venerdì 20 aprile 2012

Per un'eccezione (ritratto n. 4).



Certe volte in paese qualcuno diceva che il figlio di Elvio stesse facendo una grande carriera nella metropoli del nord dove si era trasferito, ma da lui non arrivava mai una sola parola che avvalorasse quella voce, come se neppure ne fosse orgoglioso. Naturalmente nessuno osava mai chiedergli niente a questo proposito. Un saluto a tutti, diceva a voce bassa ma corposa, quando entrava nella sala del Caffè Centrale, ma erano quelle quasi le sole parole che da quell’uomo con le rughe sul viso e la barba bianca e curata, si potevano ascoltare là dentro. Taciturno, il quotidiano ripiegato ma pronto per essere letto, si sedeva sempre da solo ad un tavolo in angolo di quel grande ambiente, a sorseggiare con lentezza estenuante un calice di vino bianco locale, e lasciando che qualcuno gli venisse a parlare di qualcosa, o che un altro gli battesse una mano sopra la spalla, in segno di rispetto, o di amicizia.

Era stato sindaco di quel paese, ormai parecchi anni prima, venerato da tutti come un vero rappresentante del carattere e dell’anima dei suoi concittadini. Poi aveva smesso di fare politica, e adesso era anziano, pareva certe volte non interessarsi di nulla, neppure delle notizie che continuava a consultare sopra al giornale, senza mai commentarle, restando in silenzio ma senza mai rinunciare alla confusione scherzosa di quel bar trafficato, trascorrendo i pomeriggi così, nella sala luminosa e accogliente del Caffè Centrale, quasi fosse l’unico posto dove davvero si sentisse a suo agio.

Compagni di partito spesso andavano lì, a raccontargli novità e pettegolezzi, e lui dava ascolto ad ognuno, senza mai mostrare un’espressione del viso, o dire qualcosa. Il suo unico figlio se n’era andato via al tempo che lui governava il paese, e questo gesto, diceva qualcuno, aveva provocato in lui una ferita profonda, da cui non era più riuscito a sentirsi davvero guarito. Rincasava prima di cena, e a vederlo uscire dal bar, da solo, con il suo giornale sotto ad un braccio, faceva quasi un po’ pena: sembrava quasi un grand’uomo senza più niente di cui occuparsi davvero, se non quelle abitudini, quei piccoli riti a cui non rinunciava.

Un giorno qualsiasi, invece, arrivò il figlio, probabilmente senza neppure avvertirlo, dopo un anno, forse di più, che non si faceva vedere in paese. Era entrato dentro al Caffè, era andato diretto, ma quasi senza alcuna fretta, nell’angolo dove stava suo padre, e si era fermato davanti a quel tavolo, come uno dei tanti che arrivavano lì, a salutarlo. Lui aveva sollevato lo sguardo da sopra il giornale, lo aveva guardato, poi si era alzato dalla sua sedia, pur restando in silenzio, e si era fatto abbracciare, come si conviene in queste occasioni. Chi era presente dentro al locale parla ancora di un momento persino commovente, in cui tutto sembrava prendere un senso giusto e naturale; i due poi si erano seduti, avevano parlato di qualcosa tra loro, ed ogni cosa, in un primo momento, sembrava davvero appianata. Elvio invece si era arrabbiato subito dopo, era tornato ad alzarsi, aveva guardato suo figlio con una certa severità, e infine gli aveva dato uno schiaffo, uscendo da lì e allontanandosi con il suo passo di sempre.

Nessuno seppe dire che cosa si fossero detti quei due, il figlio subito dopo era ripartito, via dal paese, ed Elvio era tornato al Caffè il giorno seguente, come nulla fosse accaduto. Ma dopo due o tre settimane era sparito. Qualcuno fin da subito si era preoccupato, altri erano andati a cercarlo, ma lui proprio non c’era, e nessuno sapeva dire dove fosse. Quando tornò a farsi vedere in paese tutti tirarono un grande respiro, ed Elvio, entrando dentro al caffè Centrale, fece addirittura un sorriso. Qualcuno disse che suo figlio si era sposato, e che lui era andato ad assistere alla cerimonia, ma non ci furono mai delle vere e proprie conferme a queste semplici voci.

Bruno Magnolfi

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