mercoledì 27 ottobre 2010

Una donna perduta


Non c’è niente di strano, diceva lui continuando a fumare, senza guardarla, seduto al tavolo di cucina con aria svogliata. Lei non amava fare domande, così le parve che non ci fosse neppure bisogno di continuare a parlare di quell’argomento. Era convinta che avere dei segreti non provocasse la fine del mondo, certo, ma la scioltezza con cui lui faceva tutto quanto, e la maggior parte delle volte a sua completa insaputa, senza neppure accennarle qualcosa, non rivelasse un’idea di rapporto maturo quale in fondo lei credeva fosse il loro.

Si cambiò d’abito, poi disse che usciva, voleva riflettere le cose con calma, da sola. Camminò lungo i soliti marciapiedi che si snodavano nel loro quartiere, osservando le persone che mostravano fretta in quell’ora serale, coloro che ridevano scambiando opinioni su una cosa o sull’altra, gli individui da soli, che certe volte apparivano come sperduti, tra quelle strade, le case, i negozi, i palazzi, tutti pieni di estranei, come un selva di sconosciuti completi, che probabilmente avevano dentro la testa pensieri diversi dai suoi, e che forse optavano per modi diversi di vivere.

Si fermò in un caffè, si fece servire un aperitivo frizzante, tanto per tirarsi su di morale, osservando le poche persone che tiravano tardi prima dell’ora di cena. Poi uscì, rinfrancata, ma senza motivo. La sera aveva una luce stupenda, le auto parevano inseguirsi tra loro con i fari puntati, scivolando sopra l’asfalto nella ricerca di qualcosa che ne giustificasse la corsa, e gli autisti proseguivano a pigiare pulsanti, pedali, azionare le leve, come elementi di modernità inalienabili.

Lei proseguiva a pensare, rifletteva sulla sua vita, cercava un motivo dentro di sé con cui sentirsi appagata, ma era inutile, non c’era nessuna cosa di cui fosse contenta, neppure di sé, delle sue considerazioni improvvise: le sue giornate erano composte di materiale povero, pensava, privo anche di parti migliori, che brillassero almeno una volta per dar mostra di loro.

Una coppia di uomini giovani, che le camminavano davanti una decina di metri, entrarono in fretta dentro a un grande portone di un antico palazzo, lasciando aperto dietro di loro. Lei rallentò, guardò attorno a sé quel tratto di marciapiede in quel momento deserto, infine scivolò lentamente anche lei dentro all’ingresso, chiudendosi dietro. Sul fondo di quell’androne, le scale di pietra serena apparivano belle e importanti girando attorno ad un ascensore che in quel momento stava salendo, avvolto in una gabbia di ferro battuto con la cabina di legno e di vetro.

Prese le scale, raggiunse il vasto pianerottolo del primo piano dove si aprivano due portoncini simmetrici, e restò lì, per un attimo, come a scrutare ogni cosa da cui si sentiva circondata ed attratta. Non avvertiva rumori, se non da qualche piano più in alto, dove forse i due uomini giovani erano giunti. Infine premette il campanello in ottone che riluceva alla destra del portone dove era riportato un nome che pareva importante, e qualcuno giunse ad aprire, restando per un momento in silenzio, guardandola: per favore, disse lei con parole senza l’uso di accenti, mi sono perduta.

Bruno Magnolfi

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