sopra a qualche scaffale i pochi oggetti che avevo con me, che mi sembravano più indicativi della mia personalità. Finsi una fretta che scongiurava qualsiasi domanda ed un rapportarsi con una persona che non conoscevo per niente, e ammantato di cose da fare e di impegni accettai di sfuggita la copia della chiave di casa ed uscii senza indugi, per tornare in quel luogo da sogno soltanto in tarda serata.
12 marzo 2009
Durante l’occupazione dell’ateneo si era girato in lungo e in largo dentro alle facoltà fingendo sempre di cercare di qualcuno, ma di fatto cercando una propria collocazione, un proprio ruolo, certe caratteristiche che rendessero specchiate le personalità di ognuno di noi. Avevo conosciuto un ragazzo, non so neanche come e perché, un tipo di Roma, con il quale andai in giro per un giorno intero, e che mi aveva detto una frase che non mi sarebbe più uscita di mente: “…conosco tanta gente ma non ho neanche un amico…”. Eppure lo invidiavo. Girare per strada con lui era quasi imbarazzante: tutti lo salutavano, tutti avevano qualcosa da dirgli o da chiedergli, come un punto di riferimento, una boa attorno alla quale giravano piccole e grandi imbarcazioni che veleggiavano in acque scure, a volte minacciose.
Due anni dopo entravo in casa di Villi a serata avanzata nella penombra estiva fresca della bianca luce lunare che penetrava dai finestroni. Sulla lunga terrazza che dava sul cortile interno del grande appartamento lei stava lì, forse aspettandomi, con una bottiglia di Pinot grigio ghiacciata e due dita di vino bianco dentro ad un calice. Presi il mio bicchiere in cucina senza accendere luci, e andai a sedermi dall’altra parte del piccolo tavolo, nella stessa posizione di lei, spalle al muro, come ad un cinema, con i piedi appoggiati alla ringhiera di ferro, ad osservare i tetti delle case di fronte e il cielo giallo-rossastro delle luci cittadine di sopra. Dei gatti si erano rincorsi miagolando arruffati, ed io dopo un po’ di silenzio, avevo iniziato a narrare la storia di gatto mammone, che era un animale timido, poco adatto alla vita all’aperto con gli altri. I gatti continuavano a correre e a rincorrersi forse felici, ma lui no, introverso e sensibile, si teneva in disparte, e cercava un angolo buio dove ritirarsi da solo, senza mai mescolarsi con gli altri. La continuazione di tutta la storia l’avrei poi raccontata la sera seguente e tutte le altre a venire, fino a quando litigai con la Villi, non mi ricordo neppure perché, e lei andò via, in Grecia, lasciandomi padrone di una casa stupenda.
23 marzo 2009
Gatto Mammone si era stufato. Stufato dei tetti da dividere con gatti senza cervello, stufato di fare quello che se ne stava da solo in un angolo, stufato di fare quel personaggio in mezzo a dei simili che quel personaggio non riuscivano neanche a comprendere, che non faceva parte dei loro orizzonti, sempre ammesso che ne avessero avuti. Gatto Mammone si sentiva fondamentalmente diverso, e il suo aggirarsi per i tetti con gli altri era solo una dimostrazione per gli altri della sua capacità di mostrarsi sociale. Ma ora era finita. Era saltato giù, sopra un lungo terrazzo, nella parte più buia che aveva trovato, e aveva intercettato la conversazione dei due che bevevano da calici freddi e parlavano in toni soffusi, probabilmente cercando un’intesa che andava semplicemente creata, inventata dal niente. Lei parlava di un’isola greca, Thassos, davanti alla città di Kavala, e lui seguiva i percorsi di ogni frase che lei soggiungeva cercando di spiegarne i contorni, come fosse un accrescimento strategico di ogni sua conoscenza. C’era del fascino in quella serata, e gatto Mammone passò la sua coda come una piuma lungo le gambe delle sedie dei due, mentre nel buio, tramite parole sommesse, i due si scambiavano forti impressioni senza peraltro conoscersi affatto. Gatto Mammone era una variabile astratta di ogni concetto venisse sotteso, in un contesto in cui lei si sentiva già fragile, più di qualsiasi ingrediente di un sogno, e lui, alla finestra sul mondo, fotografato ad osservare e misurare la sua capacità di assumere il pensiero e la sofferenza degli altri.
