lunedì 4 ottobre 2010
Colloquio di lavoro
Figuriamoci se ci sono andato per cercare del lavoro. E’ la curiosità che mi ci ha spinto e nient’altro. Un amico, anzi a dire la verità un conoscente che incontro a volte nel caffè vicino a dove abito, mentre con alcune persone stava parlando addirittura di altre cose, aveva detto l’indirizzo a voce alta per non ricordo più quale motivo, ed a me, per puro caso, era rimasto in testa per tutta la mattina; combinazione dovevo passare proprio là vicino e così sono andato a curiosare.
E poi c’era la fila di facce serie e compunte avanti a me, e avrei voluto andare via, senz’altro; anzi, stavo già per farlo, ma qualcuno era subito arrivato dopo di me e aveva chiesto ai presenti quale era l’ordine di arrivo, insomma chi lo precedeva. Un altro poi mi aveva subito indicato con un cenno e prima che potessi far qualcosa mi ero già ritrovato ad aspettare, a far la fila come gli altri per essere ricevuto.
Ormai ero preso tra le maglie e così mi ero seduto, con le spalle al muro, sopra ad una scomoda seggiola di plastica. Dalla mia tasca era scappato fuori un piccolo foglietto di una pubblicità insensata, perciò mi ero sprofondato nell’osservazione di ogni particolare del depliant, evitando così gli sguardi delle persone presenti nella stanza che intanto avevano iniziato a parlare tra di loro. Via via che la signorina con un gran sorriso incoraggiava ognuno ad accomodarsi, tutti, ad uno ad uno, sparivano veloci e con la testa bassa dietro alla porta opaca dalla maniglia d’acciaio. Io rimanevo ad osservare il tavolo basso di vetro trasparente che rimaneva ad un metro di distanza dai miei piedi, continuando ad assumere varie posizioni più o meno comode.
Poi qualcuno è uscito da una porta e senza dire niente se n’è andato; allora mi sono fatto avanti, era il mio turno, e senza ripensarci sono infilato nell’ufficio in preda ad una profonda soggezione. E dietro a quegli occhiali e a quell’enorme scrivania c’era un’espressione anonima, una faccia seria, uno sguardo quasi assente, poco interessato. Io stesso, in quella situazione, mi sentivo orribilmente anonimo, privo completamente di qualsiasi personalità.
Mi sono seduto e avrei voluto piangere. Mi sarebbe anche piaciuto ridere forte, urlare a caso qualche frase, complimentarmi con quell’uomo per la stupenda messa in scena; e poi strappare la sua maschera, sempre ridendo, battere una mano sopra la sua spalla e dire a tutti quanti, anche a quelli che aspettavano di fuori, che tutto era stato semplicemente un grande scherzo, che eravamo tutti amici, che non c’erano conflitti e prove da superare.
Qualche domanda generica, qualche sorriso compiacente, alcuni silenzi leggermente imbarazzanti; e dopo questo, vede, cerchiamo una persona che abbia almeno un poco di esperienza, e che vanti se non altro qualche conoscenza in questo campo. Ed io subito, certo, la capisco più che bene, ed anzi me ne scuso, ed anche, mi capisca, il mio è stato soltanto un tentativo distratto.
Ma appena rialzatomi dalla sedia di velluto pronto per stringere di fretta, anzi, appena per sfiorare con la punta delle dita quella mano già notevolmente stanca di altre mani, di altre scuse, di altri discorsi insensati, abituata all’ultimo sorriso compiacente, formale, di sottomissione ad un potere impalpabile fatto di sguardi e di piccoli gesti impercettibili, ecco, improvvisa, inaspettata, l’umanissima voglia di reagire e di riconsiderare tutto quanto.
Lei non saprà mai chi fosse veramente la persona qui seduta ad ascoltarla; come non saprà mai se era migliore o peggiore di quella che è appena andata via. Non potrà mai immaginarsi se qualcuno tra quelli rifiutati fino ad ora sia adesso sul punto di impiccarsi per l’occasione ormai svanita, o se semplicemente un genio, in questa vostra attività, in questo stupido lavoro per cui con grande modestia si era offerto, stia già affermandosi a quest’ora in un’alternativa occupazione che a lui non interessa affatto e che lo renderà sterile e anonimo, proprio come lei; e tutto ciò proprio quando sarebbe potuta risultare un’autentica fortuna in questo vostro mestiere.
Lei, che crede di poter svolgere indagini entro coloro che su questa sedia nervosamente si dispongono a seguirla nelle sue argomentazioni e nelle sue domande; lei, che crede di capire, da dietro a quei suoi occhiali un po’ offuscanti, qualcosa che è nascosto dentro l’animo umiliato di chi è senza lavoro o non si sente realizzato in un’occupazione poco adatta; lei, che non ha neanche pensato di sedersi, per una volta almeno, da questa parte scomoda della scrivania. Ebbene si, lei è un superficiale; anzi, un campione di codesta vostra categoria rattristante.
Tutto ciò, dentro alla mia testa, si era messo in moto in un momento solo, all’improvviso, rimbalzando tra le pareti del mio cranio come una palla impazzita tra le sponde di un biliardo, ed ancora continuavo a contarne i rapidissimi rimbalzi mentre già avevo raggiunto la porta, la maniglia, il primo passo nell’aria aperta e libera.
Ero sconvolto, sentivo il sangue martellarmi nelle tempie, e soprattutto provavo una grande voglia di tornare indietro, piantarmi sulla soglia a gambe aperte per inondare tutta intera la stanza con la mia voce e con la mia presenza, e puntandogli addosso un dito accusatore, dirglielo davvero, tutto quanto.
Bruno Magnolfi
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