martedì 12 ottobre 2010
Scena n. 7. L'uomo da guarire
Il sipario si apre su una scena fiocamente illuminata, dove un uomo in pigiama sta seduto sul letto, con i piedi a terra calzati in un paio di pantofole, e la testa sorretta dalle mani i cui bracci, nel punto del gomito, sono appoggiati staticamente sopra le ginocchia. Entra energicamente un medico in camice bianco, lo guarda, scorre qualcosa su una cartella clinica, poi gli chiede: allora, signor settantadue, come andiamo oggi? Il signor Mauri alza lentamente la testa, ci pensa un attimo, poi risponde: come sempre, dottore; la spossatezza e i dolori che provo non pare vogliano abbandonarmi, capisco che non sia questo ciò che lei vorrebbe sentire da me, purtroppo non posso dirle una cosa diversa.
Il mio entusiasmo di vivere ormai è ridotto a poca cosa, continua il signor Mauri, ogni tanto ripenso al mio passato, i tempi lontani quando la mia salute era perfetta, ma adesso non saprei neanche più decidere se io sia riuscito a godermi appieno quella stagione della mia vita, oppure no. Non creda, non provo alcuna nostalgia delle cose che adesso non riuscirei assolutamente a rifare, sarebbe troppo stupido pensare una cosa del genere, piuttosto mi perdo certe volte nel cercare di mettere a fuoco quali siano gli aspetti che adesso, con le ridotte capacità del mio stato, potrei ancora sviluppare.
Lei non deve assolutamente sganciarsi dall’entusiasmo, dalla voglia di vivere, signor settantadue, dice il dottore mentre continua ad osservare alcuni fogli con i risultati delle ultime analisi. Ne andrebbe di mezzo la medicina, tutta intera la scienza addirittura, se lei non aiutasse il percorso farmacologico per la sua guarigione. Se non sussiste questa collaborazione tra lei e ciò che io rappresento tutto qua appare inutile, senza significato, probabilmente destinato a un fallimento sicuro.
Ha ragione, dottore, dice il signor Mauri, però converrà con me che se io in questo frangente non trovassi qualcosa di fondante per cui dare una mano, come dice lei, alla sua medicina, non avrei alcun bisogno di preoccuparmi, oltre delle mie condizioni, anche del fatto che lei e la sua scienza facciano fiasco. La sua oggettività nell’osservarmi, per esempio, mi lascia del tutto indifferente. Anzi, proprio questa incapacità sua e dei suoi colleghi a mettersi nei panni degli altri, degli ammalati che vengono visitati e ai quali vengono impartite le cure più adatte, mi lascia assolutamente perplesso. Se non viene indagato e compreso il mio stato nel suo complesso, la mia condizione di persona, ancor prima che di ammalato, soprattutto a partire dalla mia concreta volontà di guarire, credo che non ci sia un’altra effettiva possibilità di collaborazione.
Via, dice il dottore, cerchi di non complicare le cose: il suo stato di salute non è a livelli drammatici, con un minimo di spinta possiamo uscire da questa fase di ospedalizzazione e riprendere a fare la vita di sempre. Lei guarisce, la mia medicina è vincente, il risultato è raggiunto.
Forse, dice il signor Mauri, sempre che io riesca a ritrovare la spinta per uscire da questo stato di ammalato perenne con cui ormai mi avete bollato qua dentro. Vede, il problema è che io ultimamente penso tutto quanto ormai solo in funzione di ciò che mi fa male oppure no; di ciò che riesco a fare con la debilitazione che ho, oppure no; di quanto tempo avrò prima della prossima trasfusione di sangue, o della prossima iniezione da subire, o delle analisi a cui devo sottopormi. In tutto questo si è persa la persona che ero, non basterà uscire da qui, sarò marcato per sempre. Ma in fondo, non ha alcuna importanza quello che cerco di dirle: lei uscendo dalla mia stanza dirà ai suoi colleghi che qua dentro c’è un paziente insopportabile, uno di quelli a cui non basta far di tutto per restituire a lui la salute; uno che probabilmente vorrebbe un miracolo: far diventare uomo un ammalato; e questo, probabilmente, nella sua medicina, non è neppure contemplato.
Bruno Magnolfi
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