venerdì 5 novembre 2010
(Profilo n. 3). Un dito sporco.
Certe volte, prima ancora che tutti si spieghino, che trovino le parole per dirmi ciò che hanno pensato, io sento che le loro cose le conosco già, come se avessi già sentito i loro discorsi, e non avessi bisogno di altro. Non guardo mai in faccia nessuno, quando mi parlano, non ne ho alcun bisogno; loro dicono qualcosa, sento il brusio di quei ragionamenti, ma per me è già tutto chiaro, come non ci fosse neppure bisogno di quei discorsetti. Rido mentre guardo a terra un punto qualsiasi; rido di quelle parole che già conosco, che ho già sentito nella mia testa, e nessuno capisce che cosa io abbia bisogno di ridere, così aspettano un po’, lasciano tutti che io dia loro la possibilità di dire ancora qualcosa, e intanto mi guardano, come se non mi avessero mai visto in precedenza.
Io vorrei ridere soltanto tra me, dico la verità, e giusto di quelle parole, di quel loro modo di dirmi le cose, come a un bambino, ma non riesco proprio a resistere: guardo ancora quel punto là a terra, e rido senza riuscire a fermarmi. Qualcuno scuote la testa, mi guarda e pensa che io non sappia far altro che quello: ridere e basta. Invece no, loro non lo sanno, ma certe volte io piango.
Piango soltanto quando sono da solo, quando nessuno può rendersi conto che io sono triste. Sono triste perché quelle parole che in precedenza credevo di sapere così bene, che non avevo neppure bisogno di ascoltare per comprenderne il significato, quelle che tutti gli altri mi riferivano, che avrebbero voluto farmi ascoltare, ma che io avevo già compreso, ecco che improvvisamente, quando sono da solo, si confondono tutte tra loro, si distorcono, si sformano, non hanno più nessun senso, ed io, derubato di quelle parole, mi sento completamente svuotato, vuoto di tutto.
Non lo so perché questo succeda, ma all’improvviso tutto quello che credevo di conoscere bene cade a terra, proprio verso quel punto che precedentemente stavo osservando, ed io rimango a vagare nel vuoto, senza niente. E’ allora che piango, ma loro non se lo possono immaginare neppure, perché mi sento così soltanto quando sono da solo, e quindi nessuno mi vede.
Quando ritornano tutti, si mettono subito a dirmi qualcosa, scherzano, pensano alle parole migliori da dirmi, ed ecco che dentro di me tutto riprende la solita logica, di nuovo le parole diventano inutili, ed io sento dentro di me tutto quello che vogliono dirmi. Non parlo mai, io, non ho alcun bisogno di usare le loro parole, quelli mi guardano, mi fanno le analisi, sostengono che non ci sia niente che impedisca a me di parlare; eppure non parlo, non dico niente, e alla fine ricomincio anche a ridere, con le mie risate che lasciano tutti storditi, delle quali in nessuna maniera io sento di poter fare a meno.
Che male c’è, in fondo, penso; lascio a loro tutta la logica delle parole, tanto a me neppure serve, io le cose le capisco senza bisogno di altro, mi basta guardare per terra in un punto qualsiasi per tornare a ridere forte. Poi un giorno come tutti quegli altri si mettono in tre a parlare tra loro e a farmi domande. Io guardo a terra il solito punto, poi dico: silenzio!, sorprendendo un po’ anche me stesso. Così quelli mi guardano e dopo un po’ se ne vanno. Più tardi mi fanno entrare dentro a una stanza e dicono che forse la cosa migliore di tutte è che io inizi a fare qualche disegno.
La faccenda a me pare interessante, non ho mai fatto cose del genere, però non ho alcuna voglia di far vedere a loro che mi piace l’idea. Guardo per terra e infine mi metto a fare dei segni con un dito sporco. Mi forniscono di tutto il materiale che serve: carta, matite, penne, tutte cose del genere, poi mi lasciano solo. Io prendo un foglio, lo strofino a terra fino a quando quello si sporca per bene, poi con il dito ci faccio qua e là delle macchie, e infine torno da loro. Silenzio, dico a voce bassa mostrando il disegno, e rido di nuovo, proprio come un pazzo, di tutti.
Bruno Magnolfi
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