31 marzo 2009
Gatto Mammone aveva strisciato a lungo contro i muri, senza neanche dare troppa importanza a ciò che faceva o che lasciava pensare di sé, usando il suo fare solito di chi non è interessato quasi a nulla e sta passando da lì solo per caso. La Villi aveva riposto la sua bottiglia di vino quasi terminata e i calici di vetro appoggiandoli sopra al lavabo, e di passata aveva augurato la buonanotte ritirandosi nella sua stanza, forse irritata, forse delusa, chissà. D’improvviso la casa era piombata nel silenzio, non che precedentemente fosse stata particolarmente rumorosa, solo che adesso i pensieri sembravano strisce di carta colorata che passavano davanti alle lampadine accese, brillando per un attimo nel buio generale. La luna fredda della luna invece illuminava i finestroni della camera con la sua luce bianca omogenea, rassicurante. Il gatto, con la sua riconoscibile livrea bianca e nera asimmetrica, era entrato senza chiedere alcun permesso, soffermandosi a lungo ai piedi del letto, ad osservare e a farsi osservare. Un senso di sospensione spasmodica era rimasto in aria, senza conseguenze, senza epilogo, e questo apriva il sipario ai pensieri più sfuggenti, forse al preambolo dei sogni da vivere e da scoprire nel corso della notte. Poi Villi era tornata indietro, come cercando un’ultima possibilità, o forse solo per concedere quella stessa ultima possibilità a sé, o agli altri, o alla sera sfumata. Aveva visto Gatto Mammone, aveva sorriso, come di fronte alla materializzazione di tante frasi inventate e di tanti discorsi tentati, e infine aveva pianto tra sé, solo con un timido e isolato singhiozzo, come per la comprensione improvvisa dell’impossibilità di quanto stava cercando. Il Gatto cercava di pensare tra sé qualcosa di positivo attorno a quegli esseri goffi che ritrovava ogni giorno incantati a guardarlo, così limitati nei movimenti, così assurdi nel loro sentirsi perfetti, ma così capaci di tutti quei versi così simili e monotoni tra loro da divenire qualche volta un canto alla luna, o alle stelle, o al cielo di notte, ricco di tanti presagi per il giorno ancora lontano.
15 e 16 aprile
La Villi era partita di giovedì, in silenzio, senza particolare risalto. Sarebbe tornata un mese più tardi, o poco più, ma io non l’avrei più rivista, le nostre strade si interrompevano lì, anche se non lo sapevo e neppure l’avrei immaginato. Quella sera tornai in quella casa che mi parve persino troppo grande solo per me. Chiusi subito le stanze che non mi servivano, sistemai qualcosa in cucina e nella mia camera, poi aprii il frigorifero, quasi come un gesto automatico. C’era ancora rimasta una mezza bottiglia di quel vino bianco leggero che mi aveva fatto passare parecchie serate in compagnia della Villi, così presi un bicchiere e mi misi seduto sulla terrazza, come avevo fatto quasi ogni sera da circa due mesi. Sopra al tetto di fronte, per estrema normalità, un paio di gatti svogliatamente si chiamavano, e la serata appariva terribilmente tranquilla. Gatto Mammone si fece avanti più tardi, quando il vino oramai era quasi finito; probabilmente notò la mia solitudine, ma rimase al suo posto, rispettando quei dettagli che non conosceva. Mi aveva osservato dal tetto, poi si era stirato le zampe girellando là attorno. Gatto Mammone era cosciente di essere solo e semplicemente un felino, però era sornione più di ogni altro, comprendendo le cose che ad altri sfuggivano. “Un giorno, forse, scriverò qualcosa che ti riguardi…”, dissi verso di lui a voce alta, quasi più per esorcizzare la mia solitudine che per sentire il suono della mia voce. Era chiaramente un augurio che mi facevo: quello di riuscire a descrivere cose che al momento soltanto vedevo o pensavo. Poi il Gatto parve capire qualcosa del mio stato d’animo sperso e irrequieto, con due salti scese dal tetto, venne con flemma verso di me e promise alla Luna di tenermi compagnia per quella e per tante altre sere. Quando alla fine del mese andai ad abitare in una casa diversa, in un diverso quartiere, lo portai assieme a me, e lui si adattò senza problemi alla sua e alla mia nuova vita. Morì sotto una macchina, come è destino degli spiriti liberi.
13 maggio 2009
Tutto il problema sta dentro alla comunicazione. Si dice una cosa pensandone una simile ma non proprio la stessa. Chi ascolta accetta il gioco e cerca di scoprire cosa si sottenda veramente. Basta poco per scatenare una ridda di equivoci. Con la Villi era andata più o meno in questo modo quando aveva riposto i bicchieri e la bottiglia. Non voleva più parlare con me, non voleva più ascoltare le mie storie sui gatti, tutto annullato, non voleva più avermi tra i piedi. “Non ho fatto niente”, le avevo detto, ma la sua gelosia la sopraffaceva. Le pareva tradita quella dolce intimità che avevamo coltivato sul terrazzo interno, ad osservare i tetti, i gatti, le stelle, i nostri pensieri illuminati per un attimo sul muro di fronte, quell’atmosfera calda e piacevole da vino bianco fresco e noi due, senza un passato comune da interpretare, solo le nostre diverse vite da raccontarci nella maniera che ritenevamo più opportuna, o a fantasticare sul presente e sul futuro. Lei persa tutto il giorno nelle biblioteche e in facoltà a preparare la sua tesi di laurea, io preso tutto il giorno da un mestiere assurdo che mi nevrotizzava. Quelle serate erano belle, ma non obbligatorie. Ci eravamo ritrovati lì, nella debole luce della terrazza, ma non ci eravamo dati mai appuntamento. Come quei gatti che si rincorrevano sui tetti, e certe sere non si erano neppure fatti vivi, forse proprio per sentirsi più liberi.
