domenica 3 ottobre 2010
Nato nella terra dei padroni
Il ragazzo aveva osservato a lungo quel lento tramonto del sole filtrato leggermente da sottili cortine di nuvole bianche e neutrali, che nell’occasione si erano accese di innumerevoli sfumature di colore, dal rosa al purpureo, via via che la luce andava giocando con loro, scurendo e variando ad ogni minuto qualsiasi tonalità, senza una sosta. Seduto sopra la panca di legno sul retro della sua casa, restava incantato ogni volta che ricordava di uscirsene fuori a respirare quell’aria già fresca in quella stagione, nelle serate sempre più brevi che andavano inconsapevolmente avanzando. Il sole gli indicava qualcosa laggiù, lontano, oltre tutte le proprietà del signor Garbanti, superato il profilo delle colline morbide prima della città, e ancora più avanti, chissà dove.
Gli piaceva stare lì, anche nelle sere quando il tramonto non si vedeva: su quella panca si sentiva vicino ad un mondo diverso, ritrovava una sfumatura così silenziosa, così spalmata di calma, dove i genitori probabilmente non sentivano la necessità di urlarsi ogni volta che dovevano dirsi qualcosa, e lui poteva ascoltare se stesso nei momenti in cui respirava, in cui lasciava battere il cuore, mentre pensava, con normalità, senza affanni, proteso nel mondo che vedeva scurirsi davanti, vicino, quasi a portata di mano.
Suo padre, come tutti quanti gli operai agricoli in quella zona, lavorava per il signor Garbanti, sopra le terre di quella proprietà immensa, e quel consueto inchinarsi nei confronti di ciò che quel nome indicava, era forse l’elemento maggiormente destabilizzante per quelle persone che avrebbero voluto credere maggiormente in se stesse, portare avanti un’idea propria, un proprio progetto, pur piccolo, però entusiasmante. Ma niente era possibile là attorno, se non fare così, come facevano tutti.
Pareva ad ogni momento che quel marchio si imprimesse sopra ogni oggetto, su qualsiasi elemento che era possibile saggiare con mano, i gesti perfino, proprio come se la vita stessa fosse determinata da un unico proprietario terriero, una casata di padroni, che tenesse nelle mani, come attraverso dei fili sottili, le esistenze di tutta la gente di quella vallata. Inutile anche pensarci, era così, non c’era altro da fare, se non accettare quella realtà e andare avanti.
Sua madre ad un tratto disse forte il suo nome, ed il ragazzo sentì dentro di sé che i suoi sogni al cospetto di un mondo più aperto e più libero erano destinati a cadere almeno per quella serata. Si sollevò dalla sua panca di legno, si guardò ancora attorno e immaginò suo padre che coltivava quel pezzo di terra vicino alla casa. Fantasticò in pochi momenti l’impegno profondo che sentiva avrebbe assorbito la sua famiglia in una attività di quel genere, e sentì un’aria diversa sopra di sé, ma fu solo un attimo, un piccolissimo momento destinato a svanire.
Aprì con lentezza la porta sul retro, sentì l’odore avvolgente della cucina, vide la luce della lampadina elettrica che illuminava i volti dei suoi genitori, e infine si girò, ancora per un attimo solo, verso il tramonto: c’era ancora una luce laggiù, oltre tutte le terre; un piccolo barbaglio di vita che chiedeva rispetto, lasciava traspirare il suo sogno, spingeva ancora la fantasia lontano da lì, ed il ragazzo seppe in quell’attimo catturare l’entusiasmo per una vita diversa, oltre quella ordinaria che era toccata in sorte a lui e a tutta la famiglia che lo aveva allevato.
Bruno Magnolfi
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