martedì 26 aprile 2011

Una minima vita possibile.


Una minima vita possibile.

Sono tutte uguali le stanzette di questo istituto, ma a me la mia sembra più bella, più grande, più accogliente di qualsiasi altra. Spesso mi piazzo lì da solo, specialmente durante i lunghi pomeriggi, e mi sembra quasi che tutto sia migliore, e certe volte mi sento addirittura contento che i miei figli abbiano deciso di portarmi qui, dove sto bene, ho tutto ciò che serve, forse anche più del necessario. A volte cammino avanti e indietro nella camera, con il mio passo lento, zoppicando leggermente come faccio sempre, dal letto alla finestra e viceversa, e gli spazi mi sembrano aumentare mentre vado da una parete all’altra, quasi che la mia stanza fosse magica, capace di sorprese di cui non so neppure dare spiegazione.

Poi scendo giù nel salottino, dove stanno gli altri, o nella refezione, tanto per vedere se ci sono delle novità, o se magari sia cambiato qualche cosa, e parlo con qualcuno dei miei compagni di viaggio, come li chiamo io, e chiedo loro quasi sempre le cose di cui amano parlare, quelle medesime da cui si sentono assillati, i loro malesseri, i dispiaceri, le antipatie, ed io annuisco, faccio capire che sono dalla loro parte, siamo tutti una famiglia, come ripeto spesso a tutti. Con un’occhiata, proprio mentre parlo e ascolto, e quasi con indifferenza, ma in realtà con grande interesse, guardo subito in quegli ambienti comuni se è di turno Caterina, se c’è lì in giro, con le sue mani perennemente impegnate e i suoi capelli lunghi legati sulla nuca, e se la vedo mi sento subito contento: soltanto sapere che c’è, che è lì da qualche parte, mi fa sentire quasi un altro. Lei parla con tutti a voce alta, generalmente dà sempre risposte sbrigative, per questo io a lei non faccio mai delle domande: le parlo, questo si, ma a bassa voce, e soltanto quando mi passa vicino, così le dico qualche cosa probabilmente di ordinario, ma come fosse un patrimonio dell’umanità, e lei credo gradisca quel mio atteggiamento, forse sorride addirittura dentro di sé, e mentre sbriga le sue cose, mostrando quanto importanti reputa quei piccoli momenti, evita quasi sempre di guardarmi.

La mia giornata sembra diversa quando è di turno Caterina, io la osservo mentre si muove svelta tra tutti questi vecchi, e mi sento migliore solo perché lei è qui vicina, sarei capace di affrontare anche qualche sacrificio pur di stare ad osservarla, pur di starle accanto. Agli altri certe volte li rimprovera, ma a me non dice niente, se proprio non ne è costretta. Io continuo ad amoreggiare sempre così con lei, per tutto il tempo che riesco a farlo, e non cambierei una virgola di queste sensazioni. Forse non c’è alcun significato in ciò che faccio e in ciò che penso, ma se non ci fosse lei la mia giornata sarebbe terribilmente triste e vuota, di questo sono sicuro, assolutamente.

Quando Caterina infine se ne va, saluta tutti con un gesto, chiude alle sue spalle la grande porta a vetri, poi esce dal giardino con la macchina, una piccola vettura di colore verde scuro, ed io spesso corro, come posso, ad osservarla dalla mia finestra, almeno fino a quando non sparisce fuori dall’alto cancello di metallo nero, e sempre le dico, anche se solo tra me e me: arrivederci; perché tra i miei pensieri so quanta felicità sia stata aver potuto ancora guardarla, stare con lei, parlarle per un altro giorno, e so mentre va via che resterò in attesa tutto il tempo fino a quando non la rivedrò, che sia domani o chissà quando; e immagino che un giorno riuscirò persino a dirle: sei tu, Caterina, la persona più importante della mia stupida vita; è poca cosa, lo so, ma in questo poco sappi pure che c’è tutto me stesso.

Bruno Magnolfi

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