15 maggio 2009
Telefonai alla mia mamma qualche giorno prima di partire. Lei mi chiese il giorno in cui sarei arrivata, l’orario, come stavo, a che punto fossi con la mia tesi. Poi, dopo una pausa disse: “Villi, hai una voce strana, un modo diverso di dirmi le cose, che ti succede?”. Sull’immediato cercai di rispondere “…niente, solo un po’ di stanchezza…”, però sapevo che con mia mamma era difficile quel gioco, e poi, forse, avevo voglia di parlarle di me, di dirle qualcosa che tenevo troppo chiuso in fondo ai miei pensieri. “Sai, in quest’ultimo periodo ho conosciuto un ragazzo. No, non è greco, è di qui, della Toscana. Non sono stata molto assieme a lui, solo qualche sera. Però mi ha fatto sognare con i suoi racconti fantastici, con le sue invenzioni. Ci sono state delle sere che non ci siamo neppure salutati; semplicemente ci siamo seduti, abbiamo guardato nella stessa direzione, e poi abbiamo parlato, tirando fuori la nostra sensibilità, forse i nostri pensieri e i segreti più nascosti, e li abbiamo condivisi, senza commentarli, solo lasciandoli andare a liberarsi contro un muro bianco, come forme di fumo nel vento debole, che si innalzano da terra, piccole come sono, a cercare di raggiungere le nuvole e di unirsi a loro. Non lo so, mamma, ma all’improvviso non vorrei rompere questo momento, non vorrei più partire…”. La mia mamma capì al volo tutto quanto, e non insistette in niente, cercando solo di alleggerire un po’ il mio affanno, cambiando argomento e non chiedendomi nient’altro. Ricordo bene, fu proprio quella stessa sera che rimasi sola, ed il mio vino bianco fresco continuò sul tavolo a scaldarsi e a far compagnia a due bicchieri vuoti.
27 maggio 2009
Il cielo era chiaro quel giorno, e l’autobus che la portava in città era pieno di gente. La strada era identica, e quando arrivò ad entrare in quella che era stata la sua casa per tutti quei cinque e più anni, la colse un sentimento malinconico. Erano già trascorsi sei mesi dall’ultima volta che Villi era tornata, e forse questa sarebbe stata la sua ultima volta, ma in questo periodo le pareva fossero già cambiate dentro di sé così tante cose che adesso cercava di lasciare i pensieri a riposo, per paura di scoprirsi diversa anche in quelli. Stavolta sarebbe rimasta soltanto cinque o sei giorni, il tempo per sistemare le ultime cose, salutare gli amici, la facoltà che le aveva concesso quella laurea sudata, e poi tornarsene in Grecia, a costruire il futuro. In casa le parve tutto come si ricordava, la sua stanza, i finestroni, gli scaffali di legno, anche quel terrazzino che era stato presente a quelle serate da sogno. Chissà dove mai era fuggita quella persona di cui non aveva più niente, un oggetto, una foto, una cosa qualsiasi. Solo i ricordi, ricordi di sogni inventati sotto ad un cielo di stelle tra i gatti sornioni, che forse sapevano già più di lei. Era decisa, avrebbe camminato per strada, avrebbe girato per lungo e per largo, in tutti quei posti dove avrebbe potuto incontrarlo, per tutti quei giorni che sarebbe rimasta; poi, sarebbe partita. Aveva iniziato chiedendo a qualcuno che poteva sapere qualcosa, ma non era riuscita ad avere alcuna notizia. Era assurdo tenersi nell’anima una persona senza riuscire a vederla, neppure una volta, e così continuava a girare per strada guardando ogni persona come potesse essere lui, con la stessa speranza incrollabile. Infine lo vide, ad una certa distanza, davanti a un negozio, mentre parlava con altri. Si fermò accanto a un portone, lo osservò quanto poteva, i suoi modi, le espressioni, le sue mani che esprimevano all’aria parole che lei non poteva sentire. Infine si volse, Villi, e andò via. Bruno Magnolfi.
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