Il cuoco ride, in piedi nella sua cucina al Ristorante dell’Hotel
Bologna, e intanto tira una boccata dalla sua perenne sigaretta,
appoggiandola ad un angolo del piano dove raccolgo i piatti pronti, e le
comande stanno infilzate dentro un chiodo. Crede sempre di prendere in
giro qualcuno, mi guarda, dice a voce alta che sono pronti pure gli
spaghetti allo scoglio per il tavolo dodici, anche se non gli interessa
un fico di ciò che sto facendo. Gli piace ridere di me, specialmente
quando me ne sto serio concentrandomi sui clienti e sulle portate delle
ordinazioni. Hai visto quella?, dice lui: ti guardava con certi occhi.
Ma fa così solo per confondermi.
Io lo lascio fare, e intanto penso all’autostrada che stanno
costruendo, ai ponti con le arcate alte persino cento metri, e ai camion
e alle automobili che se ne andranno via là sopra, insieme a questi
anni senza alcun significato, sopra l’asfalto nero, a sperdersi in posti
lontani pieni di fascino e di grande importanza. Il progresso, spiega
qualcuno, ed io mi ritrovo tutti i giorni col pensiero di andar via,
lontano da questo buco senza speranza, dove almeno non ci sia ancora
qualcuno a ricordarmi di servire i piatti ai tavoli, sgridandomi anche
per un semplice secondo di ritardo, o per non aver compreso al volo
qualche cosa, perché in fondo è un po’ vero che ho sempre la testa tra
le nuvole, come mi dicono sempre tutti.
Mi piace sapere che alla fine dell’autostrada ci saranno dei posti
diversi da qui, dove anche nei ristoranti si lavorerà con più
entusiasmo, e tutto sarà bello da vedere, accompagnato dall’orgoglio di
far parte di un luogo di quel genere. Andrò via, penso spesso, seguirò i
camion e le automobili fino dove arrivano, forse anche più in là, in
una città dove si parla una lingua importante, quella delle gente che
conta, che ti dà soddisfazione anche solo standoti vicino.
Così fisso qualche cosa fuori dalla finestra della sala, restando
accanto alla porta del va e vieni di ingresso alla cucina; il cuoco dice
qualcosa, lasciando sfrigolare due o tre padelle sopra ai fuochi, io mi
volto, sono pronti i piatti del tavolo sette, li raccolgo ed inizio ad
attraversare il breve corridoio. Non so perché, ma quando mi avvicino a
quei clienti vorrei piangere, disperarmi, chiedere loro di portarmi via,
spiegare in due parole che qui è ormai impossibile rimanere ancora.
Spero con tutto me stesso che non chiedano nulla, non sono in
condizioni di rispondere, ho bisogno di servire i piatti e ritirarmi per
un attimo, farmi passare questo momento sofferente, forse sciacquarmi
gli occhi, guardare il mio viso nello specchio, riprendere fiato. Invece
una donna chiede del pane, io mi volto, ma ormai mi sento in preda al
panico, persino le gambe iniziano a tremarmi, so che non riuscirò a
compiere neppure un altro gesto.
Torno in cucina, guardo il cuoco e inizio a piangere, proprio come uno
stupido. Poi tolgo il mio grembiule, esco, prima che qualcuno possa
fermarmi. Inizio a camminare, non so verso dove, non importa, costeggio
le case del paese, giro a un angolo, vorrei chiedere aiuto alla prima
persona che incontro, ma invece mi fermo in un portone, mi raccolgo un
attimo, so che tutto sta sfuggendomi di mano. Non importa, penso con
decisione, non tornerò più a guardare indietro.
Bruno Magnolfi
Nessun commento:
Posta un commento